venerdì 28 febbraio 2014
"Essere anoressica" VS "Avere l'anoressia"
Il post di oggi trae spunto dal commento che Kay mi ha lasciato nel post precedente. Mi riferisco a:
“Questo post è molto divertente, ma perché quando gli altri ti fanno le domande e usano la parola “anoressica” tu rispondi sempre con “avere l’anoressia”? (Non è solo questo post, ti leggo da un po’ di tempo e ho notato che scrivi sempre “avere l’anoressia”, ma non dici mai “anoressica”).”
Il commento è breve e semplice, eppure solleva una questione che reputo molto interessante, e che mi sembra corretto approfondire.
Partiamo da un dato di fatto: è vero, non utilizzo il termine “anoressica”, ma dico sempre “avere l’anoressia”; in questo Kay si rivela attenta lettrice. Non è una casualità o un vizio di forma, è una mia deliberata scelta, perché non ritengo che i due termini siano sinonimi e perciò utilizzo l’unico che ritengo essere corretto.
Perché noi non siamo anoressiche, noi ABBIAMO l’anoressia.
Io sono, io ho. Una parola di differenza, un abisso in mezzo.
Allora ho fatto un giretto tra i blog, e mi sono accorta che, effettivamente, più volte vengono utilizzate le espressioni “sono anoressica”/”sono bulimica”, come se chi scrive percepisse l’anoressia/la bulimia come modo di essere, e dunque come identità.
E’ vero anche nei commenti che lasciate in questo blog, dove a volte leggo “io sono anoressica”/”io sono bulimica”, e più ci penso, più mi rendo conto che generalmente non funziona così.
Stando in un Pronto Soccorso, la raccolta dell’anamnesi prevede il chiedere ai pazienti un resoconto delle loro pregresse patologie. Ma quante persone affette, per esempio, da reflusso gastro-esofageo dicono: “Io sono un reflussore”?. Quante persone affette da enfisema polmonare dicono “Io sono enfisematoso”? Nessuna. Alla domanda: “Ha malattie di rilevo?” che pongo routinariamente ogni qualvolta raccolgo un’anamnesi, le risposte sono tassativamente: “Ho il reflusso”, “Ho l’enfisema polmonare”.
Il punto forse è che nelle malattie che affliggono prettamente il corpo, la persona avverte spontaneamente la dissociazione del soma dall’ “io”, cosa che nelle malattie psichiatriche non succede di default. In fin dei conti, quando va tutto bene, quando il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere dei polmoni, un fegato, dei reni. Ci si sente tutt’uno: il corpo aderisce perfettamente a noi stesse – ed è noi stesse. Se si ha una malattia organica, che so, se fa male un braccio, all’improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice infatti “Mi fa male un braccio”, piuttosto che “Sento male al braccio”, come a sottolineare questa distanza.
Eppure, nel campo dei DCA, è frequente sentire persone che dicono “sono anoressica”/”sono bulimica”. Come se la base di una malattia mentale quale un DCA non permettesse la realizzazione di questa dissociazione – come se la malattia facesse parte del sé. Ed ecco che la malattia cessa di essere tale e assurge ad identità.
Dunque perché quando si parla di malattie fisiche si utilizza sempre il verbo avere (“ho mal di testa”, “ho mal di stomaco”, “ho il raffreddore”, etc…) e quando si parla di disturbi alimentari si cede spesso spontaneamente il passo al verbo essere? Quand’è che la malattia-DCA può non essere più percepito come tale, cioè come malattia vera e propria?
Io credo che la distorsione possa verificarsi poiché il cervello parla a se stesso, e parlando a se stesso muta le proprie percezioni.
Supponiamo che nel cervello ci siano due interpreti che comunicano tra loro. E supponiamo che il primo interprete sia un corrispondente dall’estero che dà notizie sul mondo – ove per mondo intendo tutto quello che c’è fuori e dentro al corpo. Il secondo interprete è invece un commentatore che scrive editoriali. Leggono l’uno il lavoro dell’altro. A uno servono i dati, all’altro una sintesi; s’influenzano a vicenda.
