Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 27 settembre 2013

Il trauma di avere un DCA

Pochi giorni fa, una lettrice di questo blog (che preferisce rimanere anonima) che mi ha dato il permesso di scrivere questo post utilizzando una parte di una e-mail che mi ha scritto, mi ha raccontato di un incubo ricorrente che la perseguita da alcune settimane. Riprendendo dunque quel che mi ha scritto:  

“[…] in sostanza sogno di essere ritornata al punto di partenza. Non succedono chissà quali disgrazie, chissà quali tragedie, ma provo una fortissima ansia poichè in questo sogno ci sono io che sono ricoverata nel reparto di psichiatria dell’ospedale della mia città, laddove ho svolto il mio primo ricovero. Ho toccato il fondo di nuovo. Ho avuto una ricaduta, anche se non saprei dire come o perché. So solo che mi sogno di nuovo in quella camera d’ospedale, con il personale che mi dice cosa, quando e quanto mangiare, che mi segue se vado in bagno, che si accerta costantemente che non faccia movimento, che dice a me, donna ventiseienne, quando andare a letto. Sempre lo stesso incubo, notte dopo notte. Mi sento intrappolata in quell’ospedale, completamente priva di speranza, e poi mi sveglio in preda all’ansia. Mi dovrei preoccupare? […]”

Un disturbo alimentare generalmente non viene considerato un Trauma-con-la-T-maiuscola. Perché è comunque in qualcosa cui possiamo opporci, contro cui possiamo combattere, che possiamo allontanare sempre un po’ di più dalle nostre vite, in funzione della nostra volontà, con adeguato supporto terapeutico. Dunque un DCA non rappresenta un trauma nel senso canonico del termine. Eppure, a suo modo, io credo che lo sia. No, non genera un disturbo post-traumatico da stress (DPTS), questo è vero, ma ciò non significa che una persona con un DCA non stia vivendo comunque un’esperienza traumatica.

Se cercate su Internet qualsiasi cosa metta in relazione l’anoressia/la bulimia con i traumatismi, vedrete che tutta la letteratura si concentra sul DPTS e sugli eventi traumatici che possono aver rappresentato la matrice di un DCA. Questa correlazione può essere assolutamente vera, e vale la pena che vengano condotti studi al riguardo, ma tutto ciò non risponde ad una domanda: quanto i DCA stessi possono essere considerati un evento traumatico?

Una persona che viene ricoverata o seguita ambulatorialmente deve mangiare quando non vorrebbe farlo, e mangiare alimenti che non vorrebbe assumere. Viene violato il suo bisogno di controllo assoluto. Ci sono medici pronti a pesarla, valutarla, rivoltarla come un calzino. Ci sono i ricoveri in ospedali o cliniche, ci sono i millemila commenti da parte di genitori, parenti, amici, colleghi, e completi estranei. C’è la perdita di anni di scuola o di lavoro, la perdita della possibilità di fare sport. La perdita di amicizie. E così via. Per alcune persone tutto questo rappresenta un Trauma-con-la-T-maiuscola, che conseguentemente genera un DPTS. Per altre persone, questo è soltanto un trauma-con-la-t-minuscola. Si trovano in difficoltà sul momento, ma non ne risentono particolarmente a lungo termine.

E questo non vale solo per chi vive l’esperienza dell’anoressia/bulimia, ma anche per i familiari: mi è capitato di parlare con i genitori di ragazze con un DCA, ed è venuto fuori che diversi di loro presentavano un DPTS in conseguenza del timore che avevano avuto di perdere le loro figlie, delle lotte quotidiane contro il loro rifiuto di alimentarsi adeguatamente, delle difficoltà della psicoterapia familiare.

Uno psichiatra, Mark Epstein, ha pubblicato un articolo sul “New York Times”relativo al “Trauma del sopravvissuto”.  

“Mentre noi siamo avvezzi a pensare ai traumatismi come inevitabile conseguenza di grandi sconvolgimenti,” scrive lo psichiatra “la vita quotidiana è piena di infiniti piccoli traumi. Le cose si rompono. Le persone possono ferire. Le zecche provocano la malattia di Lyme. Gli animali domestici scappano. Gli amici si ammalano, e talora possono anche morire.

