venerdì 27 dicembre 2013
Lego House
Mi sono chiesta più e più volte, in questi giorni, cos’avrei potuto scrivere nell’ultimo post del 2013. Mi sono venute millemila idee diverse, ma nessuna mi sembrava veramente convincente. Ad un certo punto, però, mi sono trovata ad interrogarmi su cosa fosse veramente per me la fine dell’anno, ed è da questo interrogativo che ho tratto l’ispirazione per il post odierno.
Non so come la pensate voi, ma io vedo sempre il finire di ogni anno come un momento in cui concentrarsi su qualcosa di particolarmente positivo che c’è stato nei 12 mesi appena trascorsi, al fine di portare con sé quella cosa che ci ha fatte stare bene anche nel nuovo anno che si appresta ad iniziare. A ben pensarci, in questo 2013 ci sono state talmente tante cose da salvare e da portare dritte nel 2014, che se mi volessi concentrare su ognuna di esse singolarmente dovrei scrivere almeno una trentina di post. Sceglierne una sola è ben arduo, perché così facendo mi vedo costretta a tagliar fuori un sacco di cose e persone che hanno cambiato la mia vita in meglio durante quest’ultimo anno, un sacco di cose e persone che, ciascuna a loro modo, mi hanno aiutata a continuare a combattere contro l’anoressia.
Lo sport, il lavoro come istruttrice/arbitro di karate, il tirocinio in Pronto Soccorso… tutte cose che arricchiscono la mia vita e che voglio portare con me non solo nel 2014, ma anche in tutti gli anni a venire. Così come tutte le meravigliose persone che hanno incrociato la mia strada durante quest’anno. E se penso alle persone, ce n’è una in particolare che mi fa sorridere. Una persona con cui ho condiviso un sacco di esperienze e di pensieri. Una persona che mi illumina le giornate. La prima persona cui penso quando mi sveglio la mattina, e l’ultima persona cui mando un SMS di buonanotte la sera. La persona che più di ogni altra mi fa venire voglia di continuare a combattere contro l’anoressia senza mollare la presa. La persona più speciale che ci sia. Il mio migliore amico Alex.
Per cui, sì, credo proprio che quest’ultimo post del 2013 debba essere dedicato a lui.
E dunque, Alex, questo è per te.
Il cuore è un muscolo, solo questo. L’ho pensato per un sacco di tempo. Il cuore è un muscolo. Era molto più semplice vederla in questo modo, molto più conveniente. L’unico modo per non correre nessun rischio, in definitiva. Perché succede che a un certo punto i cuori interrotti, quelli le cui ferite sono aperte e sanguinano ancora, si congelano. E’ il loro modo per riprendersi e per difendersi dall’altro male che gli può essere fatto. Avere il cuore congelato ha indubbiamente dei grandi vantaggi, mi dicevo: primo fra tutti il fatto che, non riuscendo a provare niente, si evita di soffrire. Il cuore è un organo strano… in realtà è un organo di copertura, perché poi quello che noi chiamiamo cuore probabilmente lo fa la testa, e comunque sono collegati, un po’ come orecchio, naso e gola… il male che gli fai (o che gli fanno) non passa, si accuccia in un angolino e rimane lì, sempre vivo. Per la maggior parte del tempo dorme, ma poi succede che si risveglia. E quando si risveglia il male che fa è sempre uguale. Non ci sono ferite del cuore che passano. Si forma come un cerotto sopra, ma è talmente sottile che basta poco perché la ferita si riapra e ricominci a sanguinare. Quando il cuore è congelato questo non accade. Tutto tace, nel bene e nel male. Né gioia né dolore. Uno strano equilibrio che, allo stesso tempo, non fa stare bene ma non fa neanche stare male…
Ecco, per tanto tempo il mio cuore è stato questo. Solo un muscolo in definitiva. E mi andava benissimo così. Meglio non provare niente, che correre il rischio di essere ferita. Meglio non avvicinarsi a nessuno, non avere alcuna amicizia, tirare su muri contro chiunque, essere tutt’al più gentile, ma distante, mettere sempre paletti, tirarsi indietro il prima possibile. Avevo l’anoressia, e questo era quanto. E questo era tutto. Meglio seppellire quel vano sentimento dell’amicizia da qualche parte, molto in profondità. E andare avanti, a testa alta, guardando dritta davanti, concentrata sul percorso, solo l’anoressia al mio fianco, e niente più grane.
Io basto a me stessa. Pensavo così.
Tu hai interrotto il mio loop.
Tu sei stato un inciampo, ecco cosa. Ci ho pensato, è proprio così: tu sei stato un inciampo. Hai visto, proprio com’è quando s’inciampa. Ti sei messo in mezzo, così, all’improvviso, e io non ho fatto in tempo a scansarmi. Sono inciampata. Ero così fermamente convinta di avere il cuore congelato, così convinta che l’anoressia e il controllo fossero il fulcro della mia vita, e che niente e nessuno avrebbe potuto cambiare questa situazione, che non avevo proprio messo in conto la possibilità di un disgelo. Il cuore riprende a battere, le ferite si risentono e si trasformano in paura che ciò che ha fatto male possa accadere di nuovo… con altre modalità e con altre forme… ma si riprova una strana sensazione, quella di tornare a vivere. Si sente il muscolo pompare, il sangue scorrere… e rientrare in circolo. Ho preso le distanze dall’anoressia. Mi sono risvegliata. E non ero più abituata. E quando non si è abituati è facile cadere, è facile prendere dei muri a 200 all’ora contromano… Perché senza gelo intorno al cuore e senza la coperta di Linus rappresentata dall’anoressia, mi sono sentita vulnerabile. Così mi sono chiesta cosa fosse meglio: il cuore congelato o il cuore che riprende a vivere? La solitudine dell’anoressia o la possibilità di un’apertura? Prima credevo di conoscere la risposta. Ora non ho neanche più voglia di pormi la domanda.
La verità è che ho sempre avuto una paura incredibile di stare di nuovo male.
Tu sei stato un imprevisto. E, paradossalmente, hai cambiato tutto. Ero così convinta che sarei andata avanti da sola, che il controllo che mi faceva provare l’anoressia fosse l’unica cosa di cui avevo bisogno, che quando la mia strada si è incrociata con la tua, la prima cosa che ho pensato è stata che non potevo permettermi una simile distrazione. Eppure, inconsapevolmente, la mia testa aveva già cominciato a divagare. Senza volerlo, ero già entrata in una nuova misura. Senza volerlo, mi ero già voltata verso di te.
Io scrivo molto, però paradossalmente in realtà non mi piacciono granché le parole. Perché sono misere. Perché quando stanno nella tua testa, le cose sono grandi, enormi, immense… poi ti trovi a doverle mettere giù a parole, e quelle si rimpiccioliscono, si riducono a non più che grandezza naturale. A maggior ragione se si tratta di sentimenti. Come si può pensare di descrivere un sentimento a parole? Pensa all’amicizia, per esempio. Ad un amico si dice “ti voglio bene”. Sono tre parole semplici, brevi per giunta, assolutamente banali. E le si usano per esprimere un qualcosa che è tutt’altro che semplice e banale. E allora? C’è una discrepanza incredibile. Per questo non mi piacciono le parole. Perché non rendono l’idea. Per questo io “ti voglio bene” non l’ho mai detto a nessuno. Perché mi sarebbe sembrato di banalizzare, di svilire questo sentimento racchiudendolo in tre parole. Ma sai che cosa, ben pensandoci? Forse è proprio questo il bello. Che sono state inventate tre parole così semplici che riescono a dire qualcosa di davvero grande. E allora, voglio provarci anch’io.
