Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 25 luglio 2014

Nuova normalità

In un articolo che ho letto qualche giorno fa, era riportata un’intervista ad una paziente con una neoplasia, in cui raccontava quali strategie di coping aveva messo in atto per far fronte alla sua malattia e alla chemioterapia.

Il cancro è diventata la mia nuova normalità” – asserisce la paziente in quest’intervista.

Perciò mi è venuto da pensare che questo tipo di pensiero può essere applicato anche alla strada del ricovero da un DCA. La strada del ricovero dall’anoressia è diventata la mia nuova normalità. Per molto tempo ho considerato l’anoressia stessa “normale”. Sebbene razionalmente mi rendessi perfettamente conto che il mio comportamento alimentare era anomalo, lo reputavo comunque “normale” per me stessa. Stavo semplicemente seguendo il mio progetto per sentirmi in controllo. Ed è difficile valutare quanto sia anomalo un determinato comportamento quando sei malata di anoressia da tanti anni, perché viene meno la memoria di com’erano le cose prima dell’anoressia, di come facessi a vivere tranquillamente prima. L’anoressia è anomala, è bizzarra ma, a suo modo, col tempo finisce anche per diventare assolutamente “normale”.

Per questo ho scritto che parte del lavoro che sto facendo adesso consiste nel rendere la strada del ricovero la mia nuova normalità. Rompere tutte le vecchie abitudini legate all’anoressia e iniziare a percorrere la strada del ricovero potrebbe sembrare la cosa più naturale e normale da fare.

E invece è estremamente difficile per chi ne è dentro. Certo, ci sono segnapassi fissi nelle nostre giornate: andare a lavoro/a scuola, fare sport, mettere in ordine la casa, uscire con gli amici, etc. E, a fianco a questo, ci sono tutte le cose da fare inerenti la lotta contro il DCA: fare i 5 pasti quotidiani seguendo l’ “equilibrio alimentare”, andare a fare la spesa al supermercato, cucinare e, per chi adottava comportamenti di compensazione, trovare modi per riempire il tempo che veniva precedentemente utilizzato per fare esercizio fisico allo sfinimento, per abbuffarsi, per vomitare, per fare checking.

Il nostro aspetto fisico a poco a poco si normalizza, il peso torna nella norma, e forse ricominciamo anche a comportarci normalmente. Niente di male, anzi, al contrario, solo che questo non significa che l’anoressia se n’è andata. Non significa che l’anoressia se n’è andata, o che ci sentiamo distaccate da essa come se fosse semplicemente parte del nostro vissuto. Il DCA continua a sembrare “normale”, uno standard di vita, per un sacco di tempo anche dopo che i comportamenti esteriormente più malati se ne sono andati. È molto più facile, per il nostro cervello, “imparare” i comportamenti tipici di un DCA piuttosto che dimenticarli. E le emozioni positive che l’anoressia stessa suscita, aiutano la stessa a diventare sempre più forte e ad ingranare sempre di più nella nostra testa. I comportamenti che si devono adottare per percorrere la strada del ricovero non sono gratificanti come la restrizione alimentare, non hanno perciò tutta la sua forza, ed è per questo che impiegano tanto tempo a diventare solidi come prima lo era il DCA. Ed è per questo che la strada del ricovero è così lunga da percorrere.

In ogni caso, io sto facendo diventare il ricovero la mia nuova normalità. Questo non significa che adesso vada tutto sempre a meraviglia e che non abbia assolutamente più alcun problema, ovviamente. Questo significa però che, se anche l’anoressia c’è sempre, io sto combattendo.
La cosa più difficile è iniziare a percorrere la strada del ricovero, è fare il primo passo. La cosa positiva è che, una volta trovato il coraggio per farlo, man mano che il tempo passa, le cose diventano un po’ meno dure. Fortunatamente, il nostro cervello si abitua. Si è abituato all’anoressia, perciò non c’è alcun motivo per cui adesso non possa abituarsi al percorrere la strada del ricovero.

venerdì 18 luglio 2014

Anoressia e metabolismo (II)

Dato che mi è stato richiesto sempre più frequentemente anche tramite e-mail, soprattutto in seguito al post che ho scritto a Giugno 2013, oggi ritorno a parlare del metabolismo, e delle influenze che i disturbi alimentari hanno su di esso.