Un trauma non è semplicemente il risultato di una serie di tragedie e disastri. Non colpisce solo una ristretta gamma di persone. Una corrente sotterranea di piccoli traumi è presente nella vita di tutti i giorni, e questi colpiscono in maniera subdola ma s’impregnano a fondo nelle persone. Mi piace dire che se non stiamo tutti soffrendo di un disturbo da stress post-traumatico, allora stiamo soffrendo di un disturbo da stress pre-traumatico. È impossibile vivere senza avere la consapevolezza di tutti i potenziali disastri. In un modo o nell’altro, la morte (o i suoi parenti: l’anzianità, la malattia, gli incidenti, le perdite, le separazioni…) incombe su tutti noi. Nessuno ne è immune. Il nostro mondo è instabile e imprevedibile, e funziona – in larga misura e nonostante l’incredibile progresso scientifico – senza che noi abbiamo alcuna possibilità di controllarlo.”
(mia traduzione) 

Capire che un DCA in sè per sè può essere un trauma, è un qualcosa che può richiedere anni. Perché non sembra un qualcosa di così grosso da poter essere definito, ipso fasto, traumatico. Certo, avere un DCA può essere apparentemente meno terribile rispetto ad altre esperienze (come per esempio la perdita di una persona cara), ma questo non significa che non lasci cicatrici.

Avere l’anoressia/la bulimia e vivere un ricovero, e dover combattere giorno dopo giorno è, a suo modo, profondamente traumatizzante, e non c’è poi granché altro da aggiungere. Non è un trauma come quelli che ci sono stati inculcati essere tali (stupro, violenza, abuso, perdita…), per cui tendiamo a non configurarlo come tale. Ma resta il fatto che, come l’e-mail che ho ricevuto da parte di questa ragazza conferma, alcune persone che pure sono ad un buon punto nella loro strada del ricovero dall’anoressia/bulimia, hanno comunque delle memorie traumatiche. È un qualcosa di reale, e le persone che lo vivono necessitano di aiuto esattamente come chi ha vissuto ogni qualsiasi altro tipo di traumatismo.

venerdì 20 settembre 2013

Quando ad avere un DCA è una mamma

Uno dei (falsi) luoghi comuni più diffusi a proposito dei DCA, è che queste patologie colpiscano soltanto le adolescenti. Certo, è vero che in molti casi l’esordio di un disturbo alimentare coincide proprio con l’età adolescenziale, ma la vita non si esaurisce nell’adolescenza. E allora, cosa succede quando queste adolescenti crescono? Il DCA non sparisce magicamente, e così la ragazzina continua a tirarsi dietro la patologia all’università, dopo la laurea, nell’età adulta, nelle relazioni, nella convivenza e durante un’eventuale gravidanza. Già, anche durante la gravidanza. Se c’è qualcuno che sta pensando che mettere al mondo un figlio trasformi istantaneamente una donna in una madre, mi sa tanto che si sbaglia di grosso. Ci sono alcune persone in cui l’esperienza di una gravidanza aiuta a combattere il DCA, altre in cui invece peggiora la situazione.

Dunque, cosa succede quando una donna torna a casa dall’ospedale insieme al suo partner, a suo figlio, e al suo DCA?

Prima di mettermi a scrivere questo post ho dato un’occhiata agli articoli che parlano di anoressia e gravidanza, e mi sono così accorta che nella maggior parte dei casi le donne incinta con un DCA vengono considerate delle egoiste. La premessa è che sono queste stesse donne che scelgono di essere malate, e quindi dovrebbero concentrarsi sul loro DCA e non pensare ad avere un figlio.

Okay, diciamo come la penso io: sì, una madre è responsabile della salute e della sicurezza dei propri figli; ma una donna non è soltanto una madre dal momento in cui partorisce. È una PERSONA, con tutti i suoi ghiribizzi e idiosincrasie e tutto quello che una persona può avere, per cui non deve sembrare una cosa così egoista e fuori dal mondo che una persona con figli possa avere anche un DCA.

Altra cosa: potremmo per favore smetterla con l’idea che le persone scelgano scientemente di quale malattia mentale ammalarsi, e di rimanere malate? Anche basta, eh.

E dunque, tra tutti questi falsi miti sulla femminiltà, maternità, e disturbi alimentari, com’è che si sente veramente una madre che ha un DCA? Dato che io non sono (né sarò) madre, per rispondere a questa domanda ho trovato un interessante articolo scritto dagli psicologi australiani Stitt e Reupert, che hanno intervistato 9 madri affette da DCA, per capire come possa essere barcamenarsi tra figli, lavoro, vita e una malattia mentale potenzialmente letale.

