Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

mercoledì 27 luglio 2011

Freni al ricovero: Il cambiamento

Concludo con questo post la serie dei freni che l’anoressia pone all’intraprendere la strada del ricovero, poiché la lista sarebbe molto più lunga, ma ho cercato di toccare quelli che per me sono i punti principali. Ne approfitto anche per ringraziare tutte quante per i commenti ai post precedenti che trattano di quest’argomento: i vostri feedback sono estremamente preziosi per me!

Comunque.

L’anoressia è familiare

Come ho scritto nel post precedente, l’anoressia per certi versi semplifica la vita; ma anche le cose difficili possono diventare relativamente più semplici se le ripetiamo abbastanza a lungo. Più che un “semplificatore”, in effetti, l’anoressia finisce per diventare familiare. Io stessa, entrata nell’anoressia quando avevo circa 14 anni, non riesco a capire come facessi, prima, a mangiare senza pensieri. Non me lo ricordo proprio. E penso che questo valga non soltanto per me. Penso che molte si chiedano come facessero a mangiare, prima. Come fosse la routine senza la restrizione alimentare o l’attività fisica compulsiva. E più che l’anoressia reitera, più diventa routinaria, più si fa difficile staccarsene. Perché, per quanto possa essere limitante, distruttiva, per quanto possa avere anche i suoi lati negativi, è un qualcosa cui siamo abituate, un qualcosa che, anche nel male, è ordinaria, abituale, la si può prevedere, e ciò che è prevedibile, in un certo senso, tranquillizza.

È un cambiamento. Il ricovero è un cambiamento. Decidere di percorrere la strada del ricovero significa fare un salto nel buio. Rompere gli schemi. Decidere di lasciare la strada vecchia per la nuova. Questo può essere terrorizzante, se paragonato a un’anoressia che, per quanto distruttiva, è comunque routinaria. Nella crisalide dell’anoressia, ogni accenno di cambiamento fa paura, è destabilizzante. Ci si rifiuta di ascoltare ogni segnale che ci può cambiare anche perché poi si ha paura di quello che dovrebbe succedere se dovessimo sentirci comunque uguali. L’anoressia è predicibile. Si sa quello che si deve dire e fare. Siamo le attrici consumate che recitano una parte sul palcoscenico del mondo. L’applauso finale ce lo facciamo da sole. Dato che programmiamo la vita minuto per minuto, l’ansia svanisce e finiamo per trovare il DCA a suo modo confortevole e familiare.

Ovviamente non è l’anoressia in sè che è un abitudine, però possono diventarlo molti degli atteggiamenti e dei comportamenti legati all’anoressia. Il checking, per esempio. Oppure lo svolgere una determinata attività fisica per un determinato lasso di tempo. Oppure il pesarsi più volte al giorno, o il non pesarsi mai. Oppure il redigere “piani di restrizione alimentare” giornalieri. E la strada del ricovero inizia proprio col rompere questi circoli viziosi: dare un taglio a tutti i comportamenti che reiterano i tipici pensieri dell’anoressia. È ben comprensibile come tutto questo possa essere terrorizzante, e come possiamo cercare scuse di fronte a noi stesse per rimandare.

Salvo gli aspetti emotivi gratificanti, alla lunga l’anoressia è un inferno. Ma è un inferno familiare. È un inferno col quale abbiamo imparato a rapportarci, con il che le fiamme non sono più poi così calde. È un inferno che ha un suo certo ritmo, una ragion d’essere e (posso dirlo?) una sua funzionalità. La restrizione alimentare non è un peso perché ci fa sentire forti e in controllo. E i deficit fisici che la restrizione comporta non sono poi così terribili quando ci abituiamo. Perché un qualcosa di obiettivamente distruttivo come l’anoressia fa provare sentimenti così positivi? Dov’è che l’ingranaggio s’incastra e comincia a girare, come impazzito, verso l’oscurità? L’oscurità fa meno paura del sole, in fin dei conti: dopo un po’ ci si abitua, anche se non si vedono le cose comunque s’intravedono le forme, e non si corre il rischio che la luce possa ferire gli occhi.