E quindi ti voglio bene, ti voglio bene anche se non te l’ho mai detto esplicitamente face-to-face perché per me è difficile sciogliere la matassa dei sentimenti, e metterli giù a chiare lettere. Una volta mi hai detto che io sono la prima Vera Amica che hai incontrato da quando hai iniziato a frequentare Medicina. Bè, posso dirti solo che anche tu sei il migliore amico che avrei mai potuto conoscere. Se dovessi mettermi a ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me in questi anni, per come mi hai sempre supportata (e sopportata!) tuo malgrado, non mi basterebbero le prossime 10 vite. Ogni singola volta che mi hai telefonato ho esitato per un attimo a rispondere fissando il tuo nome sul display del cellulare e pensando col sorriso sulle labbra che eri troppo… troppo per me. Troppo, sì… troppo tutto per essere vero. Ma lo eri. Lo sei. E vorrei riuscire a dirti tutto questo a voce, ma lo scrivo perché so che non riuscirei a dirlo guardandoti negli occhi per più di 2 secondi senza sentirmi in difficoltà. Vorrei dirti tante cose, che è meraviglioso il semplice fatto che esisti, ma non ce la farei mai perché sarei sopraffatta dall'emozione, mi tremerebbe la voce, mi tremerebbero le mani, dovrei concentrarmi per mantenere una parvenza di normalità, e farei una fatica bestiale. Quando sono con te mi dimentico del tirocinio, del karate, di cosa devo fare nella settimana, del lavoro, dell’anoressia, del controllo, di respirare. Penso che tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata. E se mai sono riuscita a fare qualcosa per te, è niente rispetto alla gioia che ho provato nell’esserti stata vicino in questi anni: non sai quanto bene mi hai fatto. Sei stato tu a trasformarmi, Alex. Sei stato il motivo del mio primo vero sorriso dopo tanto tempo. Il solo pensiero che avrei potuto non conoscerti mi è sempre risuonato dentro come la peggiore delle minacce, perciò ringrazio la casualità che ti ha portato nella mia strada. Mi sono sempre sentita privilegiata anche solo per aver ricevuto la tua amicizia, il tuo sguardo, la possibilità di addentrarmi anche solo un po’ nel tuo mondo. Perché io non avrei mai immaginato di poter trovare un amico a cui voler bene quanto ne voglio a te.
Ma queste sono parole, e io sento che le parole adesso non bastano per descrivere la nostra amicizia, e per esprimere il bene che ti voglio. E allora, provo a dirtelo in una forma che mi è più congeniale: con un video. Io come Chloe Sullivan (interpretata da Allison Mack), tu come Clark Kent (interpretato da Tom Welling) nel telefilm “Smallville”. La nostra amicizia raccontata con le loro immagini, perché è come la loro amicizia: più forte di tutti, più forte di tutto.
(QUI per vederlo direttamente su YouTube) In fondo, posso solo dirti grazie. Grazie di tutto. Davvero. Ti voglio un bene dell’anima per la persona stupenda che sei e per tutto quello che mi hai dato da quando ci siamo conosciuti. Mi fai venir voglia di continuare a combattere e a tenere duro ogni volta che ti vedo, o anche solo ogni volta che ti penso. Mi rendi migliore.
(Graduation Day, 25/07/2013) (click sulla foto per ingrandire)
So che adesso abbiamo fatto scelte molto diverse per il nostro futuro, e dunque non potremo più stare side by side come quando andavamo a lezione insieme tutti i giorni, ed ognuno di noi s’incamminerà per la propria strada… Sono però sicura che, nonostante questo, l’amicizia che ci lega non cambierà d’una virgola. So che ci vedremo molto più raramente ma, pur con tutti i nostri rispettivi impegni, spero proprio che continueremo a trovare il modo di ritagliarci un po’ di tempo solo per noi... perché qualsiasi cosa io faccia, è molto più divertente se la faccio insieme a te.
(click sull'immagine per ingrandire)
Non so come la pensate voi, ma io vedo sempre il finire di ogni anno come un momento in cui concentrarsi su qualcosa di particolarmente positivo che c’è stato nei 12 mesi appena trascorsi, al fine di portare con sé quella cosa che ci ha fatte stare bene anche nel nuovo anno che si appresta ad iniziare. A ben pensarci, in questo 2013 ci sono state talmente tante cose da salvare e da portare dritte nel 2014, che se mi volessi concentrare su ognuna di esse singolarmente dovrei scrivere almeno una trentina di post. Sceglierne una sola è ben arduo, perché così facendo mi vedo costretta a tagliar fuori un sacco di cose e persone che hanno cambiato la mia vita in meglio durante quest’ultimo anno, un sacco di cose e persone che, ciascuna a loro modo, mi hanno aiutata a continuare a combattere contro l’anoressia.
Lo sport, il lavoro come istruttrice/arbitro di karate, il tirocinio in Pronto Soccorso… tutte cose che arricchiscono la mia vita e che voglio portare con me non solo nel 2014, ma anche in tutti gli anni a venire. Così come tutte le meravigliose persone che hanno incrociato la mia strada durante quest’anno. E se penso alle persone, ce n’è una in particolare che mi fa sorridere. Una persona con cui ho condiviso un sacco di esperienze e di pensieri. Una persona che mi illumina le giornate. La prima persona cui penso quando mi sveglio la mattina, e l’ultima persona cui mando un SMS di buonanotte la sera. La persona che più di ogni altra mi fa venire voglia di continuare a combattere contro l’anoressia senza mollare la presa. La persona più speciale che ci sia. Il mio migliore amico Alex.
Per cui, sì, credo proprio che quest’ultimo post del 2013 debba essere dedicato a lui.
E dunque, Alex, questo è per te.
Il cuore è un muscolo, solo questo. L’ho pensato per un sacco di tempo. Il cuore è un muscolo. Era molto più semplice vederla in questo modo, molto più conveniente. L’unico modo per non correre nessun rischio, in definitiva. Perché succede che a un certo punto i cuori interrotti, quelli le cui ferite sono aperte e sanguinano ancora, si congelano. E’ il loro modo per riprendersi e per difendersi dall’altro male che gli può essere fatto. Avere il cuore congelato ha indubbiamente dei grandi vantaggi, mi dicevo: primo fra tutti il fatto che, non riuscendo a provare niente, si evita di soffrire. Il cuore è un organo strano… in realtà è un organo di copertura, perché poi quello che noi chiamiamo cuore probabilmente lo fa la testa, e comunque sono collegati, un po’ come orecchio, naso e gola… il male che gli fai (o che gli fanno) non passa, si accuccia in un angolino e rimane lì, sempre vivo. Per la maggior parte del tempo dorme, ma poi succede che si risveglia. E quando si risveglia il male che fa è sempre uguale. Non ci sono ferite del cuore che passano. Si forma come un cerotto sopra, ma è talmente sottile che basta poco perché la ferita si riapra e ricominci a sanguinare. Quando il cuore è congelato questo non accade. Tutto tace, nel bene e nel male. Né gioia né dolore. Uno strano equilibrio che, allo stesso tempo, non fa stare bene ma non fa neanche stare male…
Ecco, per tanto tempo il mio cuore è stato questo. Solo un muscolo in definitiva. E mi andava benissimo così. Meglio non provare niente, che correre il rischio di essere ferita. Meglio non avvicinarsi a nessuno, non avere alcuna amicizia, tirare su muri contro chiunque, essere tutt’al più gentile, ma distante, mettere sempre paletti, tirarsi indietro il prima possibile. Avevo l’anoressia, e questo era quanto. E questo era tutto. Meglio seppellire quel vano sentimento dell’amicizia da qualche parte, molto in profondità. E andare avanti, a testa alta, guardando dritta davanti, concentrata sul percorso, solo l’anoressia al mio fianco, e niente più grane.