Cominciamo dal titolo. Il titolo mi ha fatto storcere il naso parecchio, però devo dire che il resto dell’articolo era interessante. Il titolo recita: “Madri con un disturbo alimentare: il cibo viene prima di tutto”. Quando l’ho letto, mi è venuto l’impulso di prendere a testate il monitor del computer. Ma che diamine… Certo, sicuramente il cibo condiziona la vita di una persona che ha un disturbo alimentare, ne altera le relazioni sociali e interferisce nella relazione madre-figli, ma non è in alcun modo totalmente rappresentativo di una persona che ha un DCA. Anzi, immagino che una madre con un DCA faccia di tutto per cercare di tener testa all’anoressia/bulimia/binge/DCAnas, nasconderla agli occhi dei propri figli, e cercare di conservare un’apparenza normale.

A parte questa considerazione sul titolo, l’articolo mi è piaciuto perché vengono intervistate queste madri, e credo che le esperienze di vita in presa diretta siano veramente utili ed importanti per documentare una realtà e farla comprendere.

Di queste 9 donne intervistate, 4 sono affette da anoressia, 4 da bulimia e 1 da DCAnas. Hanno tra 1 e 4 figli e tutte in passato hanno in qualche modo cercato di curare il loro DCA ricercando un aiuto professionale.

Ci sono 6 punti principali che vengono toccati nelle interviste:

• L’impatto che il DCA della madre ha sui figli
• Il modello proposto ai figli di un’alimentazione disturbata
• La priorità che il DCA riveste nella vita delle madri
• La motivazione al ricovero che può dare il fatto di avere dei figli
• La segretezza che circoscrive il DCA
• I trattamenti necessari

Tutte le donne dichiarano di avere difficoltà a stabilire dei limiti tra il loro DCA, i loro figli, e le loro relazioni sociali.

Una di queste donne dice: “Ho speso un sacco di tempo dietro alle ossessioni sempre presenti nella mia testa, tempo che ho rubato alla possibilità di fare cose insieme ai miei figli. Mi chiedo quanto tempo ho realmente perso, quante attenzioni gli ho sottratto, quante volte sono stata una madre assente?”

Tutte le donne intervistate, inoltre, dichiarano di sperare che il DCA non colpisca anche i loro figli, ma allo stesso tempo tutte ammettono che sono preoccupate all’idea che i loro figli possano copiare i loro erronei comportamenti alimentari.

Una mamma dice: “La mia più grande paura è cosa potrebbe succedere se mia figlia mi copiasse… Il DCA è la mia strategia di coping, e sono terrorizzata all’idea che lei possa rendersene conto e pensare qualcosa come: “Okay, la mamma fa così quando si trova di fronte a certe situazioni, quindi lo faro anch’io””.

Sebbene i figli accrescano le ansie materne per come possono influenzarli col loro DCA, è anche vero che per alcune di loro essi rappresentano una motivazione per mettercela tutta nel combattere contro il proprio DCA.

“Non voglio che le mie figlie crescano con una madre che sia in qualche modo disfunzionale” dice una delle intervistate “Sto cercando di combattere contro il DCA proprio per questo. Vorrei stare meglio per permettere alle mie figlie di crescere in un ambiente sano. Se non fosse stato per loro, onestamente o sarei morta, o sarei alle prese con una ricaduta dietro l’altra.”

Ci sono tuttavia delle difficoltà per queste madri per ricevere un trattamento adeguato: la maggior parte di esse nota come la stragrande maggioranza dei servizi offerti sia diretto alle adolescenti, a chi non ha una propria famiglia, e quanto sia difficile trovare un appuntamento per una donna che ha dei figli e lavora, e quindi ha dei tempi diversi rispetto a quelli di una ragazzina.

Una donna dice: “I terapeuti spesso non si rendono conto che non tutti hanno una babysitter, e che quindi la possibilità di seguire costantemente una terapia è condizionata dale necessità dei figli. Uno psicoterapeuta mi ha detto: “Se non puoi venire almeno una volta alla settimana, non si può lavorare in maniera efficace”. Io gli ho risposto: “Ci provo, ma se i miei figli sono malati e devo stare con loro, che ci posso fare?””

La conclusione dell’articolo (conclusione che, come il titolo, non mi piace) è che le donne con un DCA non riescono a gestire adeguatamente ed efficacemente né il loro DCA, né il loro ruolo di madre.