Percorrere la strada del ricovero significa intraprendere la strada della luce. Ci vuole un sacco di tempo per capire se questo sia piacevole o meno, è non è sempre facile essere positive al 100% quando si cammina su una strada così difficile. Quello che ci deve mantenere in carreggiata è la consapevolezza che l’altra strada – quella dell’anoressia – è in realtà un vicolo cieco: prima o poi si finisce comunque per sbattere contro un muro. Intraprendere la strada del ricovero significa darsi una possibilità. E nessuno può dire cosa questa possibilità ci possa riservare. Magari il tempo per dedicarci a qualcosa che ci appassiona veramente. Magari la capacità di sederci sul divano e guardare un film dall’inizio alla fine senza avere l’ansia di dover fare ancora un po’ di attività fisica.
Questo è il ricovero. Non tutto il ricovero, ovviamente, ma parte di esso.

Il cambiamento non è necessariamente un qualcosa di negativo. Siamo molto più forti di quello che crediamo, ed abbiamo tutta la capacità di affrontare a testa alta le difficoltà che la vita ci pone davanti anche senza bisogno di ricorrere all’appoggio dell’anoressia. Perché siamo più forti SENZA l’anoressia.

P.S.= E' stata istituita una petizione on-line per istituire una giornata nazionale sui DCA: per firmarla, potete andare a questo link:
Petizione DCA
Io ho già firmato... e voi che aspettate a farlo? Ogni singola firma può essere preziosa! Aggiungetevi alla lista e fate girare la notizia!
Grazie a chiunque lo farà...!

mercoledì 20 luglio 2011

Freni al ricovero: E' complicato

La vita è incredibilmente complicata. Ci sono le relazioni interpersonali (amici, familiari, colleghi di lavoro, compagni di scuola, etc…), c’è il lavoro, c’è la scuola, c’è lo sport, e ci sono comunque un sacco di variabili sulle quali in realtà non possiamo avere alcun controllo. Sebbene l’anoressia non sia solo ed unicamente sinonimo di “controllo”, trovo che la necessità di avere il controllo sia uno dei leit-motive di ogni DCA.

Molto spesso, quando si percorre la strada del ricovero, sebbene non si provi esattamente la “mancanza dei bei tempi andati” quando eravamo completamente in balia dell’anoressia, quando sentiamo la mancanza del DCA sono proprio i momenti in cui la vita sembra farsi più difficile, ed allora sentiamo la mancanza della semplicità connessa all’anoressia. E questo può essere un ulteriore blocco al ricovero.

L'anoressia semplifica la vita

Quando si è nel pieno dell’anoressia, le cose che c’interessano sono essenzialmente 3: perseguire la restrizione alimentare, continuare a provare il senso di controllo e di soddisfazione che ci dà la restrizione alimentare, cercare di nascondere al resto del mondo quello che stiamo facendo. Possiamo anche avere qualche difficoltà nel lavoro o nella scuola – ma va bene comunque, perchè stiamo restringendo l’alimentazione. Possiamo anche avere difficoltà a preparare una gara sportiva – ma va bene comunque, perchè ci sentiamo soddisfatte di noi stesse, sentiamo di avere il controllo e che, perciò, possiamo controllare qualsiasi ambito della nostra vita. Possiamo anche aver litigato con la nostra migliore amica – ma va bene comunque, perché siamo state brave a raccontare bugie e nessuno ha fatto caso a quanto poco anche oggi abbiamo mangiato. Ta-dah! E’ semplice, no?! Fintanto che continuniamo ad esercitare il nostro ferreo controllo alimentare, la vita diventa tremendamente semplice perchè nient’altro conta.

E poiché più si prosegue la restrizione alimentare, più sono gravi le carenze dell’aminoacido triptofano, minore è la produzione di serotonina, peggiore è la neurotrasmissione, maggiore è l’ossessività dei pensieri inerenti il DCA, la semplicità diventa poco a poco sempre più pronunciata. Perché, letteralmente, l’unica cosa cui si diviene capaci di pensare è la restrizione alimentare. Anche se si volesse, anche se si avesse bisogno di pensare a qualcosa di diverso, non ci si riesce. Tutto va a ruotare intorno alla restrizione e al senso di controllo e di soddisfazione che ne derivano. Ci sembra di avere la nostra vita tanto più in mano quanto più ci sta sfuggendo. Certo, la ginnastica mentale che bisogna fare per perseguire la restrizione alimentare è tutt’altro che semplice. Ci si sforza continuamente d’immaginare quali circostanze potrebbero limitare la possibilità di restringere l’alimentazione, e in quale modo fare la cresta a quel che mangiamo. Nonostante questo, tale ginnastica mentale è comunque più semplice di tutte le altre sfide che la vita ci porrebbe davanti se non avessimo lo schermo dell’anoressia. Così s’impara a negare, a isolarci, a mentire, a nascondere, per preservare l’anoressia e l’apparente semplicità e controllo che questa pare, in un primo momento, apportare.