Premettendo il solito disclaimer: 

1) Non sono una dietista né una dietologa. Non studio Dietistica all’università, e non ho frequentato alcun corso specialistico in Scienze della Nutrizione Umana. Sono laureata in Medicina, attualmente lavoro come medico di 118 (contratto a tempo determinato... sigh...), e le mie conoscenze in merito all’alimentazione e al metabolismo derivano dall’esame di Nutrizione, che ho sostenuto nel contesto del corso integrato di Fisiologia. 

2) Questo blog, per quanto ne so basandomi sulle e-mail che ricevo, è letto anche da ragazze di 12 – 13 anni. Quello che scriverò in questo post vuol essere perciò fruibile anche per coloro che non hanno particolari competenze. Ergo, cercherò di esprimermi in maniera non troppo complicata, ed inevitabilmente dovrò ricorrere a delle semplificazioni. Chiedo scusa in anticipo a tutti i professionisti del settore sanitario che leggeranno questo post, che inevitabilmente presenterà delle imprecisioni e delle facilonerie; d’altronde l’obiettivo non è quello di scrivere un trattato medico, ma un qualcosa che possa essere letto e compreso anche da chi ha fatto tutt’altro genere di studi. 

3) Quello che scriverò in questo post ha carattere assolutamente GENERALE. Nessuna mi lasci commenti chiedendomi consigli sul suo caso specifico, perché NON sono una professionista del settore, quindi NON sono in grado di darvene. L’unico consiglio che do vivamente a tutte quante è quello di lasciar perdere i fai-da-te o i consigli chiesti a chi non se ne intende veramente, e rivolgersi invece appunto ad una figura professionale competente che possa aiutarvi ad impostare un piano alimentare personalizzato, perché credo che questo sia un elemento fondamentale per combattere contro l’anoressia. 

E dunque, torniamo a parlare di metabolismo.

Il principale consumo di energia per il nostro corpo deriva dal metabolismo basale, ovvero il bruciare quelle calorie che servono per mantenere attive, in una situazione di riposo completo, le funzioni vitali (battito cardiaco, respirazione, funzionamento cerebrale, etc…) che necessitano di energia per continuare a svolgersi. Il metabolismo basale rappresenta circa i due terzi del fabbisogno calorico quotidiano. Le altre “spese energetiche” quotidiane derivano dall’attività fisica (intendendo col termine “attività fisica” ogni qualsiasi tipo di movimento) e dai processi digestivi stessi.

Dato questo preambolo, voi penserete che la restrizione alimentare si basa sul presupposto che, riducendo le entrate di cibo e quindi di energia, il corpo preleverà quelle che gli servono per sopravvivere dalle riserve depositate, ovvero dal tessuto adiposo. Ebbene, vi stupirà sapere che le cose non funzionano affatto in maniera così semplice e lineare. E ora vi spiego il perché.

Dire che il metabolismo basale è velocizzato o rallentato, significa che cambia la velocità con cui l’organismo brucia le calorie introdotte con il cibo. La velocità del metabolismo, anche in chi non ha un DCA, varia in funzione del sesso, dello stile di vita, della tipologia di alimentazione, nonché dell’età: il metabolismo è infatti molto elevato durante l’infanzia, e si abbassa poi di circa il 2,5% in ogni decennio di vita. (Questo è il motivo per cui, al contrario di quello che molti ciarlatani affermano, è impossibile mantenere sempre il peso dei 20 anni).