Io basto a me stessa. Pensavo così.
Tu hai interrotto il mio loop.
Tu sei stato un inciampo, ecco cosa. Ci ho pensato, è proprio così: tu sei stato un inciampo. Hai visto, proprio com’è quando s’inciampa. Ti sei messo in mezzo, così, all’improvviso, e io non ho fatto in tempo a scansarmi. Sono inciampata. Ero così fermamente convinta di avere il cuore congelato, così convinta che l’anoressia e il controllo fossero il fulcro della mia vita, e che niente e nessuno avrebbe potuto cambiare questa situazione, che non avevo proprio messo in conto la possibilità di un disgelo. Il cuore riprende a battere, le ferite si risentono e si trasformano in paura che ciò che ha fatto male possa accadere di nuovo… con altre modalità e con altre forme… ma si riprova una strana sensazione, quella di tornare a vivere. Si sente il muscolo pompare, il sangue scorrere… e rientrare in circolo. Ho preso le distanze dall’anoressia. Mi sono risvegliata. E non ero più abituata. E quando non si è abituati è facile cadere, è facile prendere dei muri a 200 all’ora contromano… Perché senza gelo intorno al cuore e senza la coperta di Linus rappresentata dall’anoressia, mi sono sentita vulnerabile. Così mi sono chiesta cosa fosse meglio: il cuore congelato o il cuore che riprende a vivere? La solitudine dell’anoressia o la possibilità di un’apertura? Prima credevo di conoscere la risposta. Ora non ho neanche più voglia di pormi la domanda.
La verità è che ho sempre avuto una paura incredibile di stare di nuovo male.
Tu sei stato un imprevisto. E, paradossalmente, hai cambiato tutto. Ero così convinta che sarei andata avanti da sola, che il controllo che mi faceva provare l’anoressia fosse l’unica cosa di cui avevo bisogno, che quando la mia strada si è incrociata con la tua, la prima cosa che ho pensato è stata che non potevo permettermi una simile distrazione. Eppure, inconsapevolmente, la mia testa aveva già cominciato a divagare. Senza volerlo, ero già entrata in una nuova misura. Senza volerlo, mi ero già voltata verso di te.
Io scrivo molto, però paradossalmente in realtà non mi piacciono granché le parole. Perché sono misere. Perché quando stanno nella tua testa, le cose sono grandi, enormi, immense… poi ti trovi a doverle mettere giù a parole, e quelle si rimpiccioliscono, si riducono a non più che grandezza naturale. A maggior ragione se si tratta di sentimenti. Come si può pensare di descrivere un sentimento a parole? Pensa all’amicizia, per esempio. Ad un amico si dice “ti voglio bene”. Sono tre parole semplici, brevi per giunta, assolutamente banali. E le si usano per esprimere un qualcosa che è tutt’altro che semplice e banale. E allora? C’è una discrepanza incredibile. Per questo non mi piacciono le parole. Perché non rendono l’idea. Per questo io “ti voglio bene” non l’ho mai detto a nessuno. Perché mi sarebbe sembrato di banalizzare, di svilire questo sentimento racchiudendolo in tre parole. Ma sai che cosa, ben pensandoci? Forse è proprio questo il bello. Che sono state inventate tre parole così semplici che riescono a dire qualcosa di davvero grande. E allora, voglio provarci anch’io.
E quindi ti voglio bene, ti voglio bene anche se non te l’ho mai detto esplicitamente face-to-face perché per me è difficile sciogliere la matassa dei sentimenti, e metterli giù a chiare lettere. Una volta mi hai detto che io sono la prima Vera Amica che hai incontrato da quando hai iniziato a frequentare Medicina. Bè, posso dirti solo che anche tu sei il migliore amico che avrei mai potuto conoscere. Se dovessi mettermi a ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me in questi anni, per come mi hai sempre supportata (e sopportata!) tuo malgrado, non mi basterebbero le prossime 10 vite. Ogni singola volta che mi hai telefonato ho esitato per un attimo a rispondere fissando il tuo nome sul display del cellulare e pensando col sorriso sulle labbra che eri troppo… troppo per me. Troppo, sì… troppo tutto per essere vero. Ma lo eri. Lo sei. E vorrei riuscire a dirti tutto questo a voce, ma lo scrivo perché so che non riuscirei a dirlo guardandoti negli occhi per più di 2 secondi senza sentirmi in difficoltà. Vorrei dirti tante cose, che è meraviglioso il semplice fatto che esisti, ma non ce la farei mai perché sarei sopraffatta dall'emozione, mi tremerebbe la voce, mi tremerebbero le mani, dovrei concentrarmi per mantenere una parvenza di normalità, e farei una fatica bestiale. Quando sono con te mi dimentico del tirocinio, del karate, di cosa devo fare nella settimana, del lavoro, dell’anoressia, del controllo, di respirare. Penso che tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata. E se mai sono riuscita a fare qualcosa per te, è niente rispetto alla gioia che ho provato nell’esserti stata vicino in questi anni: non sai quanto bene mi hai fatto. Sei stato tu a trasformarmi, Alex. Sei stato il motivo del mio primo vero sorriso dopo tanto tempo. Il solo pensiero che avrei potuto non conoscerti mi è sempre risuonato dentro come la peggiore delle minacce, perciò ringrazio la casualità che ti ha portato nella mia strada. Mi sono sempre sentita privilegiata anche solo per aver ricevuto la tua amicizia, il tuo sguardo, la possibilità di addentrarmi anche solo un po’ nel tuo mondo. Perché io non avrei mai immaginato di poter trovare un amico a cui voler bene quanto ne voglio a te.
Ma queste sono parole, e io sento che le parole adesso non bastano per descrivere la nostra amicizia, e per esprimere il bene che ti voglio. E allora, provo a dirtelo in una forma che mi è più congeniale: con un video. Io come Chloe Sullivan (interpretata da Allison Mack), tu come Clark Kent (interpretato da Tom Welling) nel telefilm “Smallville”. La nostra amicizia raccontata con le loro immagini, perché è come la loro amicizia: più forte di tutti, più forte di tutto.
(QUI per vederlo direttamente su YouTube) In fondo, posso solo dirti grazie. Grazie di tutto. Davvero. Ti voglio un bene dell’anima per la persona stupenda che sei e per tutto quello che mi hai dato da quando ci siamo conosciuti. Mi fai venir voglia di continuare a combattere e a tenere duro ogni volta che ti vedo, o anche solo ogni volta che ti penso. Mi rendi migliore.