Fanno conversazioni del tipo:
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro al tallone.
Secondo Interprete: Credo sia la scarpa troppo stretta.
Primo Interprete: Controllato. Tolta la scarpa. Il piede fa ancora male.
Secondo Interprete: L’hai guardato?
Primo Interprete: Fatto. È arrossato.
Secondo Interprete: Sangue?
Primo Interprete: No.
Secondo Interprete: Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Però un minuto dopo c’è un altro rapporto.
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro il tallone.
Secondo Interprete: Lo so già.
Primo Interprete: Fa ancora male. S’è pure gonfiato.
Secondo Interprete: E’ solo una vescica. Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Cinque minuti dopo…
Secondo Interprete: Non stuzzicarla.
Primo Interprete: Se la faccio scoppiare starò meglio!
Secondo Interprete: Questo lo pensi tu. Lasciala stare.
Primo Interprete: Okay. Ma fa ancora male.
Quel che succede invece nei disturbi alimentari è che ci sono dei problemi di comunicazione tra il primo e il secondo interprete. Per cui succedono cose del tipo:
Primo Interprete: C’è un pinguino nella mia camera.
Secondo Interprete: Non è un pinguino… è un letto.
Primo Interprete: E’ un pinguino! È un pinguino!
Secondo Interprete: Mi sembra una cosa ridicola… Andiamo a vedere.
Allora, dendriti, neuroni, serotonina e interpreti si radunano tutti e trotterellano verso la camera. Se uno non ha una malattia che coinvolge la psiche, l’asserzione del secondo interprete, che quello è un letto, verrà accettata dal primo. Altresì, viceversa. Il problema, nella malattia che coinvolge la psiche è che il primo interprete vede davvero un pinguino. I messaggi che trasmettono i neuroni sono in qualche modo errati. Solo che, quello che succede di norma, è che il secondo interprete s’interroga: cosa sta succedendo? Lui dice che c’è un pinguino, ma io non ne sono convinto; forse c’è qualcosa che non va in me. C’è abbastanza dubbio da fornire un appiglio, da comprendere il gap esistente tra l’essere e l’avere, e il rendersi conto dunque di essere affette da una patologia che sarà opportuno affrontare con l’aiuto della psicoterapia e della riabilitazione nutrizionale. Identificarsi nella malattia invece è deleterio, perché se tutti i neuroni dicono che c’è un pinguino, il dubbio viene meno. Non c’è più un vero e proprio spazio per l’analisi, perché la malattia non è neanche più malattia, è un’identità, e subentra la quantomai falsa ma illudente considerazione che non si può guarire da noi stesse, e quindi tanto vale non buttare tempo ed energie in una psicoterapia. E questo può rallentare e/o fallare enormemente un percorso di ricovero.
Ma io sono del tutto convinta che noi non siamo delle malattie. Per questo utilizzo sempre il verbo avere. Non è un gap italiano, il mio, è una scelta intenzionale. E credo che concretizzare il fatto di avere una malattia, ma non esserlo, sia il primo passo concreto per potervi combattere.
Perciò, ragazze, vi dico semplicemente che non dovete assolutamente accettare la frase “sono anoressica/bulimica”, perchè così facendo vincolate voi stesse ad una malattia, e vi permettete una quantomeno parziale identificazione nella malattia, cosa che, a mio parere, è solo deleteria. Non dovete accettare questa frase, dovete RIBELLARVI a questa frase… questo è il vero passo avanti. Certo, occorre essere consapevoli di AVERE una malattia, sennò non si può neanche decidere d’iniziare a combatterla, ma esserne consapevoli non credo sia necessariamente sinonimo del fatto che il DCA debba essere parte di noi… non lo è, infatti, come del resto non lo è nessuna malattia.
Noi NON SIAMO la nostra malattia. Noi ABBIAMO una malattia. Perchè noi, noi come persone, siamo molto, molto, molto, MOLTO di più di una malattia.
“Questo post è molto divertente, ma perché quando gli altri ti fanno le domande e usano la parola “anoressica” tu rispondi sempre con “avere l’anoressia”? (Non è solo questo post, ti leggo da un po’ di tempo e ho notato che scrivi sempre “avere l’anoressia”, ma non dici mai “anoressica”).”