Il metabolismo si abbassa a bestia quando si riduce l’assunzione di cibo, proprio come accade nel caso della restrizione alimentare dell’anoressia, e questo abbassamento comincia ad evidenziarsi già dopo le prime 48 ore dall’inizio della restrizione alimentare. Questo succede perché, nel momento in cui si riduce l’introito calorico quotidiano, il corpo risponde immediatamente risparmiando energia per assicurare la sopravvivenza delle sue funzioni vitali.

Inoltre, a differenza di quello che si potrebbe pensare, quando s’inizia una restrizione alimentare, il primo peso che si perde non è legato alla distruzione del tessuto adiposo, bensì alla perdita di liquidi, e alla iniziale consumazione delle proteine del tessuto muscolare.

Quando una persona restringe l’alimentazione, e quindi al suo corpo viene negata la quantità di energia necessaria, esso reagisce cercando di risparmiare il più possibile anche dai pochi cibi che ingerisce, per cui il metabolismo si abbassa progressivamente: ecco perché all’inizio della restrizione alimentare è più facile perdere peso, e poi la cosa diventa man mano sempre più difficile, anche se la restrizione prosegue. Il metabolismo infatti si riduce più velocemente ed in misura maggiore man mano che il corpo diviene più sensibilizzato alla riduzione del cibo. Ecco perché, quando dopo un lungo periodo di restrizione alimentare, una persona ricomincia a mangiare normalmente, recupera molto peso in poco tempo: perché il metabolismo è così basso che tutto viene percepito come un surplus che il corpo cerca di accaparrarsi per “farne scorta” in previsione di un ulteriore periodo di restrizione alimentare. Perciò, se state cominciato un percorso di ricovero e siete alle prese con il vostro primo “equilibrio alimentare”, non spaventatevi e non mollate se inizialmente il peso s’impenna: è perfettamente normale che ciò accada, ma non continuerete assolutamente a prendere peso all’infinito, anzi, quando il vostro metabolismo sarà ritornato ai livelli ottimali, il vostro peso si ripristinerà sul vostro set-point, e rimarrà sempre più o meno lì… purchè continuiate ad alimentarvi in maniera regolare.

Dovete però tener conto del fatto che ci vorrà un bel po’ di tempo affinché il vostro metabolismo, fiaccato dalla restrizione alimentare, ritorni a funzionare normalmente, e che al fine di arrivare a ciò, la vostra alimentazione dev’essere sempre regolare. So che all’inizio può essere ansiogeno, ma vi assicuro che la soluzione c’è, ed è quella di perseverare nel seguire il vostro “equilibrio alimentare”, e lasciare che il vostro corpo si assesti al suo set-point di peso naturale. Esiste un set-point di peso naturale per ciascuna di noi, ed è quello a cui ci si stabilizza naturalmente mangiando regolarmente con continuità.

Vorrei precisare inoltre che i cosiddetti “sgarri” dal proprio “equilibrio alimentare” non vanno assolutamente demonizzati: il metabolismo, infatti, quando ripristinato correttamente, funziona anche velocizzandosi, per cui se una persona assume più calorie di quante sarebbero necessaria per soddisfare il proprio fabbisogno calorico giornaliero, il metabolismo accelera in modo da bruciarle senza che queste incidano sul peso corporeo, perché l’obiettivo è sempre quello di mantenere il set-point (che è geneticamente determinato). Quindi, lasciate da parte quella cavolata di luogo comune che vuole che le calorie in eccesso vengano immediatamente trasformate in tessuto adiposo.

