venerdì 29 giugno 2012
Definendo la "comorbidità"
Mercoledì mi è capitato sottomano un articolo in Inglese inerente i DCA, del quale voglio riportarvi, traducendola, una parte.
“[…] Una cosa di cui molto spesso si discute nel momento in cui ad una persona viene diagnosticato un DCA, è l’eventuale presenza di comorbidità. In effetti, diverse persone anoressiche, bulimiche o con un altro DCA hanno allo stesso tempo problemi di depressione, ansia, autolesionismo, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo di personalità borderline, bipolarismo, etc. Io sono d’accordo con questo, perché numerosi studi supportano quest’ipotesi. Ma adesso le più recenti ricerche stanno dimostrando che i disordini alimentari, e fattori come la bassa autostima e l’estrema sensibilità possono avere anche radici biologiche. In altre parole, possiamo essere pre-disposti a sviluppare un DCA, ed essere predisposti ad avere quei fattori che comunemente causano lo sviluppo di un DCA (sebbene ci siano molti altri fattori strettamente individuali). C’è tuttavia una cosa su cui sono in disaccordo, ed è il fatto che i medici specializzati nel trattamento del DCA separano il vissuto del disturbo alimentare da quello di depressione, ansia, autolesionismo, DOC, etc… Da qui il termine “comorbidità”. Vorrei lanciare l’ipotesi che l’anoressia e la bulimia possano insorgere nel contesto di altre psicopatologie già presenti, in un soggetto che non è naturalmente predisposto alle stesse. Un DCA può addirittura esasperare la patologia di base, in individui che sono predisposti a sviluppare patologie mentali. Penso che le varie malattie mentali possano essere strettamente interconnesse, e che quest’ipotesi possa essere ulteriormente acclarata quando si scopriranno le basi biologiche di queste malattie. […]”
Basilarmente, sono d’accordo.
Ci sono parecchie ricerche che correlano la personalità individuale ai DCA, e i loro risultati sembrano indicare che molti degli affetti da malattie psichiatriche hanno diversi tratti di personalità che li predispongono a sviluppare un DCA. I principali cluster di personalità che ben correlano con la comparsa di un disturbo alimentare sono le personalità iper-controllanti, ossessive, e perfezioniste per quanto riguarda l’anoressia e, dall’altra parte, impulsive, ansiose, e con scarsa autostima per quel che riguarda la bulimia. Nessuna sorpresa che queste tipologie di personalità siano anche predisponenti allo sviluppo di patologie quali depressione, autolesionismo, DOC, etc…
Io stessa sono prova del fatto che esistono persone che hanno questo tipo di comorbidità. Ho problemi di autolesionismo, e una personalità basilarmente iper-controllante. E questo al di là dell’anoressia. Ma l’anoressia ha sicuramente esasperato anche queste altre 2 condizioni, la mia ossessività, le mie manie di controllo, e non in un modo positivo. Allo stesso modo, penso che una corretta alimentazione possa aiutare non solo a migliorare sul versante del DCA, ma anche a ridurre le altre patologie, proprio per quella che è la loro stretta correlazione.
La verità è che ancora non sappiamo se affezioni come i DOC o la depressione o il disturbo bipolare siano parte di un DCA come causa o come conseguenza, o se le cose siano completamente scisse. Un esempio sciocco ma che rende l’idea: capelli castani e occhi marroni. Anche se molto spesso questi 2 tratti appaiono insieme, ci sono un sacco di persone coi capelli marroni che hanno gli occhi azzurri, o verdi, o grigi. E ci sono persone con gli occhi marroni che sono bionde, o more, o rosse.
Allo stesso modo, non si sa con esattezza quando questi tratti di personalità diventano patologici, a che punto cessano di essere semplicemente dei comportamenti un po’ spinti, e diventano comportamenti per i quali è necessario un trattamento medico. Nessuno ancora lo sa veramente.
È un qualcosa cui mi piacerebbe che più psicoterapeuti e ricercatori dedicassero tempo per studiarla e scoprirla.
P.S.= Vorrei girarvi un’idea che mi ha proposto tramite e-mail una lettrice di questo blog, Good (ricordate la ragazza del giorno 22 nel nostro calendario del 2011?... Sì, proprio lei!). L’idea consiste nel suggerirci a vicenda delle letture, dei libri, che trattino dell’argomento DCA. Perciò, se qualcuna di voi ha letto un qualche libro inerente questa tematica, e lo ha trovato particolarmente utile per il suo percorso di ricovero, fatemelo sapere nei commenti o tramite e-mail (veggie.any@gmail.com): man mano che mi arriveranno i vostri titoli, li riunirò in una lista sulla colonnina di destra del blog!
“[…] Una cosa di cui molto spesso si discute nel momento in cui ad una persona viene diagnosticato un DCA, è l’eventuale presenza di comorbidità. In effetti, diverse persone anoressiche, bulimiche o con un altro DCA hanno allo stesso tempo problemi di depressione, ansia, autolesionismo, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo di personalità borderline, bipolarismo, etc. Io sono d’accordo con questo, perché numerosi studi supportano quest’ipotesi. Ma adesso le più recenti ricerche stanno dimostrando che i disordini alimentari, e fattori come la bassa autostima e l’estrema sensibilità possono avere anche radici biologiche. In altre parole, possiamo essere pre-disposti a sviluppare un DCA, ed essere predisposti ad avere quei fattori che comunemente causano lo sviluppo di un DCA (sebbene ci siano molti altri fattori strettamente individuali). C’è tuttavia una cosa su cui sono in disaccordo, ed è il fatto che i medici specializzati nel trattamento del DCA separano il vissuto del disturbo alimentare da quello di depressione, ansia, autolesionismo, DOC, etc… Da qui il termine “comorbidità”. Vorrei lanciare l’ipotesi che l’anoressia e la bulimia possano insorgere nel contesto di altre psicopatologie già presenti, in un soggetto che non è naturalmente predisposto alle stesse. Un DCA può addirittura esasperare la patologia di base, in individui che sono predisposti a sviluppare patologie mentali. Penso che le varie malattie mentali possano essere strettamente interconnesse, e che quest’ipotesi possa essere ulteriormente acclarata quando si scopriranno le basi biologiche di queste malattie. […]”
Basilarmente, sono d’accordo.
Ci sono parecchie ricerche che correlano la personalità individuale ai DCA, e i loro risultati sembrano indicare che molti degli affetti da malattie psichiatriche hanno diversi tratti di personalità che li predispongono a sviluppare un DCA. I principali cluster di personalità che ben correlano con la comparsa di un disturbo alimentare sono le personalità iper-controllanti, ossessive, e perfezioniste per quanto riguarda l’anoressia e, dall’altra parte, impulsive, ansiose, e con scarsa autostima per quel che riguarda la bulimia. Nessuna sorpresa che queste tipologie di personalità siano anche predisponenti allo sviluppo di patologie quali depressione, autolesionismo, DOC, etc…
Io stessa sono prova del fatto che esistono persone che hanno questo tipo di comorbidità. Ho problemi di autolesionismo, e una personalità basilarmente iper-controllante. E questo al di là dell’anoressia. Ma l’anoressia ha sicuramente esasperato anche queste altre 2 condizioni, la mia ossessività, le mie manie di controllo, e non in un modo positivo. Allo stesso modo, penso che una corretta alimentazione possa aiutare non solo a migliorare sul versante del DCA, ma anche a ridurre le altre patologie, proprio per quella che è la loro stretta correlazione.
La verità è che ancora non sappiamo se affezioni come i DOC o la depressione o il disturbo bipolare siano parte di un DCA come causa o come conseguenza, o se le cose siano completamente scisse. Un esempio sciocco ma che rende l’idea: capelli castani e occhi marroni. Anche se molto spesso questi 2 tratti appaiono insieme, ci sono un sacco di persone coi capelli marroni che hanno gli occhi azzurri, o verdi, o grigi. E ci sono persone con gli occhi marroni che sono bionde, o more, o rosse.
Allo stesso modo, non si sa con esattezza quando questi tratti di personalità diventano patologici, a che punto cessano di essere semplicemente dei comportamenti un po’ spinti, e diventano comportamenti per i quali è necessario un trattamento medico. Nessuno ancora lo sa veramente.
È un qualcosa cui mi piacerebbe che più psicoterapeuti e ricercatori dedicassero tempo per studiarla e scoprirla.
P.S.= Vorrei girarvi un’idea che mi ha proposto tramite e-mail una lettrice di questo blog, Good (ricordate la ragazza del giorno 22 nel nostro calendario del 2011?... Sì, proprio lei!). L’idea consiste nel suggerirci a vicenda delle letture, dei libri, che trattino dell’argomento DCA. Perciò, se qualcuna di voi ha letto un qualche libro inerente questa tematica, e lo ha trovato particolarmente utile per il suo percorso di ricovero, fatemelo sapere nei commenti o tramite e-mail (veggie.any@gmail.com): man mano che mi arriveranno i vostri titoli, li riunirò in una lista sulla colonnina di destra del blog!
venerdì 22 giugno 2012
Proprio di fronte a me
Dato che all’inizio di Settembre 2011 mi sono trasferita in un nuovo appartamento, ho una nuova cameretta le cui pareti sono state a lungo completamente bianche. Così ho deciso di decorarla appendendoci dei poster. La mia brillante idea era quella mettere sulle pareti i poster delle t.A.T.u. (le mie cantanti preferite) che nel corso degli anni ho acquistato, fermandoli agli angoli con dello scotch colorato.
Così sono andata in una cartoleria ad acquistare lo scotch colorato e il nastro biadesivo, in modo che i poster potessero aderire per bene e non si sciupassero. Fatto tutto ciò, si è presentato un problemuccio: non riuscivo a trovare i poster.
Sapevo di averli messi all’interno di una qualche cartellina, perchè tengo sempre nelle cartelline tutto il mio materiale cartaceo, dalle dispense per l’università ai miei disegni, e sapevo di non aver gettato quei poster… oh, insomma, speravo di non averli gettati via nel trasloco. Non ne avevo idea. Una cosa che mi faceva uscire scema. Ho cercato dappertutto, anche in posti dove mai sarebbe stato possibile mettere dei poster, e non ho trovato nulla.
Quei poster non volevano essere proprio trovati.
Ma ieri, mentre stavo rimettendo a posto appunti, slides e dispense di Ortopedia (esame che ho da poco dato), mi è scivolato lo sguardo su una cartellina rossa. Piazzata proprio su una mensola della mia camera. Sopra la scrivania. Proprio di fronte a me. Precisamente all’altezza dei miei occhi.
Ho aperto la cartellina
sfogliato alcune pagine
ed ecco che ho tirato fuori
i miei poster delle t.A.T.u.
Ero talmente convinta che quei poster fossero rintanati in qualche pertugio inesplorabile – in fin dei conti, li avevo cercati così a lungo – che non potevano trovarsi in un posto così ovvio. Avrebbero dovuto essere in una scatola, in un qualche contenitore, potevo averli usati quando avevo finito la carta igienica… e invece, erano piazzati in una cartellina ben evidente su una mensola.
Ecco vale lo stesso anche quando si percorre la strada del ricovero dall’anoressia. Si cercano e si ricercano informazioni, insights, si scandagliano backgrounds, e non riusciamo a trovarli. Si cercano strategie per rendere la strada del ricovero un po’ meno pesante e faticosa da percorrere. E, paradossalmente, molto spesso è proprio nel momento in cui smettiamo di rimuginare su tutto questo che troviamo la soluzione che per tanto tempo avevamo inutilmente cercato. Che capiamo quali sono le cose veramente importanti: le più semplici. Mangiare tutti i pasti principali e gli spuntini – e mangiare tutto. Essere sincere con gli psicoterapeuti e con i dietisti. Sfogarci non più su noi stesse, ma riversando all’esterno il nostro malessere. Rialzarci dopo ogni ricaduta e ricominciare a combattere. Spesso si tende a pensare che tutte queste “rivelazioni” siano nascoste sotto cumuli di vissuto, ma spesso quel che stiamo cercando è proprio dritto di fronte a noi.
Per vederlo, occorre solo decidere di aprire gli occhi.
Così sono andata in una cartoleria ad acquistare lo scotch colorato e il nastro biadesivo, in modo che i poster potessero aderire per bene e non si sciupassero. Fatto tutto ciò, si è presentato un problemuccio: non riuscivo a trovare i poster.
Sapevo di averli messi all’interno di una qualche cartellina, perchè tengo sempre nelle cartelline tutto il mio materiale cartaceo, dalle dispense per l’università ai miei disegni, e sapevo di non aver gettato quei poster… oh, insomma, speravo di non averli gettati via nel trasloco. Non ne avevo idea. Una cosa che mi faceva uscire scema. Ho cercato dappertutto, anche in posti dove mai sarebbe stato possibile mettere dei poster, e non ho trovato nulla.
Quei poster non volevano essere proprio trovati.
Ma ieri, mentre stavo rimettendo a posto appunti, slides e dispense di Ortopedia (esame che ho da poco dato), mi è scivolato lo sguardo su una cartellina rossa. Piazzata proprio su una mensola della mia camera. Sopra la scrivania. Proprio di fronte a me. Precisamente all’altezza dei miei occhi.
Ho aperto la cartellina
sfogliato alcune pagine
ed ecco che ho tirato fuori
i miei poster delle t.A.T.u.
Ero talmente convinta che quei poster fossero rintanati in qualche pertugio inesplorabile – in fin dei conti, li avevo cercati così a lungo – che non potevano trovarsi in un posto così ovvio. Avrebbero dovuto essere in una scatola, in un qualche contenitore, potevo averli usati quando avevo finito la carta igienica… e invece, erano piazzati in una cartellina ben evidente su una mensola.
Ecco vale lo stesso anche quando si percorre la strada del ricovero dall’anoressia. Si cercano e si ricercano informazioni, insights, si scandagliano backgrounds, e non riusciamo a trovarli. Si cercano strategie per rendere la strada del ricovero un po’ meno pesante e faticosa da percorrere. E, paradossalmente, molto spesso è proprio nel momento in cui smettiamo di rimuginare su tutto questo che troviamo la soluzione che per tanto tempo avevamo inutilmente cercato. Che capiamo quali sono le cose veramente importanti: le più semplici. Mangiare tutti i pasti principali e gli spuntini – e mangiare tutto. Essere sincere con gli psicoterapeuti e con i dietisti. Sfogarci non più su noi stesse, ma riversando all’esterno il nostro malessere. Rialzarci dopo ogni ricaduta e ricominciare a combattere. Spesso si tende a pensare che tutte queste “rivelazioni” siano nascoste sotto cumuli di vissuto, ma spesso quel che stiamo cercando è proprio dritto di fronte a noi.
Per vederlo, occorre solo decidere di aprire gli occhi.
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venerdì 15 giugno 2012
Anoressica VS avere l'anoressia
Proprio ieri ho letto il post di una ragazza che scrive "Io non sono bipolare, ho un disturbo bipolare". E già questa frase verissima di per sè si commenta da sola: noi non siamo una malattia, perchè la malattia è solo un aspetto della nostra vita.
Questa ragazza scrive:
"Per quelle di noi che hanno una malattia mentale cronica che ci accompagnerà per tutta la vita, io credo sia necessario prendere delle decisioni in qualità di individui, di persone, e non in qualità di bipolari, o depressi, o borderline. Bisogna sempre tenere a mente la diagnosi, ovviamente, per quelle che saranno le nostre relazioni e le nostre esperienze future; e questo perchè bisogna circondarci di persone in grado di supportarci e di aiutarci nel nostro opporci alla malattia, ma non bisogna focalizzarci unicamente sulla definizione clinica".
E questo io credo che sia uno degli aspetti - focalizzarsi sulla definizione clinica, intendo - che è più difficile da gestire. Le etichette, in fin dei conti, sotto certi aspetti, sono così rassicuranti... Ci dicono quello che siamo, e chi ha un DCA può trovarlo confortante, per certi versi: almeno ha una definizione, "anoressica", “bulimica”, invece di essere disorientata senza sapere chi è nè cosa vuole dalla sua vita. Però arriva un momento in cui l'etichetta inizia ad andare troppo stretta. Un momento in cui ci si stanca dell'ossessione su cibo-corpo-peso, ci si stanca di sentirci costrette a fare una certa quantità di attività fisica quotidianamente, ci si stanca di non poter andare da nessuna parte senza portarci dietro il cibo prescritto dall' "equilibrio alimentare". Si vuole dimenticare tutto questo. Ma bisogna anche rimanere concentrate sul fatto che si ha un DCA, che si è da poco iniziato a percorrere la strada del ricovero, e che ad andare su un binario così stretto è facile deragliare.
Il fatto che si debba seguire un "equilibrio alimentare", però, non significa che tutto quello che noi siamo è una definizione clinica e una serie di regole da seguire. Noi siamo molto più di un'etichetta, tutto un mondo interiore che dobbiamo trovare il coraggio di tirare fuori. Noi ABBIAMO un DCA, ma NON SIAMO un DCA. Io ho l'anoressia, ma non sono un'anoressica. L'etichetta può servire ai medici per sapere come relazionarsi con me, quale iter terapeutico intraprendere, ma non dice niente di me come persona. Io sono la Veggie che ha l'anoressia, ma sono anche un'istruttrice ed arbitro di karate, una studentessa universitaria, una a cui piace disegnare, e così via.
La cosa che spesso si avverte è che in molti casi l'avere un DCA è visto come un qualcosa che costituisce la propria identità. Cioè spesse volte la persona affetta da anoressia dice: "Io sono anoressica". Si descrive usando la malattia. Cosa che, se ci pensate, non è comunissima. Quante persone affette da reflusso gastro-esofageo dicono: "Io sono un reflussore"? Quante persone affette da enfisema dicono: "Io sono un enfisematoso"? Non succede. La spiegazione che ne do io è che nelle malattie fisiche si avverte la dissociazione del corpo dal proprio "io"; nelle malattie psichiche no.
Mi spiego meglio: quando va tutto bene, e il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere delle braccia, delle gambe, uno stomaco. Ci sentiamo un tutt'uno, il corpo aderisce perfettamente a noi stesse - ed è noi stesse.
Quando abbiamo una malattia organica, per esmpio ci facciamo male a un braccio, all'improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice spesso: "Mi fa male un braccio", più che "sento male al braccio", come a sottolineare questa cosa. Nelle malattie psichiatriche invece è il cervello che è "malato", per cui non avviene questa dissociazione - è come se la malattia facesse parte di noi. Ed ecco che diventa un'identità.
La cosa più difficile è trovare un equilibrio tra il non etichettare coi stesse come "anoressiche" e, al contempo, non dimenticare le limitazioni che la diagnosi c'impone. Di solito, si flippa da un estremo all'altro, perchè del resto la dicotomia è un aspetto tipico dell'anoressia: è tutto bianco o tutto nero. Invece, come nella stragrande maggioranza delle cose della vita, bisogna a poco a poco prendere consapevolezza del fatto che il giusto equilibrio sta nel punto di mezzo: accettare la diagnosi, ma non lasciare che un'etichetta ci definisca, perchè noi siamo molto più di una definizione da manuale.
Questa ragazza scrive:
"Per quelle di noi che hanno una malattia mentale cronica che ci accompagnerà per tutta la vita, io credo sia necessario prendere delle decisioni in qualità di individui, di persone, e non in qualità di bipolari, o depressi, o borderline. Bisogna sempre tenere a mente la diagnosi, ovviamente, per quelle che saranno le nostre relazioni e le nostre esperienze future; e questo perchè bisogna circondarci di persone in grado di supportarci e di aiutarci nel nostro opporci alla malattia, ma non bisogna focalizzarci unicamente sulla definizione clinica".
E questo io credo che sia uno degli aspetti - focalizzarsi sulla definizione clinica, intendo - che è più difficile da gestire. Le etichette, in fin dei conti, sotto certi aspetti, sono così rassicuranti... Ci dicono quello che siamo, e chi ha un DCA può trovarlo confortante, per certi versi: almeno ha una definizione, "anoressica", “bulimica”, invece di essere disorientata senza sapere chi è nè cosa vuole dalla sua vita. Però arriva un momento in cui l'etichetta inizia ad andare troppo stretta. Un momento in cui ci si stanca dell'ossessione su cibo-corpo-peso, ci si stanca di sentirci costrette a fare una certa quantità di attività fisica quotidianamente, ci si stanca di non poter andare da nessuna parte senza portarci dietro il cibo prescritto dall' "equilibrio alimentare". Si vuole dimenticare tutto questo. Ma bisogna anche rimanere concentrate sul fatto che si ha un DCA, che si è da poco iniziato a percorrere la strada del ricovero, e che ad andare su un binario così stretto è facile deragliare.
Il fatto che si debba seguire un "equilibrio alimentare", però, non significa che tutto quello che noi siamo è una definizione clinica e una serie di regole da seguire. Noi siamo molto più di un'etichetta, tutto un mondo interiore che dobbiamo trovare il coraggio di tirare fuori. Noi ABBIAMO un DCA, ma NON SIAMO un DCA. Io ho l'anoressia, ma non sono un'anoressica. L'etichetta può servire ai medici per sapere come relazionarsi con me, quale iter terapeutico intraprendere, ma non dice niente di me come persona. Io sono la Veggie che ha l'anoressia, ma sono anche un'istruttrice ed arbitro di karate, una studentessa universitaria, una a cui piace disegnare, e così via.