Il commento è breve e semplice, eppure solleva una questione che reputo molto interessante, e che mi sembra corretto approfondire.
Partiamo da un dato di fatto: è vero, non utilizzo il termine “anoressica”, ma dico sempre “avere l’anoressia”; in questo Kay si rivela attenta lettrice. Non è una casualità o un vizio di forma, è una mia deliberata scelta, perché non ritengo che i due termini siano sinonimi e perciò utilizzo l’unico che ritengo essere corretto.
Perché noi non siamo anoressiche, noi ABBIAMO l’anoressia.
Io sono, io ho. Una parola di differenza, un abisso in mezzo.
Allora ho fatto un giretto tra i blog, e mi sono accorta che, effettivamente, più volte vengono utilizzate le espressioni “sono anoressica”/”sono bulimica”, come se chi scrive percepisse l’anoressia/la bulimia come modo di essere, e dunque come identità.
E’ vero anche nei commenti che lasciate in questo blog, dove a volte leggo “io sono anoressica”/”io sono bulimica”, e più ci penso, più mi rendo conto che generalmente non funziona così.
Stando in un Pronto Soccorso, la raccolta dell’anamnesi prevede il chiedere ai pazienti un resoconto delle loro pregresse patologie. Ma quante persone affette, per esempio, da reflusso gastro-esofageo dicono: “Io sono un reflussore”?. Quante persone affette da enfisema polmonare dicono “Io sono enfisematoso”? Nessuna. Alla domanda: “Ha malattie di rilevo?” che pongo routinariamente ogni qualvolta raccolgo un’anamnesi, le risposte sono tassativamente: “Ho il reflusso”, “Ho l’enfisema polmonare”.
Il punto forse è che nelle malattie che affliggono prettamente il corpo, la persona avverte spontaneamente la dissociazione del soma dall’ “io”, cosa che nelle malattie psichiatriche non succede di default. In fin dei conti, quando va tutto bene, quando il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere dei polmoni, un fegato, dei reni. Ci si sente tutt’uno: il corpo aderisce perfettamente a noi stesse – ed è noi stesse. Se si ha una malattia organica, che so, se fa male un braccio, all’improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice infatti “Mi fa male un braccio”, piuttosto che “Sento male al braccio”, come a sottolineare questa distanza.
Eppure, nel campo dei DCA, è frequente sentire persone che dicono “sono anoressica”/”sono bulimica”. Come se la base di una malattia mentale quale un DCA non permettesse la realizzazione di questa dissociazione – come se la malattia facesse parte del sé. Ed ecco che la malattia cessa di essere tale e assurge ad identità.
Dunque perché quando si parla di malattie fisiche si utilizza sempre il verbo avere (“ho mal di testa”, “ho mal di stomaco”, “ho il raffreddore”, etc…) e quando si parla di disturbi alimentari si cede spesso spontaneamente il passo al verbo essere? Quand’è che la malattia-DCA può non essere più percepito come tale, cioè come malattia vera e propria?
Io credo che la distorsione possa verificarsi poiché il cervello parla a se stesso, e parlando a se stesso muta le proprie percezioni.
Supponiamo che nel cervello ci siano due interpreti che comunicano tra loro. E supponiamo che il primo interprete sia un corrispondente dall’estero che dà notizie sul mondo – ove per mondo intendo tutto quello che c’è fuori e dentro al corpo. Il secondo interprete è invece un commentatore che scrive editoriali. Leggono l’uno il lavoro dell’altro. A uno servono i dati, all’altro una sintesi; s’influenzano a vicenda.
Fanno conversazioni del tipo:
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro al tallone.
Secondo Interprete: Credo sia la scarpa troppo stretta.
Primo Interprete: Controllato. Tolta la scarpa. Il piede fa ancora male.
Secondo Interprete: L’hai guardato?
Primo Interprete: Fatto. È arrossato.
Secondo Interprete: Sangue?
Primo Interprete: No.