Bè, spero che questa integrazione al post che avevo scritto lo scorso Giugno 2013 possa esservi utile.
 Naturalmente, per qualsiasi chiarimento o domanda (ma NON consulenza personalizzata!!), chiedetemi pure nei commenti, o tramite e-mail (veggie.any@gmail.com).
E se c’è qualche medico/dietologo/dietista/nutrizionista che legge e vuole fare maggiori precisazioni rispetto alla mia trattazione semplicistica dell’argomento, è il benvenuto!!

venerdì 11 luglio 2014

Il vuoto

Per molto tempo la restrizione alimentare ha rappresentato per me una sorta di “ancora di salvezza”. Rappresentava la mia forma di immunità ad ogni qualsiasi problema e difficoltà della vita. Era un po’ come se pensassi: finché riesco a restringere l’alimentazione ho la manifestazione tangibile che ho il controllo, e se ho il controllo su tutto, niente può andare storto. Non importava quanto le cose potessero andare effettivamente storte, quanto la mia vita potesse essere un completo casino, l’idea che sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo, era un mantra, una lampadina costantemente accesa nella mia testa.

Ho perso il treno e arriverò all’Università con un’ora di ritardo, e mi perderò una lezione importante ai fini dell’esame? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Quel colloquio di lavoro non è andato granché bene? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Ho avuto da ridire con quel professore che un domani mi farà l’esame di Cardiologia? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Mi sento la più inetta tra tutti i miei colleghi? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Ho litigato con il mio migliore amico? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Non mi sono classificata prima in quella gara di karate? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Non ho raggiunto l’obiettivo che mi ero prefissa? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

… e così via.

E poi sono arrivata a constatare un ineluttabile dato di fatto.

In nessun modo la mia restrizione alimentare e la mia sensazione di avere il controllo su tutto potevano attenuare le conseguenze dei miei errori e le cavolate che facevo nella mia vita, essi funzionavano soltanto come una sorta di auto-affermazione – una specie di salvaguardia contro il crollo della mia autostima.

E l’errore che compiamo tutte noi quando ragioniamo in questo modo (perché sono del tutto certa di non essere l’unica a ragionare così) è che attribuiamo la nostra identità e il nostro valore ad una para mentale, anziché concentrarci su quelle che sono le nostre vere abilità, delle quali potremo essere, a ragione, orgogliose, come per esempio la nostra bravura in Matematica, nel lavoro, nello sport, nel cantare, nel disegnare, o in qualsiasi altra cosa.

Ed è proprio in questo che risiede il problema: perdonate il francesismo, ma A NESSUNO FREGA UN CAZZO DEL FATTO CHE RESTRINGIAMO L’ALIMENTAZIONE E QUINDI ABBIAMO IL CONTROLLO.

Il restringere l’alimentazione ergo l’avere la sensazione di essere in controllo non ci rende in alcun modo persone migliori né tantomeno persone speciali o più interessanti. Ciò non arricchisce in alcun modo la nostra vita. In effetti, paradossalmente, il restringere l’alimentazione, pur facendoci sul momento percepire un’illusoria sensazione di controllo, alla lunga dà così tanti problemi che non mi basterebbero i prossimi 50 post per elencarli tutti.

Perché, alla fine della fiera, tutto quello che l’anoressia lascia dentro è il vuoto. Quel senso di vuoto che si pianta in testa e rimane sempre lì, preciso identico.
Perché il vuoto che deriva dall’anoressia è vuoto vero, ed è una cosa tremenda.
Il vuoto vero non è il niente. Il niente è troppo poco.

Per dirvi, ecco due scene.

Uno: Vai in gita scolastica, arrivi in una camera d’albergo e apri un cassetto di un armadio per metterci la tua roba. Il cassetto è vuoto, e cominci ad infilarci mutande, magliette, calzini.

Due: Torni a casa tua, nel cassetto più basso dell’armadio tieni tutti i soldi che hai, nascosti in una scatola da scarpe. Ti pieghi, lo apri, il cassetto è vuoto.

Ecco, questi sono due cassetti, e tutti e due sono vuoti.
Ma sono la stessa cosa?
Non penso proprio.

Perché il vuoto vero non è il niente, ma il niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa. Qualcosa di importante, che c’è sempre stato, poi a un certo punto guardi e ti accorgi che quella cosa non c’è più.