La cosa che spesso si avverte è che in molti casi l'avere un DCA è visto come un qualcosa che costituisce la propria identità. Cioè spesse volte la persona affetta da anoressia dice: "Io sono anoressica". Si descrive usando la malattia. Cosa che, se ci pensate, non è comunissima. Quante persone affette da reflusso gastro-esofageo dicono: "Io sono un reflussore"? Quante persone affette da enfisema dicono: "Io sono un enfisematoso"? Non succede. La spiegazione che ne do io è che nelle malattie fisiche si avverte la dissociazione del corpo dal proprio "io"; nelle malattie psichiche no.
Mi spiego meglio: quando va tutto bene, e il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere delle braccia, delle gambe, uno stomaco. Ci sentiamo un tutt'uno, il corpo aderisce perfettamente a noi stesse - ed è noi stesse.
Quando abbiamo una malattia organica, per esmpio ci facciamo male a un braccio, all'improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice spesso: "Mi fa male un braccio", più che "sento male al braccio", come a sottolineare questa cosa. Nelle malattie psichiatriche invece è il cervello che è "malato", per cui non avviene questa dissociazione - è come se la malattia facesse parte di noi. Ed ecco che diventa un'identità.
La cosa più difficile è trovare un equilibrio tra il non etichettare coi stesse come "anoressiche" e, al contempo, non dimenticare le limitazioni che la diagnosi c'impone. Di solito, si flippa da un estremo all'altro, perchè del resto la dicotomia è un aspetto tipico dell'anoressia: è tutto bianco o tutto nero. Invece, come nella stragrande maggioranza delle cose della vita, bisogna a poco a poco prendere consapevolezza del fatto che il giusto equilibrio sta nel punto di mezzo: accettare la diagnosi, ma non lasciare che un'etichetta ci definisca, perchè noi siamo molto più di una definizione da manuale.
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venerdì 8 giugno 2012
Ingiusto?
Oh, la giustizia è una gran bella cosa. Le persone buone dovrebbero ottenere cose belle, e le persone cattive dovrebbero finire in tutta la merda che meritano. Ma così non va la vita. La vita non guarda in faccia nessuno, se ne frega di che tipo di persona sei, e la maggior parte delle cose belle che accadono nella vita sono per lo più il mero risultato di una botta di culo. Detto questo, ognuna è libera di fare quel che vuole, ma è estremamente difficile che succedano cose belle semplicemente perchè sei stata buona.
Magari è un po’ infantile, ma non è forse vero che si ha la sensazione che molti aspetti del nostro percorso di ricovero siano ingiusti??! Per esempio: non è irritante dover prendere qualche altro chilo, quando all’apice dell’anoressia pesavamo molto meno rispetto a quanto pesiamo adesso? Sembra ingiusto che possiamo mantenere il peso soltanto quando raggiungiamo un BMI (IMC) di 18, quando ci sono persone che, senza avere un DCA, hanno comunque fisiologicamente un BMI inferiore a 18, e nessuno gli dice nulla.
Okay, questo è un pensiero tipicamente indotto dall’anoressia, ma c’è del vero alla base dello stesso.
Ed ecco quel che ho trovato al proposito leggendo un libro di Judith Beck, una psicoterapeuta, che scrive:
"[…] Pensieri sabotanti? “E’ così ingiusto che io non possa essere magra come vorrei!”. Questo pensiero rattrista molto chiunque soffra di un DCA. Inoltre spesso chi ha un DCA è gravata da un forte senso d’ingiustizia. Invece di essere soddisfatte della loro capacità di perdere peso e mantenere il loro sottopeso, sentono di vivere una grande ingiustizia: “Mi sono impegnata così tanto, eppure devo continuare a lavorare per mantenere questo peso, che è per me comunque insoddisfacente”. Ed è triste vedere tutta questa loro negatività, quando perdere peso è una tale soddisfazione.
Spesso dico loro: “Sì, hai ragione. È ingiusto, ma a me sembra che, in realtà, per te la più grande ingiustizia sia continuare a soffrire giorno dopo giorno schiacciata dall’idea che devi dimagrire ancora – un’idea che ti ossessiona, che non ti fa sentire a tuo agio con te stessa, che ti apporta negatività, che non ti fa sentire in pace con te stessa”.
Spesso propongo loro la seguente analogia: è come se una persona che è brava a correre si dicesse: “Io devo per forza partecipare alle Olimpiadi”. Così comincerà ad ossessionarsi con la corsa, non sarà felice dei suoi risultati non all’altezza degli elevatissimi standard che si è auto-imposta, non avrà più la sua pace mentale, e così via. Forse è una brava persona e non meriterebbe questa sofferenza, ma sta male perché ha realisticamente l’aspettativa di poter diventare tanto brava nella corsa da poter partecipare alle Olimpiadi. E quel che è peggio, anziché accettare il fatto che, per quanto brava possa essere nella corsa, non possiede comunque quella capacità tale da essere al livello di un’Olimpiade, si sentirà appressa dall’idea che questo sia ingiusto, il che la farà sentire ancora peggio, amareggiata, e apporterà negatività al suo modo di guardare alla vita.
Ovviamente, ci sarebbe molto altro da dire riguardo a ciò che può essere giusto/ingiusto. (Tanto per fare un esempio in tema, molte persone che per dimagrire si rivolgono fin da subito ad una dietista, hanno una vita che sembra essere, per chi ha un DCA da molti anni, ingiustamente positiva). Ma questa discussione iniziale, che implica che chi ha un DCA ha un certo controllo sulla propria sofferenza, in funzione della sua impostazione mentale, è un importante punto di partenza. […]”
Ora, se devo essere del tutto sincera, io personalmente non sono una grande fan di Judith Beck. La premessa del suo ultimo libro (che ti insegna a “pensare come una persona magra”) mi sembra semplicemente ridicola, tant’è che ho abbandonato la lettura dopo le prime pagine. Non credo proprio che le persone magre pensino diversamente dalle persone sovrappeso. A parte questo, tuttavia, penso che dalle sue parole (estratte da un altro suo libro) che ho riportato in questo post, si possa trarre un qualche insegnamento.
Dover percorrere la strada del ricovero può sembrare profondamente ingiusto. E questo è il punto: non dovrebbe esserlo. Talvolta mi viene pure da pensare che sia ingiusto il fatto che sia sopravvissuta abbastanza a lungo da dover iniziare ad intraprendere un percorso di ricovero. Ma ci sono un sacco di cose ingiuste nella vita, e perciò quando si pensa che dover abbandonare l’anoressia e doverci lavorare su per farlo sia ingiusto, pensiamo anche a questo sia ancora più ingiusto farci rovinare la vita dall’anoressia stessa.
Questo ovviamente non significa che si faccia magicamente pace con il nostro corpo, il nostro peso e le nostre ossessioni. Non è così. Ma si può cominciare a provare a fare pace con la consapevolezza di quello che è giusto che sia per la nostra salute fisica e mentale.
Magari è un po’ infantile, ma non è forse vero che si ha la sensazione che molti aspetti del nostro percorso di ricovero siano ingiusti??! Per esempio: non è irritante dover prendere qualche altro chilo, quando all’apice dell’anoressia pesavamo molto meno rispetto a quanto pesiamo adesso? Sembra ingiusto che possiamo mantenere il peso soltanto quando raggiungiamo un BMI (IMC) di 18, quando ci sono persone che, senza avere un DCA, hanno comunque fisiologicamente un BMI inferiore a 18, e nessuno gli dice nulla.
Okay, questo è un pensiero tipicamente indotto dall’anoressia, ma c’è del vero alla base dello stesso.
Ed ecco quel che ho trovato al proposito leggendo un libro di Judith Beck, una psicoterapeuta, che scrive:
"[…] Pensieri sabotanti? “E’ così ingiusto che io non possa essere magra come vorrei!”. Questo pensiero rattrista molto chiunque soffra di un DCA. Inoltre spesso chi ha un DCA è gravata da un forte senso d’ingiustizia. Invece di essere soddisfatte della loro capacità di perdere peso e mantenere il loro sottopeso, sentono di vivere una grande ingiustizia: “Mi sono impegnata così tanto, eppure devo continuare a lavorare per mantenere questo peso, che è per me comunque insoddisfacente”. Ed è triste vedere tutta questa loro negatività, quando perdere peso è una tale soddisfazione.
Spesso dico loro: “Sì, hai ragione. È ingiusto, ma a me sembra che, in realtà, per te la più grande ingiustizia sia continuare a soffrire giorno dopo giorno schiacciata dall’idea che devi dimagrire ancora – un’idea che ti ossessiona, che non ti fa sentire a tuo agio con te stessa, che ti apporta negatività, che non ti fa sentire in pace con te stessa”.
Spesso propongo loro la seguente analogia: è come se una persona che è brava a correre si dicesse: “Io devo per forza partecipare alle Olimpiadi”. Così comincerà ad ossessionarsi con la corsa, non sarà felice dei suoi risultati non all’altezza degli elevatissimi standard che si è auto-imposta, non avrà più la sua pace mentale, e così via. Forse è una brava persona e non meriterebbe questa sofferenza, ma sta male perché ha realisticamente l’aspettativa di poter diventare tanto brava nella corsa da poter partecipare alle Olimpiadi. E quel che è peggio, anziché accettare il fatto che, per quanto brava possa essere nella corsa, non possiede comunque quella capacità tale da essere al livello di un’Olimpiade, si sentirà appressa dall’idea che questo sia ingiusto, il che la farà sentire ancora peggio, amareggiata, e apporterà negatività al suo modo di guardare alla vita.
Ovviamente, ci sarebbe molto altro da dire riguardo a ciò che può essere giusto/ingiusto. (Tanto per fare un esempio in tema, molte persone che per dimagrire si rivolgono fin da subito ad una dietista, hanno una vita che sembra essere, per chi ha un DCA da molti anni, ingiustamente positiva). Ma questa discussione iniziale, che implica che chi ha un DCA ha un certo controllo sulla propria sofferenza, in funzione della sua impostazione mentale, è un importante punto di partenza. […]”
Ora, se devo essere del tutto sincera, io personalmente non sono una grande fan di Judith Beck. La premessa del suo ultimo libro (che ti insegna a “pensare come una persona magra”) mi sembra semplicemente ridicola, tant’è che ho abbandonato la lettura dopo le prime pagine. Non credo proprio che le persone magre pensino diversamente dalle persone sovrappeso. A parte questo, tuttavia, penso che dalle sue parole (estratte da un altro suo libro) che ho riportato in questo post, si possa trarre un qualche insegnamento.
Dover percorrere la strada del ricovero può sembrare profondamente ingiusto. E questo è il punto: non dovrebbe esserlo. Talvolta mi viene pure da pensare che sia ingiusto il fatto che sia sopravvissuta abbastanza a lungo da dover iniziare ad intraprendere un percorso di ricovero. Ma ci sono un sacco di cose ingiuste nella vita, e perciò quando si pensa che dover abbandonare l’anoressia e doverci lavorare su per farlo sia ingiusto, pensiamo anche a questo sia ancora più ingiusto farci rovinare la vita dall’anoressia stessa.
Questo ovviamente non significa che si faccia magicamente pace con il nostro corpo, il nostro peso e le nostre ossessioni. Non è così. Ma si può cominciare a provare a fare pace con la consapevolezza di quello che è giusto che sia per la nostra salute fisica e mentale.
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venerdì 1 giugno 2012
"Come se non avessi altre alternative"
Mi sono imbattuta in questa storia leggendo su Internet un articolo tratto dall’ “UK’s Daily Mail”, quando ho notato un pezzo intitolato: “Ashley’s mother told her she wasn’t welcome at home while she was anorexic” (“La madre di Ashley le ha detto che non sarebbe stata la benvenuta a casa fintanto che fosse rimasta anoressica”), e questo mi ha dato veramente di che pensare. Il nocciolo dell’articolo è che la madre di Ashley le dice che la sua anoressia non accettata nella sua casa. La madre di Ashley dice che non ne può più, e che le ha provate tutte e non sa più che fare con la figlia. La maggior parte dei commenti lasciati da altri lettori in merito a quest’articolo sono per lo più accuse nei confronti di questa madre che viene etichettata come un “mostro”, come una che non si cura del fatto che sia figlia abbia una malattia mentale, e così via. Ma non è questo che personalmente m’interessa. Quello che mi ha colpita è stata sopratto la risposta di Ashley all’ultimatum postole dalla madre.
Sebbene con le parole della madre che le rimbombavano in testa, sebbene circondata da amici preoccupati per la sua eccessiva magrezza, e sebbene abbia deciso di ricoverarsi in una clinica specializzata in DCA, Ashley afferma comunque:
“Non riesco a capire come sia possibile vivere altrimenti, senza l’anoressia. Mi sento come se non avessi altre alternative”.
Ed è stata proprio quell’ultima frase, “Mi sento come se non avessi altre alternative”, che mi ha particolarmente colpita. Questo perché penso che sentirsi alle strette, avere la sensazione di non avere altre alternative all’anoressia, sia proprio ciò che spinge ad intraprendere un percorso di ricovero: io ho iniziato a combattere seriamente solo quando mi sono accorta che non avevo più nulla da perdere, proprio perché si era presa tutto l’anoressia. Studio, lavoro, sport, hobby… tutto risucchiato nel vortice dell’ossessione. L’anoressia non aveva mantenuto le sue promesse: non mi aveva dato tutto quello che cercavo e che mi sembrava con lei avrei potuto ottenere. Soprattutto, sapevo che veramente non c’era più niente da perdere, ma proprio più niente. Negli anni precedenti, fintanto che mi sembrava di avere comunque qualcosa, fintanto che m’illudevo che l’anoressia mi fornisse ancora uno spiraglio per respirare, non riuscivo a combattere davvero. In certi momenti riuscivo più o meno a seguire l’ “equilibrio alimentare”, ma dopo poco avevo inevitabili ricadute verso la restrizione alimentare, e conseguenti perdite di peso. Sono stata ricoverata, ho fatto day-hospital, psicoterapia su psicoterapia, incontri con la dietista ogni settimana, strategie di auto-aiuto reperite sui libri o su Internet… ma niente era duraturo. Prima o poi finivo sempre per ricadere nell’anoressia. Perché pensavo comunque, dentro di me, di averci qualcosa da guadagnare. Ci sono stati momenti in cui ero stufa di tutto il tran-tran medico, momenti in cui mi sono chiesta se non fosse meglio abbracciare l’anoressia e mandare a puttane tutto il resto, momenti in cui l’ho fatto. Ma alla fine, la realizzazione che ha fermato la mia rovinosa caduta e che mi ha permesso di virare verso la strada del ricovero è stato il fatto che mi sono resa conto che non potevo avere sia la vita che avrei voluto, sia l’anoressia. Che non avevo più nulla da perdere. Che ormai l’anoressia l’avevo vissuta fino in fondo, e che non mi avrebbe mai dato la vita che avrei voluto.
Nel Maggio del 2008, le mie possibilità erano veramente limitate: continuare la strada dell’anoressia fino a morirne, o intraprendere seriamente la strada del ricovero e provare a metterci una pezza.
Il coraggio di fare una scelta. Il coraggio di scegliere fra le alternative.
Mi ricordo che inizialmente il mio “equilibrio alimentare” prevedeva, per lo spuntino di metà mattina, succo di frutta alla pera, all'albicocca o alla pesca. Potevo scegliere. Se non facevo nessuna scelta, dovevo chiudere gli occhi, afferrarne a caso uno dal frigorifero e berlo, qualsiasi fosse stato il suo gusto. Così, ho cominciato a fare delle scelte. Il mio percorso di ricovero è stato, ed è tuttora, in un certo senso, estremamente simile: una scelta tra le alternative. Cosa mi era rimasto? Niente. Perchè l’anoressia si era già portata via tutto. Non era rimasto niente, tranne la possibilità di rialzarmi e riprendere in mano la mia vita. Non era rimasto niente, tranne il coraggio di fare una scelta. Per me stessa, e non più contro me stessa.
Questa non è stata la lampadina che si accende, la rivelazione, l’epifania, il momento “Eureka!”. In effetti, non me ne sono resa conto per molto tempo. Dopo la spinta iniziale, ho comunque dovuto affrontare momenti difficili durante il mio percorso di ricovero, e a tutt’oggi parte delle difficoltà permangono. Ci sono stati periodi in cui mi sentivo scoraggiata e demoralizzata: mi sembrava di aver fallito su entrambi i fronti, tanto quello della vita quanto quello dell’anoressia. Non ero stata capace di morire, ma adesso non ero nemmeno capace di vivere. Eppure, la sensazione di non avere più niente da perdere è quella che mi ha sempre spinto a fare un passo in avanti.
La cosa ironica è che la scarsità di alternative cui sono stata posta a fronte, mi ha successivamente aperto tante nuove alternative. Ho deciso di aprire questo blog, ho deciso di mettere video su YouTube, di condividere pensieri positivi su Twitter, di tornare a studiare, a lavorare, a fare sport, a coltivare i miei hobby ed i miei interessi. E, soprattutto, mi ha permesso di vedere che è possibile vivere anche senza la costante presenza dell’anoressia. Anzi, è possibile vivere SOLO senza la costante presenza dell’anoressia.
Sebbene con le parole della madre che le rimbombavano in testa, sebbene circondata da amici preoccupati per la sua eccessiva magrezza, e sebbene abbia deciso di ricoverarsi in una clinica specializzata in DCA, Ashley afferma comunque:
“Non riesco a capire come sia possibile vivere altrimenti, senza l’anoressia. Mi sento come se non avessi altre alternative”.
Ed è stata proprio quell’ultima frase, “Mi sento come se non avessi altre alternative”, che mi ha particolarmente colpita. Questo perché penso che sentirsi alle strette, avere la sensazione di non avere altre alternative all’anoressia, sia proprio ciò che spinge ad intraprendere un percorso di ricovero: io ho iniziato a combattere seriamente solo quando mi sono accorta che non avevo più nulla da perdere, proprio perché si era presa tutto l’anoressia. Studio, lavoro, sport, hobby… tutto risucchiato nel vortice dell’ossessione. L’anoressia non aveva mantenuto le sue promesse: non mi aveva dato tutto quello che cercavo e che mi sembrava con lei avrei potuto ottenere. Soprattutto, sapevo che veramente non c’era più niente da perdere, ma proprio più niente. Negli anni precedenti, fintanto che mi sembrava di avere comunque qualcosa, fintanto che m’illudevo che l’anoressia mi fornisse ancora uno spiraglio per respirare, non riuscivo a combattere davvero. In certi momenti riuscivo più o meno a seguire l’ “equilibrio alimentare”, ma dopo poco avevo inevitabili ricadute verso la restrizione alimentare, e conseguenti perdite di peso. Sono stata ricoverata, ho fatto day-hospital, psicoterapia su psicoterapia, incontri con la dietista ogni settimana, strategie di auto-aiuto reperite sui libri o su Internet… ma niente era duraturo. Prima o poi finivo sempre per ricadere nell’anoressia. Perché pensavo comunque, dentro di me, di averci qualcosa da guadagnare. Ci sono stati momenti in cui ero stufa di tutto il tran-tran medico, momenti in cui mi sono chiesta se non fosse meglio abbracciare l’anoressia e mandare a puttane tutto il resto, momenti in cui l’ho fatto. Ma alla fine, la realizzazione che ha fermato la mia rovinosa caduta e che mi ha permesso di virare verso la strada del ricovero è stato il fatto che mi sono resa conto che non potevo avere sia la vita che avrei voluto, sia l’anoressia. Che non avevo più nulla da perdere. Che ormai l’anoressia l’avevo vissuta fino in fondo, e che non mi avrebbe mai dato la vita che avrei voluto.
Nel Maggio del 2008, le mie possibilità erano veramente limitate: continuare la strada dell’anoressia fino a morirne, o intraprendere seriamente la strada del ricovero e provare a metterci una pezza.
Il coraggio di fare una scelta. Il coraggio di scegliere fra le alternative.
Mi ricordo che inizialmente il mio “equilibrio alimentare” prevedeva, per lo spuntino di metà mattina, succo di frutta alla pera, all'albicocca o alla pesca. Potevo scegliere. Se non facevo nessuna scelta, dovevo chiudere gli occhi, afferrarne a caso uno dal frigorifero e berlo, qualsiasi fosse stato il suo gusto. Così, ho cominciato a fare delle scelte. Il mio percorso di ricovero è stato, ed è tuttora, in un certo senso, estremamente simile: una scelta tra le alternative. Cosa mi era rimasto? Niente. Perchè l’anoressia si era già portata via tutto. Non era rimasto niente, tranne la possibilità di rialzarmi e riprendere in mano la mia vita. Non era rimasto niente, tranne il coraggio di fare una scelta. Per me stessa, e non più contro me stessa.
Questa non è stata la lampadina che si accende, la rivelazione, l’epifania, il momento “Eureka!”. In effetti, non me ne sono resa conto per molto tempo. Dopo la spinta iniziale, ho comunque dovuto affrontare momenti difficili durante il mio percorso di ricovero, e a tutt’oggi parte delle difficoltà permangono. Ci sono stati periodi in cui mi sentivo scoraggiata e demoralizzata: mi sembrava di aver fallito su entrambi i fronti, tanto quello della vita quanto quello dell’anoressia. Non ero stata capace di morire, ma adesso non ero nemmeno capace di vivere. Eppure, la sensazione di non avere più niente da perdere è quella che mi ha sempre spinto a fare un passo in avanti.