(Graduation Day, 25/07/2013) (click sulla foto per ingrandire)
So che adesso abbiamo fatto scelte molto diverse per il nostro futuro, e dunque non potremo più stare side by side come quando andavamo a lezione insieme tutti i giorni, ed ognuno di noi s’incamminerà per la propria strada… Sono però sicura che, nonostante questo, l’amicizia che ci lega non cambierà d’una virgola. So che ci vedremo molto più raramente ma, pur con tutti i nostri rispettivi impegni, spero proprio che continueremo a trovare il modo di ritagliarci un po’ di tempo solo per noi... perché qualsiasi cosa io faccia, è molto più divertente se la faccio insieme a te.
(click sull'immagine per ingrandire)
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venerdì 20 dicembre 2013
Suggerimenti natalizi
Per alcune persone, il periodo pre-natalizio racchiude in sè un qualcosa di veramente magico: è il preludio di feste in famiglia e tra amici, progetti mirabolanti per il capodanno, scambio di regali a manetta, dolci caratteristici e musica di stagione. Ma per chi ha un DCA, che sia l’anoressia, la bulimia, il binge o un DCAnas, il Natale può rappresentare un qualcosa di piuttosto stressante.
Come ogni anno perciò, essendo questo il mio ultimo post pre-natalizio, voglio provare a scrivere alcuni suggerimenti che potrebbero aiutarvi ad alleviare la pressione del Natale, e a trascorrere con un pochina più di serenità questa giornata che può non essere proprio facilissima.
1) Organizzatevi. Se i vostri amici hanno in programma di fare qualcosa di particolare per Natale, non rinunciate a parteciparvi solo perchè ne siete ostacolate dal vostro DCA. Piuttosto, chiedete a chi ha organizzato l’evento gli orari dello stesso, cosa verrà cucinato, chi saranno i partecipanti, etc. In questo modo, saprete cosa aspettarvi e l’ansia diminuirà. In alternativa, fate la prima mossa: organizzate il ritrovo con gli amici a casa vostra, così potrete mangiare seguendo il vostro “equilibrio alimentare”, e allo stesso tempo non dovrete rinunciare alla compagnia.
2) Spostate il discorso. Spesso e volentieri durante il pranzo/la cena di Natale la gente tende a parlare di argomenti quali il cibo che state mangiando, il cibo in generale, le diete, i propositi per l’anno nuovo, etc. Quando perciò sentite che la conversazione di sta facendo triggering, provate a spostare il discorso su altri lidi, tirando in campo altri argomenti di conversazione che non abbiano niente a che fare con tutto ciò che può riecheggiare anche solo alla lontana il DCA.
3) Non rimanete a tavola. È piuttosto comune, alla fine del pasto, rimanere seduti a tavola a chiacchierare. Ma il fatto che sia tradizione, non significa che è un obbligo. Perciò, sparecchiate la tavola e continuate a chiacchierare e celebrare in un’altra stanza, magari davanti ad un videogioco o guardando un film. Questo può aiutarvi ad allontanare l’attenzione dal cibo, prendendo così le distanze dai pensieri negativi, e a divertirvi in altro modo con le persone che vi stanno intorno.
4) Fatevi dare una mano. Se insieme a voi a Natale è presente qualcuno che sa del vostro DCA, parlate con lui/lei di quelle che sono le vostre difficoltà in maniera tale che questa persona possa supportarvi ed aiutarvi durante tutto l’arco della giornata.
5) Non focalizzatevi sul cibo, focalizzatevi sulle persone. Anziché fissarvi su quello che avete nel piatto, provate a distrarvi conversando con chi vi sta accanto: in questo modo l’idea del cibo si allontanerà, e una volta finito di pranzare/cenare potrete dedicarvi a cose certo più piacevoli, che vi facciano stare bene.
6) Ignorate i menagrami. Ci sarà sempre quella cugina/zia/cognata/suocera/nonna[inserire grado di parentela] antipatica ed acida che si divertirà a calpestare la vostra sensibilità ignorando le vostre difficoltà e sbandierando ai quattro venti cose come: “Ma come mai mangi così poco/tanto?”, “Guarda come sei dimagrita/ingrassata dall’anno scorso!”, “Non vorresti un altro po’ di quello/di quell’altro?”. Okay, frasi del genere non aiutano affatto chi ha un DCA. Perciò, quando qualcuno salta fuori con commenti di questo tipo, ignoratelo. Fate finta di non aver sentito, evitate di rispondere (che tanto con persone di questo tipo qualsiasi cosa diciate sarà usata contro di voi), dirottate il discorso su altre tematiche, e ricordate sempre che chi si esprime così, oltre a mancare completamente di tatto, non dice mai niente di vero né di importante.
7) Guardate il Natale in prospettiva. Vi suggerisco di prendere un foglio di carta e, con un pennarello, dividerlo in 12 parti identiche che rappresentano i 12 mesi dell’anno. Ogni mese, dividetelo poi in settimane, ed ogni settimana dividetela in giorni. Poi prendete un pennarello evidenziatore, e colorate la casellina che corrisponde al 25 Dicembre. Sembra molto piccola, non è vero?! Così diventa decisamente più maneggevole.
8) Non dimenticate che si tratta di un solo giorno. Per quanto terribile e durissimo il vostro Natale possa essere, tenete sempre a mente che si tratta di un giorno solo. Passa e finisce. Più velocemente di quel che possiate credere. E se anche col cibo non va come vorreste, se anche non riuscite a seguire il vostro “equilibrio alimentare” (in eccesso o in difetto), non preoccupatevi: il lavoro di mesi non viene certo compromesso da un singolo giorno. Anche perché il nostro corpo è dotato di un’ottima capacità di omeostasi, per cui tende a minimizzare ogni alterazione dall’ordinario, perciò, non vi preoccupate: non succederà assolutamente niente.
Se c'è qualcos'altro che vi è stato utile per gestire bene la giornata di Natale in passato e, se vi va, aggiungete qualche altro consiglio, qualcosa che voi avete trovato utile, nei commenti… e fatemi sapere com’è andata.
BUON NATALE!!
(grazie ad Ilaria che mi ha fornito questa simpaticissima immagine natalizia!!)
Come ogni anno perciò, essendo questo il mio ultimo post pre-natalizio, voglio provare a scrivere alcuni suggerimenti che potrebbero aiutarvi ad alleviare la pressione del Natale, e a trascorrere con un pochina più di serenità questa giornata che può non essere proprio facilissima.
1) Organizzatevi. Se i vostri amici hanno in programma di fare qualcosa di particolare per Natale, non rinunciate a parteciparvi solo perchè ne siete ostacolate dal vostro DCA. Piuttosto, chiedete a chi ha organizzato l’evento gli orari dello stesso, cosa verrà cucinato, chi saranno i partecipanti, etc. In questo modo, saprete cosa aspettarvi e l’ansia diminuirà. In alternativa, fate la prima mossa: organizzate il ritrovo con gli amici a casa vostra, così potrete mangiare seguendo il vostro “equilibrio alimentare”, e allo stesso tempo non dovrete rinunciare alla compagnia.