Ecco, questo è il vuoto. Non l'assenza, la mancanza.

E questa è l’anoressia.

venerdì 4 luglio 2014

Impostare un peso da raggiungere: Un esercizio arbitrario?

Il raggiungimento di un peso salutare viene considerato una sorta di grande traguardo per i medici che hanno a che fare con una paziente affetta da DCA. Infatti un peso salutare viene spesso considerato come un prerequisito per il miglioramento anche sotto il punto di vista psicologico. Ora, il fatto che recuperare peso sia una componente cruciale del percorso di ricovero dall’anoressia, è una verità incontrovertibile. Il problema sorge quando si arriva a dover determinare QUANTO peso sia necessario recuperare. Come viene impostato il peso ideale, ottimale, di una persona che ha un DCA? E chi lo decide?

Nonostante la sua riconosciuta rilevanza, forse vi stupirà sapere che nella comunità scientifica c’è molto disaccordo in merito a come il “peso ideale” dovrebbe essere determinato. Peraltro, uno studio condotto da Peter Roots e dai suoi colleghi, ha mostrato che c’è discrepanza persino nelle metodiche utilizzate da cliniche specializzate nel trattamento di DCA, tanto in Gran Bretagna quanto negli altri Paesi europei.

In uno studio pubblicato nel 2006, Roots e i suoi colleghi hanno valutato come delle cliniche specializzate nel trattamento di DCA determinassero, monitorizzassero e utilizzassero il concetto di “peso ideale” nel trattamento delle pazienti ricoverate per anoressia. Ai ricercatori interessava inoltre sapere il tasso di aumento di peso atteso, quanto spesso le paziente erano state pesate, chi era stato coinvolto nella determinazione del “peso ideale”, e come il “peso ideale” era utilizzato nel “processo terapeutico e nel piano di dimissione/vita al di fuori della clinica”. Per realizzare questa ricerca hanno sottoposto il loro questionario a 28 specialisti che lavoravano in cliniche specializzate nel trattamento di DCA (17 in Gran Bretagna, 11 in altri Paesi europei).

Solo 21 dei 28 specialisti interpellati hanno accettato di partecipare alla ricerca: per lo più vi hanno partecipato specialisti inglesi, ma anche della Danimarca, della Finlandia, dell’Olanda, della Francia, della Germania, della Svezia, della Spagna e dell’Irlanda. (In Italia nessuno specialista ha accettato di partecipare, per carità, non interessiamoci di queste problematiche, ci mancherebbe altro…)

In breve, i seguenti sono stati i principali risultati ottenuti.

Quante cliniche specializzate in DCA stabiliscono un “peso ideale” per le loro pazienti? 

Delle 21 cliniche specializzate considerate, ben 18 stabiliscono un “peso ideale”: 10 di queste stabiliscono un “peso ideale” ben preciso, le altre 8 stabiliscono un “range di peso ideale”.
 Le restanti 3 non stabiliscono alcun “peso ideale” da raggiungere.

Come e quando il “peso ideale” per una paziente viene stabilito (per le 18 cliniche che lo stabiliscono, ovviamente) ? 

Per quel che riguarda il quando, 5 delle 18 cliniche stabiliscono il “peso ideale” prima che il ricovero abbia inizio, mentre le restanti lo stabiliscono al momento dell’ammissione in clinica.

Per quel che riguarda il come, 9 delle 18 cliniche lo stabiliscono in base ai percentili valutati sull’età della paziente, 5 lo stabiliscono in base al B.M.I., e 4 in base ad entrambi questi criteri.

Inoltre, 12 di queste cliniche stabiliscono il “peso ideale” sulla base di un valore standard (per lo più corrispondente ad un B.M.I. pari a 19), 4 lo decidono negoziando con le pazienti (generalmente almeno un mese dopo l’inizio del ricovero), e 2 considerando variabili individuali come la familiarità o il peso pre-anoressia. E’ interessante sottolineare come 2 di queste 18 cliniche hanno sottolineato “l’importanza di NON negoziare con la paziente il peso ideale da raggiungere”.