Quando si è nel pieno dell’anoressia, non si è molto preoccupate relativamente a quello che sarà il futuro lontano – non si pensa neanche, per esempio, che l’anoressia possa ucciderci. Non si pensa minimamente ai danni che l’anoressia lascerà sul nostro corpo anche se dovessimo sopravviverle. Fintanto che l’anoressia rimane il nostro asso nella manica, fintanto che quel poco che mangiamo basta a mantenerci in vita, non si dà grande importanza al futuro. Non gli si dà grande peso.

Restrizione alimentare. Controllo. Attività fisica. Queste cose sono molto più facili rispetto a tutto il resto, rispetto alle relazioni interpersonali, al lavoro, allo studio. La vita richiede che ci mettiamo tutte noi stesse per giocare in ruoli differenti, cavarcela in situazioni diverse, rapportarci a persone differenti. E’ difficile. Quando riceviamo un invito a cena da un’amica, dobbiamo determinare come quest’invito possa essere incastrato con i nostri impegni e le nostre responsabilità: dove queste responsabilità possono venire meno, se c’è bisogno di noi a casa, se possiamo organizzare gli altri impegni in modo da farci rientrare anche la cena. Quando si ha un DCA, tutti questi problemi non esistono: si declina l’invito e basta, in quanto cena = cibo = mangiare di fronte ad altri. Egoista, se vogliamo, ma definitivamente semplice.

Percorrere la strada del ricovero significa accettare la vita con tutti i suoi problemi, difficoltà e “catastrofi”. Significa giocare tutte le parti, e le cose non andranno sempre come vorremmo. Significa relazionarsi con le persone correndo il rischio di essere ferite. Significa accettare le nostre imperfezioni, e assumersi la responsabilità di provare a vivere davvero. Ma io credo che ne valga la pena. Che ne valga la pena comunque. Che valga la pena alzare la campana di vetro dell’anoressia, anche solo per respirare un attimo.

mercoledì 13 luglio 2011

Freni al ricovero: L'unica da sola

La solitudine, l’isolamento è un qualcosa con cui chiunque abbia un DCA si ritrova a doversi rapportare. A prescindere dall’effettivo numero di amici posseduti, spesso ci sentiamo come se nessuno potesse capire quello che stiamo provando: siamo in mezzo alla gente, ma ci sentiamo comunque sole. Nessuno che ci capisce, e nessuno che voglia capirci – continuiamo a ripeterci – agli altri non piacciamo, semplicemente ci tollerano. Sommando questi pensieri alla scarsa autostima di base, si fa presto a sentirci outsider. Questa consapevolezza fa male, e quel che è peggio è che molto spesso è accompagnata dal pensiero che non ci si possa far nulla. Siamo noi quelle strane, e questo è tutto.

L’allontanarsi dagli altri per via della sensazione di essere incomprese o sbagliate, porta a riempire i vuoti con la lettura, lo studio, il lavoro, lo sport, senza però permetterci di coltivare rapporti autentici con le persone che ci stanno intorno: tutti schermati dal DCA stesso che costruisce tutt’intorno a noi un muro. Anche se le nostre vite sono superimpegnate ed implicano lo stare in mezzo alla gente, ciò non vuol dire che non siamo comunque sole. Ed ecco che l’anoressia ha un ruolo importantissimo.

L’anoressia è una “cura” per la solitudine

Un DCA è colmo di paradossi e di ironia, e il “fattore solitudine” è parte di ciò. Se ci pensate, infatti, l’anoressia ci isola più che mai: si smettono di fare tante cose con gli altri, perché altrimenti poi avremmo troppo da mentire per giustificare, e di controcanto gli altri, vedendo che noi ci ritiriamo, si allontanano a loro volta, il che ci isola ulteriormente. In sostanza: un circolo vizioso.