La cosa ironica è che la scarsità di alternative cui sono stata posta a fronte, mi ha successivamente aperto tante nuove alternative. Ho deciso di aprire questo blog, ho deciso di mettere video su YouTube, di condividere pensieri positivi su Twitter, di tornare a studiare, a lavorare, a fare sport, a coltivare i miei hobby ed i miei interessi. E, soprattutto, mi ha permesso di vedere che è possibile vivere anche senza la costante presenza dell’anoressia. Anzi, è possibile vivere SOLO senza la costante presenza dell’anoressia.
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venerdì 25 maggio 2012
Dire "SI"
La parola “NO” è una costante dell’anoressia. “No grazie, ho già mangiato”; “No, adesso non mi va”; “No, stasera ho da fare”. Un sacco di evitamenti. Se si viene poste di fronte a qualcosa che possa interferire con il nostro DCA, diciamo di “no” e scappiamo via. La stessa anoressia, del resto, è un castello di carta le cui fondamenta affondano sulla negazione e sul concetto del “no”: no al cibo in quantità normali, no alla perdita dell’apparente controllo, no alla vita sociale, no al raccontare la verità, niente.
Sarà capitato a tutte di trovarsi di fronte a qualcuno che chiede qual è il gusto di qualcosa, o quali sono le nostre preferenze alimentari. Di solito, di fronte a domande del genere, la risposta più spontanea è: “Non lo so, non l’ho mai assaggiato”, oppure si tira fuori una bugia su quali siano le cose che si preferisce mangiare. In realtà, magari dentro di noi immaginiamo pure quale possa essere il gusto di un certo alimento, o cosa si preferirebbe mangiare, cosa ci piacerebbe di più. L’ironia, qui, è: si può facilmente immaginare il gusto di certi alimenti, ma si fa molta più fatica ad immaginare che noi stesse possiamo mangiare quegli alimenti. Non è il cibo in sé per sé che causa ansia, è l’idea di dire “sì” di fronte alla possibilità di mangiare quel cibo.
Dunque, perchè dire “sì” causa ansia? Penso che questo derivi soprattutto dal timore di non avere più il controllo. Perché in fin dei conti, è questo il tassello fondamentale su cui l’anoressia si basa: il controllo. Finché si dice “no” a qualsiasi cosa, si mantiene il controllo. E se invece il dire “sì” ci strappasse questo controllo? Eccola, la cosa veramente terrorizzante. Ponendo la questione sull’argomento “cibo”, ciò equivale a dire che è relativamente semplice accettare l’idea che si NECESSITA di nutrirsi, ma è molto più difficile accettare l’idea che si VOGLIA nutrirsi.
Credo che la maggior parte delle persone con un DCA siano, per natura, delle persone piuttosto evitanti. La maggior parte dell’evitazione è correlata alla paura. Paura di non poter più controllare tutto quanto, come l’anoressia ci dà l’illusione di poter fare. Questo è ciò che principalmente porta a dire “no”. Dopo un po’, questo rifiutare finisce per diventare un’abitudine – una cattiva abitudine, in effetti – e bisogna lavorarci su per cambiare questa mentalità.
Bisogna perciò combattere contro la tentazione di dire sempre di “no”. Magari mangiando un morso della focaccia che ci offre la nostra amica. Magari rinunciando ad una corsa per rimanere a leggere un libro. Magari riuscendo a seguire l’ “equilibrio alimentare”. Magari mangiando un gelato per merenda se ne abbiamo voglia, senza negarcelo. Bisogna provare a dire di “sì” un po’ più spesso. Sì al cibo, ma soprattutto, sì al cambiamento, sì al sorriso, sì alla voglia di combattere… sì alla vita.
Sarà capitato a tutte di trovarsi di fronte a qualcuno che chiede qual è il gusto di qualcosa, o quali sono le nostre preferenze alimentari. Di solito, di fronte a domande del genere, la risposta più spontanea è: “Non lo so, non l’ho mai assaggiato”, oppure si tira fuori una bugia su quali siano le cose che si preferisce mangiare. In realtà, magari dentro di noi immaginiamo pure quale possa essere il gusto di un certo alimento, o cosa si preferirebbe mangiare, cosa ci piacerebbe di più. L’ironia, qui, è: si può facilmente immaginare il gusto di certi alimenti, ma si fa molta più fatica ad immaginare che noi stesse possiamo mangiare quegli alimenti. Non è il cibo in sé per sé che causa ansia, è l’idea di dire “sì” di fronte alla possibilità di mangiare quel cibo.
Dunque, perchè dire “sì” causa ansia? Penso che questo derivi soprattutto dal timore di non avere più il controllo. Perché in fin dei conti, è questo il tassello fondamentale su cui l’anoressia si basa: il controllo. Finché si dice “no” a qualsiasi cosa, si mantiene il controllo. E se invece il dire “sì” ci strappasse questo controllo? Eccola, la cosa veramente terrorizzante. Ponendo la questione sull’argomento “cibo”, ciò equivale a dire che è relativamente semplice accettare l’idea che si NECESSITA di nutrirsi, ma è molto più difficile accettare l’idea che si VOGLIA nutrirsi.
Credo che la maggior parte delle persone con un DCA siano, per natura, delle persone piuttosto evitanti. La maggior parte dell’evitazione è correlata alla paura. Paura di non poter più controllare tutto quanto, come l’anoressia ci dà l’illusione di poter fare. Questo è ciò che principalmente porta a dire “no”. Dopo un po’, questo rifiutare finisce per diventare un’abitudine – una cattiva abitudine, in effetti – e bisogna lavorarci su per cambiare questa mentalità.
Bisogna perciò combattere contro la tentazione di dire sempre di “no”. Magari mangiando un morso della focaccia che ci offre la nostra amica. Magari rinunciando ad una corsa per rimanere a leggere un libro. Magari riuscendo a seguire l’ “equilibrio alimentare”. Magari mangiando un gelato per merenda se ne abbiamo voglia, senza negarcelo. Bisogna provare a dire di “sì” un po’ più spesso. Sì al cibo, ma soprattutto, sì al cambiamento, sì al sorriso, sì alla voglia di combattere… sì alla vita.
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venerdì 18 maggio 2012
Combattere per la vita
Quando si entra in un DCA, si finisce sempre per arrivare a pensare che l’anoressia sia la nostra migliore amica, senza renderci conto che in realtà è la nostra peggior nemica. Questo perché nel momento in cui l’anoressia entra in noi, ci racconta un sacco di bugie e ce le ripete così tanto spesso e con un tono talmente convincente, che noi stesse finiamo per crederci. Ma sono comunque tutte bugie.
Temiamo di non essere capaci di affrontare il mondo da sole, per questo sentiamo il bisogno del “salvagente” dell’anoressia. La restrizione alimentare dà sicurezza, ci fa sentire come se potessimo tenere tutto sotto controllo, e la soddisfazione che il riuscire a seguire un regime alimentare restrittivo ci genera è un qualcosa d’ineguagliabile. Riuscendo ad avere questo fittizio controllo, si pensa che potremo sentirci più a nostro agio con noi stesse. E poi, l’anoressia è un qualcosa che ci fa sentire speciali. Ho imparato con tutto il dolore del mondo che non c’è gabbia peggiore di ciò che ci fa sentire speciali. Inoltre, in fin dei conti pensiamo spesso di non essere abbastanza, e così si cerca di diventare invisibili solo per poter essere viste. (Il problema è che siamo guardate... ma comunque non viste.) Anche quando le cose volgono al peggio, chiedere aiuto è comunque incredibilmente difficile perché ci fa sentire deboli, perdenti; non come la restrizione alimentare, che invece c’induce tanta forza.
Tutte bugie. Io ho il controllo. Tutte bugie. Io raggiungo quel peso e poi smetto. Tutte bugie. Io posso uscirne quando voglio. Tutte bugie. Restringere l’alimentazione è l’unica cosa che mi dà soddisfazione. Tutte bugie. Se restringo sono forte. Tutte bugie. Se tengo tutto sotto controllo, sono salva. Tutte bugie.
L’anoressia è un vicolo cieco, una strada senza via d’uscita; non ci permetterà mai di ottenere quel che vogliamo, non attenderà mai tutte le sue promesse, non cambierà la nostra vita in meglio, ce la rovinerà. Quindi, l’unica cosa da fare è combatterla. Ma non si può pensare di batterla finché non ci si rende conto di tutto questo. Sottovalutare l’anoressia non aiuta in questa battaglia. Combattere contro l’anoressia significa combattere per la vita. E chiedere aiuto non è segno di debolezza né di fallimento, bensì di intelligenza, maturità e responsabilità. Occorre farsi aiutare da personale specializzato, ma anche dalle persone che ci stanno intorno e che ci vogliono bene, che ci tenderanno sempre le loro mani nel momento in cui saremo pronte ad afferrarle. Occorre mettercela tutta, stringere i denti, rialzarsi dopo ogni ricaduta. Come si suol dire, “Leap and the net will appear”.
L’anoressia non è una cosa che ci rende speciali – è solo una cosa che ci dà sicurezza.
Talvolta, mentre si sta percorrendo la strada del ricovero, può capitare di sentirsi giù, di ricadere e di pensare perciò che non ce la faremo mai perchè non abbiamo nessun tipo di coraggio… ma la verità è che non si può scegliere d’intraprendere la strada del ricovero se non si ha coraggio! Lo so che quando si decide d’intraprendere un percorso di questo tipo, la sensazione prevalente è un vuoto terrificante nel momento in cui si decide di abbandonare il DCA, ma la realtà è che il vuoto terrificante è ciò che abbiamo appena deciso di lasciarci alle spalle!
Temiamo di non essere capaci di affrontare il mondo da sole, per questo sentiamo il bisogno del “salvagente” dell’anoressia. La restrizione alimentare dà sicurezza, ci fa sentire come se potessimo tenere tutto sotto controllo, e la soddisfazione che il riuscire a seguire un regime alimentare restrittivo ci genera è un qualcosa d’ineguagliabile. Riuscendo ad avere questo fittizio controllo, si pensa che potremo sentirci più a nostro agio con noi stesse. E poi, l’anoressia è un qualcosa che ci fa sentire speciali. Ho imparato con tutto il dolore del mondo che non c’è gabbia peggiore di ciò che ci fa sentire speciali. Inoltre, in fin dei conti pensiamo spesso di non essere abbastanza, e così si cerca di diventare invisibili solo per poter essere viste. (Il problema è che siamo guardate... ma comunque non viste.) Anche quando le cose volgono al peggio, chiedere aiuto è comunque incredibilmente difficile perché ci fa sentire deboli, perdenti; non come la restrizione alimentare, che invece c’induce tanta forza.
Tutte bugie. Io ho il controllo. Tutte bugie. Io raggiungo quel peso e poi smetto. Tutte bugie. Io posso uscirne quando voglio. Tutte bugie. Restringere l’alimentazione è l’unica cosa che mi dà soddisfazione. Tutte bugie. Se restringo sono forte. Tutte bugie. Se tengo tutto sotto controllo, sono salva. Tutte bugie.
L’anoressia è un vicolo cieco, una strada senza via d’uscita; non ci permetterà mai di ottenere quel che vogliamo, non attenderà mai tutte le sue promesse, non cambierà la nostra vita in meglio, ce la rovinerà. Quindi, l’unica cosa da fare è combatterla. Ma non si può pensare di batterla finché non ci si rende conto di tutto questo. Sottovalutare l’anoressia non aiuta in questa battaglia. Combattere contro l’anoressia significa combattere per la vita. E chiedere aiuto non è segno di debolezza né di fallimento, bensì di intelligenza, maturità e responsabilità. Occorre farsi aiutare da personale specializzato, ma anche dalle persone che ci stanno intorno e che ci vogliono bene, che ci tenderanno sempre le loro mani nel momento in cui saremo pronte ad afferrarle. Occorre mettercela tutta, stringere i denti, rialzarsi dopo ogni ricaduta. Come si suol dire, “Leap and the net will appear”.
L’anoressia non è una cosa che ci rende speciali – è solo una cosa che ci dà sicurezza.
Talvolta, mentre si sta percorrendo la strada del ricovero, può capitare di sentirsi giù, di ricadere e di pensare perciò che non ce la faremo mai perchè non abbiamo nessun tipo di coraggio… ma la verità è che non si può scegliere d’intraprendere la strada del ricovero se non si ha coraggio! Lo so che quando si decide d’intraprendere un percorso di questo tipo, la sensazione prevalente è un vuoto terrificante nel momento in cui si decide di abbandonare il DCA, ma la realtà è che il vuoto terrificante è ciò che abbiamo appena deciso di lasciarci alle spalle!
venerdì 11 maggio 2012
Braccialetto pro-ricovero
Le ragazze che si definiscono “pro-ana/mia” hanno inventato un segno di riconoscimento: un braccialetto che sia rosso per le “pro-ana” o blu/viola per le “pro-mia”, e che possa identificarle in quanto tali e dare loro la forza di andare avanti per la strada (autodistruttiva) in cui si sono avviate, basandosi anche sul senso di appartenenza ad un gruppo che sostiene le loro stesse idee.
In quanto a quel che penso sul fenomeno “pro-ana/mia”, ho già discusso diffusamente su questo blog. In quanto all’idea del braccialetto credo che, se ribaltata (un po’ come fatto con la "Thinspo Reverse" insomma) possa essere effettivamente efficace.
Quindi, se il ricovero è la nostra scelta, perché non procurarci un braccialetto che ci ricordi in ogni momento la decisione che abbiamo preso e con il quale possiamo sentirci parte di un gruppo pro-ricovero che sostiene questa scelta di vita?!
Pensando così, io ho realizzato il mio braccialetto pro-ricovero.
Arancio, perché è un colore vivace, un colore solare contro il buio dell’anoressia. Arancio anche perché è il nome di un frutto, un qualcosa che si mangia.
Ci ho scritto sopra "I bite back", perché è quello che sto cercando di fare, in modo quindi da poterlo leggere ogni volta che mi sento vacillare per ritrovare un po’ di forza. Il doppio senso della frase “I bite back” è ovviamente assolutamente VOLUTO. (Che ne dite, vi piace l’ironia??!...)
È il mio promemoria giornaliero di forza e determinazione per continuare a percorrere la strada del ricovero e per prendermi cura di me stessa. Simboleggia il viaggio che tutte noi dobbiamo fare alla ricerca delle Vere Noi Stesse.
Perché non realizzate anche voi un braccialetto che, anche se in piccola parte, possa aiutarvi ad andare avanti?! In fin dei conti, sono proprio le piccole cose che possiamo fare per noi stesse tutti i giorni a fare la differenza.
In quanto a quel che penso sul fenomeno “pro-ana/mia”, ho già discusso diffusamente su questo blog. In quanto all’idea del braccialetto credo che, se ribaltata (un po’ come fatto con la "Thinspo Reverse" insomma) possa essere effettivamente efficace.
Quindi, se il ricovero è la nostra scelta, perché non procurarci un braccialetto che ci ricordi in ogni momento la decisione che abbiamo preso e con il quale possiamo sentirci parte di un gruppo pro-ricovero che sostiene questa scelta di vita?!
Pensando così, io ho realizzato il mio braccialetto pro-ricovero.
Arancio, perché è un colore vivace, un colore solare contro il buio dell’anoressia. Arancio anche perché è il nome di un frutto, un qualcosa che si mangia.
Ci ho scritto sopra "I bite back", perché è quello che sto cercando di fare, in modo quindi da poterlo leggere ogni volta che mi sento vacillare per ritrovare un po’ di forza. Il doppio senso della frase “I bite back” è ovviamente assolutamente VOLUTO. (Che ne dite, vi piace l’ironia??!...)
È il mio promemoria giornaliero di forza e determinazione per continuare a percorrere la strada del ricovero e per prendermi cura di me stessa. Simboleggia il viaggio che tutte noi dobbiamo fare alla ricerca delle Vere Noi Stesse.
Perché non realizzate anche voi un braccialetto che, anche se in piccola parte, possa aiutarvi ad andare avanti?! In fin dei conti, sono proprio le piccole cose che possiamo fare per noi stesse tutti i giorni a fare la differenza.
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ricovero
venerdì 4 maggio 2012
Dentro il ricovero
La scelta di percorrere la strada del ricovero non è affatto una scelta rapida ed immediata. Molte (come me) impiegano anni ed anni prima di compierla. Altre non ci riescono mai. Purtroppo le probabilità giocano a nostro sfavore. Ma nel momento in cui si decide che se ne ha abbastanza di ogni qualsiasi tipo di numero, allora anche la probabilità, che non è espressa da altro che da un numero, può andare a farsi fottere.
Quali consigli posso darvi nel momento in cui dunque scegliere d’intraprendere la strada del ricovero? Per quanto paradossale possa a primo acchito sembrare: non lo fate unicamente per salvare la vostra vita, non sarebbe abbastanza convincente. Mi spiego. La scelta dell’anoressia è una scelta di rinuncia alla vita, ed è difficile convincersi che noi valiamo la pena per avere questa vita. Quindi, più che altro, cercate di trovare una cosa che vi piace, un obiettivo cui mirate. Trovate qualcosa che amate più della vostra stessa vita. E lottate per raggiungerla. Fintanto che avrete una ragione per alzarvi da letto ogni mattina cominciando a combattere contro l’anoressia, vi starete dando un’altra possibilità. Ed è per questo che andrà tutto bene. Forse non oggi, forse non domani, e magari neanche tra una settimana, ma alla fine andrà tutto bene. E se le cose non vanno ancora bene, vuol dire che questa non è ancora la fine.
Altre due cose importanti nella strada del ricovero sono la speranza e la perseveranza, due imperativi per impedire all’anoressia di avere di nuovo la meglio su di noi. Voglio precisare che per come la vedo io avere speranza non significa mettersi sedute senza far niente aspettando che la manna dal cielo risolva tutti i nostri problemi, al contrario, avere speranza significa provare a costruire qualcosa ogni giorno credendo fermamente che questo possa aiutarci ad arrivare un passo dopo l’altro verso la meta. Avere speranza significa sapere che un giorno, da qualche parte, in qualche modo, il nostro duro lavoro sarà servito a qualcosa, e potremo essere più forti.
Infine, un’altra cosa importantissima nel percorrere la strada del ricovero è il coraggio. Il coraggio di dirci la verità, di affrontare la realtà, di accettarci per quello che siamo, anche se non siamo come vorremmo essere. Il coraggio è quello che ci mettiamo ogni giorno quando scegliamo di continuare a percorrere questa strada, solidificando gli obiettivi raggiunti, e proiettandoci verso quelli futuri. Coraggio è sognare il nostro futuro e lottare per realizzarlo. Coraggio è capire quali sono gli obiettivi perseguibili e realizzabili, cercando di fare del nostro meglio per raggiungerli, ma senza scoraggiarsi se le cose non tutti i giorni vanno come desidereremmo. Coraggio è saggiare l’acqua con la punta di un piede… e poi saltare dentro al mare della vita tuffandosi di botto senza avere rimorsi.
Certo, non lo nego, percorrendo la strada del ricovero ci saranno da affrontare momenti estremamente difficili, molto più difficili del ben più semplice abbandonarsi all’anoressia. Ci saranno momenti in cui ci sentiremo stanche, sole, avremo paura e voglia di gettare la spugna, momenti in cui le lacrime sembrano essere l’unica cosa che rimane. Ma è proprio in questi momenti che dobbiamo alzare la testa e ricordare a noi stesse chi siamo e quanto valiamo: se siamo riuscite a scegliere la strada del ricovero, abbiamo allora anche tutta a forza e la determinazione per percorrerla giorno dopo giorno.
Quali consigli posso darvi nel momento in cui dunque scegliere d’intraprendere la strada del ricovero? Per quanto paradossale possa a primo acchito sembrare: non lo fate unicamente per salvare la vostra vita, non sarebbe abbastanza convincente. Mi spiego. La scelta dell’anoressia è una scelta di rinuncia alla vita, ed è difficile convincersi che noi valiamo la pena per avere questa vita. Quindi, più che altro, cercate di trovare una cosa che vi piace, un obiettivo cui mirate. Trovate qualcosa che amate più della vostra stessa vita. E lottate per raggiungerla. Fintanto che avrete una ragione per alzarvi da letto ogni mattina cominciando a combattere contro l’anoressia, vi starete dando un’altra possibilità. Ed è per questo che andrà tutto bene. Forse non oggi, forse non domani, e magari neanche tra una settimana, ma alla fine andrà tutto bene. E se le cose non vanno ancora bene, vuol dire che questa non è ancora la fine.
Altre due cose importanti nella strada del ricovero sono la speranza e la perseveranza, due imperativi per impedire all’anoressia di avere di nuovo la meglio su di noi. Voglio precisare che per come la vedo io avere speranza non significa mettersi sedute senza far niente aspettando che la manna dal cielo risolva tutti i nostri problemi, al contrario, avere speranza significa provare a costruire qualcosa ogni giorno credendo fermamente che questo possa aiutarci ad arrivare un passo dopo l’altro verso la meta. Avere speranza significa sapere che un giorno, da qualche parte, in qualche modo, il nostro duro lavoro sarà servito a qualcosa, e potremo essere più forti.
Infine, un’altra cosa importantissima nel percorrere la strada del ricovero è il coraggio. Il coraggio di dirci la verità, di affrontare la realtà, di accettarci per quello che siamo, anche se non siamo come vorremmo essere. Il coraggio è quello che ci mettiamo ogni giorno quando scegliamo di continuare a percorrere questa strada, solidificando gli obiettivi raggiunti, e proiettandoci verso quelli futuri. Coraggio è sognare il nostro futuro e lottare per realizzarlo. Coraggio è capire quali sono gli obiettivi perseguibili e realizzabili, cercando di fare del nostro meglio per raggiungerli, ma senza scoraggiarsi se le cose non tutti i giorni vanno come desidereremmo. Coraggio è saggiare l’acqua con la punta di un piede… e poi saltare dentro al mare della vita tuffandosi di botto senza avere rimorsi.