Dunque, sulle 21 cliniche coinvolte nella ricerca, come potete ben vedere, sono state ottenute ben 15 diverse risposte riguardo a come viene determinato il “peso ideale” che una paziente dovrebbe raggiungere. Vorrei sottolineare che 3 di queste 21 cliniche non stabiliscono alcun “peso ideale” cui arrivare, il che significa che abbiamo un’ulteriore variante, e dunque all’atto pratico 16 diverse risposte. 

Qual è il tasso di aumento di peso atteso? 

Sulla base delle risposte delle cliniche specializzate, è emerso che alcune di essere si attendono un recupero di 0,3 – 1 chilo la settimana, mentre altre si aspettano un aumento più consistente, ovvero 0,8 – 2 chili la settimana.

Aumento di peso e vita al di fuori della clinica 

Posto che il recupero ponderale è un’importante componente del percorso di ricovero, non è sorprendente che sia altrettanto importante il consolidare i progressi fatti, mantenere e migliorare al momento della dimissione e del reinserimento nella vita di tutti i giorni. Delle 21 cliniche specializzate considerate:

• In 9 cliniche, la dimissione dipende dal raggiungimento del “peso ideale”/”range di peso ideale”, e in 6 di queste per essere dimesse occorre anche mantenere quel peso per un certo periodo (1 – 6 settimane).
• In 8 cliniche, in aggiunta al peso, la dimissione dipende anche dalla disponibilità dei genitori/familiari di seguire la paziente, e dalla responsabilizzazione della paziente nell’assunzione di cibo in maniera adeguata.
• In 2 cliniche, in aggiunta a tutto quanto detto sinora, la dimissione dipende anche dai cambiamenti psicologici ed emotivi, e per una di queste in particolare dipende anche dalla capacità della paziente di non fissarsi più sul “peso ideale” e concentrarsi piuttosto sui suoi vissuti emotivi.

Cosa significa tutto questo? 

Innanzitutto, la mancanza di criteri univoci per stabilire il “peso ideale”, il tasso di aumento di peso, nonché i criteri di dimissione, fa sì che, per esempio, una 14enne che a causa dell’anoressia ha raggiunto XX chili al momento del ricovero, può essere dimessa quando:

• Ha un B.M.I. di almeno 16,5 dopo 13 settimane di ricovero secondo le linee guida di una prima clinica (aumento di circa mezzo chilo la settimana)
• Ha un B.M.I. di almeno 18 dopo 10 settimane di ricovero secondo le linee guida di una seconda clinica (aumento di circa 1 chilo la settimana)
• Ha un B.M.I. di almeno 18 dopo 33 settimane di ricovero secondo le linee guida di una terza clinica (aumento di circa 0,3 chili la settimana)
 • Ha un B.M.I. di almeno 21 dopo 10 settimane di ricovero secondo le linee guida di una quarta clinica (aumento di circa 2 chili la settimana)

Dunque, sulla base di questo, il “peso ideale” della nostra ipotetica paziente 14enne varia entro un range di 11 chili, e la durata totale del ricovero varia entro un range di 23 settimane – e questo solo per quanto riguarda le poche cliniche prese in esame in questo studio... immaginatevi il casino se fossero state di più.

In un altro studio recentissimo condotto in Australia da Rocks e i suoi colleghi nel 2013, in cui sono stati intervistati dei dietisti, è stata riscontrata la medesima enorme variabilità in merito alla scelta del “peso ideale” per chi soffre d’anoressia, e alla modalità con cui questo “peso ideale” viene determinato.