Secondo Interprete: Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Però un minuto dopo c’è un altro rapporto.
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro il tallone.
Secondo Interprete: Lo so già.
Primo Interprete: Fa ancora male. S’è pure gonfiato.
Secondo Interprete: E’ solo una vescica. Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Cinque minuti dopo…
Secondo Interprete: Non stuzzicarla.
Primo Interprete: Se la faccio scoppiare starò meglio!
Secondo Interprete: Questo lo pensi tu. Lasciala stare.
Primo Interprete: Okay. Ma fa ancora male.
Quel che succede invece nei disturbi alimentari è che ci sono dei problemi di comunicazione tra il primo e il secondo interprete. Per cui succedono cose del tipo:
Primo Interprete: C’è un pinguino nella mia camera.
Secondo Interprete: Non è un pinguino… è un letto.
Primo Interprete: E’ un pinguino! È un pinguino!
Secondo Interprete: Mi sembra una cosa ridicola… Andiamo a vedere.
Allora, dendriti, neuroni, serotonina e interpreti si radunano tutti e trotterellano verso la camera. Se uno non ha una malattia che coinvolge la psiche, l’asserzione del secondo interprete, che quello è un letto, verrà accettata dal primo. Altresì, viceversa. Il problema, nella malattia che coinvolge la psiche è che il primo interprete vede davvero un pinguino. I messaggi che trasmettono i neuroni sono in qualche modo errati. Solo che, quello che succede di norma, è che il secondo interprete s’interroga: cosa sta succedendo? Lui dice che c’è un pinguino, ma io non ne sono convinto; forse c’è qualcosa che non va in me. C’è abbastanza dubbio da fornire un appiglio, da comprendere il gap esistente tra l’essere e l’avere, e il rendersi conto dunque di essere affette da una patologia che sarà opportuno affrontare con l’aiuto della psicoterapia e della riabilitazione nutrizionale. Identificarsi nella malattia invece è deleterio, perché se tutti i neuroni dicono che c’è un pinguino, il dubbio viene meno. Non c’è più un vero e proprio spazio per l’analisi, perché la malattia non è neanche più malattia, è un’identità, e subentra la quantomai falsa ma illudente considerazione che non si può guarire da noi stesse, e quindi tanto vale non buttare tempo ed energie in una psicoterapia. E questo può rallentare e/o fallare enormemente un percorso di ricovero.
Ma io sono del tutto convinta che noi non siamo delle malattie. Per questo utilizzo sempre il verbo avere. Non è un gap italiano, il mio, è una scelta intenzionale. E credo che concretizzare il fatto di avere una malattia, ma non esserlo, sia il primo passo concreto per potervi combattere.
Perciò, ragazze, vi dico semplicemente che non dovete assolutamente accettare la frase “sono anoressica/bulimica”, perchè così facendo vincolate voi stesse ad una malattia, e vi permettete una quantomeno parziale identificazione nella malattia, cosa che, a mio parere, è solo deleteria. Non dovete accettare questa frase, dovete RIBELLARVI a questa frase… questo è il vero passo avanti. Certo, occorre essere consapevoli di AVERE una malattia, sennò non si può neanche decidere d’iniziare a combatterla, ma esserne consapevoli non credo sia necessariamente sinonimo del fatto che il DCA debba essere parte di noi… non lo è, infatti, come del resto non lo è nessuna malattia.
Noi NON SIAMO la nostra malattia. Noi ABBIAMO una malattia. Perchè noi, noi come persone, siamo molto, molto, molto, MOLTO di più di una malattia.
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17 commenti:
Ho l'impressione che la sensazione di essere una malattia sia legata a qualcosa che dura da tempo tanto da essere parte di noi, specie se si tratta di cose psicologiche (ma anche patologie della vista e dell'udito).
Ecco perché si dice "sono depresso" invece di "ho la depressione", "sono emetofobico" anziché "soffro di emetofobia", "sono miope" al posto di "soffro di miopia", "sono schizofrenico" piuttosto che "soffro di schizofrenia"...