Penso che questa conclusione sia molto superficiale, e che sarebbe necessario andare più in profondità.

Per quanto le 9 madri intervistate riconoscano l’impatto avverso che un DCA può avere sui loro figli/e, alcune lo minimizzano. Tuttavia, è interessante notare come una di queste madri sottolinei il fatto che questa minimizzazione fa parte del proprio diniego relativo al DCA stesso. La vergogna associata all’avere un DCA in età adulta, e la conseguente necessità di nascondere il proprio disturbo alimentare agli occhi dei propri figli, è forse associato a questo diniego. Alcune madri sentono che per certe cose il DCA è prioritario ai loro figli ma, allo stesso tempo, trovano nei figli la spinta per continuare a combattere contro il DCA. Questo significa che queste madri cercando di destreggiarsi tra le richieste del DCA e quelle dei propri figli, e vengono sballottate dalle une alle altre, il che rende molto difficile uscire dall’impasse. Eppure, credo sia proprio su questa ambivalenza che gli psicoterapeuti potrebbero proprio efficacemente lavorare.

Pur non avendo vissuto in prima persona quest’esperienza, io credo che una madre con un DCA faccia del suo meglio per gestire sia il suo DCA, sia la sua responsabilità in quanto genitore. E il fatto che persista il falso luogo comune che le madri malate di anoressia/bulimia siano infantili, capricciose, egoiste, prive di voglia di guarire, non aiuta proprio per niente. Le madri con un DCA avrebbero bisogno di un trattamento costruito sulle loro necessità, sui loro tempi ridotti, sulla necessità di gestire lavoro, partner, figli, vita, contemporaneamente. Vivere con un DCA è estremamente difficile, sia per la persona malata, sia per i suoi familiari, ed è troppo facile scaricare la colpa su chi ne soffre. Un genitore con un disturbo alimentare ha un grosso impatto sui propri figli, e questo non può e non dev’essere ignorato. Una madre con un DCA sta male, e non dovrebbe essere indicata a dito come esempio di egoismo, ma aiutata. (Così come i suoi figli, non sto cercando di minimizzare le sofferenze di un figlio/a di una persona che ha un DCA, che certo si trova a dover sostenere una situazione difficilissima.) Penso che, a tal proposito, potrebbe essere molto utile la creazione di centri di terapia di gruppo sia per le madri che hanno un DCA, sia per i loro figli che risentono della situazione.

Ci vorrebbe più comprensione e supporto, e meno luoghi comuni e giudizi.

venerdì 13 settembre 2013

Perchè chi ha un DCA è (generalmente) un disastro nell'alimentazione intuitiva

Come ho scritto nel post di Venerdì scorso, credo che tutte le persone che hanno un DCA abbiano problemi con la corretta percezione delle sensazioni di pienezza/sazietà. Penso che ci siano molteplici fattori che rendono ragione di ciò, non ultimo il fatto che il DCA sia parte della propria vita da molto tempo. Ma immagino che questa non sia l’unica ragione.

Per cui, benvenute nello strano mondo dell’ “interocezione compromessa”. Per chi se lo stesse chiedendo, l’interocezione è la percezione dello stato interno del nostro corpo, della nostra interiorità. Comprende sensazioni come la fame, la stanchezza, l’emozione, il dolore, il disgusto, etc, ed è generalmente processata ed integrata in una regione del nostro cervello chiamata insula.

Vi riporto una breve descrizione dell’interocezione e dell’insula tratta da “Scientific American Mind”:  

“Siamo consapevoli se si è affamati o sazi, se ci fa caldo o freddo, se abbiamo prurito o sentiamo dolore quando i recettori presenti sulla pelle, sui muscoli e negli organi interni mandano segnali ad una regione del cervello chiamata insula. Questa piccola porzione di tessuto neurale è localizzata in una profonda piega del tessuto cerebrale più esterno, vicino alle orecchie. Essa coltiva al consapevolezza dello stato del corpo e, così facendo, riveste un importante ruolo nella consapevolezza di sé e nell’esperienza emotiva. I dati interocettivi si combinano a livello dell’insula con le informazioni che provengono dall’esterno dell’organismo: quest’area cerebrale, per esempio, connette il dolore acuto che proviamo quando tocchiamo una pentola incandescente, con il segno dell’ustione che compare sul palmo della mano”.
(mia traduzione) 