12 dietisti hanno riferito che gli obiettivi di “peso ideale” venivano comunemente stabiliti per le paziente ricoverate nella loro struttura, e che questo peso veniva determinato dal team medico multidisciplinare. Il resto dei dietisti intervistati ha dichiarato che gli obiettivi di peso da raggiungere si basavano esclusivamente sulle esigenze di ogni singola paziente. Il “peso ideale” veniva definito utilizzando: uno specifico “peso ideale” (10 dietisti), uno specifico B.M.I. (8 dietisti), un “range di peso ideale” (9 dietisti), o un “range di B.M.I. ideale” (8 dietisti). Le specifiche di “peso ideale” venivano principalmente calcolate sulla base di percentili legati all’età e all’altezza, stadio dello sviluppo, stadio del percorso di ricovero, B.M.I.

Come la penso io… (dicesi “mia opinione”, ergo opinabile per definizione)

Il concetto di “peso ideale” è – perdonate il francesismo – una cazzata. Pensateci: da una parte i medici vi dicono che per stare meglio dovete smetterla di fissarvi sul peso, ma dall’altra il recupero del peso E’ importante (oserei dire necessario) per poterla smettere di avere fissazioni. Già qui, è una contraddizione in termini. Del resto, la disomogeneità dei criteri, come dimostrato dagli studi di cui prima vi parlavo, non fa altro che creare ulteriore confusione.

Penso sbaglino quelle cliniche che fissano il raggiungimento di un certo B.M.I. come criterio per la dimissione: più una persona parte da un peso basso, più tempo gli ci vorrà per raggiungere il B.M.I. target. E vivere mesi, mesi e mesi all’interno di una clinica può essere anche controproducente, vuoi perché impedisce di avere quelle relazioni sociali che già di per sé l’anoressia ha limitato tantissimo, vuoi perché la paziente si può adagiare nell’ambiente ovattato e protetto rappresentato dalla clinica, e avere quindi ancor più difficoltà a relazionarsi al mondo esterno al momento della dimissione, il che faciliterà moltissimo la ricaduta nell’anoressia.

E’ anche vero che il perdurare di un peso particolarmente basso è pure un altro fattore che rende difficile l’allontanarsi dall’anoressia, e favorisce comunque le ricadute.

Inoltre, sebbene il recupero ponderale e il ritorno del ciclo mestruale siano senz’altro importanti, centrare tutta l’attenzione sulla necessità di raggiungere il “peso ideale” può diventare assolutamente controproducente. Non solo perché può dare alla paziente l’idea che i medici siano interessati solo ed unicamente al suo peso, e non al suo benessere psicologico, ma anche perché:
- per le ragazze che sono già fissate col peso, c’è il rischio che si fissino altrettanto sul mantenimento del “peso ideale” una volta raggiunto, e crollino se aumentano anche di un solo chilo rispetto al “peso ideale”;
- per le ragazze che non sono fissate col peso, c’è il rischio che venga fatta nascere questa fissa.

Altro che ricovero, dunque: una cosa del genere infogna ancora di più nell’anoressia! Tanto più che, come dimostrato dagli studi, il concetto di “peso ideale” per una paziente è piuttosto arbitrario, e che alcuni medici hanno idee completamente sbagliate su cosa significhi avere un peso “salutare”.

Il B.M.I., inoltre, a mio avviso serve più che altro a gettare fumo negli occhi. Questo indice dà per assunto che, se maggiore o uguale a 18, la persona è nomopeso e dunque automaticamente in salute. E io credo che tutti (genitori, familiari, e pure i medici) vogliano illuderci che è vera l’equazione normopeso = stato di salute. Ma non è vero. Per quanto possa piacere illudersi di questo, non è così che stanno le cose. L’OMS definisce la salute come “completo stato di benessere fisico, psichico e sociale”: dunque, se una persona è normopeso ma è ancora psicologicamente devastata dall’anoressia, è tutt’altro che in salute. Essere davvero in salute richiede un sacco (spesso e volentieri un SAAAAAAAAAAACCO) di tempo, ovvero molto, molto di più di quello che serve per recuperare un peso decente. E questo implica l’aver fatto passi avanti sotto il profilo psicologico, e l’aver migliorato consistentemente la propria qualità della vita.