2) Spostate il discorso. Spesso e volentieri durante il pranzo/la cena di Natale la gente tende a parlare di argomenti quali il cibo che state mangiando, il cibo in generale, le diete, i propositi per l’anno nuovo, etc. Quando perciò sentite che la conversazione di sta facendo triggering, provate a spostare il discorso su altri lidi, tirando in campo altri argomenti di conversazione che non abbiano niente a che fare con tutto ciò che può riecheggiare anche solo alla lontana il DCA.
3) Non rimanete a tavola. È piuttosto comune, alla fine del pasto, rimanere seduti a tavola a chiacchierare. Ma il fatto che sia tradizione, non significa che è un obbligo. Perciò, sparecchiate la tavola e continuate a chiacchierare e celebrare in un’altra stanza, magari davanti ad un videogioco o guardando un film. Questo può aiutarvi ad allontanare l’attenzione dal cibo, prendendo così le distanze dai pensieri negativi, e a divertirvi in altro modo con le persone che vi stanno intorno.
4) Fatevi dare una mano. Se insieme a voi a Natale è presente qualcuno che sa del vostro DCA, parlate con lui/lei di quelle che sono le vostre difficoltà in maniera tale che questa persona possa supportarvi ed aiutarvi durante tutto l’arco della giornata.
5) Non focalizzatevi sul cibo, focalizzatevi sulle persone. Anziché fissarvi su quello che avete nel piatto, provate a distrarvi conversando con chi vi sta accanto: in questo modo l’idea del cibo si allontanerà, e una volta finito di pranzare/cenare potrete dedicarvi a cose certo più piacevoli, che vi facciano stare bene.
6) Ignorate i menagrami. Ci sarà sempre quella cugina/zia/cognata/suocera/nonna[inserire grado di parentela] antipatica ed acida che si divertirà a calpestare la vostra sensibilità ignorando le vostre difficoltà e sbandierando ai quattro venti cose come: “Ma come mai mangi così poco/tanto?”, “Guarda come sei dimagrita/ingrassata dall’anno scorso!”, “Non vorresti un altro po’ di quello/di quell’altro?”. Okay, frasi del genere non aiutano affatto chi ha un DCA. Perciò, quando qualcuno salta fuori con commenti di questo tipo, ignoratelo. Fate finta di non aver sentito, evitate di rispondere (che tanto con persone di questo tipo qualsiasi cosa diciate sarà usata contro di voi), dirottate il discorso su altre tematiche, e ricordate sempre che chi si esprime così, oltre a mancare completamente di tatto, non dice mai niente di vero né di importante.
7) Guardate il Natale in prospettiva. Vi suggerisco di prendere un foglio di carta e, con un pennarello, dividerlo in 12 parti identiche che rappresentano i 12 mesi dell’anno. Ogni mese, dividetelo poi in settimane, ed ogni settimana dividetela in giorni. Poi prendete un pennarello evidenziatore, e colorate la casellina che corrisponde al 25 Dicembre. Sembra molto piccola, non è vero?! Così diventa decisamente più maneggevole.
8) Non dimenticate che si tratta di un solo giorno. Per quanto terribile e durissimo il vostro Natale possa essere, tenete sempre a mente che si tratta di un giorno solo. Passa e finisce. Più velocemente di quel che possiate credere. E se anche col cibo non va come vorreste, se anche non riuscite a seguire il vostro “equilibrio alimentare” (in eccesso o in difetto), non preoccupatevi: il lavoro di mesi non viene certo compromesso da un singolo giorno. Anche perché il nostro corpo è dotato di un’ottima capacità di omeostasi, per cui tende a minimizzare ogni alterazione dall’ordinario, perciò, non vi preoccupate: non succederà assolutamente niente.
Se c'è qualcos'altro che vi è stato utile per gestire bene la giornata di Natale in passato e, se vi va, aggiungete qualche altro consiglio, qualcosa che voi avete trovato utile, nei commenti… e fatemi sapere com’è andata.
BUON NATALE!!
(grazie ad Ilaria che mi ha fornito questa simpaticissima immagine natalizia!!)
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venerdì 13 dicembre 2013
L'ABC del ricovero dall'anoressia
A come Amicizia. Molto semplicemente perché credo che l’Amicizia sia un elemento fondamentale mentre stiamo percorrendo la strada del ricovero. Avere accanto dei veri amici che ci supportano e che sappiamo saranno lì per noi anche se li chiameremo alle 3 di notte, credo possa rappresentare un bell’incentivo a tenere duro.
B come Basta al controllo. La necessità di percepire la sensazione (illusoria) di avere un controllo totalizzante è stato l’elemento più marcatamente caratterizzante della mia anoressia, e credo che comunque, in generale, gran parte dell’anoressia si fondi sul bisogno di controllo. Perciò, per poter combattere contro l’anoressia, occorre cercare di dire “Basta” al controllo, poiché la vita è incontrollabile per antonomasia. Per quanto la sensazione di controllo trasmessa dall’anoressia possa apparire come infinitamente più rassicurante, per provare a vivere veramente occorre staccarsi dal bisogno di controllare tutto, rendendoci così conto che, se anche non programmiamo tutto al dettaglio, non succede alcuna catastrofe e, anzi, in maniera del tutto casuale possono succedere anche cose pazzescamente belle.
C come Chiedere aiuto. Che sia difficilissimo il farlo, è un indiscutibile dato di fatto. Eppure, questo è il primo passo che può veramente cambiare la vita, permettendoci di allontanarci dall’anoressia per avvicinarci a noi stesse. Chiedere aiuto significa rompere il silenzio di cui si nutre il DCA ed iniziare a combattere non più contro noi stesse, ma per noi stesse. Il non sentirsi “abbastanza malate” può rappresentare un freno al Chiedere aiuto, ma pensate a questo: cosa significa davvero essere “abbastanza malata”? Significa scendere sotto ad un certo peso? (O, nel caso della bulimia, indursi il vomito più di un certo numero di volte al giorno?) Significa mangiare meno di un certo tot? Significa fare un certo quantitativo di attività fisica compulsivamente? No, non è niente di tutto questo. Si è “abbastanza malate” ogni qualvolta si sta male con noi stesse, a prescindere dal peso perso, da cibo (non) mangiato, dall’attività fisica fatta. Perché non esistono scale di valore sulla sofferenza, che non può certo essere pesata sulla bilancia. Perciò, è sempre il momento giusto per Chiedere aiuto. È un modo per Cominciare a Combattere. Per poter così Costruire, con Coraggio, il nostro futuro.
D come Darsi da fare. Per quanto bello possa essere il sognare, non esiste nessuna bacchetta magica che ci permetterà di fare progressi come se niente fosse. Nessun incantesimo manderà in frantumi l’anoressia. E l'autocompiangimento servirà solo a rimanere ancora più impantanate. Per combattere contro l’anoressia occorre rinnovare quotidianamente il nostro impegno a stringere i denti, e seguire giorno dopo giorno l’ “equilibrio alimentare” e fare psicoterapia e non mollare anche quanto tutto sembra farsi tremendamente difficile. Darsi da fare per capire ciò che si vuole veramente dalla vita, e farlo. Perché lottare quotidianamente non sarà facile, ma è la nostra sola possibilità per non permettere al DCA di avere la meglio. Perché se si vuole veramente una cosa, nella fattispecie una vita senza l’assillo dell’anoressia, bisogna Darsi da fare e prendersela.