Numerosi studi hanno connesso l’ “interocezione compromessa” con lo sviluppo e il mantenimento di anoressia/bulimia. Uno studio recente pubblicato sulla rivista “Appetite”, ha scoperto che l’interocezione è correlata alla capacità che ha una persona di riuscire con successo nell’alimentazione intuitiva (“intuitive eating” – forse ne avete sentito parlare con questo nome). Migliore è la propria interocezione, migliore è la propria capacità di alimentarsi intuitivamente. (Herbert et al., 2013)

Il che spiega molto bene perché la stragrande maggioranza delle persone con un DCA (io in prima fila) sono un disastro con l’alimentazione intuitiva.

Personalmente, non ho mai formalmente messo alla prova la mia capacità di interocezione (sebbene esista un test per farlo – ve ne parlerò tra qualche minuto. Se conoscete il numero delle vostre pulsazioni cardiache a riposo perché praticate qualche sport a livello agonistico, e quindi fate spesso dei controlli per le visite medico-sportive (cosa che io faccio per lavoro), il risultato del test vi verrà falsato. Ma se non le conoscete, allora potrebbe essere divertente fare questo test.) ma conoscendo la mia generale incapacità in questo genere di cose, posso facilmente immaginare come la mia interocezione faccia più o meno schifo.

Comunque, tornando allo studio di cui vi accennavo, ecco cos’hanno scoperto i ricercatori.

Sono state valutate 111 studentesse universitarie della University of Tubingen, valutando la loro attitudine all’alimentazione intuitiva, i loro livelli di ansia nell’immediato e a lungo termine, e la loro interocezione. L’alimentazione intuitiva, per chi non lo sapesse, è definita come la capacità di: mangiare in risposta alla sensazione fisica (e non emotiva!!) di fame, scegliere liberamente cosa mangiare, e smettere di mangiare nel momento in cui si avverte la sensazione di sazietà. La cosiddetta “Intuitive Eating Scale” misura proprio questi 3 specifici aspetti dell’alimentazione intuitiva:

• permesso incondizionato a mangiare quando viene percepita la sensazione di fame qualsiasi cibo sia desiderato
• capacità di mangiare per fame fisica e non emotiva
• dipendenza da stimoli interni della fame su quando e quanto mangiare

È evidente che la corretta percezione degli stimoli interocettivi quali fame/sazietà è un elemento-chiave dell’alimentazione intuitiva. Ma nessuno prima d’ora aveva misurato la connessione tra le due cose.

Per testare l’interocezione, i ricercatori utilizzano il “Test del Battito Cardiaco” dove la persona che vi si sottopone è chiamata a sentire le proprie pulsazioni cardiache, senza misurarle formalmente. Le persone che hanno una buona consapevolezza interocettiva realizzano ottimi risultati riuscendo a valutare con ottima approssimazione il loro numero di battiti cardiaci al minuto, perché riescono in qualche modo a sentire il tu-tum del proprio cuore. Studi condotti in precedenza avevano svelato che il “Test del Battito Cardiaco” era molto buono per valutare i molti aspetti dell’interocezione come le sensazioni di fame/sazietà (Herbert et al., 2012), e che le persone affette da anoressia ottenevano a questo test risultati significativamente peggiori di tutte le altre donne (Pollatos et al., 2008).  

Testa la tua interocezione!! 

Gentile lettrice/lettore, questo è un semplice test che ti consentirà di valutare la tua capacità interocettiva – ovvero la tua capacità di valutare la tua fame, il tuo dolore, la tua temperatura corporea, etc. Per eseguirlo ti servono un cronometro (i cellulari hanno spesso questa funzione) e una calcolatrice. Adesso siediti su una comoda poltrona e respira profondamente. Quando ti senti rilassata, dai il via al cronometro e conta i tuoi battiti cardiaci per un minuto cercando semplicemente di sentirne il ritmo. (Non cercare il polso radiale o il polso carotideo toccandoti il polso o il collo, sennò non vale!) Scrivi su un foglio il numero di pulsazioni cardiache che ti pare di aver sentito in un minuto.

Poi, misura le tue pulsazioni cardiache al minuto normalmente: sentendoti il polso oppure appoggiando le dita sul collo. Aspetta 2 minuti, poi fai un’altra misurazione di questo tipo. Fai la media tra le 2 misurazioni ottenute in questo modo.