A proposito: voglio ringraziarti per aver usato "piuttosto che" nel modo corretto. Non ne posso davvero più di sentir usarlo usare nel senso di "oppure", è estremamente irritante >.< grazie per difendere la corretta lingua italiana!
Anche se attualmente non ho più un blog in cui scrivo il tuo non ho mai smesso di leggerlo! ^_^ mi è sempre stato ed è tutt'ora di grande aiuto! Bellissimo post! Tocca un punto importante e fondamentale ... l'identificazione... cosa che "sento" in modo particolare. Grazie davvero!
kjk
Anche se non l’avevi mai scritto in maniera così esplicita, dopo tanto tempo che ti leggo avevo anch’io notato questo tuo corrente uso del verbo “avere”, ed avevo più o meno immaginato le motivazioni che ci stavano dietro a questa tua scelta.
Che dire, penso che tu abbia proprio ragione. Quello che scrivi non fa una piega, e direi che chiunque abbia vissuto un dca infondo sa che le cose stanno veramente così (a meno che magari non sia nella fase proprio iniziale del dca, e ancora non se ne rende conto).
Penso che sia molto importante imparare a separare l’ “avere” dall’ “essere”, perché identificarsi nella malattia è una delle più grandi trappole che ci si possa mai costruire. Ci si specchia nella malattia, e si vede solo quello, e non si capisce come essere altro rispetto alla malattia. Per questo credo che sia importante avere coscienza del fatto che la malattia non è uno specchio, ma un qualcosa di diverso da noi stesse, un qualcosa che abbiamo e pertanto, come tale, è un qualcosa che possiamo non avere in futuro (a patto, ovviamente, di alimentarci correttamente, e soprattutto di fare tanta psicoterapia, e non smettere mai di lottare ogni giorno della nostra vita)!!!!!!!!!
Ciao Veggie e ciao a tutti. Io interpreto la dicotomia ESSERE anoressica e AVERE l'anoressia anche in un altro modo: credo si possa ESSERE anoressiche sebbene non si ABBIA l'anoressia. Credo che l'anoressia sia all'inizio un subdolo pensiero, un tarlo, una fissazione che ci ronza in testa, a volte ha la meglio sulla nostra capacità di ragionamento, a volte (per fortuna) viene messa a tacere. In questa continua guerra, se vincerà l'anoressia AVREMO (SVILUPPEREMO) una malattia; ma ho paura che, se anche non avremo l'anoressia, SAREMO ugualmente, sempre, anoressiche.
Spero di essere riuscita a esprimere il mio punto di vista in maniera comprensibile.
Manu
Io credo che la differenza di "modo di dire" dipenda anche dal volersi allontanare dalla malattia in se, dicendo ho l'anoressia ci si rende conto di essere malate, o meglio, lo si esterna a se stesse, sono anoressica, invece, non fa tanto pensare ad una malattia quanto appunto un modo di essere e/o percepire se stesse..
Detto questo, complimenti per il blog, è davvero ben fatto, ti seguo da tempo anche se prima d'ora non avevo mai lasciato traccia e a maschera tolta più dei complimenti ci tenevo a ringraziarti, i tuoi post, le tue parole aprono gli occhi e, almeno per me, trovarlo è stato come tirare un sospiro di sollievo.
Meg
Davvero una lettrice attenta, Kay. Ora che ha fatto notare questa particolarità nelle tue risposte, me ne sono resa conto anch'io. La scelta accurata dei termini è fondamentale per un media come il blog, che usa la comunicazione scritta come strumento principale di espressione.
"Perché noi non siamo anoressiche, noi ABBIAMO l’anoressia."
sei ancora terribilmente aggrappata al tuo sintomo.
Non diciamo cazzate e non nascondiamoci dietro a un dito: è palese che non siamo una malattia, ma che abbiamo una malattia. È un imprescindibile dato di fatto.
E chi afferma diversamente, o ha solo una fottuta paura di affrontare l’anoressia, o è una drama queen che si frigna addosso e si vittimizza per giustificare (agli altri, ma soprattutto a se stessa) il suo ristagnare nella patologia.
Se vogliamo davvero combattere contro la malattia, ammetteremo di averla, e troveremo un modo per tenerle testa.