Eppure, sebbene siamo più sole che mai, l’anoressia ci fa credere che quella solitudine sia il top. Meglio non avere amici, così non si corre il rischio di essere ferite, non si deve giustificare quello che (non) mangiamo, non bisogna impegnarci in relazioni che potrebbero correre i rischio di farci male. Meglio non avere amici, così nessuno c’inviterà mai a prendere un gelato per merenda, e potremo restringere l’alimentazione senza che nessuno ci dica niente. Sembra proprio ganzo. In un certo senso, lo è veramente.

Ecco perchè l’anoressia rende la solitudine meno pesante, anzi, desiderabile. Capite? Nessuno può farci notare esplicitamente che ci stiamo facendo del male, nessuno può giudicare o commentare quello che facciamo, nessuno può ferirci, nessuno può farci sentire sbagliate. L’anoressia diventa così la nostra unica “amica”. L’ironia in tutto questo è che si finisce per allontanare anche quelle poche vere amicizie che abbiamo, perché non vogliamo correre il rischio di perdere in maniera dolorosa coloro ai quali vogliamo bene. È molto facile arrivare a questo, un po’ per la natura stessa dei DCA (gli altri capirebbero subito che c’è qualcosa che non va, se ci frequentassero abitualmente) un po’ perché il DCA rende più facile l’allontanamento costruendo muri tra le persone. Ma quando si è dentro l’anoressia, tutto questo non c’interessa: abbiamo l’anoressia stessa, del resto, di cos’altro mai potremmo avere bisogno??

Ovviamente, nel momento in cui si decide d’intraprendere un percorso di ricovero, bisogna affrontare il sentimento della solitudine. Sebbene nel ricovero si possa essere meno sole che nel pieno dell’anoressia (facendo una stima delle interazioni con i familiari e con gli amici), ci si sente peggio perché non c’è più l’anoressia a “giustificare” il senso di solitudine che si prova nel momento in cui ci si rende conto che le persone che ci stanno intorno, non avendo vissuto l’anoressia sulla propria pelle, non possono capire realmente quel che proviamo. E allora si prova il desiderio di ritornare all’anoressia perché per lo meno quella ci aveva fatte sentire meno sole. Ma se ci pensate, in realtà, non è che l’anoressia ci rende meno sole: fa solo pesare di meno la solitudine. Certo, riprecipitare nel DCA è piuttosto facile – in parte perché certe cose le abbiamo vissute da così tanti anni che sono diventate abituali, in parte perché ci sono comunque sensazioni positive correlate – ma i momenti in cui percorrere la strada del ricovero diventa più agevole, sono proprio quelli in cui abbiamo vicino persone che possano sostenerci in questo difficile percorso. Non so esattamente quale relazione intercorra tra le amicizie e il percorrere la strada del ricovero, ma ho notato senz’ombra di dubbio che riaprirsi agli altri facilita la lotta contro l’anoressia.

Il ricovero inoltre implica uno slittamento nel modo in cui percepiamo noi stesse. La negatività dell’anoressia si ripercuote inevitabilmente sulla nostra autostima, e non avendo feedback esterni non c’è niente che riesca a cambiare la nostra visione negativa di noi stesse. Relazionaci con gli altri, invece, implica uno scambio, un confronto, che a volte può essere pure doloroso, ma su lunga gittata diventa inevitabilmente costruttivo.

Inoltre, è necessario rendersi conto di due cose: innanzitutto che non siamo le uniche a percorrere la strada del ricovero, e che non siamo da sole, perchè in questo momento ci sono tante alt ragazze che stanno cercando di fare esattamente quel che stiamo cercando di fare noi. In secondo luogo, anche le persone che non hanno un DCA possono sentirsi sole, e sarebbe sciocco credere che percorrere la strada del ricovero significhi che non ci sentiremo mai più sole (anche se questo non sarà bello…). Si sentirà sempre la mancanza di come l’anoressia riusciva a rimuovere il senso di vuoto e di solitudine riempiendolo con le sue ossessioni, ma adesso possiamo essere consapevoli che ci sono anche tante altre cose che possono riempire quel vuoto.

mercoledì 6 luglio 2011

Freni al ricovero: Valium virtuale

Penso che l’ansia, più o meno marcata, sia un vissuto comune a chiunque stia alle prese con l’anoressia. L’ansia rende irritabili, e peggiora ulteriormente le cose che temiamo, un po’ come un serpente che si morde la coda.