Calcola la differenza tra i battiti cardiaci al minuto che avevi stimato sentendoli, e quelli che hai effettivamente misurato. Prendi il valore assoluto di questa differenza, e dividilo per i battiti cardiaci al minuto effettivamente misurati. Togli da 1 il risultato ottenuto.
La formula è questa:

1 – ( |battiti cardiaci al minuto stimati – battiti cardiaci al minuto effettivi| / battiti cardiaci al minuto effettivi)  

Interpretazione del tuo risultato

Se il tuo risultato è maggiore o uguale a 0,80, la tua abilità interocettiva è molto buona.
Un risultato compreso tra 0,60 e 0,79 indica una moderata capacità interocettiva.
Un risultato inferiore a 0,59 è sinonimo di una scarsa capacità interocettiva.

Gli studi di cui vi parlavo prima hanno documentato che le persone capaci di ottenere buoni risultati al “Test del Battito Cardiaco” erano le stesse persone che se la cavavano bene con l’alimentazione intuitiva e ottenevano ottime prestazioni in termini di: mangiare per fame fisica e non emotiva, e capacità di rispondere agli stimoli interni.

Non sorprendentemente, le persone che riuscivano peggio nell’alimentazione intuitive erano le persone con un B.M.I. particolarmente basso o particolarmente alto. Il che correla molto bene con l’idea che le persone affette da un DCA che altera significativamente il loro peso corporeo sono le meno capaci di ascoltare i segnali di fame/sazietà del proprio corpo e che, viceversa, le persone che non hanno un DCA (e che, generalmente, hanno un B.M.I. compreso tra 18 e 25) e che mangiano quanto/quando hanno fame, mantengono più o meno il proprio peso anche se non ci pensano.

La capacità di realizzare un’alimentazione intuitiva viene spesso e volentieri vista come una sorta di apogeo nella “guarigione” da un DCA. Io penso invece che la flessibilità nell’alimentarsi sia una buona cosa, come può esserlo il cercare di capire quando si sia più o meno affamate/sazie, ma che una persona con anoressia/bulimia abbia bisogno di un aiuto un po’ maggiore di quello che l’alimentazione intuitiva potrebbe offrire naturalmente. È vero che sarebbe bello ricominciare ad alimentarsi con naturalezza però, nel momento in cui non ci riusciamo, penso sia giusto affidarsi ad un dietista/nutrizionista, che ci fornisca uno schema alimentare che ci consenta di mangiare in maniera adeguata senza far mancare niente al nostro organismo, sia in termini di energia che in termini di nutrienti.  

Voi cosa ne pensate?

venerdì 6 settembre 2013

L'altra faccia della medaglia della sensazione di fame: la sensazione di pienezza

Quando sono stata ricoverata in clinica sentivo un sacco parlare nella necessità per chi ha un DCA d’imparare a gestire la sensazione di fame. Non dico che parlare di questo sia inutile, assolutamente, ma ritengo che non sia l’unica variabile in gioco. La sensazione di pienezza rappresenta l’altra faccia della medaglia della sensazione di fame, eppure non riceve la medesima attenzione. Eppure io ho sempre trovato la sensazione di pienezza decisamente più difficile da gestire.

Uno dei più noti luoghi comuni che circolano a proposito dei DCA è che le persone affette da anoressia non abbiano fame. Non è difficile crederlo, poiché una frase che viene comunemente ripetuta dalle ragazze che hanno questo DCA, soprattutto quando la malattia è agli esordi, è: “No grazie, non ho fame adesso”. Penso che tutte non l’abbiamo detto almeno una volta, non è vero?!

Un’altra cosa interessante dei DCA, è che molte persone affette da anoressia riportano spesso, durante il loro percorso di riabilitazione nutrizionale, di avvertire la sensazione di sazietà precoce.

Partendo da questo dato di fatto, sono stati condotti numerosi studi di imaging cerebrale, ed è venuto fuori che esiste una base neurale che determina la comparsa di questa sensazione; non è dunque sorprendente il fatto che molte persone affette da DCA non riescano a percepire correttamente le sensazioni di fame e di pienezza.

Se ci pensate, vi accorgerete che quando si inizia un percorso di riabilitazione nutrizionale, la sensazione di fame si ripristina in tempi relativamente brevi. Questo non significa che si diventi rapidamente in grado di rispondere adeguatamente a questa sensazione: molto spesso infatti il senso di controllo indotto dall’anoressia è tale che anche se si sente la fame ci si impone di non mangiare. Sul non assecondare pensieri indotti dall’anoressia è naturalmente necessario lavorare con la psicoterapia. Il punto è che, a prescindere dal fatto che l’assecondiamo o meno, la sensazione di fame ricompare in modo relativamente rapido.