E come Emozioni. L’anoressia rappresenta anche, a suo modo, una sorta di armatura che ci mette al riparo dal provare Emozioni: una sorta di maschera che ci permette di rapportarci al resto del mondo. Una maschera è, in un certo senso, comoda, perché ci permette di guardare senza essere viste per quello che siamo veramente, ma solo per il personaggio che interpretiamo, cosicché se qualcuno ci critica, non ne siamo realmente ferite perché a venire disprezzata è la nostra maschera, non le Vere Noi Stesse. Però, se è pur vero che una maschera ci protegge, è altrettanto vero che, alla lunga, quella stessa maschera finisce per isolarci dal resto del mondo. Nessuno potrà odiarci per quello che siamo, ma allo stesso tempo nessuno potrà neanche volerci bene per quello che siamo. Per la paura del primo 50% negativo, ci perdiamo pire il restante 50% positivo. “They can’t love me, they can’t love what I don’t show”, come dice la canzone. E allora, ecco che la maschera finisce per soffocarci. Per questo credo che togliere la maschera e lasciare libero spazio a quelle Emozioni che ci affanniamo tanto a controllare possa rappresentare un ulteriore passo avanti sulla strada del ricovero.
F come Fare sport. Fare sport in maniera equilibrata credo possa essere di grande aiuto nel momento in cui si sta percorrendo la strada del ricovero. Ovviamente per poter fare sport occorre essere ritornate ad un certo standard fisico, altresì può essere deleterio il praticarlo, però nel momento in cui si sta meglio, e ci si svincola da quella che è l’attività fisica eccessiva legata al DCA, si può fare sport in maniera tranquilla, corretta, salutare, magari anche insieme ad altre persone, il che può rappresentare un toccasana sia per il fisico che per l’umore.
G come Gioco di squadra. La guerra contro l’anoressia non può essere vinta se combattiamo completamente da sole. Semplicemente perché senza alcun tipo di supporto tenere duro diventa estremamente difficile, e si è più alla mercé dei pensieri deviati messi in testa dall’anoressia, che non ha contraddittorio se non la parte razionale della nostra mente, che però non sempre riesce ad opporsi. Viceversa, l’avere vicino un team di persone supportive – che siano familiari, amici, terapeuti, persone che hanno vissuto la stessa malattia and so on – può rendere la battaglia contro l’anoressia decisamente più gestibile. Del resto, da che mondo è mondo, l’unione fa la forza.
H come “Ho toppato!”. Le ricadute credo siano praticamente inevitabili durante un percorso di ricovero dall’anoressia. Direi anzi che ne sono parte integrante. Perciò, non vivetele con frustrazione e non vedetele come dei fallimenti: provate viceversa ad analizzare la ricaduta per valutare cosa vi ha spinto verso di essa, al fine di non ripetere il medesimo pattern in futuro. Ricordatevi inoltre che la vittoria in una partita di calcio si basa su quanti goal la squadra riesce a segnare al termine dei 90 minuti di gioco, non su quanti ne ha segnati nei primi 20 minuti di partita. La vostra vittoria contro l’anoressia la si vede nel lungo termine, non nell’immediato di una ricaduta. Perdere una singola battaglia non significa affatto perdere la guerra. Avrete fallito solo se dopo una ricaduta deciderete di non rialzarvi: in questo caso, sì, avrete tutte le ragioni per considerarvi un fallimento. Ma fino a che vi rialzate e ricominciate a combattere con più grinta e determinazione di prima, sarà 1 a zero per voi contro l’anoressia: finché vi date una nuova possibilità, avrete almeno una possibilità. Per dirla con le parole di Nelson Mandela: "Do not judge me by failures, judge me by how many times I fell down and got back up again."
I come Imparare nuove strategie di coping. La restrizione alimentare nell’anoressia rappresenta indubbiamente una strategia di coping, ovvero un comportamento messo in atto per far fronte ad una qualsiasi situazione stressante che si teme di non essere capaci di gestire altrimenti. Il controllo (illusorio) che si percepisce con la restrizione alimentare si estende così anche all’altro ambito della vita che si teme di non essere in grado di riuscire a controllare, in maniera tale per cui riusciamo a gestire la situazione… ma a spese della nostra salute. Perciò, per poter andare avanti sulla strada del ricovero occorre comprendere che alle medesime situazione stressanti si può far fronte anche con altre modalità che non hanno niente a che vedere con la restrizione alimentare, che non sono lesive nei confronti di noi stesse, e che ci permettono di gestire emotivamente e praticamente la situazione senza più bisogno di ricorrere al DCA.
L come Lavorare sui veri problemi. Penso sia palese che la restrizione alimentare e il peso perso rappresentano la punta di un ice-berg ben più profondo ed estremamente complesso. L’anoressia è una malattia multifattoriale, ergo alla sua insorgenza concorrono millemila concause diverse per ciascuna di noi. La perdita di peso e la restrizione alimentare costituiscono l’estrinsecazione clinica della patologia, che però in realtà è una malattia mentale che affonda le sue radici in tutt’altri problemi individuali. Sono quelle le vere problematiche che sostengono l’anoressia, l’erroneo comportamento alimentare è solo un comodo capro espiatorio che poco e niente ha a che vedere con i veri problemi che ci stanno dietro. Ed è proprio questi problemi che devono essere individuati e sui quali occorre Lavorare (ovviamente anche con l’aiuto della psicoterapia), perché è solo mettendoci face-to-face con essi, per quanto sia duro e difficile, che potremo darci la possibilità di risolverli.
M come Migliorare la propria qualità della vita. Sebbene parlare di “guarigione” possa essere, a mio parere, utopico per una malattia come l’anoressia, si può senz’ombra di dubbio parlare di remissione. Avere una remissione dell’anoressia significa che la sua vocina sta sempre da qualche parte nella nostra testa e cerca di fregarci, ma che noi siamo più forti di lei, e scegliamo scientemente di ignorare la sua voce per seguire un stile alimentare sano e fare quello che ci va, senza più assecondarla. In questo modo è possibile studiare, lavorare, fare sport, avere hobby, stare bene, uscire con gli amici e, insomma, avere una vita di qualità veramente elevata.
N come Ne vale la pena. Percorrere la strada del ricovero significa intraprendere una battaglia tosta e complessa. Significa sentirsi crollare il mondo addosso, dover stringere i denti continuamente, ed essere stanche, ed aver voglia di mollare riabbandonandoci al DCA, dove tutto sembrava più semplice. Eppure, se si tiene duro, più si va avanti e più ci si rende conto di quanto l’anoressia ci aveva tolto, e di quanto si può stare meglio se lottiamo per riconquistarcelo. I progressi non si vedono dall’oggi al domani, e sul momento può sembrare una lotta dura ed inconcludente, ma sul lungo termine, se vi guardate indietro, vi accorgerete che pian piano di progressi ne avete fatti eccome. Che vi siete poco a poco allontanate dalle ossessioni dell’anoressia, per riprendere in mano la vostra vita e riempirla di tutto ciò che vi piace davvero. E, sì, Ne vale la pena.