Se vogliamo piangerci addosso, continueremo a dire di essere anoressiche, e troveremo una scusa per continuare a sguazzare in quel mare di merda.
Ciao Veggie!
Mi ha colpito molto quello che ha detto l'anonimo:
"Ciao Veggie e ciao a tutti. Io interpreto la dicotomia ESSERE anoressica e AVERE l'anoressia anche in un altro modo: credo si possa ESSERE anoressiche sebbene non si ABBIA l'anoressia. Credo che l'anoressia sia all'inizio un subdolo pensiero, un tarlo, una fissazione che ci ronza in testa, a volte ha la meglio sulla nostra capacità di ragionamento, a volte (per fortuna) viene messa a tacere. In questa continua guerra, se vincerà l'anoressia AVREMO (SVILUPPEREMO) una malattia; ma ho paura che, se anche non avremo l'anoressia, SAREMO ugualmente, sempre, anoressiche. "
Ecco, io sono d'accordo sia con questa visione sia con la tua, perché le considero diciamo, facce della stessa medaglia..
Da un lato é vero che pur prima di sviluppare il dca vero e proprio, quello conclamato diciamo, il seme della malattia, il tarlo é li presente comunque e, in un certo senso una persona (al di la dei meri parametri diagnostici) ha giá l'anoressia/la bulimia/il binge/il dcanas..Forse non si chiamerá ancora "Anoressia, Bulimia o pincopallo" ma la sostanza é quella..
Peró secondo me il tuo discorso puó valere anche in questo caso..
Non si "é" anoressiche o bulimiche o ecc ecc..é vero, Anonimo dice, allora se non dici "Ho l'Anoressia" come esprimi il modo in cui ti senti, il modo in cui vedi te stesso, la tua sofferenza che é dentro di te in ogni caso?Ed ecco che ci viene da dire "sono anoressica, sono bulimica ecc.." perché se no forse non sapremmo come esprimere una cosa che é piú vasta, piú incerta, piú grande e magari anche piú spaventosa di noi..
Peró l'identificazione con la malattia, secondo me é comunque un qualcosa che da un lato, se serve a noi per dare un qualche barlume di senso alla nostra sofferenza (se no forse andremmo in panico), dall'altro allontana dalla vera essenza e dalla possibilitá di trovare il senso vero di quello che stiamo passando..e quindi di risolvere alla fine ció che ci fa stare male..
E' vero, forse "Anoressica" é solo la parola designata ad avere il ruolo di "rappresentatrice/ comunicatrice del malessere, del vissuto interiore, della sofferenza che vorremmo esternare..ma non gli da un senso a questo malessere, non aiuta a comprenderlo, ne fornisce alcuna informazione su come ci sentiamo o sul perché abbiamo l'abbiamo espresso proprio attraverso quel sintomo che tanto ci rassicura..
il senso dobbiamo darlo noi, allontanandoci da ció che la parola rappresenta per noi in modo da ricostruire una NOSTRA storia, una propria individualitá..che una parola che é solo nome di un sintomo comune a milioni di persone non potrá mai darci..
un abbraccione
ps. cioé,"allontanarci da ció che la parola rappresenta per noi" intendevo di non restare intrappolate in quella parola senza farci nulla..
mentre ovviamente se si lavora nel modo giusto e per dare un senso a ció che proviamo, il sintomo puó essere anche "uno strumento" d'interpretazione per capire cosa non va e perché abbiamo scelto di esprimerci (inconsciamente) con un determinato modo..per cui forse piú che allontanarci da quello che rappresenta intendevo "allontanarci da quello che dice il sintomo chiamato Anoressia" per ritrovare quello che vuole dire per noi a livello piú profondo..
Ho scovato il tuo blog oggi. Complimenti, per tutto.