Si comincia a star meglio quando ci si rende conto di quanto l’ansia possa pervadere la vita. Questo è il primo passo. Poi però bisogna imparare a mettere in atto strategie di coping contro l’ansia. Ed è proprio questo che mette un freno al percorrere la strada del ricovero:

L’anoressia è un ansiolitico

L’anoressia è una strategia di coping che permette di limitare l’ansia grazie alla sensazione di (illusorio) controllo che fornisce. L’ansia deriva infatti per lo più dal timore che qualcosa non vada come vorremmo, che esca dalla nostra sfera di controllo. L’anoressia sembra fornire la chiave del controllo. Ecco quindi che la malattia diventa la cura. Se possiamo controllare le cose (questo è ciò che l’anoressia ci fa credere), allora possiamo farle andare come vogliamo, ed evitare sorprese indesiderate, quindi possiamo contenere l’ansia. E se proprio, pur controllando l’andamento delle cose, il risultato non fosse conforme alle nostre aspettative, poiché detto risultato deriva comunque dal nostro indirizzamento controllato dei fatti, siamo in grado successivamente di adottare un’altra strategia (sempre controllata!) che ci permetta di dirigere le cose in un’altra maniera, pervenendo ai risultati desiderati.

Se sale il controllo, cala l’ansia. In tal senso, l’anoressia è meglio del Valium. Possiamo controllare le cose, e ci sentiamo bene quando restringiamo l’alimentazione: quale migliore accoppiata potremmo desiderare?

Anche durante le ricadute, si è consapevoli che il ritorno all’anoressia non avrà un lieto fine, e che prima o poi saremo comunque costrette a ricominciare a seguire l’ “equilibrio alimentare” e a riprendere peso. Eppure, ogni volta ci sentiamo raggelate. E non soltanto per il peso da riprendere o per la paura del cambiamento, ma soprattutto per l’aumento dell’ansia che arriva spontaneo quando si rinuncia al “controllo” dell’anoressia. Ci sembra di non essere capaci di gestire quell’ansia senza ricorrere al DCA. Nel pieno dell’anoressia, ci sembra di sapere perfettamente quello che vogliamo: restringere l’alimentazione. In questo frangente, l’ansia si riduce notevolmente perché abbiamo per lo meno un’incrollabile certezza. Il fatto addizionale che l’anoressia sia un ottimo asso nella manica, riduce i livelli di ansia sostanzialmente a zero. Perché anche se tutto andasse a puttane, l’anoressia resta sempre, no?!

Iniziare il percorso di ricovero significa abbandonare tutto questo. Significa rinunciare al nostro Valium virtuale ed imparare ad adottare altre strategie di coping non disfunzionali nei confronti dell’ansia. Il ricovero di per sé – ahimè! – non riduce l’ansia. Ci si sente ansiose come prima e, anzi, forse sembra pure peggio perché siamo appena reduci da un qualcosa che aveva fatto scomparire l’ansia totalmente. Ci sono millemila strategie di coping nei confronti dell’ansia, dallo yoga, alla meditazione, al masticare chewing-gum, al prendere una camomilla, al ricamare, al cercare di distrarsi… e ce ne vogliono a milioni, di queste strategie, perché non tutte sono funzionali per le differenti situazioni. Ovviamente non posso mettermi a prendere una camomilla se sono nel bel mezzo di una gara, ma posso respirare a fondo e dire a me stessa di rimanere concentrata su ciò che sto facendo per impedire alla mia testa di divagare ed essere facile preda dell’ansia. Inoltre, bisogna imparare ad accettare il fatto che la vita non si può controllare, e che quindi l’ansia non potrà mai essere eliminata del tutto, ma che non è così insormontabile da doverla tamponare con l’anoressia. Perciò, quando vi trovate a provare particolare ansia nel percorrere la strada del ricovero e vi viene voglia di rituffarvi nell’anoressia, prendetevi un attimo per pensare: “Quest’ansia l’ho già vissuta, e non ne sono morta. L’anoressia può essere un Valium, un palliativo, ma non la risolve. Perciò, tutto quello che posso fare, è affrontare quest’ansia tal quale. L’ansia non mi ha mai uccisa, quindi ce la posso fare anche stavolta”.
 
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