Viceversa, per quanto riguarda la sensazione di pienezza le cose sono più complesse. Per molto tempo si avverte una sensazione di sazietà precoce, che in un primo momento ha una base fisica perché il nostro apparato digerente è disabituato ad alimentarsi normalmente e regolarmente, poi ha senz’altro una base neurologica, e io credo che in parte abbia anche una base psicologica: il sentirsi piene giustifica lo smettere di mangiare senza sentirsi troppo in colpa perché non si sta seguendo l’ “equilibrio alimentare”: non mangio altro non perché non voglia seguire lo schema, ma perché davvero sono piena e non ce la faccio a mangiare nient’altro. Ovviamente, è un pensiero generato dall’anoressia: non si è veramente sazie, è solo che il DCA altera il senso di sazietà sia a livello fisico che a livello mentale.

Il problema è questo: anche dopo aver mangiato poco ci si sente come se avessimo già mangiato abbastanza. In realtà, non ci rendiamo veramente conto di quanto abbiamo mangiato: la sensazione di sazietà che si avverte non risponde ad un bisogno fisico, ma a uno stimolo mentale (patologico).

Questa tipologia di sensazioni può rendere molto difficile seguire il proprio “equilibrio alimentare” prescritto dalla propria dietista/nutrizionista, per cui, secondo me, quello che dobbiamo fare quando ci troviamo in una situazione del genere è cercare di ascoltare la parte razionale della nostra testa: in fin dei conti, sappiamo benissimo che il nostro schema alimentare è tarato perfettamente su di noi, è elaborato da una professionista ed è individualizzato, per cui quello che vi è scritto, quello che dobbiamo mangiare, è esattamente quanto ci serve per recuperare il peso perso (in un primo momento), o per mantenere il peso raggiunto (in un secondo momento). Non neghiamo le sensazioni di fame/sazietà che proviamo, ci sono e non ha senso ignorarle, però mettiamole momentaneamente da una parte, e ritiriamole fuori durante la psicoterapia, quando avremo modo di sviscerare con la nostra psicoterapeuta quali sono i problemi e le difficoltà che effettivamente nascondiamo dietro queste sensazioni correlate all’alimentazione. Mentre mangiamo, cerchiamo di far prevalere la razionalità, e di mangiare tutto quanto prescritto dal nostro “equilibrio alimentare”, anche perché più ci si riabitua a mangiare normalmente, meno queste sensazioni disagevoli si fanno sentire.

Quella che ho appena scritto è la mia opinione personale. Per la cronaca, il gold standard per la riabilitazione nutrizionale nelle prime fasi di un DCA quando c’è bisogno di recuperare peso è l’alimentazione meccanica, mentre il gold standard per l’alimentazione quando bisogna mantenere il peso raggiunto è la cosiddetta intuitive eating (alimentazione intuitiva). Su di me, nessuna delle due cose ha funzionato. E immagino di non essere la sola. Tuttora io seguo uno schema alimentare di mantenimento del peso che mi ha prescritto la dietista che mi segue. Se fossi lasciata a fare di testa mia, molto probabilmente ricomincerei a restringere. Non volontariamente, non intenzionalmente, ma credo proprio che lo farei. Ho bisogno di seguire il mio schema per avere un corpo sano. Questo è ciò che funziona su di me. So anche essere flessibile se è necessario, ma preferisco comunque, quando posso, mangiare seguendo il mio schema.

In realtà non ci sono ancora risposte scientifiche del tutto certe sulle sensazioni di fame e sazietà durante la riabilitazione nutrizionale. In ogni caso, resta il fatto che viene molto meno sottolineato (per lo meno, così mi è parso) l’aspetto della gestione della sazietà precoce rispetto all’aspetto di gestione della fame. Io penso che ambo le cose siano importanti, perché possono entrambe creare difficoltà a chi ha un DCA.

E voi cosa ne pensate? Avete mai avuto difficoltà nel riconoscere correttamente le vostre sensazioni di fame/sazietà? Come riuscite a gestire la vostra alimentazione? Se vi va, fatemi sapere come la pensate nei commenti.
 
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