O come Obiettivi. Penso che, nel momento in cui si decide di intraprendere la lotta contro l’anoressia, possa essere importante fissare degli Obiettivi. Non degli Obiettivi a breve termine, che secondo me sono assolutamente deleteri perché fanno montare l’ansia da prestazione per cui non si combina nulla di buono e ci si sente da schifo per questo, bensì degli Obiettivi a lungo termine, senza scadenze temporali rigide, che rappresentano quello che vorreste ottenere dalla vostra battaglia contro l’anoressia. Possono essere Obiettivi complessi, come per esempio il ridurre le manie di controllo, o anche Obiettivi più semplici, come per esempio il riuscire a mangiare insieme a vostri amici. In ogni caso, abbiate chiari i vostri Obiettivi, ed elaborate delle strategie per raggiungerli in tutto il tempo che vi sarà necessario: l’essere riuscite a raggiungere un Obiettivo vi darà più forza, determinazione e fiducia in voi stesse.
P come Provare ad accettarsi. Io non penso che necessariamente occorra arrivare ad amarsi. Tanto meglio se una ci riesce, è evidente, ma non lo vedo come un qualcosa di necessario allo svincolarsi dall’anoressia. Penso che sia più che sufficiente riuscire ad accettarsi: ovvero riuscire ad acquisire l’oggettiva consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre potenzialità, e il focalizzarci, più che sulla nostra fisicità, su quelle che sono le cose che facciamo nella vita (lo studio, il lavoro, i rapporti con gli altri, etc…) in maniera tale da avere dei buoni risultati in questi campi, che ci consentano di vivere bene con noi stesse anche senza bisogno della stampella dell’anoressia.
Q come Quel che è altro dall’anoressia. Lo so che è come scoprire l’acqua calda, ma una delle cose che credo possa aiutare di più nella lotta quotidiana contro l’anoressia, è il trovare qualcosa che sia per noi interessante e coinvolgente come lo è stata a lungo l’anoressia stessa. In sostanza: occorre cercare di dare più importanza ad altre cose, quali che siano, e cercare poco a poco di costruirsi una vita autonoma al di là dell'anoressia, poiché nel momento in cui si arriva ad avere una vita che compendia numerosi interessi “sani” e positivi, ci si rende conto che l’anoressia non ci serve più poi così tanto.
R come Riabilitazione nutrizionale. Credo che in un percorso di Ricovero sia imprescindibile essere affiancata da una figura professionale quale un dietologo/dietista/nutrizionista che ci permetta, grazie all’elaborazione di un “equilibrio alimentare” individualizzato, di rientrare progressivamente nel nostro set-point fisiologico di peso corporeo. Banalmente, questo è di fondamentale importanza per riacquistare salute fisica… e mentale. Ma su questo argomento ci torno tra un paio di lettere.
S come Scegliere la vita. Non essere più malata e ricominciare a vivere a pieno. Affrontare quelli che sono i veri problemi che si nascondono dietro il capro espiatorio del cibo e della fisicità, e tener loro testa, uscendone vincitori. Stringere i denti tutti i giorni nella consapevolezza che le cose possono cambiare in meglio se ce la si mette tutta per. Smetterla di sopravvivere e ricominciare a vivere una vita che sia degna d’essere chiamata tale.
T come Terapia. E qui mi ricollego alla lettera “R”. Penso che la Terapia psicologica, affiancata alla riabilitazione nutrizionale, rappresenti il binomio essenziale in un percorso di ricovero dal DCA. Penso che le 2 cose debbano coesistere e procedere di pari passo nel momento in cui una persona trova il coraggio di chiedere aiuto. La riabilitazione nutrizionale è necessaria perché un corpo fortemente debilitato dalla carenza di cibo, oltre a essere ovviamente a rischio per ogni qualsiasi malattia fisica, non permette di pensare lucidamente. Anche se a noi sembra di essere lucide, quando siamo fortemente sottopeso non possiamo biologicamente esserlo: perché la carenza di alimenti non permette la sintesi di numerosi neurotrasmettitori che sono quelli che, appunto, in condizioni normali ci permettono di pensare lucidamente. Per cui, fare psicoterapia senza supporto nutrizionale serve a ben poco, perché non si ha la lucidità mentale per concretizzare a pieno e mettere in pratica i suggerimenti dello psicoterapeuta, non si è neanche realmente in grado di rifletterci. Allo stesso modo, è altrettanto inutile la riabilitazione alimentare da sola, non affiancata da psicoterapia, perché comunque essa comporta delle variazioni di peso che verranno mal tollerate se la persona non fa contemporaneamente un percorso psicologico di accettazione e di lavoro su di sé, e sarà molto più rapida e frequente la ricaduta nel DCA, perché la persona non ci ha lavorato su. Ci vogliono ambo le cose. Giusto per dirla con un esempio semplificato (colleghi medici, non me ne vogliate!), se io ho un’infezione che mi dà febbre, per guarire devo prendere la Tachipirina ed un antibiotico contemporaneamente: se prendo solo la Tachipirina, sparirà la febbre e mi sembrerà di stare bene, ma il batterio continuerà a proliferare nel mio organismo e la malattia riaffiorerà. Se prendo solo l’antibiotico, il batterio scomparirà, ma sarò sempre fiaccata dalla persistente febbre. Per guarire, c’è bisogno di assumere entrambi i farmaci. E lo stesso vale per la Terapia psicologica e per la riabilitazione nutrizionale quando si ha l’anoressia: come le due parti inscindibili di un’equazione, non possono esistere l’una senza l’altra perché si completano e si embricano vicendevolmente.
U come Un passo alla volta. La fretta è cattiva consigliera, si sa, e questo è tanto più vero quando si sta combattendo contro l’anoressia. Iniziando la terapia, credo sia spontaneo il desiderare di vedere risultati tangibili a stretto raggio, ma in questo caso le cose non vanno rapidamente. Anzi, più si cerca di spingere sull’acceleratore, più è facile inciampare in una ricaduta. Per cui, prendetevi tutto il tempo di cui sentite di avere bisogno per fare Un passo alla volta. Non mettetevi fretta. Arriverete a meta, ma ci vorrà tempo, ad ognuna il suo. Prendetevi sempre tutto il tempo di cui sentite di aver bisogno. Le cose buone arrivano per chi sa aspettare (e, nel frattempo, si impegna e ce la mette tutta per ottenerle!).
V come Volontà. Penso che la forza di Volontà rappresenti la chiave di volta nel combattere contro l’anoressia. Possiamo anche avere la disposizione la migliore equipe medica del mondo, e possiamo anche essere circondati dalle persone più comprensive e supportive del mondo, ma non servirà se noi per prime non abbiamo in noi la voglia di combattere contro l’anoressia. Certo, l’aiuto di specialisti e il supporto di chi ci vuole bene sono fondamentali per poter sostenere la battaglia contro un DCA, ma il primus movens può essere solo e soltanto la nostra forza di Volontà di combattere, di opporci alla malattia, di cambiare le cose, con tutta la determinazione di cui disponiamo. Perché Volere è potere – mai vero come quando si tratta di dar battaglia all’anoressia!
Z come Zero. Che è quello che auguro a tutte voi (a tutte NOI). Di fare piazza pulita dell’anoressia, e ricominciare da Zero. Di allontanarsi quanto più possibile dalla malattia, per poter riprendere le redini della propria vita. Perché lo so che l’anoressia più sembrare (illusoriamente) incredibilmente rassicurante, con la sua parvenza di controllo totale, a fronte di una vita che spesso e volentieri risulta essere del tutto random. Effettivamente la vita è un qualcosa che sfugge, che vuole essere inseguita, è un qualcosa di leggero e fragile, solo sfiorarle un’ala può comportare la fine del suo volo. Eppure la morte non riempie mai. Lascia un vuoto simile al buco allo stomaco. Credo che sia la vita ciò di cui si ha fame.