Tra l'altro mi sa che siamo pure colleghe, anche io studio medicina. Spero di leggerti in futuro. ;)
@ GaiaCincia – La paladina della lingua italiana al tuo servizio, mia cara!... (E pensa che alle scuole superiori era la materia cui andavo peggio… U__U) No, scherzi a parte, sono d’accordo con quello che scrivi… effettivamente, più una malattia tende a cronicizzare, più c’è la tendenza a “fare l’abitudine” a quella malattia, e quindi a considerarla una sorta di “parte del sé”… Ma è solo una distorsione cognitiva, e se si realizzasse anche solo questo, forse combattere sarebbe più facile…
@ Laura C. – Ah, perché, si notava?!... ^__^”Sì, ci sta benissimo che tu abbia estrapolato quello che dici da alcuni miei vecchi post in cui trattavo l’argomento, in ogni caso la parola “subdolo” che hai usato per definire i DCA la trovo estremamente centrata. Io però penso che discernere in sé dalla malattia (che è un po’ oltre l’avere consapevolezza di malattia) sia il primo vero passo per poter combattere… perché non ci si può opporre a noi stesse (e dunque alla malattia, se erroneamente la riteniamo parte di noi), ma ci si può assolutamente opporre alla malattia quando è percepita come entità esterna cui è possibile porre rimedio – non dico “guarire” nel senso medico del termine, ma comunque arrivare ad una remissione, ecco. È altrettanto vero che il tempo complica le cose, perché i DCA sono patologie che tendono alla cronicizzazione, per questo penso che sarebbe molto importante puntare tanto sulla prevenzione secondaria di queste patologie, ovvero sulla diagnosi ed intervento precoce… perché più si prende alla base, più è facile che il biglietto d’andata sia associato ad un (seppure magari non totale al 100%) biglietto di ritorno…
@ kjk – Che bello rileggerti qui!... ^__^ Mi chiedevo che fine avesse fatto il tuo blog, in effetti… Grazie a te per le tue parole, altroché!...
@ Wolfie – Certo, magari nella fase iniziale dei DCA l’identificazione è più comune… però credo sia altrettanto fondamentale, in un percorso di ricovero, imparare a prenderne le distanze e capire che è altro da noi. Perché lo è.
@ Manu – Ciao Manu, benvenuta!... ^__^ Sei riuscita a spiegarti benissimo, altroché!... Io però, perdonami, non sono d’accordo col tuo pensiero. E ti spiego il perché. La stragrande maggioranza delle malattie (fisiche, psichiche, o psicofisiche che siano) hanno un inizio subdolo. Pensa che, giusto per fare un esempio semplicissimo, la comune influenza rimane per 48 ore subclinica prima di erompere con i classici sintomi (febbre, mal di testa, dolori ossei e articolari, etc…) che tutti ben conosciamo. E lo stesso vale per la maggior parte delle malattie. Ma il fatto che l’esordio possa essere subdolo, non significa che prima “si è” la malattia, e poi “si ha” la malattia. (continua...)
(...continua) Io “ho” l’influenza anche nelle prime 48 ore in cui non la concretizzo in quanto tale, perché non ha ancora manifestato i sintomi che sono abituata ad ascrivere ad essa. E io penso che la stessa cosa valga anche per l’anoressia. Io penso che la malattia non sia tale solo quando erompe con tutti i suoi sintomi, perché se così fosse non avrebbero senso tutte le campagne di prevenzione secondaria che per moltissime malattie vengono poste in essere… Se ci pensi, peraltro, nel tuo commento tu associ la parola “avere” alla parola “sviluppare”… ma, anche solo limitandoci all’aspetto prettamente italiano della cosa, questi 2 termini non sono sinonimi, non li troverai mai affiancati in nessun dizionario. Anche da un punto di vista prettamente medico, si parla di “sviluppo” di una malattia per indicarne esodio clinicamente manifesto e decorso, ma la malattia la si può “avere” anche prima che essa vada incontro ad un pieno “sviluppo”. Ecco perché io penso che si può già “avere” una malattia anche in quella che tu definisci fase dell’ “essere”. E, inoltre, penso anche che pur andando incontro ad una remissione (più o meno liunga) dell’anoressia (cosa che a mio parere dovrebbe essere l’obiettivo ottimale di ogni qualsiasi percorso di ricovero), è vero che qualche cosa che ci ronza in testa potrà sempre rimanere… ma questo non significa che “saremo” sempre anoressiche, significa semplicemente che nella nostra testa “avremo” sempre quale pensiero proprio dell’anoressia.