Certo, non lo nego, percorrendo la strada del ricovero ci saranno da affrontare momenti estremamente difficili, molto più difficili del ben più semplice abbandonarsi all’anoressia. Ci saranno momenti in cui ci sentiremo stanche, sole, avremo paura e voglia di gettare la spugna, momenti in cui le lacrime sembrano essere l’unica cosa che rimane. Ma è proprio in questi momenti che dobbiamo alzare la testa e ricordare a noi stesse chi siamo e quanto valiamo: se siamo riuscite a scegliere la strada del ricovero, abbiamo allora anche tutta a forza e la determinazione per percorrerla giorno dopo giorno.
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venerdì 27 aprile 2012
Cose peggiori del riprendere peso
Il post di oggi è ispirato a un post che ho letto sul blog di una ragazza americana.
La ragazza in questione, in lotta contro l’anoressia e con il costante timore di prendere troppo peso, ha stilato un lista delle cose che reputa comunque peggiori del riguadagnare chili.
Penso che sia un’idea molto propositiva ed utile: mettere a fuoco che, per quanto riprendere peso possa essere, a suo modo, certamente ansiogeno, ci sono molte cose che sono peggiori di qualche chilo in più. E sono cose che accadono se si resta qualche chilo in meno. Perché è vero: a volte quando si è nel pieno di un DCA si ha l’erronea sensazione che è l’essere “troppo grasse” che ci impedisce di fare tutto nella vita… eppure, in effetti – e lo dico per esperienza personale – anche l’essere troppo magra impedisce di fare tutto.
Credo sia davvero importante renderci conto di questo, e perciò quello che vi invito a fare oggi è stilare la vostra personale lista di ciò che c’è di peggio del dover riprendere peso.
Se vi va, lasciate la vostra lista nei commenti di questo post!
Comincio io, con la mia lista, e dunque…
50 cose peggiori del riprendere peso
1) Non andare in pizzeria con gli amici
2) Non andare fuori con gli amici
3) Non avere amici
4) Essere costantemente in ansia
5) Pianificare tutto quello ciò che c’è da fare nel corso della giornata
6) Pianificare cosa, dove e quanto mangiare
7) Andare nel panico se il piano non è rispettato
8) Realizzare che un piatto di spaghetti aveva più controllo sulla mia vita di quanto non ne avessi io stessa
9) Essere fissata con disgusto da qualcuno per l’eccessiva magrezza
10) Fregarsene di essere fissata con disgusto da qualcuno per l’eccessiva magrezza
11) Rompere le promesse con tutti, specialmente con me stessa
12) Dire bugie a tutti, specialmente a me stessa
13) Non andare al mare/in piscina per la vergogna di dovermi mettere in costume
14) La persona che mi piace che mi dice che non sono un granché perchè sono troppo magra
15) Non poter fare sport per l'eccessivo sottopeso
16) Osteoporosi
17) Infertilità
18) Controlli su controlli dalla dietista
19) Non riuscire a guardarmi allo specchio...
20) ...ma guardarmi in ogni superficie riflettente attraversata
21) Sentirmi in colpa
22) Sentirmi in colpa perchè mi sentivo in colpa
23) Inventare scuse
24) Odiarmi
25) Farmi del male
26) Far preoccupare gli altri per me
27) Essere in fondo preoccupata anch’io per me stessa
28) Vivere secondo regole arbitrarie imposte da me stessa
29) Litigare costantemente con me stessa
30) Non riuscire a badare a me stessa
31) Digestione a puttane
32) Metabolismo idem
33) Perdere la mia identità per l’anoressia
34) Abbassare le aspettative
35) Nascondere e negare
36) Deludere tutti, soprattutto me stessa
37) Miglioramento-ricaduta, miglioramento-ricaduta, miglioramento-ricaduta…
38) Dover rispondere sempre alle stesse domande…
39) … e dare sempre le stesse risposte
40) Basare l’autostima sulla capacità di restringere l’alimentazione
41) Andare a fare tirocinio in ospedale e sembrare più malata dei pazienti
42) Perdere la sanità mentale
43) Non sapere se mi sarei svegliata la mattina successiva
44) Non sapere se avrei voluto svegliarmi la mattina successiva
45) Perdere la libertà
46) Perdere l'autonomia
47) Perdere il controllo
48) Perdere tutto ciò che rende la vita degna d'essere vissuta
49) Perdere me stessa
50) Perdere la vita
Cara anoressia, alla faccia tua, io sono ancora qui che combatto affinchè tu non possa avere la meglio su di me. Perché, sì, la mia morte è un’arte… ma la mia vita è un capolavoro.
Penso che sia un’idea molto propositiva ed utile: mettere a fuoco che, per quanto riprendere peso possa essere, a suo modo, certamente ansiogeno, ci sono molte cose che sono peggiori di qualche chilo in più. E sono cose che accadono se si resta qualche chilo in meno. Perché è vero: a volte quando si è nel pieno di un DCA si ha l’erronea sensazione che è l’essere “troppo grasse” che ci impedisce di fare tutto nella vita… eppure, in effetti – e lo dico per esperienza personale – anche l’essere troppo magra impedisce di fare tutto.
Credo sia davvero importante renderci conto di questo, e perciò quello che vi invito a fare oggi è stilare la vostra personale lista di ciò che c’è di peggio del dover riprendere peso.
Se vi va, lasciate la vostra lista nei commenti di questo post!
Comincio io, con la mia lista, e dunque…
50 cose peggiori del riprendere peso
1) Non andare in pizzeria con gli amici
2) Non andare fuori con gli amici
3) Non avere amici
4) Essere costantemente in ansia
5) Pianificare tutto quello ciò che c’è da fare nel corso della giornata
6) Pianificare cosa, dove e quanto mangiare
7) Andare nel panico se il piano non è rispettato
8) Realizzare che un piatto di spaghetti aveva più controllo sulla mia vita di quanto non ne avessi io stessa
9) Essere fissata con disgusto da qualcuno per l’eccessiva magrezza
10) Fregarsene di essere fissata con disgusto da qualcuno per l’eccessiva magrezza
11) Rompere le promesse con tutti, specialmente con me stessa
12) Dire bugie a tutti, specialmente a me stessa
13) Non andare al mare/in piscina per la vergogna di dovermi mettere in costume
14) La persona che mi piace che mi dice che non sono un granché perchè sono troppo magra
15) Non poter fare sport per l'eccessivo sottopeso
16) Osteoporosi
17) Infertilità
18) Controlli su controlli dalla dietista
19) Non riuscire a guardarmi allo specchio...
20) ...ma guardarmi in ogni superficie riflettente attraversata
21) Sentirmi in colpa
22) Sentirmi in colpa perchè mi sentivo in colpa
23) Inventare scuse
24) Odiarmi
25) Farmi del male
26) Far preoccupare gli altri per me
27) Essere in fondo preoccupata anch’io per me stessa
28) Vivere secondo regole arbitrarie imposte da me stessa
29) Litigare costantemente con me stessa
30) Non riuscire a badare a me stessa
31) Digestione a puttane
32) Metabolismo idem
33) Perdere la mia identità per l’anoressia
34) Abbassare le aspettative
35) Nascondere e negare
36) Deludere tutti, soprattutto me stessa
37) Miglioramento-ricaduta, miglioramento-ricaduta, miglioramento-ricaduta…
38) Dover rispondere sempre alle stesse domande…
39) … e dare sempre le stesse risposte
40) Basare l’autostima sulla capacità di restringere l’alimentazione
41) Andare a fare tirocinio in ospedale e sembrare più malata dei pazienti
42) Perdere la sanità mentale
43) Non sapere se mi sarei svegliata la mattina successiva
44) Non sapere se avrei voluto svegliarmi la mattina successiva
45) Perdere la libertà
46) Perdere l'autonomia
47) Perdere il controllo
48) Perdere tutto ciò che rende la vita degna d'essere vissuta
49) Perdere me stessa
50) Perdere la vita
Cara anoressia, alla faccia tua, io sono ancora qui che combatto affinchè tu non possa avere la meglio su di me. Perché, sì, la mia morte è un’arte… ma la mia vita è un capolavoro.
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venerdì 20 aprile 2012
DCA maschili
Anche i ragazzi, gli uomini possono sviluppare un DCA. Ho appena scoperto che esiste anche un sito e un account di Twitter (anche io ho un account di Twitter, tra l'altro) che si occupano proprio di questa problematica. Informazioni di questo tipo si possono trovare anche QUI, un’ulteriore dimostrazione del fatto che anoressia e bulimia non sono un vissuto esclusivamente femminile.
Facendo qualche ricerca su Internet, ho scoperto che una delle prime descrizioni cliniche dell’anoressia è stata fatta in un ragazzo adolescente. Nel 1689, credeteci o meno. Perciò, l’idea spesso diffusa che i DCA siano un problema sostanzialmente femminile, non è del tutto vera.
Il problema nasce nel momento in cui, dopo che Richiard Morton descrisse per la prima volta l’anoressia nel 1688, altri medici suoi successori associarono la parola “anoressia” ad “isteria”. Il termine “isteria” deriva dalla parola greca utilizzata per indicare l’utero (ecco perché l’operazione di asportazione dell’utero si chiama “isterectomia”) che significa, automaticamente, che gli uomini, non avendo un utero, non possono essere “isterici” nel senso tecnico del termine che veniva già fatto in quel secolo. Ed ecco come il concetto di anoressia è stato distorto.
Anche in tempi più recenti, la società stessa ha continuato a concettualizzare i DCA in maniera tale da escludere la popolazione maschile, perché i disturbi alimentari vengono (erroneamente) visti dall’opinione comune come un qualcosa di legato all’aspetto fisico o a una dieta che poi viene esasperata. L’opinione generale è che gli uomini non siano sottoposti ad una tale pressione sociale, e che non abbiano canoni fissi di bellezza fisica a cui dover rispondere; pertanto, dato che l’uomo non ha una pressione, in merito alla sua immagine corporea, pesante come quella che ha la donna, non svilupperà un DCA.
Sbagliato. Che è uno dei motivi per i quali anche in passato ho scritto che la società e i canoni di bellezza hanno – secondo me – ben poco a che vedere con lo sviluppo di un DCA. Se sei un essere umano, a prescindere dal tuo sesso, allora puoi sviluppare un disordine alimentare.
Scrivo di questo non semplicemente perchè mi è capitato recentemente di leggere alcune cose riguardo allo sviluppo di DCA nei maschi, ma anche perchè ho letto che la IAEDP ha tenuto una conferenza circa 25 giorni fa (21-25 Marzo 2012), che si apriva con l’affermazione:
“Le nostre ultime ricerche mostrano che, tristemente, un uomo su 3 sarebbe disposto a ridurre il proprio lifespan (durata della vita) soltanto per incarnare l’immagine dell’uomo “ideale” per la società attuale”
Eh??...
Voglio dire, penso che ci siano un sacco di cose sbagliate in quest’affermazione. Prima di tutto, I disturbi alimentari esistono da molto più tempo rispetto alla concezione attuale di “aspetto fisico ideale”, perciò non può esserne questa la causa. In secondo luogo, avere un DCA non significa “essere disposti a ridurre la durata della propria vita”: sarebbe come dire che c’è qualcuno che desidera ammalarsi di tumore, per poter perdere peso grazie alla chemioterapia. Un disturbo alimentare non è una scelta consapevole di morte. Non è un qualcosa che ha prettamente a che fare con l’aspetto fisico o con la vanità. E’ una malattia mentale che può uccidere, non perché i messaggi sulla bellezza mandati dai mass-media orientano in una direzione tale per cui la persona non è più in grado di accettare la sua fisicità per quello che è, ma perché c’è di base una patologia ansiosa, un disturbo ossessivo-compulsivo, una mania di controllo, che dev’essere trattata in maniera adeguata.
Inoltre, non sarei affatto sicura della validità scientifica di un’ipotetica “sarebbe disposto a” nel valutare come viene percepita l’immagine corporea o il disturbo alimentare in una qualsiasi popolazione. Perché non è che ci siano persone che “sarebbero disposte a prendersi l’anoressia/la bulimia”. Sono malattie, lo sapevate?
Voglio precisare che non ho assistito alla conferenza succitata, quindi non ne conosco i contenuti, tranne che per quel poco che ho avuto modo di leggere sul web. Quindi quelle che scrivo sono semplicemente mie considerazioni basate su quel poco che ho letto a proposito dell’impostazione di questa conferenza basata sui DCA maschili.
Ritengo semplicemente che l’aspetto relative ai DCA maschili dovrebbe godere della giusta luce, e che la generale opinione diffusa sul fatto che anoressia e bulimia siano malattie prettamente femminili, non aiuta affatto quei pochi – ma pur presenti!! – maschi che invece ne sono affetti. Sì, penso che i DCA maschili dovrebbero godere di più attenzione, e non potremmo cominciare da quello che ho scritto?!
Facendo qualche ricerca su Internet, ho scoperto che una delle prime descrizioni cliniche dell’anoressia è stata fatta in un ragazzo adolescente. Nel 1689, credeteci o meno. Perciò, l’idea spesso diffusa che i DCA siano un problema sostanzialmente femminile, non è del tutto vera.
Il problema nasce nel momento in cui, dopo che Richiard Morton descrisse per la prima volta l’anoressia nel 1688, altri medici suoi successori associarono la parola “anoressia” ad “isteria”. Il termine “isteria” deriva dalla parola greca utilizzata per indicare l’utero (ecco perché l’operazione di asportazione dell’utero si chiama “isterectomia”) che significa, automaticamente, che gli uomini, non avendo un utero, non possono essere “isterici” nel senso tecnico del termine che veniva già fatto in quel secolo. Ed ecco come il concetto di anoressia è stato distorto.
Anche in tempi più recenti, la società stessa ha continuato a concettualizzare i DCA in maniera tale da escludere la popolazione maschile, perché i disturbi alimentari vengono (erroneamente) visti dall’opinione comune come un qualcosa di legato all’aspetto fisico o a una dieta che poi viene esasperata. L’opinione generale è che gli uomini non siano sottoposti ad una tale pressione sociale, e che non abbiano canoni fissi di bellezza fisica a cui dover rispondere; pertanto, dato che l’uomo non ha una pressione, in merito alla sua immagine corporea, pesante come quella che ha la donna, non svilupperà un DCA.
Sbagliato. Che è uno dei motivi per i quali anche in passato ho scritto che la società e i canoni di bellezza hanno – secondo me – ben poco a che vedere con lo sviluppo di un DCA. Se sei un essere umano, a prescindere dal tuo sesso, allora puoi sviluppare un disordine alimentare.
Scrivo di questo non semplicemente perchè mi è capitato recentemente di leggere alcune cose riguardo allo sviluppo di DCA nei maschi, ma anche perchè ho letto che la IAEDP ha tenuto una conferenza circa 25 giorni fa (21-25 Marzo 2012), che si apriva con l’affermazione:
“Le nostre ultime ricerche mostrano che, tristemente, un uomo su 3 sarebbe disposto a ridurre il proprio lifespan (durata della vita) soltanto per incarnare l’immagine dell’uomo “ideale” per la società attuale”
Eh??...
Voglio dire, penso che ci siano un sacco di cose sbagliate in quest’affermazione. Prima di tutto, I disturbi alimentari esistono da molto più tempo rispetto alla concezione attuale di “aspetto fisico ideale”, perciò non può esserne questa la causa. In secondo luogo, avere un DCA non significa “essere disposti a ridurre la durata della propria vita”: sarebbe come dire che c’è qualcuno che desidera ammalarsi di tumore, per poter perdere peso grazie alla chemioterapia. Un disturbo alimentare non è una scelta consapevole di morte. Non è un qualcosa che ha prettamente a che fare con l’aspetto fisico o con la vanità. E’ una malattia mentale che può uccidere, non perché i messaggi sulla bellezza mandati dai mass-media orientano in una direzione tale per cui la persona non è più in grado di accettare la sua fisicità per quello che è, ma perché c’è di base una patologia ansiosa, un disturbo ossessivo-compulsivo, una mania di controllo, che dev’essere trattata in maniera adeguata.
Inoltre, non sarei affatto sicura della validità scientifica di un’ipotetica “sarebbe disposto a” nel valutare come viene percepita l’immagine corporea o il disturbo alimentare in una qualsiasi popolazione. Perché non è che ci siano persone che “sarebbero disposte a prendersi l’anoressia/la bulimia”. Sono malattie, lo sapevate?
Voglio precisare che non ho assistito alla conferenza succitata, quindi non ne conosco i contenuti, tranne che per quel poco che ho avuto modo di leggere sul web. Quindi quelle che scrivo sono semplicemente mie considerazioni basate su quel poco che ho letto a proposito dell’impostazione di questa conferenza basata sui DCA maschili.
Ritengo semplicemente che l’aspetto relative ai DCA maschili dovrebbe godere della giusta luce, e che la generale opinione diffusa sul fatto che anoressia e bulimia siano malattie prettamente femminili, non aiuta affatto quei pochi – ma pur presenti!! – maschi che invece ne sono affetti. Sì, penso che i DCA maschili dovrebbero godere di più attenzione, e non potremmo cominciare da quello che ho scritto?!
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venerdì 13 aprile 2012
Cronicità e DCA non trattabili
Nel post precedente ho scritto che “non complianti” è una delle etichette che può essere assegnata a chi ha un DCA, e che mi fa indispettire non poco. Un’altra etichetta che ci becchiamo noi anoressiche o bulimiche? “Cronica”.
Okay, certo, da un punto di vista strettamente medico i disturbi alimentari sono patologie croniche, indicando come cronica (cito un mio libro universitario) “un’affezione che non guarisce nel giro di alcuni mesi”. Molte malattie psichiatriche sono in effetti croniche, e i DCA non fanno eccezione. Le statistiche dicono che le adolescenti con anoressia/bulimia/binge/DCAnas che ricevono il tradizionale pacchetto psicoterapia + visite con dietista necessitano comunque dai 5 ai 7 anni per avere un netto miglioramento. Ad oggi, con le più moderne tipologie di terapie psicologiche, questi tempi possono essersi un po’ ridotti, ma non c’è nessun dato certo a tal proposito. Non è che una, semplicemente, “guarisce” dall’anoressia – non è come prendersi l’influenza.
Il problema del beccarsi l’etichetta di “cronica”, è che questa parola generalmente sta per un’altra: “non trattabile”. È un po’ la maniera che la Medicina – gli psichiatri nella fattispecie – ha per dire “non vogliamo avere a che fare con te”, ovvero: “pensiamo che non ci siano speranze di miglioramento per te”. Un’etichettatura di questo tipo non può che scoraggiare una paziente che soffre di anoressia/bulimia: chi avrebbe la tempra di proseguire una psicoterapia con qualcuno che gli ha detto una cosa del genere? Chi continuerebbe a fare psicoterapia quando qualcuno gli ha detto che il tempo impiegato con loro è visto come una perdita di tempo? “Devi solo imparare a vivere con un DCA” viene detto a queste pazienti.
Quel che non viene detto è che un’affermazione del genere essenzialmente sottintende: “Tutto quello che succederà è che morirai lentamente a causa del tuo DCA”.
Il che è – devo proprio dirlo – una cafonata.
Non credo che possa riuscirci in maniera estremamente efficace in tempi brevi. Ma ci sono un sacco di malattie delle quali la gente continua a morire perché ancora non abbiamo le competenze scientifiche per combatterle, e cionnonostante non viene mai rifiutato il tentativo di provare a curarle. Che è ciò che invece viene fatto con i DCA: gli psicoterapeuti, se la paziente è particolarmente resistente, si sdanno. Rinunciano. Prescrivono cure palliative.
Francamente, credo che questo sia sbagliato. Penso sia il frutto di scelte erronee di terapeuti che non conoscono bene l’intrinseca natura di un disturbo alimentare, o che non vogliono affrontare una simile difficoltà che li porterebbe a mettere in discussione la loro stessa capacità professionale. È certamente più facile per un terapeuta “incolpare” la paziente di un mancato miglioramento, che non ammettere che ci sono delle situazioni con cui non si sa relazionare, e delle risposte che non riesce a fornire.
L’etichetta “cronica”, inoltre, può diventare per chi soffre di DCA come una sorta di profezia che si auto-avvera. Le ragazze anoressiche/bulimiche spesso pensano di non meritare aiuto, o che possono farcela da sole anche senza bisogno d’aiuto (sono tutti auto-inganni indotti dalla malattia stessa, ovviamente); per cui vedersi classificate come “croniche” non può che rafforzare questa visione che le anoressiche/bulimiche hanno di se stesse, confermando la loro sensazione d’inutilità, di mancato valore, e la loro incapacità di stare meglio. Personalmente ritengo che barriere di questo tipo possano contribuire nel determinare l’alto tasso di suicidi correlato ai DCA: le cose non andranno mai meglio e non c’è nessuno disposto ad aiutarmi. Sono qui, da sola, nell’oscurità, a notte fonda, insonne, il cuscino ancora una volta rigato dalle mie lacrime. Questa non è vita e non lo sarà mai, dunque non mi resta altro da fare che darci un taglio. Alle vene.