Per cui, dimettere pazienti nel momento in cui hanno raggiunto un certo B.M.I. prestabilito dalla clinica, e che l’hanno raggiunto praticamente perché sono state forzate a mangiare (e magari stanno già progettando di restringere di nuovo l’alimentazione al momento della dimissione), quando dunque non hanno lavorato abbastanza sotto un punto di vista psicologico, o quando è stato inculcato loro che devono mantenere un certo peso, perché quello è il loro “peso ideale” quando magari non è assolutamente vero, e comunque quello non è un peso salutare per loro, non mi sembra proprio una strategia ottimale, a meno che – non me ne vogliate per la frecciatina – non siate direttori di cliniche private non convenzionate col SSN, per cui ogni ri-ricovero rappresenta per voi una fonte di guadagno.

Non so se avete notato: solo 3 delle cliniche esaminate da Roots e dai suoi colleghi non mettevano alcun tipo di limitazione sul peso da raggiungere. Il che significa che, purtroppo, nella maggior parte delle cliniche il peso è considerato un parametro molto più importante rispetto ai progressi psicologici nel decidere o meno la dimissione. La cosa mi fa rimanere abbastanza basita, visto che pensavo fosse assodato che l’anoressia è una malattia mentale, e visto che è noto e scientificamente documentato che le persone malate di anoressia che una volta ricoverate in clinica vengono forzate a recuperare un discreto quantitativo di peso in un ridotto lasso di tempo, senza un parallelamente forte percorso psicologico (che, del resto, richiederebbe moooooolto più tempo), hanno un’altissima percentuale di ricadute della malattia immediatamente dopo la dimissione.

È un vicolo cieco, davvero. Raggiungere un peso salutare è certamente importante, ma stabilire a priori e con esattezza quale sia il “peso ideale” di una persona è impossibile. Recuperare peso è senz’altro importante affinché il nostro cervello ragioni adeguatamente, e dunque affinché ci possiamo concentrare sul percorso psicoterapeutico, ma focalizzarsi troppo sul peso (soprattutto se si tratta di uno scorretto “peso ideale” determinato del tutto arbitrariamente) è assolutamente controproducente in un percorso di ricovero, perché alimenta i pensieri malati e il rimuginare su questi pensieri porta via tempo prezioso che potrebbe essere appunto impiegato per concentrarsi sulla parte psicologica del percorso di ricovero.

Il “peso ideale” non è in alcun modo un valido marker per stabilire quanto la persona sia “guarita” dall’anoressia. A mio parere, se proprio si vuole parlare di peso, perché comunque per chi è malata d’anoressia è importante recuperarlo, allora l’attenzione dovrebbe essere piuttosto concentrata sul raggiungimento del proprio Set-Point di peso corporeo fisiologico. Il Set-Point infatti si definisce in maniera assolutamente individualizzata, e deroga da ogni possibile tabella e schematizzazione. Come ho già scritto anche in un altro post, ognuna di noi discende da una certa famiglia, ha la propria genetica, il proprio morfotipo, le proprie peculiarità costituzionali. Ogni persona ha un suo proprio Set-Point di peso corporeo che è biologicamente appropriato per lei stessa. Niente a che vedere con i target o con l’idealità, bensì con la genetica, la biologia, lo stile di vita. Questa è la realtà. Una volta raggiunto il proprio Set-Point di peso corporeo fisiologico, il peso tende a stabilizzarsi spontaneamente su quei valori, perché il corpo tende a mantenere la propria omeostasi. E questo non può essere calcolato con alcuna tabella né deciso a propri, ma viene semplicemente raggiunto col tempo, alimentandosi con l’aiuto di una dietista in maniera sana e regolare.
 
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