Ti ringrazio comunque di cuore per aver espresso il tuo parere: è sempre positivo poter discutere in maniera costruttiva anche con chi la pensa diversamente… In ambo i casi si tratta di opinioni personali, per cui nessuna di noi avrà mai ragione/torto in assoluto… Però possiamo mostrarci e spiegarci i nostri reciproci punti di vista, e io penso che questo confronto sia una delle cose che più arricchisce e aiuta a “crescere”…
@ Meg – Grazie mille per le tue parole, Meg, mi ha fatto davvero piacere leggerle!... E benvenuta su questo blog!... Sono del tutto d’accordo con quello che hai scritto… Anch’io credo che l’utilizzare la parola “essere” piuttosto che “avere” possa essere indicativo di una più o meno conscia voglia/necessità di identificazione della malattia… Che può dipendere vuoi dalla fase della malattia stessa, vuoi da come la malattia è stata affrontata, vuoi dalla volontà di, appunto, allontanarsene… Penso che tu abbia assolutamente ragione in questo. Grazie per aver lasciato una traccia, spero di rileggerti presto, se mai ti andrà di commentare ancora!...
@ Vele/Ivy – Si comunica con le parole, in fondo… Non so se sono sempre in grado di sceglierle in maniera adeguata, ma ci provo…
@ Anonimo (02 Marzo 2014, ore 17.26) – Perdonami, non ho capito bene costa intendi col tuo commento… cioè, non ho capito che correlazione poni tra la mia frase che hai citato, e l’attaccamento al sintomo. Per il momento quindi, mi limito semplicemente a rispondere alla tua frase: da quello che scrivi, immagino che tu legga questo blog per la prima volta… perché in numerosi post pregressi ho scritto millemila volte che, è vero, non sono guarita. Sto attraversando un lungo periodo di remissione, ma questo naturalmente non fa di me una persona guarita. Per cui, sì, è ovvio che in me persista parte del sintomo: quello che per me è importante è che riesco a tenerlo a bada non adottando più alcun comportamento tipico dell’anoressia, e che sono riuscita a riconquistare un’ottima qualità della vita. Se poi ti va di spiegarmi più approfonditamente che connessione poni tra la mia e la tua frase, mi fa piacere, così ti posso rispondere con qualcosa di più strutturato rispetto a queste poche righe…
@ Jonny – Penso che la tua semplificazione sia valida a tutti gli effetti…
@ PrettyLittleGirl – Bè, innanzitutto ti invito a leggere la risposta che ho dato alla ragazza di cui tu hai citato il commento… Perché penso che quella risponda in realtà in gran parte anche a ciò che mi hai scritto tu… Per il resto, il fatto di avere una malattia pur ancora non rispondente a criteri diagnostici da DSM, non fa sì che non abbiamo la malattia… fa solo sì che ce l’abbiamo comunque, sebbene in forma subclinica. Il punto perciò è che, anche in questa primigenea fase, potremmo già dire a tutti gli effetti: “Ho l’anoressia/Ho la bulimia”, perché è comunque l’abbrivio della malattia clinicamente conclamata. Poi, sono perfettamente d’accordo sia con l’ultimo paragrafo del tuo commento, sia col tuo P.S. … Un abbraccio forte a te!...
@ FromAMadWorld – Ciao!... Grazie per essere passata di qui e per aver lasciato una tua traccia!... Sì che siamo colleghe, io sono già laureata, ma quando sei dentro Medicina ormai fai già parte della grande famiglia e, al di là della laurea formale, sei già una collega!... Spero di rileggerti presto, un abbraccio!!...
@ FromAMadWorld - P.S.= Sono passata dal tuo blog, ma non permette di lasciare commenti... Un errore nell'impostazione del layout, o una tua scelta??...
@Veggie: no, ovviamente i commenti sono pubblici! Ho anche controllato le impostazioni. Proverò a capire cosa non va! Grazie per il feedback. ;)
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