Il punto è che: anche le persone che sono state etichettate come “croniche” hanno la possibilità di fare enormi passi avanti nella loro lotta contro l’anoressia. Anch’io. Anche tutte voi che mi state leggendo. Con la voglia di non arrendersi e il giusto supporto terapeutico, tutte noi possiamo migliorare nettamente la nostra condizione, e continuare a combattere contro l’anoressia.
Ci vorrebbe una maggiore e soprattutto corretta informazione a livello della popolazione in generale affinché possano essere colte le manifestazioni più precoci di un DCA, e la terapia possa essere iniziata quanto più rapidamente possibile perché, come in tutte le malattie, più un DCA viene preso sul nascere, maggiori sono le possibilità di successo terapeutico. Ci vorrebbero anche più opzioni terapeutiche, affinché ciascuna di noi potesse scegliere quella che le va più a genio. E soprattutto, non dovremmo mai dimenticarci che, al di là di ogni possibile etichettatura, siamo prima di tutto persone, e l’essere tali significa avere un’arma enorme a nostra disposizione: la forza di volontà di cambiare le cose, di lottare contro l’anoressia. E questa consapevolezza deve non farci mai perdere la speranza. Neppure a chi è stata definita “cronica”.
Okay, certo, da un punto di vista strettamente medico i disturbi alimentari sono patologie croniche, indicando come cronica (cito un mio libro universitario) “un’affezione che non guarisce nel giro di alcuni mesi”. Molte malattie psichiatriche sono in effetti croniche, e i DCA non fanno eccezione. Le statistiche dicono che le adolescenti con anoressia/bulimia/binge/DCAnas che ricevono il tradizionale pacchetto psicoterapia + visite con dietista necessitano comunque dai 5 ai 7 anni per avere un netto miglioramento. Ad oggi, con le più moderne tipologie di terapie psicologiche, questi tempi possono essersi un po’ ridotti, ma non c’è nessun dato certo a tal proposito. Non è che una, semplicemente, “guarisce” dall’anoressia – non è come prendersi l’influenza.
Il problema del beccarsi l’etichetta di “cronica”, è che questa parola generalmente sta per un’altra: “non trattabile”. È un po’ la maniera che la Medicina – gli psichiatri nella fattispecie – ha per dire “non vogliamo avere a che fare con te”, ovvero: “pensiamo che non ci siano speranze di miglioramento per te”. Un’etichettatura di questo tipo non può che scoraggiare una paziente che soffre di anoressia/bulimia: chi avrebbe la tempra di proseguire una psicoterapia con qualcuno che gli ha detto una cosa del genere? Chi continuerebbe a fare psicoterapia quando qualcuno gli ha detto che il tempo impiegato con loro è visto come una perdita di tempo? “Devi solo imparare a vivere con un DCA” viene detto a queste pazienti.
Quel che non viene detto è che un’affermazione del genere essenzialmente sottintende: “Tutto quello che succederà è che morirai lentamente a causa del tuo DCA”.
Il che è – devo proprio dirlo – una cafonata.
Non credo che possa riuscirci in maniera estremamente efficace in tempi brevi. Ma ci sono un sacco di malattie delle quali la gente continua a morire perché ancora non abbiamo le competenze scientifiche per combatterle, e cionnonostante non viene mai rifiutato il tentativo di provare a curarle. Che è ciò che invece viene fatto con i DCA: gli psicoterapeuti, se la paziente è particolarmente resistente, si sdanno. Rinunciano. Prescrivono cure palliative.
Francamente, credo che questo sia sbagliato. Penso sia il frutto di scelte erronee di terapeuti che non conoscono bene l’intrinseca natura di un disturbo alimentare, o che non vogliono affrontare una simile difficoltà che li porterebbe a mettere in discussione la loro stessa capacità professionale. È certamente più facile per un terapeuta “incolpare” la paziente di un mancato miglioramento, che non ammettere che ci sono delle situazioni con cui non si sa relazionare, e delle risposte che non riesce a fornire.
L’etichetta “cronica”, inoltre, può diventare per chi soffre di DCA come una sorta di profezia che si auto-avvera. Le ragazze anoressiche/bulimiche spesso pensano di non meritare aiuto, o che possono farcela da sole anche senza bisogno d’aiuto (sono tutti auto-inganni indotti dalla malattia stessa, ovviamente); per cui vedersi classificate come “croniche” non può che rafforzare questa visione che le anoressiche/bulimiche hanno di se stesse, confermando la loro sensazione d’inutilità, di mancato valore, e la loro incapacità di stare meglio. Personalmente ritengo che barriere di questo tipo possano contribuire nel determinare l’alto tasso di suicidi correlato ai DCA: le cose non andranno mai meglio e non c’è nessuno disposto ad aiutarmi. Sono qui, da sola, nell’oscurità, a notte fonda, insonne, il cuscino ancora una volta rigato dalle mie lacrime. Questa non è vita e non lo sarà mai, dunque non mi resta altro da fare che darci un taglio. Alle vene.
Il punto è che: anche le persone che sono state etichettate come “croniche” hanno la possibilità di fare enormi passi avanti nella loro lotta contro l’anoressia. Anch’io. Anche tutte voi che mi state leggendo. Con la voglia di non arrendersi e il giusto supporto terapeutico, tutte noi possiamo migliorare nettamente la nostra condizione, e continuare a combattere contro l’anoressia.
Ci vorrebbe una maggiore e soprattutto corretta informazione a livello della popolazione in generale affinché possano essere colte le manifestazioni più precoci di un DCA, e la terapia possa essere iniziata quanto più rapidamente possibile perché, come in tutte le malattie, più un DCA viene preso sul nascere, maggiori sono le possibilità di successo terapeutico. Ci vorrebbero anche più opzioni terapeutiche, affinché ciascuna di noi potesse scegliere quella che le va più a genio. E soprattutto, non dovremmo mai dimenticarci che, al di là di ogni possibile etichettatura, siamo prima di tutto persone, e l’essere tali significa avere un’arma enorme a nostra disposizione: la forza di volontà di cambiare le cose, di lottare contro l’anoressia. E questa consapevolezza deve non farci mai perdere la speranza. Neppure a chi è stata definita “cronica”.
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venerdì 6 aprile 2012
Pazienti "non complianti"
“Si definisce “non compliante” un paziente che non partecipi attivamente al proprio trattamento terapeutico. La "non-compliance" costituisce, in frequenti occasioni, uno dei più rilevanti problemi terapeutici poiché ha ricadute sull'efficacia del trattamento, sui costi terapeutici, sul rapporto medico-paziente e sul rapporto dei pazienti con la loro malattia. La sua incidenza è sorprendentemente elevata soprattutto nelle patologie croniche e in psichiatria.” (Dott. Vittorio Ghetti)
Conversando tramite e-mail con molte di voi che hanno un DCA, una delle cose che mi è balzata all’attenzione recentemente è il fatto che molte persone anoressiche/bulimiche vengono frequentemente etichettate come “non complianti” dai medici e dagli psichiatri che le seguono, e quindi abbandonate a se stesse, e questa rappresenta una delle principali motivazioni all’interruzione del trattamento psicoterapeutico.
Il mio primo pensiero, quando ho letto cose del genere, è stato: ma dove diamine stanno le pazienti con un DCA che siano complianti??...
Ho discusso per la prima volta della compliance durante il corso di Farmacologia, al 4° anno di università. Parte del problema, diceva un professore, è che la maggior parte dei dottori pensa al paziente come a una persona che ha un singolo problema, ovvero quello per cui si reca da lui, e ritiene perciò che i pazienti debbano fare automaticamente quello che gli viene detto di fare, senza valutare il più ampio contesto della persona.
Per fare un esempio banale, io ho un’ipercolesterolemia familiare ereditaria. Dunque, secondo un medico da cui mi ero recata qualche anno fa, io avrei dovuto eliminare alcuni cibi dalla mia alimentazione e fare più esercizio fisico per cercare di tenere per quanto possibile un po’ più basso il mio colesterolo. Ovviamente, dato il mio passato/presente di anoressica, questa non era certo la cosa più giusta da fare. Perciò, no, non sempre i medici hanno ragione. La compliance ad una determinata terapia non può prescindere dal quadro globale del paziente.
Con il professore di Farmacologia non abbiamo ovviamente discusso della questione della compliance relativa al contesto dei disturbi alimentari o, più in generale, delle malattie mentali, ma penso che il discorso della compliance alla terapia sia un qualcosa di molto sentito nel contesto della psichiatria. Non dovrebbero le persone essere libere di scegliere se vogliono o meno essere curate? Scegliere un particolare tipo di percorso terapeutico? Scegliere di non seguire nessun tipo di percorso terapeutico?
Sì. Tecnicamente, assolutamente sì. Il problema (e il contenzioso) sta nella capacità delle persone di prendere decisioni senzienti e di essere capaci di seguirle fino in fondo. Perciò, la risposta alle mie domande, in effetti, è: dipende.
((Quel che intendo dire è: quante di noi, magari al lavoro o a scuola, si sono dette con convinzione che una volta tornate a casa avrebbero fatto quella tal cosa, ma poi non l’hanno effettivamente svolta? Eh. Si chiama “parking lot motivation”: l’essere motivate finché non si arriva a salire in macchina al parcheggio, dopodichè la suddetta motivazione è sommersa dall’ansia o da qualsiasi altra cosa che la fa scomparire.))
Non sono certo la persona più qualificata per poter parlare di malattie mentali, ma per quella che è la mia personale esperienza, posso asserire questo: dire che una paziente è “non compliante” è comune in molte diagnosi del DSM-IV. Oltre ad essere stata clinicamente classificata come “anoressica”, io mi porto dietro anche altri problemi, altre potenziali diagnosi, ma non sono mai stata farmacologicamente trattata per questi, perché ho sempre ritenuto di essere in grado di gestirli autonomamente (a differenza dell’anoressia) quindi in effetti anch’io sono stata considerata una paziente “non compilante” dagli psichiatri che mi hanno fatto queste diagnosi, visto che avevo detto loro che non intendevo assumere psicofarmaci. Dire che una paziente non è compilante, in effetti, assolve il medico dalla responsabilità di trattarla: “Non è che io non la curi, è lei che si rifiuta di farsi curare!”. Quando tutto il resto fallisce, è colpa del paziente. A prova di scemo!
Anche i disturbi alimentari sono oggetto di questo tipo di trattamento. Conosco diverse persone che sono state estromesse dai programmi ospedalieri di riabilitazione alimentare perché non riuscivano ad evitare di nascondere il cibo, perché continuavano a perdere peso, o perché avevano problemi ad attenersi al protocollo terapeutico (cose più che normali all’inizio di un percorso di ricovero). Essere estromesse da una struttura terapeutica suona più come una punizione inflitta ad una bambina disobbediente che non come il modo in cui dovrebbe essere trattata una ragazza che ha un DCA. Certo, avere a che fare con una paziente ancora indecisa che ha appena iniziato a lottare contro il suo DCA e che pertanto tende ancora ad auto-sabotarsi è tutt’altro che semplice, ma credo sarebbe dovere del medico cercare di stare ancor più vicino ad una paziente di questo tipo, piuttosto che lavarsene le mani etichettandola come “non compliante”.
Io credo che determinati comportamenti non siano, nella maggior parte dei casi, risultato di una non-volontà di migliorare della paziente, ma siano dovuti solo al fatto che, soprattutto all’inizio, è più facile che l’anoressia e i suoi comportamenti malati abbiano il sopravvento sulla volontà non ancora perfettamente delineata al miglioramento della paziente. La paziente tenta, tenta eccome, solo che la malattia è ancora più forte di lei, perché da tempo radicata. Voglio dire, nessuno si aspetta che un tumore smetta di crescere solo perché un oncologo ha visitato il paziente affetto, così come non è colpa del paziente se il cancro non risponde alle terapie di prima linea. Nessuno penalizza un paziente oncologico se non reagisce adeguatamente alla terapia, se il suo tumore non regredisce o se ha manifestazioni patologiche associate alla chemio. I dottori non smettono di fare la chemioterapia ad un bambino perché quello piange, o fa una bizza, o si nasconde sotto al letto perché ha paura dell’iniezione. Un comportamento del genere non significa che il bambino non è compliante, ma semplicemente che è un essere umano. La comparsa di un tumore non è colpa del soggetto che lo contrae, e se non riesce a liberarsene non è che lo faccia intenzionalmente. E lo stesso vale per chi ha un DCA.
Ogni medico, ogni psicoterapeuta, nel momento in cui prende in cura una paziente anoressica/bulimica, dovrebbe aspettarsi che questa possa essere (o diventare) non compliante. Dovrebbe aspettarsi un’enorme ansia, il fatto che il cibo possa essere nascosto, il fatto che la paziente faccia attività fisica extra di nascosto, il fatto che la paziente vada a vomitare di nascosto, e così via, in una lista diversa eppure simile per ognuna di noi. Sono tutti sintomi del disturbo alimentare, semplicemente. I DCA sono molto, molto difficili da trattare, questo è il messaggio che vorrei trasmettere a medici e pazienti. So di essere stata piacevole quanto un gatto appeso con le unghie ai coglioni per gli psicoterapeuti che mi hanno avuta in cura. Sono stata arrogante, sfrontata, ho fatto resistenza, ci ho litigato, li ho mandati a fanculo più e più volte, e ho fatto tutto il possibile per rimanere aggrappata all’anoressia. Ma non perché fossi “non compliante”. Bensì perché ero malata. Molto più di adesso. Quando sono stata meglio e quindi sono stata in grado di pensare più lucidamente, mi sono resa conto che già in quei momenti volevo davvero stare meglio, ma dopo anni di malattia l’anoressia era così egosintonica con la mia persona, che non ero in grado di discernerne i sintomi dalla mia personalità.
I medici e gli psichiatri dovrebbero rivedere quest’etichetta di “non compliante”. Molte ragazze che hanno un DCA si aggravano e in alcuni casi addirittura muoiono perché certi medici se ne sono lavati le mani, quando quelle persone avevano disperatamente bisogno del loro aiuto, anche se magari non lo riconoscevano o addirittura lo negavano. È certamente conveniente per il medico semplicemente ignorare le pazienti con disordini alimentari particolarmente difficili da trattare, ma il punto è che, cari medici, noi siamo malate. Noi necessitiamo e meritiamo il vostro aiuto, non importa quanto tentiamo, allo stesso tempo, di combattervi, di opporci a voi. Questa, anche, è parte della malattia. Perciò, non ce ne vogliate. Non la prendete sul personale. Non è per un qualcosa contro di voi. E’ solo un altro sintomo dell’anoressia.
Conversando tramite e-mail con molte di voi che hanno un DCA, una delle cose che mi è balzata all’attenzione recentemente è il fatto che molte persone anoressiche/bulimiche vengono frequentemente etichettate come “non complianti” dai medici e dagli psichiatri che le seguono, e quindi abbandonate a se stesse, e questa rappresenta una delle principali motivazioni all’interruzione del trattamento psicoterapeutico.
Il mio primo pensiero, quando ho letto cose del genere, è stato: ma dove diamine stanno le pazienti con un DCA che siano complianti??...
Ho discusso per la prima volta della compliance durante il corso di Farmacologia, al 4° anno di università. Parte del problema, diceva un professore, è che la maggior parte dei dottori pensa al paziente come a una persona che ha un singolo problema, ovvero quello per cui si reca da lui, e ritiene perciò che i pazienti debbano fare automaticamente quello che gli viene detto di fare, senza valutare il più ampio contesto della persona.
Per fare un esempio banale, io ho un’ipercolesterolemia familiare ereditaria. Dunque, secondo un medico da cui mi ero recata qualche anno fa, io avrei dovuto eliminare alcuni cibi dalla mia alimentazione e fare più esercizio fisico per cercare di tenere per quanto possibile un po’ più basso il mio colesterolo. Ovviamente, dato il mio passato/presente di anoressica, questa non era certo la cosa più giusta da fare. Perciò, no, non sempre i medici hanno ragione. La compliance ad una determinata terapia non può prescindere dal quadro globale del paziente.
Con il professore di Farmacologia non abbiamo ovviamente discusso della questione della compliance relativa al contesto dei disturbi alimentari o, più in generale, delle malattie mentali, ma penso che il discorso della compliance alla terapia sia un qualcosa di molto sentito nel contesto della psichiatria. Non dovrebbero le persone essere libere di scegliere se vogliono o meno essere curate? Scegliere un particolare tipo di percorso terapeutico? Scegliere di non seguire nessun tipo di percorso terapeutico?
Sì. Tecnicamente, assolutamente sì. Il problema (e il contenzioso) sta nella capacità delle persone di prendere decisioni senzienti e di essere capaci di seguirle fino in fondo. Perciò, la risposta alle mie domande, in effetti, è: dipende.
((Quel che intendo dire è: quante di noi, magari al lavoro o a scuola, si sono dette con convinzione che una volta tornate a casa avrebbero fatto quella tal cosa, ma poi non l’hanno effettivamente svolta? Eh. Si chiama “parking lot motivation”: l’essere motivate finché non si arriva a salire in macchina al parcheggio, dopodichè la suddetta motivazione è sommersa dall’ansia o da qualsiasi altra cosa che la fa scomparire.))
Non sono certo la persona più qualificata per poter parlare di malattie mentali, ma per quella che è la mia personale esperienza, posso asserire questo: dire che una paziente è “non compliante” è comune in molte diagnosi del DSM-IV. Oltre ad essere stata clinicamente classificata come “anoressica”, io mi porto dietro anche altri problemi, altre potenziali diagnosi, ma non sono mai stata farmacologicamente trattata per questi, perché ho sempre ritenuto di essere in grado di gestirli autonomamente (a differenza dell’anoressia) quindi in effetti anch’io sono stata considerata una paziente “non compilante” dagli psichiatri che mi hanno fatto queste diagnosi, visto che avevo detto loro che non intendevo assumere psicofarmaci. Dire che una paziente non è compilante, in effetti, assolve il medico dalla responsabilità di trattarla: “Non è che io non la curi, è lei che si rifiuta di farsi curare!”. Quando tutto il resto fallisce, è colpa del paziente. A prova di scemo!
Anche i disturbi alimentari sono oggetto di questo tipo di trattamento. Conosco diverse persone che sono state estromesse dai programmi ospedalieri di riabilitazione alimentare perché non riuscivano ad evitare di nascondere il cibo, perché continuavano a perdere peso, o perché avevano problemi ad attenersi al protocollo terapeutico (cose più che normali all’inizio di un percorso di ricovero). Essere estromesse da una struttura terapeutica suona più come una punizione inflitta ad una bambina disobbediente che non come il modo in cui dovrebbe essere trattata una ragazza che ha un DCA. Certo, avere a che fare con una paziente ancora indecisa che ha appena iniziato a lottare contro il suo DCA e che pertanto tende ancora ad auto-sabotarsi è tutt’altro che semplice, ma credo sarebbe dovere del medico cercare di stare ancor più vicino ad una paziente di questo tipo, piuttosto che lavarsene le mani etichettandola come “non compliante”.
Io credo che determinati comportamenti non siano, nella maggior parte dei casi, risultato di una non-volontà di migliorare della paziente, ma siano dovuti solo al fatto che, soprattutto all’inizio, è più facile che l’anoressia e i suoi comportamenti malati abbiano il sopravvento sulla volontà non ancora perfettamente delineata al miglioramento della paziente. La paziente tenta, tenta eccome, solo che la malattia è ancora più forte di lei, perché da tempo radicata. Voglio dire, nessuno si aspetta che un tumore smetta di crescere solo perché un oncologo ha visitato il paziente affetto, così come non è colpa del paziente se il cancro non risponde alle terapie di prima linea. Nessuno penalizza un paziente oncologico se non reagisce adeguatamente alla terapia, se il suo tumore non regredisce o se ha manifestazioni patologiche associate alla chemio. I dottori non smettono di fare la chemioterapia ad un bambino perché quello piange, o fa una bizza, o si nasconde sotto al letto perché ha paura dell’iniezione. Un comportamento del genere non significa che il bambino non è compliante, ma semplicemente che è un essere umano. La comparsa di un tumore non è colpa del soggetto che lo contrae, e se non riesce a liberarsene non è che lo faccia intenzionalmente. E lo stesso vale per chi ha un DCA.
Ogni medico, ogni psicoterapeuta, nel momento in cui prende in cura una paziente anoressica/bulimica, dovrebbe aspettarsi che questa possa essere (o diventare) non compliante. Dovrebbe aspettarsi un’enorme ansia, il fatto che il cibo possa essere nascosto, il fatto che la paziente faccia attività fisica extra di nascosto, il fatto che la paziente vada a vomitare di nascosto, e così via, in una lista diversa eppure simile per ognuna di noi. Sono tutti sintomi del disturbo alimentare, semplicemente. I DCA sono molto, molto difficili da trattare, questo è il messaggio che vorrei trasmettere a medici e pazienti. So di essere stata piacevole quanto un gatto appeso con le unghie ai coglioni per gli psicoterapeuti che mi hanno avuta in cura. Sono stata arrogante, sfrontata, ho fatto resistenza, ci ho litigato, li ho mandati a fanculo più e più volte, e ho fatto tutto il possibile per rimanere aggrappata all’anoressia. Ma non perché fossi “non compliante”. Bensì perché ero malata. Molto più di adesso. Quando sono stata meglio e quindi sono stata in grado di pensare più lucidamente, mi sono resa conto che già in quei momenti volevo davvero stare meglio, ma dopo anni di malattia l’anoressia era così egosintonica con la mia persona, che non ero in grado di discernerne i sintomi dalla mia personalità.
I medici e gli psichiatri dovrebbero rivedere quest’etichetta di “non compliante”. Molte ragazze che hanno un DCA si aggravano e in alcuni casi addirittura muoiono perché certi medici se ne sono lavati le mani, quando quelle persone avevano disperatamente bisogno del loro aiuto, anche se magari non lo riconoscevano o addirittura lo negavano. È certamente conveniente per il medico semplicemente ignorare le pazienti con disordini alimentari particolarmente difficili da trattare, ma il punto è che, cari medici, noi siamo malate. Noi necessitiamo e meritiamo il vostro aiuto, non importa quanto tentiamo, allo stesso tempo, di combattervi, di opporci a voi. Questa, anche, è parte della malattia. Perciò, non ce ne vogliate. Non la prendete sul personale. Non è per un qualcosa contro di voi. E’ solo un altro sintomo dell’anoressia.
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venerdì 30 marzo 2012
Prevenzione delle ricadute: Riempire la vita
So che può sembrare una frase fatta, ma è la verità: la miglior forma di prevenzione nei confronti delle ricadute nel disturbo alimentare consiste nel riempire la propria vita con un insieme di cose che vadano al di là della mera anoressia. Ciò non significa, ovviamente, che non si possa essere sempre a rischio ricaduta – un rischio impossibile da estirpare – o che non si avranno mai più ricadute – questo sarebbe esageratamente ottimistico – ma significa semplicemente che riempiendo d’altro la nostra vita ci si rende conto che avremmo molto da perdere se ci facessimo ricatturare in pieno dall’anoressia. Se la nostra vita la percepiamo come vuota, priva di senso e di interessi, è chiaro che non troviamo nulla a cui aggrapparci quando vacilliamo, e quindi è più facile e più frequente avere una ricaduta. Ciò che frena la ricaduta, invece, è proprio la consapevolezza che se si tornasse nelle braccia dell’anoressia avremo, sì, qualcosa – fosse anche una cosa sola – da perdere.
Uno dei motivi per cui in questi anni sono stata capace di combattere contro l’anoressia è stato il mio lavoro come istruttrice ed arbitro di karate. Ho trovato un qualcosa che mi piace e mi appassiona. Mi sono resa conto che solo se fossi stata in salute avrei potuto continuare a svolgere il mio ruolo. E stare in salute significava seguire correttamente l’ “equilibrio alimentare”, non restringere, non perdermi nei meandri mentali dell’anoressia. Questo non significa ovviamente che io mi sia liberata dell’anoressia. Tuttora combatto giorno dopo giorno per rimanere in carreggiata sulla strada del ricovero e per accettare il fatto che devo mantenere un certo peso, con cui pure non mi sento a mio agio, per stare bene. Ho avuto numerose ricadute, (sebbene una sola particolarmente grave sotto ogni punto di vista), e sto ancora cercando di tenere a bada i miei demoni. Finché continuo a combattere, mi sto dando una possibilità.
Tuttavia, l’anoressia tende a farla da padrona ogni qualvolta abbiamo una delusione, veniamo ferite, ci sentiamo disorientate. Ci sembra che il futuro sia nero, e allora abbiamo paura ad andare avanti perché temiamo di non essere capaci di sopportare ciò che ci aspetta, ed un tuffo nelle braccia dell’anoressia comincia ad apparire molto più rassicurante di un futuro ignoto. Si perde la motivazione per combattere. Riscivolare nell’anoressia diventa la regola piuttosto che l’eccezione, e le cose si deteriorano progressivamente. La vita diventa dominata completamente, in parte dall’anoressia in parte dal senso di vuoto che l’anoressia stessa ci pare essere l’unica cosa che riesce a colmare.
Quel che bisogna trarre da una ricaduta, perciò, è la voglia di rimettersi in piedi e di ricominciare a combattere: perché veramente non si ha più niente da perdere. L’anoressia ci ha già portato via tutto. E non lo restituisce. L’anoressia è un vicolo cieco: cosa ci porterà, se non a sbattere contro un muro? E poi? Non ci sono possibilità di scelta. Ma è proprio quando non si ha più niente da perdere che si apre una possibilità: quella di combattere. E questa, sì, questa è una possibilità di scelta.
Avere qualcosa a cui teniamo davvero è un importante appiglio per limitare le ricadute. Non le eviterà completamente, ma può contenerle. Perciò, nel momento in cui ci rendiamo conto di essere di nuovo tentate dall’anoressia, o di adottare comportamenti e pensieri tipici del DCA, cerchiamo di concentrarci su quelle cose positive che si trovano nel nostro percorso, e concretizziamo il fatto che una ricaduta c’impedirebbe di dedicarci a pieno a ciò che ci piace fare. Certo, dedicarci a ciò che ci piace non ci libererà magicamente dall’anoressia, ma aiuta a mantenere il DCA confinato. Perché si comincia a desiderare di fare determinate cose (nel mio caso, di fare karate, di allenare altri ragazzi/e, di andare ad arbitrare le gare) molto più di quanto non si desideri l’illusorio comfort dell’anoressia, della restrizione alimentare, dell’attività fisica compulsiva e, infine, della morte.
Percorrere la strada del ricovero e prevenire le ricadute non significa soltanto smettere di restringere l’alimentazione, ma anche e soprattutto, ricominciare a vivere davvero. Questo è l’obiettivo e, allo stesso tempo, la strada per l’obiettivo.
Uno dei motivi per cui in questi anni sono stata capace di combattere contro l’anoressia è stato il mio lavoro come istruttrice ed arbitro di karate. Ho trovato un qualcosa che mi piace e mi appassiona. Mi sono resa conto che solo se fossi stata in salute avrei potuto continuare a svolgere il mio ruolo. E stare in salute significava seguire correttamente l’ “equilibrio alimentare”, non restringere, non perdermi nei meandri mentali dell’anoressia. Questo non significa ovviamente che io mi sia liberata dell’anoressia. Tuttora combatto giorno dopo giorno per rimanere in carreggiata sulla strada del ricovero e per accettare il fatto che devo mantenere un certo peso, con cui pure non mi sento a mio agio, per stare bene. Ho avuto numerose ricadute, (sebbene una sola particolarmente grave sotto ogni punto di vista), e sto ancora cercando di tenere a bada i miei demoni. Finché continuo a combattere, mi sto dando una possibilità.
Tuttavia, l’anoressia tende a farla da padrona ogni qualvolta abbiamo una delusione, veniamo ferite, ci sentiamo disorientate. Ci sembra che il futuro sia nero, e allora abbiamo paura ad andare avanti perché temiamo di non essere capaci di sopportare ciò che ci aspetta, ed un tuffo nelle braccia dell’anoressia comincia ad apparire molto più rassicurante di un futuro ignoto. Si perde la motivazione per combattere. Riscivolare nell’anoressia diventa la regola piuttosto che l’eccezione, e le cose si deteriorano progressivamente. La vita diventa dominata completamente, in parte dall’anoressia in parte dal senso di vuoto che l’anoressia stessa ci pare essere l’unica cosa che riesce a colmare.
Quel che bisogna trarre da una ricaduta, perciò, è la voglia di rimettersi in piedi e di ricominciare a combattere: perché veramente non si ha più niente da perdere. L’anoressia ci ha già portato via tutto. E non lo restituisce. L’anoressia è un vicolo cieco: cosa ci porterà, se non a sbattere contro un muro? E poi? Non ci sono possibilità di scelta. Ma è proprio quando non si ha più niente da perdere che si apre una possibilità: quella di combattere. E questa, sì, questa è una possibilità di scelta.
Avere qualcosa a cui teniamo davvero è un importante appiglio per limitare le ricadute. Non le eviterà completamente, ma può contenerle. Perciò, nel momento in cui ci rendiamo conto di essere di nuovo tentate dall’anoressia, o di adottare comportamenti e pensieri tipici del DCA, cerchiamo di concentrarci su quelle cose positive che si trovano nel nostro percorso, e concretizziamo il fatto che una ricaduta c’impedirebbe di dedicarci a pieno a ciò che ci piace fare. Certo, dedicarci a ciò che ci piace non ci libererà magicamente dall’anoressia, ma aiuta a mantenere il DCA confinato. Perché si comincia a desiderare di fare determinate cose (nel mio caso, di fare karate, di allenare altri ragazzi/e, di andare ad arbitrare le gare) molto più di quanto non si desideri l’illusorio comfort dell’anoressia, della restrizione alimentare, dell’attività fisica compulsiva e, infine, della morte.
Percorrere la strada del ricovero e prevenire le ricadute non significa soltanto smettere di restringere l’alimentazione, ma anche e soprattutto, ricominciare a vivere davvero. Questo è l’obiettivo e, allo stesso tempo, la strada per l’obiettivo.
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venerdì 23 marzo 2012
Prevenzione delle ricadute: Codice Rosso
Anche il miglior piano di prevenzione, talvolta, purtroppo non riesce ad impedire una completa ricaduta. Forse perché certi segnali ci sfuggono, forse perché vogliamo farceli sfuggire, forse perché ne sottovalutiamo l’importanza e pensiamo di potercela fare da sole, fatto sta che talvolta si ricade in pieno nell’anoressia. Il punto qui è identificare concreti, specifici criteri che spronano all’azione evitando di percorrere la china fino in fondo. L’importanza dell’identificazione dei segnali da “Codice Rosso” non sta tanto nel capire quando siamo di nuovo nel pieno dell’anoressia con tutti gli annessi rischi di compromissione fisica. L’importanza sta nel comprendere quando è necessario DARE UN TAGLIO NETTO a qualsiasi cosa stiamo facendo perché ci stiamo infilando nei casini. Significa che la ricaduta ormai c’è stata, e che è necessario (re)agire ADESSO. Non tra una settimana, non tra 3 giorni, non domani: ADESSO.
E’ così anche al Pronto Soccorso: su un paziente “Codice Rosso” bisogna intervenire immediatamente sospendendo ogni qualsiasi altra attività, perché aspettare anche solo 5 minuti potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte.
Non è immediato individuare segnali da “Codice Rosso”, specie quando siamo proprio nel pieno dell’anoressia. Si tende a pensare che la situazione sia critica solo quando si scende sotto i XX chili di peso. In realtà, il peso non è un indicatore molto affidabile in tal senso, poiché il DCA è una questione mentale, e si può essere in piena ricaduta pur conservando il normopeso. Quando si ricade, a prescindere dal peso, si ha bisogno di supporto, 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Bisogna rimboccarci le maniche e darci da fare nell’immediato.
Fingere d’ignorare i segnali di ricaduta non rende più lieve la ricaduta stessa. E, più importante, non evita la ricaduta. Basta sederci di fronte a una tavolta imbandita per capire che, anche dopo anni ed anni di ricovero, l’anoressia è un qualcosa che non ci abbandonerà mai completamente e – per citare “Malocchio” Moody di Harry Potter – il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza. Perciò, è molto importante non nasconderci dietro a un dito ed ammettere la ricaduta in maniera tale da poter intervenire efficacemente e tempestivamente. Parlare di quello che non va, affrontarlo, agire in maniera adeguata. Significa prendere le distanze dalle bugie che l’anoressia racconta (per esempio che non stiamo poi così male, che non siamo poi così gravi, che abbiamo comunque avuto un peso minore e abbiamo ristretto di più l’aliemntazione, che non abbiamo fame o mangeremo qualcosa di più domani, etc…). Significa essere aperte all’ascolto del parere altrui, perché quando siamo ricadute nel mezzo dell’anoressia non siamo in grado di giudicarci con obiettività.
Questo detto, alcuni esempi di segnali da “Codice Rosso”:
-Restrizione alimentare marcata ed evitamento sistematico di alcuni pasi (spesso merenda e spuntino)
- Significativa perdita di peso
- Rifiuto totale di mangiare in presenza di altre persone
- Nascondere il cibo
- Fare attività fisica eccessiva di nascosto
- Continuare a fare attività fisica anche quando si sente che non ce la si fa più
- Mentire agli altri su quello che facciamo e mangiamo
- Estrema riduzione delle ore di sonno/Insonnia (dipende in parte dal DCA, in parte da altro, ma è comunque un chiaro segnale di ricaduta)
- Iperattività estrema
- Amenorrea conclamata
- Checking sistematico associato a forte ansia
- Vomito autoindotto in maniera sistematica (solo per chi presenta questo tipo di sintomo, ovviamente)
- Attuazione di svariati tipi di condotte di compensazione a seguito dei pasti
- Evitamento di certi cibi ritenuti “ansiogeni”
- Dismorfofobia marcata (solo per chi, naturalmente, presenta questo sintomo)
- Sensazione di freddo (anche quando tutti gli altri stanno bene o hanno caldo)
- Ansia mitigata dalla restrizione
- Ossessività/Impossibilità di guardarsi allo specchio
- Affaticabilità, astenia (non dipendente al 100% dal DCA, ma strettissimamente correlato)
- Mentalità “tanto sono incapace di percorrere la strada del ricovero, quindi chi se ne frega”
- Etc…
(Se vi va, potete aggiungere ai miei esempi generali, i vostri segnali di “Codice Rosso” nei commenti!)
Personalmente, come credo molte di voi stiano facendo, io seguo un “equilibrio alimentare” che mi ha dato la mia dietista che mi aiuta a mantenere più o meno il mio peso attuale, e sto lavorando su me stessa per cercare di acquisire una maggiore flessibilità in maniera tale da poter, un giorno, utilizzare l’ “equilibrio alimentare” non più come una regola, ma piuttosto come una guida. Ora, la stretta aderenza a un “equilibrio alimentare” può essere un segno sia buono che cattivo. Perché cattivo? Ovviamente perché siginifica che l’atteggiamento verso il cibo è innaturale e condizionato. Ma è anche un buon segno: assicura un margine di sicurezza nei confronti nelle ricadute. Io sono consapevole che, se seguo il mio “equilibrio alimentare” con scrupolosa precisione, non perderò né prenderò peso. Pesare gli alimenti costringe infatti a porre più attenzione a quello che mangiamo, a smussare gli angoli, a prenderci cura di noi stesse… a nutrirci.
Cosa fare coi segnali di “Codice Rosso” credo vari in funzione del tipo, della quantità e dell’entità dei segni che si presentano. La loro presenza può siginificare una telefonata immediata allo psicoterapeuta o al dietista per avere supporto psichico ed alimentare, ma anche il chiedere a un’amica di fare insieme a noi colazione/pranzo/cena/spuntino/merenda per aiutarci coi pasti, o il chiedere a un genitore di prepararci tutti i pasti affinché noi non possiamo fare la cresta alle dosi, fino a che non ci saremo riprese abbastanza da poter tornare ad occuparci da sole di noi stesse.
E’ così anche al Pronto Soccorso: su un paziente “Codice Rosso” bisogna intervenire immediatamente sospendendo ogni qualsiasi altra attività, perché aspettare anche solo 5 minuti potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte.
Non è immediato individuare segnali da “Codice Rosso”, specie quando siamo proprio nel pieno dell’anoressia. Si tende a pensare che la situazione sia critica solo quando si scende sotto i XX chili di peso. In realtà, il peso non è un indicatore molto affidabile in tal senso, poiché il DCA è una questione mentale, e si può essere in piena ricaduta pur conservando il normopeso. Quando si ricade, a prescindere dal peso, si ha bisogno di supporto, 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Bisogna rimboccarci le maniche e darci da fare nell’immediato.
Fingere d’ignorare i segnali di ricaduta non rende più lieve la ricaduta stessa. E, più importante, non evita la ricaduta. Basta sederci di fronte a una tavolta imbandita per capire che, anche dopo anni ed anni di ricovero, l’anoressia è un qualcosa che non ci abbandonerà mai completamente e – per citare “Malocchio” Moody di Harry Potter – il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza. Perciò, è molto importante non nasconderci dietro a un dito ed ammettere la ricaduta in maniera tale da poter intervenire efficacemente e tempestivamente. Parlare di quello che non va, affrontarlo, agire in maniera adeguata. Significa prendere le distanze dalle bugie che l’anoressia racconta (per esempio che non stiamo poi così male, che non siamo poi così gravi, che abbiamo comunque avuto un peso minore e abbiamo ristretto di più l’aliemntazione, che non abbiamo fame o mangeremo qualcosa di più domani, etc…). Significa essere aperte all’ascolto del parere altrui, perché quando siamo ricadute nel mezzo dell’anoressia non siamo in grado di giudicarci con obiettività.
Questo detto, alcuni esempi di segnali da “Codice Rosso”:
-Restrizione alimentare marcata ed evitamento sistematico di alcuni pasi (spesso merenda e spuntino)
- Significativa perdita di peso
- Rifiuto totale di mangiare in presenza di altre persone
- Nascondere il cibo
- Fare attività fisica eccessiva di nascosto
- Continuare a fare attività fisica anche quando si sente che non ce la si fa più
- Mentire agli altri su quello che facciamo e mangiamo
- Estrema riduzione delle ore di sonno/Insonnia (dipende in parte dal DCA, in parte da altro, ma è comunque un chiaro segnale di ricaduta)
- Iperattività estrema
- Amenorrea conclamata
- Checking sistematico associato a forte ansia
- Vomito autoindotto in maniera sistematica (solo per chi presenta questo tipo di sintomo, ovviamente)
- Attuazione di svariati tipi di condotte di compensazione a seguito dei pasti
- Evitamento di certi cibi ritenuti “ansiogeni”
- Dismorfofobia marcata (solo per chi, naturalmente, presenta questo sintomo)
- Sensazione di freddo (anche quando tutti gli altri stanno bene o hanno caldo)
- Ansia mitigata dalla restrizione
- Ossessività/Impossibilità di guardarsi allo specchio
- Affaticabilità, astenia (non dipendente al 100% dal DCA, ma strettissimamente correlato)
- Mentalità “tanto sono incapace di percorrere la strada del ricovero, quindi chi se ne frega”
- Etc…
(Se vi va, potete aggiungere ai miei esempi generali, i vostri segnali di “Codice Rosso” nei commenti!)
Personalmente, come credo molte di voi stiano facendo, io seguo un “equilibrio alimentare” che mi ha dato la mia dietista che mi aiuta a mantenere più o meno il mio peso attuale, e sto lavorando su me stessa per cercare di acquisire una maggiore flessibilità in maniera tale da poter, un giorno, utilizzare l’ “equilibrio alimentare” non più come una regola, ma piuttosto come una guida. Ora, la stretta aderenza a un “equilibrio alimentare” può essere un segno sia buono che cattivo. Perché cattivo? Ovviamente perché siginifica che l’atteggiamento verso il cibo è innaturale e condizionato. Ma è anche un buon segno: assicura un margine di sicurezza nei confronti nelle ricadute. Io sono consapevole che, se seguo il mio “equilibrio alimentare” con scrupolosa precisione, non perderò né prenderò peso. Pesare gli alimenti costringe infatti a porre più attenzione a quello che mangiamo, a smussare gli angoli, a prenderci cura di noi stesse… a nutrirci.
Cosa fare coi segnali di “Codice Rosso” credo vari in funzione del tipo, della quantità e dell’entità dei segni che si presentano. La loro presenza può siginificare una telefonata immediata allo psicoterapeuta o al dietista per avere supporto psichico ed alimentare, ma anche il chiedere a un’amica di fare insieme a noi colazione/pranzo/cena/spuntino/merenda per aiutarci coi pasti, o il chiedere a un genitore di prepararci tutti i pasti affinché noi non possiamo fare la cresta alle dosi, fino a che non ci saremo riprese abbastanza da poter tornare ad occuparci da sole di noi stesse.
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venerdì 16 marzo 2012
Prevenzione delle ricadute: Codice Giallo
Oltre ai codici identificativi del Pronto Soccorso, anche le luci del semaforo presentano i medesimi 3 colori: rosso, giallo e verde. Tecnicamente, quando si sta guidando e si vede che la luce del semaforo passa da verde a gialla, bisognerebbe rallentare per poi fermarsi. Sì, esatto. Non so voi, ma personalmente, quando sono in auto e vedo che si accende la luce gialla del semaforo, il mio impulso istintivo è quello di pigiare sull’acceleratore per cercare di passare prima che la luce diventi rossa. (Don’t try it at home, gals!)
Nella maggior parte dei casi, questo è il medesimo comportamento che si tiene anche nei confronti dell’anoressia. Si vedono i primi allarmanti segni della ricaduta, e si preme l’acceleratore del DCA rituffandoci dritte dritte nell’anoressia. Parte di questo comportamento è legato alla neurofisiologia dei disturbi alimentari – il famoso circolo vizioso – ma in parte si tende davvero a pensare che quello che facciamo non oltrepasserà certi limiti, e che saremo in grado di riprenderci non appena lo vorremo.
Purtroppo, non è così che funziona. Quando si fa un pensiero del genere, siamo di nuovo sulla strada dell’anoressia. Se si oltrepassa la linea dello stop quando la luce del semaforo passa da gialla a rossa, si rischia l’incidente. Che è esattamente quello che accade con un DCA. Non ci si ferma.
In Pronto Soccorso, un paziente “Codice Giallo” presuppone un intervento piuttosto rapido. È quindi necessario identificare con prontezza segni e sintomi, in maniera tale da poter agire nella giusta maniera, per evitare che il caso si trasformi in un “Codice Rosso”. Lo stesso vale per l’anoressia. Quando si notano segnali da “Codice Giallo”, bisogna intervenire subito per evitare le sirene dell’ambulanza e il ricovero in terapia intensiva. Questo perché, mentre la remissione dell’anoressia è incredibilmente lenta e richiede un sacco di forza di volontà e di pazienza; la velocità con cui questa torna ad impossessarsi di noi in una ricaduta è spaventosamente rapida. Erroneamente, io in certi momenti ho pensato di sapere un sacco di cose sulla mia anoressia e sul mio rapporto con essa perciò, mi dicevo, non è necessario che mi preoccupi troppo, no?!
Sottovalutare il nemico è una delle maggiori armi che l’anoressia va ad usare contro di noi.
I segnali da “Codice Giallo” presentano delle differenze rispetto a quelli da “Codice Azzurro”, perchè sono più specificatamente legati al DCA in sé. Ovviamente non consistono solo in un’acuizzazione dei pensieri e dei comportamenti connessi all’anoressia, ma molto spesso si tratta comunque di fatti che risultano essere strettamente correlati al disturbo alimentare. In parecchi casi, segnali premonitori sono l’aumento dell’ansia, il calo dell’autostima, l’irrequietezza fisica e mentale, che sono causa e conseguenza della ricaduta in sè. In tal senso, “Codice Giallo” e “Codice Azzurro” sono molto vicini tra loro.
Dunque, i segnali di “Codice Giallo” stanno a significare che bisogna decelerare e guardare a lungo e con attenzione ciò che abbiamo intorno prima di sfrecciare in avanti. Sono i segnali di ritorno dell’anoressia. Se mi perdonate l’ennesima analogia automobilistica, possono essere paragonati alla lucetta che avverte che siamo entrati in riserva di benzina. L’auto corre ancora, naturalmente, e si può anche non notare niente di diverso dal solito, ma la lucetta è un indicatore del fatto che le cose in realtà non vanno proprio così bene, e che se non facciamo rifornimento al prossimo distributore di benzina rimarremo a piedi.
Qualche esempio di segnale da “Codice Giallo”:
- Aumento delle paranoie inerenti il cibo (per esempio, il non fidarsi più dei genitori che ci preparano il pranzo, cominciando a chiederci se davvero hanno rispettato le dosi dell’ “equilibrio alimentare”, o se invece hanno aggiunto qualcosa)
- Cominciare a pensare a quali sono i nutrienti che compongono i vari alimenti
- Difficoltà pressanti a mangiare in presenza di qualsiasi altra persona
- Isolamento, riduzione dei contatti anche con gli amici più cari
- Autoinduzione del vomito (solo per chi presenta tale sintomo, ovviamente)
- Aumento marcato dell’ansia, subito seguito da una riduzione netta della stessa a seguito della messa in atto di comportamenti alimentari restrittivi
- Restringere l’alimentazione in maniera piuttosto marcata (magari saltando anche lo spuntino o la merenda)
- Rigidità ferrea in merito all’esercizio fisico che aumenta sempre più
- Accentuazione marcata della dismorfdofobia (solo in chi, ovviamente, presenta questo sintomo)
- Rarefazione o scomparsa del ciclo
- Aumento delle paranoie inerenti il proprio aspetto fisico
- Abituale ricorso al checking
- Aumento dell’irritabilità, del nervosismo
- Dubbiosità spiccate sulla nostra capacità di portare avanti il percorso di ricovero, nonché sulla necessità di farlo (è ciò che precede la fase: “Ricovero del cazzo!”…)
- Episodi di autolesionismo sempre più frequenti
- Voglia di arrendersi e di mollare per riscivolare nell’anoressia
- Comparsa della sensazione di riuscire a controllare tutto, e del pensiero che potremo fermarci non appena lo vorremo (ma non lo vorremo mai, è questo il problema…)
- Etc… (continuate voi la lista lasciando un commento!)
Quel che è difficile nell’identificare i segnali di “Codice Giallo”, è che l’anoressia ha spesso una natura di “tutto o nulla”, un’intrinseca dicotomia. I primi segni di ricaduta sfrecciano da 0 a 100 in pochissimo tempo, e non c’è neanche un pit-stop nel mezzo. Si passa dai segnali di “Codice Verde” a quelli di “Codice Rosso” anche solo in una decina di giorni. Perciò identificare i segnali di “Codice Giallo” è tanto complicato quanto cruciale. La seconda difficoltà cui si viene poste a fronte, nel momento in cui si identificano, è quella di passare all’azione. Spesso si tende a minimizzare di fronte a noi stesse la serietà dei segnali di “Codice Giallo”, si pensa che se ne andranno spontaneamente o che, comunque, possiamo farcela da sole a venirne fuori rapidamente. Bugie. Tutte bugie. È dura e difficile. È tremendamente difficile, questa è la verità. E poiché tutto si gioca nella nostra mente, NON siamo propriamente capaci di venirne fuori da sole, perché in una battaglia contro noi stesse se vinciamo perdiamo. Dobbiamo allora armarci di una buona dose di umiltà e chiedere aiuto per non sprofondare in quel principio di ricaduta, perché chiedere aiuto non è segno di debolezza, viceversa, è segno di grande intelligenza, maturità e responsabilità.
Nella maggior parte dei casi, questo è il medesimo comportamento che si tiene anche nei confronti dell’anoressia. Si vedono i primi allarmanti segni della ricaduta, e si preme l’acceleratore del DCA rituffandoci dritte dritte nell’anoressia. Parte di questo comportamento è legato alla neurofisiologia dei disturbi alimentari – il famoso circolo vizioso – ma in parte si tende davvero a pensare che quello che facciamo non oltrepasserà certi limiti, e che saremo in grado di riprenderci non appena lo vorremo.
Purtroppo, non è così che funziona. Quando si fa un pensiero del genere, siamo di nuovo sulla strada dell’anoressia. Se si oltrepassa la linea dello stop quando la luce del semaforo passa da gialla a rossa, si rischia l’incidente. Che è esattamente quello che accade con un DCA. Non ci si ferma.
In Pronto Soccorso, un paziente “Codice Giallo” presuppone un intervento piuttosto rapido. È quindi necessario identificare con prontezza segni e sintomi, in maniera tale da poter agire nella giusta maniera, per evitare che il caso si trasformi in un “Codice Rosso”. Lo stesso vale per l’anoressia. Quando si notano segnali da “Codice Giallo”, bisogna intervenire subito per evitare le sirene dell’ambulanza e il ricovero in terapia intensiva. Questo perché, mentre la remissione dell’anoressia è incredibilmente lenta e richiede un sacco di forza di volontà e di pazienza; la velocità con cui questa torna ad impossessarsi di noi in una ricaduta è spaventosamente rapida. Erroneamente, io in certi momenti ho pensato di sapere un sacco di cose sulla mia anoressia e sul mio rapporto con essa perciò, mi dicevo, non è necessario che mi preoccupi troppo, no?!
Sottovalutare il nemico è una delle maggiori armi che l’anoressia va ad usare contro di noi.
I segnali da “Codice Giallo” presentano delle differenze rispetto a quelli da “Codice Azzurro”, perchè sono più specificatamente legati al DCA in sé. Ovviamente non consistono solo in un’acuizzazione dei pensieri e dei comportamenti connessi all’anoressia, ma molto spesso si tratta comunque di fatti che risultano essere strettamente correlati al disturbo alimentare. In parecchi casi, segnali premonitori sono l’aumento dell’ansia, il calo dell’autostima, l’irrequietezza fisica e mentale, che sono causa e conseguenza della ricaduta in sè. In tal senso, “Codice Giallo” e “Codice Azzurro” sono molto vicini tra loro.
Dunque, i segnali di “Codice Giallo” stanno a significare che bisogna decelerare e guardare a lungo e con attenzione ciò che abbiamo intorno prima di sfrecciare in avanti. Sono i segnali di ritorno dell’anoressia. Se mi perdonate l’ennesima analogia automobilistica, possono essere paragonati alla lucetta che avverte che siamo entrati in riserva di benzina. L’auto corre ancora, naturalmente, e si può anche non notare niente di diverso dal solito, ma la lucetta è un indicatore del fatto che le cose in realtà non vanno proprio così bene, e che se non facciamo rifornimento al prossimo distributore di benzina rimarremo a piedi.
Qualche esempio di segnale da “Codice Giallo”:
- Aumento delle paranoie inerenti il cibo (per esempio, il non fidarsi più dei genitori che ci preparano il pranzo, cominciando a chiederci se davvero hanno rispettato le dosi dell’ “equilibrio alimentare”, o se invece hanno aggiunto qualcosa)
- Cominciare a pensare a quali sono i nutrienti che compongono i vari alimenti
- Difficoltà pressanti a mangiare in presenza di qualsiasi altra persona
- Isolamento, riduzione dei contatti anche con gli amici più cari
- Autoinduzione del vomito (solo per chi presenta tale sintomo, ovviamente)
- Aumento marcato dell’ansia, subito seguito da una riduzione netta della stessa a seguito della messa in atto di comportamenti alimentari restrittivi
- Restringere l’alimentazione in maniera piuttosto marcata (magari saltando anche lo spuntino o la merenda)
- Rigidità ferrea in merito all’esercizio fisico che aumenta sempre più
- Accentuazione marcata della dismorfdofobia (solo in chi, ovviamente, presenta questo sintomo)
- Rarefazione o scomparsa del ciclo
- Aumento delle paranoie inerenti il proprio aspetto fisico
- Abituale ricorso al checking
- Aumento dell’irritabilità, del nervosismo
- Dubbiosità spiccate sulla nostra capacità di portare avanti il percorso di ricovero, nonché sulla necessità di farlo (è ciò che precede la fase: “Ricovero del cazzo!”…)
- Episodi di autolesionismo sempre più frequenti
- Voglia di arrendersi e di mollare per riscivolare nell’anoressia
- Comparsa della sensazione di riuscire a controllare tutto, e del pensiero che potremo fermarci non appena lo vorremo (ma non lo vorremo mai, è questo il problema…)
- Etc… (continuate voi la lista lasciando un commento!)
Quel che è difficile nell’identificare i segnali di “Codice Giallo”, è che l’anoressia ha spesso una natura di “tutto o nulla”, un’intrinseca dicotomia. I primi segni di ricaduta sfrecciano da 0 a 100 in pochissimo tempo, e non c’è neanche un pit-stop nel mezzo. Si passa dai segnali di “Codice Verde” a quelli di “Codice Rosso” anche solo in una decina di giorni. Perciò identificare i segnali di “Codice Giallo” è tanto complicato quanto cruciale. La seconda difficoltà cui si viene poste a fronte, nel momento in cui si identificano, è quella di passare all’azione. Spesso si tende a minimizzare di fronte a noi stesse la serietà dei segnali di “Codice Giallo”, si pensa che se ne andranno spontaneamente o che, comunque, possiamo farcela da sole a venirne fuori rapidamente. Bugie. Tutte bugie. È dura e difficile. È tremendamente difficile, questa è la verità. E poiché tutto si gioca nella nostra mente, NON siamo propriamente capaci di venirne fuori da sole, perché in una battaglia contro noi stesse se vinciamo perdiamo. Dobbiamo allora armarci di una buona dose di umiltà e chiedere aiuto per non sprofondare in quel principio di ricaduta, perché chiedere aiuto non è segno di debolezza, viceversa, è segno di grande intelligenza, maturità e responsabilità.
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venerdì 9 marzo 2012
Prevenzione delle ricadute: Codice... Azzurro?!!
Dopo aver scritto il post precedente, avevo intenzione di procedere parlando delle situazioni da “Codice Giallo” e da “Codice Rosso” in merito alle ricadute nell’anoressia. Tuttavia ieri ho pensato al fatto che, in Inglese, il termine “ricaduta” viene tradotto come “relapse”. Ed esiste un’altra parola, letteralmente intraducibile, che è “prelapse”. E’, come dire, una sorta di “pre-ricaduta”. Ho detto che il “Codice Verde” è sinonimo di “va tutto bene”, e che il “Codice Giallo” sta per “ci sono allarmanti segni di imminente ricaduta”. Ecco, io penso che da qualche parte tra i segnali da “Codice Verde” e quelli da “Codice Giallo”, ci stanno i segnali di “prelapse”. Un po’ oltre il verde, ma un po’ prima del giallo, una sorta di fusione dei due… un azzurro? Insomma, se i segnali da “Codice Giallo” precedono immediatamente una ricaduta, quelli da “Codice Azzurro” sono i segnali che precedono immediatamente i segnali che precedono la ricaduta.
Okay, mi rendo conto che non sono stata esattamente limpida nella definizione dei termini quindi, giusto per avere tutte lo stesso concetto nel momento in cui uso determinate parole, ecco alcune (brevissime) definizioni:
Caduta: un’unica ed isolata deroga al percorso di ricovero, ovvero un unico riutilizzo di un comportamento tipico del DCA (come per esempio restringere solo una volta un pasto, eccedere solo un giorno nell’attività fisica, vomitare una sola volta, etc…)
Ricaduta: riutilizzo prolungato e persistente dei comportamenti tipici del DCA, che riportano in pieno auge il DCA stesso.
“Prelapse”: L’indicazione che si è sulla strada della caduta, o che si è ad alto rischio di caduta. Non è necessariamente preludio di una ricaduta, sebbene possa esserlo.
Molti segni di “Codice Azzurro” – di “prelapse” – sono strettamente connessi all'anoressia stessa (riduzione dell’alimentazione, riattuazione del checking, etc…), ma altri non lo sono affatto. Sebbene un DCA sia connesso al cibo, molto spesso la nostra vulnerabilità all’anoressia e il nostro ritorno all’anoressia hanno poco e nulla a che vedere col cibo stesso. Per questo bisogna stare molto attente a questi segni: per non farci cogliere impreparate da un’eventuale ricaduta, battendola sul tempo, ed iniziando a lavorare su noi stesse prima che il meccanismo dell’anoressia si sia rimesso in moto.
Qualche esempio di segnali da “Codice Azzurro”, dunque:
- Lieve preoccupazione in merito a quel che si deve mangiare
- Evitamento di situazioni sociali che coinvolgono i pasti
- Sensazione di dover attuare comportamenti compensatori a seguito di un pasto
- Aumento della rigidità nel controllo di varie attività e di vari ambiti della vita
- Ricomparsa/Aumento della dismorfofobia (solo in chi, ovviamente, presenta questo sintomo)
- Lieve restrizione alimentare
- Aumento della preoccupazione in merito all’immagine corporea
- Inizio di una “visione pessimistica” del futuro
- Aumento dell’ansia
- Ritorno di episodi di autolesionismo
- Difficoltà nel sonno
- Sensi di colpa e calo dell’autostima
- Etc…
Dunque, cosa possiamo fare quando si presentano i segnali di “Codice Azzurro”? Per lo più, le medesime cose che ho scritto nel post dedicato all’identificazione di punti di forza & difficoltà.
Qualche altra cosa può essere rappresentata, per esempio, da:
- Respirare profondamente e cercare di discernere ciò che è reale dalle bugie raccontate dall’anoressia
- Cercare di placare l’ansia e lo stress emotivo
- Riposarci se sentiamo che è ciò di cui si ha bisogno, senza tirare all’estremo
- Uscire con gli amici anche se ci sembra che questo vada contro ciò che ci sentiremo di fare
- Leggere e ripetersi frasi positive
- Lavorare su progetti creativi (disegnare, scrivere, fare un video, etc…)
- Fare un’azione di opposizione (per esempio, guardare un film comico quando ci sentiamo giù di morale)
- Rispettare l’ “equilibrio alimentare” dato dal dietista/nutrizionista
- Essere più indulgenti con noi stesse
- Parlare del problema in questione in psicoterapia (ma anche con amici e familiari supportivi)
- Scavare dentro di noi per risalire alla vera natura del problema che determina l’impulso a riadattare i comportamenti tipici dell’anoressia
- Etc…
Se vi va, scrivete nei commenti quali sono i vostri segnali da “Codice Azzurro”!
Okay, mi rendo conto che non sono stata esattamente limpida nella definizione dei termini quindi, giusto per avere tutte lo stesso concetto nel momento in cui uso determinate parole, ecco alcune (brevissime) definizioni:
Caduta: un’unica ed isolata deroga al percorso di ricovero, ovvero un unico riutilizzo di un comportamento tipico del DCA (come per esempio restringere solo una volta un pasto, eccedere solo un giorno nell’attività fisica, vomitare una sola volta, etc…)
Ricaduta: riutilizzo prolungato e persistente dei comportamenti tipici del DCA, che riportano in pieno auge il DCA stesso.
“Prelapse”: L’indicazione che si è sulla strada della caduta, o che si è ad alto rischio di caduta. Non è necessariamente preludio di una ricaduta, sebbene possa esserlo.
Molti segni di “Codice Azzurro” – di “prelapse” – sono strettamente connessi all'anoressia stessa (riduzione dell’alimentazione, riattuazione del checking, etc…), ma altri non lo sono affatto. Sebbene un DCA sia connesso al cibo, molto spesso la nostra vulnerabilità all’anoressia e il nostro ritorno all’anoressia hanno poco e nulla a che vedere col cibo stesso. Per questo bisogna stare molto attente a questi segni: per non farci cogliere impreparate da un’eventuale ricaduta, battendola sul tempo, ed iniziando a lavorare su noi stesse prima che il meccanismo dell’anoressia si sia rimesso in moto.
Qualche esempio di segnali da “Codice Azzurro”, dunque:
- Lieve preoccupazione in merito a quel che si deve mangiare
- Evitamento di situazioni sociali che coinvolgono i pasti
- Sensazione di dover attuare comportamenti compensatori a seguito di un pasto
- Aumento della rigidità nel controllo di varie attività e di vari ambiti della vita
- Ricomparsa/Aumento della dismorfofobia (solo in chi, ovviamente, presenta questo sintomo)
- Lieve restrizione alimentare
- Aumento della preoccupazione in merito all’immagine corporea
- Inizio di una “visione pessimistica” del futuro
- Aumento dell’ansia
- Ritorno di episodi di autolesionismo
- Difficoltà nel sonno
- Sensi di colpa e calo dell’autostima
- Etc…
Dunque, cosa possiamo fare quando si presentano i segnali di “Codice Azzurro”? Per lo più, le medesime cose che ho scritto nel post dedicato all’identificazione di punti di forza & difficoltà.
Qualche altra cosa può essere rappresentata, per esempio, da:
- Respirare profondamente e cercare di discernere ciò che è reale dalle bugie raccontate dall’anoressia
- Cercare di placare l’ansia e lo stress emotivo
- Riposarci se sentiamo che è ciò di cui si ha bisogno, senza tirare all’estremo
- Uscire con gli amici anche se ci sembra che questo vada contro ciò che ci sentiremo di fare
- Leggere e ripetersi frasi positive
- Lavorare su progetti creativi (disegnare, scrivere, fare un video, etc…)
- Fare un’azione di opposizione (per esempio, guardare un film comico quando ci sentiamo giù di morale)
- Rispettare l’ “equilibrio alimentare” dato dal dietista/nutrizionista
- Essere più indulgenti con noi stesse
- Parlare del problema in questione in psicoterapia (ma anche con amici e familiari supportivi)
- Scavare dentro di noi per risalire alla vera natura del problema che determina l’impulso a riadattare i comportamenti tipici dell’anoressia
- Etc…
Se vi va, scrivete nei commenti quali sono i vostri segnali da “Codice Azzurro”!
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venerdì 2 marzo 2012
Prevenzione delle ricadute: Codice Verde
Facendo tirocinio al Pronto Soccorso, ho imparato che il triage assegna a tutti i pazienti che si presentano un codice colore differente in funzione della gravità della loro patologia, e quindi dell’urgenza con cui devono essere visitati dai medici. Dato che mi sembra funzionale, ho deciso di adottare questa stessa partizione per i segnali di ricaduta nell’anoressia. “Codice Verde” significa che i segnali indicano che si percorre la strada del ricovero. “Codice Giallo” significa che i segnali indicano che le cose si fanno più dure e il percorso s’incrina, con il che si tende ad adottare comportamenti che possono coadiuvare la ricaduta nell’anoressia. “Codice Rosso” significa che i segnali indicano che si è in piena ricaduta. È proprio di questo che ho intenzione di parlare in questo post e nei prossimi: individuare quali situazioni corrispondo ai codici di quale colore, e capire qual è la soglia, il limite in cui cominciamo a mentire a noi stesse per poterci giustificare la riadozione dei comportamenti tipici dell’anoressia.
Quindi, cominciamo dal “Codice Verde”.
Trovare le condizioni che simboleggiano un “Codice Verde”, ovvero tutti quei segnali che ci dicono che stiamo percorrendo correttamente la strada del ricovero – per quanto la cosa possa sembrare paradossale – è il compito più arduo. Perché? Perché siamo talmente abituate all’anoressia che non ci si rende ben conto di cosa poter fare per il nostro ricovero. Inoltre siamo talmente abituate a barcamenarci tra le difficoltà, siamo talmente abituate alla routine tipica dell’anoressia, che non si capisce più come di facesse, prima del suo esordio, a “vivere normalmente”. Non si capisce più cosa significhi vivere una vita “normale”.
Perciò, come individuare le situazioni da “Codice Verde”? Come si può vedere che stiamo effettivamente percorrendo la strada del ricovero? Innanzitutto, credo sia necessario ripensare al periodo in cui l’anoressia non era ancora entrata nella nostra vita, a quello che facevamo, a quelle che erano le nostre speranze, i nostri desideri. Credo che, come me, molte delle persone che stanno leggendo questo post abbiano difficoltà a ricordare come fosse la propria vita prima dell’anoressia, o hanno ricordi negativi della propria vita prima del DCA. In tal caso, provate a pensare a come adesso vorreste che la vostra vita fosse, senza l’anoressia, a tutto quello che potreste fare senza avere ansia. Ecco, quello che avete in mente è ciò che rientra nella categoria “Codice Verde”.
Qualche esempio di “Codice Verde”…
- Flessibilità nei confronti dei pasti (nelle quantità, nelle porzioni, nella varietà, etc…)
- Riduzione dell’ansia a fronte di una cena in pizzeria con gli amici
- Mantenimento di contatti regolari con amici e familiari
- Capacità di controllare lo svolgimento di attività fisica in modo da non esagerare
- Riduzione dei pensieri ossessivi
- Riduzione dell’ansia nell’acquisto dei vestiti
- Capacità di mangiare qualcosa semplicemente perché se ne ha voglia
- Cessazione del checking
- Cessazione del bisogno di pesarsi e di conoscere il proprio peso/Cessazione dell’evitamento a tutti i costi della bilancia
- Aumento del tempo dedicato alle attività di svago e agli hobby
- Riduzione della necessità di mettere in atto comportamenti autolesivi o tipicamente anoressici
- Riuscire a seguire correttamente l’ “equilibrio alimentare”
- Non essere più “terrorizzate” di fronte a certi cibi o a certe situazioni
- Etc…
Vi accorgerete che ci sono molti segnali di “Codice Verde” che passano sotto silenzio, ma che si possono per lo più ascrivere all’assenza di tutti quei pensieri e comportamenti che sono tipici dell’anoressia. I segni e sintomi tipici del DCA tendono infatti a regredire progressivamente man mano che si fanno passi avanti sulla strada del ricovero, questo spesso avviene con una lentezza tale che sul momento non ci se ne rende conto, ma non scoraggiatevi: alla lunga i progressi saranno evidenti!
Se vi va, lasciate un commento su quali sono i vostri segnali di “Codice Verde”!
Quindi, cominciamo dal “Codice Verde”.
Trovare le condizioni che simboleggiano un “Codice Verde”, ovvero tutti quei segnali che ci dicono che stiamo percorrendo correttamente la strada del ricovero – per quanto la cosa possa sembrare paradossale – è il compito più arduo. Perché? Perché siamo talmente abituate all’anoressia che non ci si rende ben conto di cosa poter fare per il nostro ricovero. Inoltre siamo talmente abituate a barcamenarci tra le difficoltà, siamo talmente abituate alla routine tipica dell’anoressia, che non si capisce più come di facesse, prima del suo esordio, a “vivere normalmente”. Non si capisce più cosa significhi vivere una vita “normale”.
Perciò, come individuare le situazioni da “Codice Verde”? Come si può vedere che stiamo effettivamente percorrendo la strada del ricovero? Innanzitutto, credo sia necessario ripensare al periodo in cui l’anoressia non era ancora entrata nella nostra vita, a quello che facevamo, a quelle che erano le nostre speranze, i nostri desideri. Credo che, come me, molte delle persone che stanno leggendo questo post abbiano difficoltà a ricordare come fosse la propria vita prima dell’anoressia, o hanno ricordi negativi della propria vita prima del DCA. In tal caso, provate a pensare a come adesso vorreste che la vostra vita fosse, senza l’anoressia, a tutto quello che potreste fare senza avere ansia. Ecco, quello che avete in mente è ciò che rientra nella categoria “Codice Verde”.
Qualche esempio di “Codice Verde”…
- Flessibilità nei confronti dei pasti (nelle quantità, nelle porzioni, nella varietà, etc…)
- Riduzione dell’ansia a fronte di una cena in pizzeria con gli amici
- Mantenimento di contatti regolari con amici e familiari
- Capacità di controllare lo svolgimento di attività fisica in modo da non esagerare
- Riduzione dei pensieri ossessivi
- Riduzione dell’ansia nell’acquisto dei vestiti
- Capacità di mangiare qualcosa semplicemente perché se ne ha voglia
- Cessazione del checking
- Cessazione del bisogno di pesarsi e di conoscere il proprio peso/Cessazione dell’evitamento a tutti i costi della bilancia
- Aumento del tempo dedicato alle attività di svago e agli hobby
- Riduzione della necessità di mettere in atto comportamenti autolesivi o tipicamente anoressici
- Riuscire a seguire correttamente l’ “equilibrio alimentare”
- Non essere più “terrorizzate” di fronte a certi cibi o a certe situazioni
- Etc…
Vi accorgerete che ci sono molti segnali di “Codice Verde” che passano sotto silenzio, ma che si possono per lo più ascrivere all’assenza di tutti quei pensieri e comportamenti che sono tipici dell’anoressia. I segni e sintomi tipici del DCA tendono infatti a regredire progressivamente man mano che si fanno passi avanti sulla strada del ricovero, questo spesso avviene con una lentezza tale che sul momento non ci se ne rende conto, ma non scoraggiatevi: alla lunga i progressi saranno evidenti!
Se vi va, lasciate un commento su quali sono i vostri segnali di “Codice Verde”!
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venerdì 24 febbraio 2012
Prevenzione delle ricadute: Identificare le situazioni di rischio
Eh sì. Identificare le situazioni di rischio. Quando si è nel pieno dell’anoressia, praticamente qualsiasi cosa rimanda all’anoressia stessa. Anche durante i primi passi sulla strada del ricovero la situazione persiste. Un piccolo sbaglio può farci venire voglia di punirci, di prendercela con noi stesse. Una minima critica che qualcuno ci rivolge può ributtarci nella spirale. Ogni situazione ansiogena fa scattare la molla della restrizione alimentare.
Anche se alcune cose riusciamo a tenerle sotto controllo, ci sono un mucchio di situazioni che possono amplificare i tipici pensieri del DCA e rendere più vulnerabili alle ricadute. Una parte importante nell’identificare le situazioni di rischio consiste nell’anticipare la situazioni in cui potremmo aver bisogno di un supporto extra. L’altra parte consta di costruire quello che mi piace chiamare “un piano di mitigazione” (in realtà è un termine che ho rubato all’ospedale, veniva usato quando facevo tirocinio al Pronto Soccorso, però secondo me si adatta bene anche alla prevenzione delle ricadute nell’anoressia), in maniera tale da poter sopravvivere all’evento avverso con il minimo danno possibile.
Le situazioni di rischio possono essere molteplici, e sono comunque estremamente variabili da persona a persona. Tanto per fare qualche esempio estremamente limitato, situazioni di rischio possono essere date da:
- Malattie fisiche che comportano una riduzione dell’appetito
- Cambiamenti in un qualche ambito della vita
- Vedere che un’amica ha avuto una ricaduta o ha perso peso
- Un aumento di peso (specie se rapido)
- Un nuovo lavoro/Una nuova esperienza scolastica
- Una sconfitta in un qualsiasi ambito della vita
- Una critica ricevuta da qualcuno
- Il dover comprare vestiti nuovi
- Il dover mangiare senza poter seguire l’ “equilibrio alimentare” prescritto dal dietista
- Fare qualcosa che spezza la routine quotidiana (per esempio, una cena di lavoro al ristorante)
- Aumento dell’ansia e dello stress
- Difficoltà nelle relazioni interpersonali
- Delusioni e ferite
- Etc…
Alcune di queste situazioni di rischio possono essere evitate, ma non tutte e non sempre. Analogamente, alcune di queste situazioni di rischio possono essere anticipate, anche se non tutte e non sempre. Detto questo, se non possiamo evitare le situazioni di rischio e non possiamo anticiparle, che altro possiamo fare? Come facevo quando tirocinavo al Pronto Soccorso, bisogna elaborare un piano (un piano di mitigazione!) che ci aiuti a relazionarci con queste situazioni difficili senza farci ricadere a pieno nell’anoressia.
È possible creare un “piano di mitigazione” generale per tutte le situazioni di rischio, e addizionarvi qualcosa per farlo aderire alla particolare situazione in cui ci si viene a trovare.
In generale, un “piano di mitigazione” può comprendere i seguenti aspetti:
- Utilizzare tutti i sistemi di supporto che si hanno a disposizione: psicoterapeuti/dietisti/familiari/amici
- Aumentare la frequenza degli appuntamenti con gli psicoterapeuti/dietisti
- Parlare di ciò che ci porta a ricadere, cercando di trovare insieme agli altri una soluzione
- Cercare di fare il meglio che si può per affrontare quella difficile situazione
- Rispettare rigorosamente le dosi dell’ “equilibrio alimentare” per ogni cibo, imponendosi di non sgarrare neanche di un grammo
- Essere oneste con noi stesse sulla reale natura del problema
- Avere la consapevolezza che le ricadute sono parte integrante del percorso di ricovero, e non fanno di noi delle fallite
- Ascoltare la voce della razionalità e non la spinta verso i comportamenti anoressici data dall’emotività
- Prendere le distanze dalle persone che consideriamo ansiogene
- Ricercare l’auto-aiuto e il supporto che si può avere tramite Internet
- Avere la consapevolezza che il proprio “equilibrio alimentare” e la propria attività fisica è quella GIUSTA PER NOI STESSE, a prescindere da ciò che fanno gli altri
- Evitare di fare cose che potrebbero aumentare l’ansia e il disagio
- Etc...
Alcuni di questi punti sono applicabili in svariate situazioni, mentre altri hanno una maggiore specificità. L’idea è quella di costruire un “piano di mitigazione” che sia flessibile e che possa essere applicato a molteplici situazioni che ci vedono a rischio ricaduta, una sorta di “linee guida” da utilizzare quando ci rendiamo conto che l’anoressia rischia di nuovo di avere la meglio su di noi.
Sapere e volere è potere, si dice dalle mie parti, e nel caso della prevenzione delle ricadute credo sia assolutamente vero. La frase “uomo avvisato, mezzo salvato” calza a pennello. Se, per esempio, si riesce ad anticipare una situazione di rischio (per esempio, un invito a cena da parte di amici), si può cominciare ad applicare il “piano di mitigazione” prima che l’evento abbia luogo. Sebbene questo non possa magari evitare del tutto ogni slittamento all’indietro, può comunque essere importante per contenere i danni.
Anche se alcune cose riusciamo a tenerle sotto controllo, ci sono un mucchio di situazioni che possono amplificare i tipici pensieri del DCA e rendere più vulnerabili alle ricadute. Una parte importante nell’identificare le situazioni di rischio consiste nell’anticipare la situazioni in cui potremmo aver bisogno di un supporto extra. L’altra parte consta di costruire quello che mi piace chiamare “un piano di mitigazione” (in realtà è un termine che ho rubato all’ospedale, veniva usato quando facevo tirocinio al Pronto Soccorso, però secondo me si adatta bene anche alla prevenzione delle ricadute nell’anoressia), in maniera tale da poter sopravvivere all’evento avverso con il minimo danno possibile.
Le situazioni di rischio possono essere molteplici, e sono comunque estremamente variabili da persona a persona. Tanto per fare qualche esempio estremamente limitato, situazioni di rischio possono essere date da:
- Malattie fisiche che comportano una riduzione dell’appetito
- Cambiamenti in un qualche ambito della vita
- Vedere che un’amica ha avuto una ricaduta o ha perso peso
- Un aumento di peso (specie se rapido)
- Un nuovo lavoro/Una nuova esperienza scolastica
- Una sconfitta in un qualsiasi ambito della vita
- Una critica ricevuta da qualcuno
- Il dover comprare vestiti nuovi
- Il dover mangiare senza poter seguire l’ “equilibrio alimentare” prescritto dal dietista
- Fare qualcosa che spezza la routine quotidiana (per esempio, una cena di lavoro al ristorante)
- Aumento dell’ansia e dello stress
- Difficoltà nelle relazioni interpersonali
- Delusioni e ferite
- Etc…
Alcune di queste situazioni di rischio possono essere evitate, ma non tutte e non sempre. Analogamente, alcune di queste situazioni di rischio possono essere anticipate, anche se non tutte e non sempre. Detto questo, se non possiamo evitare le situazioni di rischio e non possiamo anticiparle, che altro possiamo fare? Come facevo quando tirocinavo al Pronto Soccorso, bisogna elaborare un piano (un piano di mitigazione!) che ci aiuti a relazionarci con queste situazioni difficili senza farci ricadere a pieno nell’anoressia.
È possible creare un “piano di mitigazione” generale per tutte le situazioni di rischio, e addizionarvi qualcosa per farlo aderire alla particolare situazione in cui ci si viene a trovare.
In generale, un “piano di mitigazione” può comprendere i seguenti aspetti:
- Utilizzare tutti i sistemi di supporto che si hanno a disposizione: psicoterapeuti/dietisti/familiari/amici
- Aumentare la frequenza degli appuntamenti con gli psicoterapeuti/dietisti
- Parlare di ciò che ci porta a ricadere, cercando di trovare insieme agli altri una soluzione
- Cercare di fare il meglio che si può per affrontare quella difficile situazione
- Rispettare rigorosamente le dosi dell’ “equilibrio alimentare” per ogni cibo, imponendosi di non sgarrare neanche di un grammo
- Essere oneste con noi stesse sulla reale natura del problema
- Avere la consapevolezza che le ricadute sono parte integrante del percorso di ricovero, e non fanno di noi delle fallite
- Ascoltare la voce della razionalità e non la spinta verso i comportamenti anoressici data dall’emotività
- Prendere le distanze dalle persone che consideriamo ansiogene
- Ricercare l’auto-aiuto e il supporto che si può avere tramite Internet
- Avere la consapevolezza che il proprio “equilibrio alimentare” e la propria attività fisica è quella GIUSTA PER NOI STESSE, a prescindere da ciò che fanno gli altri
- Evitare di fare cose che potrebbero aumentare l’ansia e il disagio
- Etc...
Alcuni di questi punti sono applicabili in svariate situazioni, mentre altri hanno una maggiore specificità. L’idea è quella di costruire un “piano di mitigazione” che sia flessibile e che possa essere applicato a molteplici situazioni che ci vedono a rischio ricaduta, una sorta di “linee guida” da utilizzare quando ci rendiamo conto che l’anoressia rischia di nuovo di avere la meglio su di noi.
Sapere e volere è potere, si dice dalle mie parti, e nel caso della prevenzione delle ricadute credo sia assolutamente vero. La frase “uomo avvisato, mezzo salvato” calza a pennello. Se, per esempio, si riesce ad anticipare una situazione di rischio (per esempio, un invito a cena da parte di amici), si può cominciare ad applicare il “piano di mitigazione” prima che l’evento abbia luogo. Sebbene questo non possa magari evitare del tutto ogni slittamento all’indietro, può comunque essere importante per contenere i danni.
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venerdì 17 febbraio 2012
Prevenzione delle ricadute: Punti di forza & difficoltà
Inizio oggi un nuovo ciclo di post, sempre in risposta a una domanda che, con sfumature differenti, mi è stata rivolta da molte di voi: come prevenire/evitare le ricadute nel DCA quando si sta percorrendo la strada del ricovero? Dato che questo è un argomento di cruciale importanza per tutte noi, comincerò dalle fondamenta.
Uno dei punti principali nella prevenzione delle ricadute consiste nell’individuare quali sono le difficoltà che spingono a ricadere nel DCA che potremmo dover affrontare, in modo da anticiparle, creando preventivamente un piano che ci permetta di affrontarle senza sbatterle immediatamente sul versante dell’anoressia restringendo l’alimentazione, ma cercando d’individuare altre strategie di coping. Un altro aspetto fondamentale nella prevenzione delle ricadute consiste nel valutare quali siano i nostri punti di forza. Cosa possiamo fare quando ci troviamo immerse nelle difficoltà e tutto ci spinge verso una ricaduta nei comportamenti tipici dell’anoressia?
Per prima cosa, possiamo stendere una lista in merito a quelli che sono i nostri punti di forza e le nostre difficoltà: una rete di sicurezza per il nostro piano di prevenzione per le ricadute.
Tanto per fare qualche esempio.
Punti di forza:
- Avere vicino familiari e amici supportivi
- Avere la possibilità di consultare psicologi/psichiatri/dietisti
- Lavorare su noi stesse per identificare ed analizzare ciò che spinge a ricadere
- Motivazione a stare meglio
- Capacità di ritagliarsi altre possibilità oltre l’anoressia
- Capacità di direzionare il pensiero distogliendolo dall’ossessività del DCA
- Forza di volontà e determinazione
- Etc…
Difficoltà:
- Solitudine
- Ansia
- Perfezionismo
- Dismorfofobia (solo in chi, ovviamente, presenta questo sintomo)
- Competitività
- Paura del cambiamento
- Disagio con la propria fisicità
- Tendenza ad assecondare le ossessioni del DCA
- Etc…
Dopo aver redatto una lista di questo tipo, bisogna prendere in considerazione ognuna delle difficoltà, e scrivere un’altra lista in cui ad ogni difficoltà si associa una strategia di coping che sia diversa dall’adottare i comportamenti tipici dell’anoressia. Tanto per fare un esempio prendendo un aspetto che credo interessi chiunque abbia un DCA, come relazionarci con il disagio che proviamo rispetto al nostro corpo senza restringere l’alimentazione.
Piano contro il disagio per la fisicità
- Focalizzarci su quello che il nostro corpo può fare, piuttosto che su quello che il nostro corpo è
- Fare sport insieme a un’amica piuttosto che da sole
- Ripetere più e più volte: “Il mio corpo sta bene ed è in salute se io mantengo questo peso, e non quando pesavo XX chili in meno”
- Parlarne con familiari/amici/terapeuti per cercare di stemperare le sensazioni che proviamo
- Non fare checking e stare il meno possibile davanti allo specchio
- Non pesarsi
- Accettare il fatto che il nostro corpo non è come vorremmo che fosse, ma che può andar bene comunque
- Ricordare: restringere l’alimentazione è una soluzione-placebo, poiché di fatto non serve a nulla, non risolve veramente quello che ci sta sotto. L’anoressia è una soluzione a breve termine che diventa un problema a lungo termine
Ovviamente questa lista non ha la pretesa di essere esaustiva, né di risolvere completamente il problema della difficile accettazione della nostra fisicità, né evitare che si abbiano ricadute, tuttavia penso possa essere un buon punto di partenza… e potete elaborarla per qualsiasi punto della vostra lista di difficoltà.
Uno dei punti principali nella prevenzione delle ricadute consiste nell’individuare quali sono le difficoltà che spingono a ricadere nel DCA che potremmo dover affrontare, in modo da anticiparle, creando preventivamente un piano che ci permetta di affrontarle senza sbatterle immediatamente sul versante dell’anoressia restringendo l’alimentazione, ma cercando d’individuare altre strategie di coping. Un altro aspetto fondamentale nella prevenzione delle ricadute consiste nel valutare quali siano i nostri punti di forza. Cosa possiamo fare quando ci troviamo immerse nelle difficoltà e tutto ci spinge verso una ricaduta nei comportamenti tipici dell’anoressia?
Per prima cosa, possiamo stendere una lista in merito a quelli che sono i nostri punti di forza e le nostre difficoltà: una rete di sicurezza per il nostro piano di prevenzione per le ricadute.
Tanto per fare qualche esempio.
Punti di forza:
- Avere vicino familiari e amici supportivi
- Avere la possibilità di consultare psicologi/psichiatri/dietisti
- Lavorare su noi stesse per identificare ed analizzare ciò che spinge a ricadere
- Motivazione a stare meglio
- Capacità di ritagliarsi altre possibilità oltre l’anoressia
- Capacità di direzionare il pensiero distogliendolo dall’ossessività del DCA
- Forza di volontà e determinazione
- Etc…
Difficoltà:
- Solitudine
- Ansia
- Perfezionismo
- Dismorfofobia (solo in chi, ovviamente, presenta questo sintomo)
- Competitività
- Paura del cambiamento
- Disagio con la propria fisicità
- Tendenza ad assecondare le ossessioni del DCA
- Etc…
Dopo aver redatto una lista di questo tipo, bisogna prendere in considerazione ognuna delle difficoltà, e scrivere un’altra lista in cui ad ogni difficoltà si associa una strategia di coping che sia diversa dall’adottare i comportamenti tipici dell’anoressia. Tanto per fare un esempio prendendo un aspetto che credo interessi chiunque abbia un DCA, come relazionarci con il disagio che proviamo rispetto al nostro corpo senza restringere l’alimentazione.
Piano contro il disagio per la fisicità
- Focalizzarci su quello che il nostro corpo può fare, piuttosto che su quello che il nostro corpo è
- Fare sport insieme a un’amica piuttosto che da sole
- Ripetere più e più volte: “Il mio corpo sta bene ed è in salute se io mantengo questo peso, e non quando pesavo XX chili in meno”
- Parlarne con familiari/amici/terapeuti per cercare di stemperare le sensazioni che proviamo
- Non fare checking e stare il meno possibile davanti allo specchio
- Non pesarsi
- Accettare il fatto che il nostro corpo non è come vorremmo che fosse, ma che può andar bene comunque
- Ricordare: restringere l’alimentazione è una soluzione-placebo, poiché di fatto non serve a nulla, non risolve veramente quello che ci sta sotto. L’anoressia è una soluzione a breve termine che diventa un problema a lungo termine
Ovviamente questa lista non ha la pretesa di essere esaustiva, né di risolvere completamente il problema della difficile accettazione della nostra fisicità, né evitare che si abbiano ricadute, tuttavia penso possa essere un buon punto di partenza… e potete elaborarla per qualsiasi punto della vostra lista di difficoltà.
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