B come Basta al controllo. La necessità di percepire la sensazione (illusoria) di avere un controllo totalizzante è stato l’elemento più marcatamente caratterizzante della mia anoressia, e credo che comunque, in generale, gran parte dell’anoressia si fondi sul bisogno di controllo. Perciò, per poter combattere contro l’anoressia, occorre cercare di dire “Basta” al controllo, poiché la vita è incontrollabile per antonomasia. Per quanto la sensazione di controllo trasmessa dall’anoressia possa apparire come infinitamente più rassicurante, per provare a vivere veramente occorre staccarsi dal bisogno di controllare tutto, rendendoci così conto che, se anche non programmiamo tutto al dettaglio, non succede alcuna catastrofe e, anzi, in maniera del tutto casuale possono succedere anche cose pazzescamente belle.
C come Chiedere aiuto. Che sia difficilissimo il farlo, è un indiscutibile dato di fatto. Eppure, questo è il primo passo che può veramente cambiare la vita, permettendoci di allontanarci dall’anoressia per avvicinarci a noi stesse. Chiedere aiuto significa rompere il silenzio di cui si nutre il DCA ed iniziare a combattere non più contro noi stesse, ma per noi stesse. Il non sentirsi “abbastanza malate” può rappresentare un freno al Chiedere aiuto, ma pensate a questo: cosa significa davvero essere “abbastanza malata”? Significa scendere sotto ad un certo peso? (O, nel caso della bulimia, indursi il vomito più di un certo numero di volte al giorno?) Significa mangiare meno di un certo tot? Significa fare un certo quantitativo di attività fisica compulsivamente? No, non è niente di tutto questo. Si è “abbastanza malate” ogni qualvolta si sta male con noi stesse, a prescindere dal peso perso, da cibo (non) mangiato, dall’attività fisica fatta. Perché non esistono scale di valore sulla sofferenza, che non può certo essere pesata sulla bilancia. Perciò, è sempre il momento giusto per Chiedere aiuto. È un modo per Cominciare a Combattere. Per poter così Costruire, con Coraggio, il nostro futuro.
D come Darsi da fare. Per quanto bello possa essere il sognare, non esiste nessuna bacchetta magica che ci permetterà di fare progressi come se niente fosse. Nessun incantesimo manderà in frantumi l’anoressia. E l'autocompiangimento servirà solo a rimanere ancora più impantanate. Per combattere contro l’anoressia occorre rinnovare quotidianamente il nostro impegno a stringere i denti, e seguire giorno dopo giorno l’ “equilibrio alimentare” e fare psicoterapia e non mollare anche quanto tutto sembra farsi tremendamente difficile. Darsi da fare per capire ciò che si vuole veramente dalla vita, e farlo. Perché lottare quotidianamente non sarà facile, ma è la nostra sola possibilità per non permettere al DCA di avere la meglio. Perché se si vuole veramente una cosa, nella fattispecie una vita senza l’assillo dell’anoressia, bisogna Darsi da fare e prendersela.
E come Emozioni. L’anoressia rappresenta anche, a suo modo, una sorta di armatura che ci mette al riparo dal provare Emozioni: una sorta di maschera che ci permette di rapportarci al resto del mondo. Una maschera è, in un certo senso, comoda, perché ci permette di guardare senza essere viste per quello che siamo veramente, ma solo per il personaggio che interpretiamo, cosicché se qualcuno ci critica, non ne siamo realmente ferite perché a venire disprezzata è la nostra maschera, non le Vere Noi Stesse. Però, se è pur vero che una maschera ci protegge, è altrettanto vero che, alla lunga, quella stessa maschera finisce per isolarci dal resto del mondo. Nessuno potrà odiarci per quello che siamo, ma allo stesso tempo nessuno potrà neanche volerci bene per quello che siamo. Per la paura del primo 50% negativo, ci perdiamo pire il restante 50% positivo. “They can’t love me, they can’t love what I don’t show”, come dice la canzone. E allora, ecco che la maschera finisce per soffocarci. Per questo credo che togliere la maschera e lasciare libero spazio a quelle Emozioni che ci affanniamo tanto a controllare possa rappresentare un ulteriore passo avanti sulla strada del ricovero.
F come Fare sport. Fare sport in maniera equilibrata credo possa essere di grande aiuto nel momento in cui si sta percorrendo la strada del ricovero. Ovviamente per poter fare sport occorre essere ritornate ad un certo standard fisico, altresì può essere deleterio il praticarlo, però nel momento in cui si sta meglio, e ci si svincola da quella che è l’attività fisica eccessiva legata al DCA, si può fare sport in maniera tranquilla, corretta, salutare, magari anche insieme ad altre persone, il che può rappresentare un toccasana sia per il fisico che per l’umore.
G come Gioco di squadra. La guerra contro l’anoressia non può essere vinta se combattiamo completamente da sole. Semplicemente perché senza alcun tipo di supporto tenere duro diventa estremamente difficile, e si è più alla mercé dei pensieri deviati messi in testa dall’anoressia, che non ha contraddittorio se non la parte razionale della nostra mente, che però non sempre riesce ad opporsi. Viceversa, l’avere vicino un team di persone supportive – che siano familiari, amici, terapeuti, persone che hanno vissuto la stessa malattia and so on – può rendere la battaglia contro l’anoressia decisamente più gestibile. Del resto, da che mondo è mondo, l’unione fa la forza.
H come “Ho toppato!”. Le ricadute credo siano praticamente inevitabili durante un percorso di ricovero dall’anoressia. Direi anzi che ne sono parte integrante. Perciò, non vivetele con frustrazione e non vedetele come dei fallimenti: provate viceversa ad analizzare la ricaduta per valutare cosa vi ha spinto verso di essa, al fine di non ripetere il medesimo pattern in futuro. Ricordatevi inoltre che la vittoria in una partita di calcio si basa su quanti goal la squadra riesce a segnare al termine dei 90 minuti di gioco, non su quanti ne ha segnati nei primi 20 minuti di partita. La vostra vittoria contro l’anoressia la si vede nel lungo termine, non nell’immediato di una ricaduta. Perdere una singola battaglia non significa affatto perdere la guerra. Avrete fallito solo se dopo una ricaduta deciderete di non rialzarvi: in questo caso, sì, avrete tutte le ragioni per considerarvi un fallimento. Ma fino a che vi rialzate e ricominciate a combattere con più grinta e determinazione di prima, sarà 1 a zero per voi contro l’anoressia: finché vi date una nuova possibilità, avrete almeno una possibilità. Per dirla con le parole di Nelson Mandela: "Do not judge me by failures, judge me by how many times I fell down and got back up again."
I come Imparare nuove strategie di coping. La restrizione alimentare nell’anoressia rappresenta indubbiamente una strategia di coping, ovvero un comportamento messo in atto per far fronte ad una qualsiasi situazione stressante che si teme di non essere capaci di gestire altrimenti. Il controllo (illusorio) che si percepisce con la restrizione alimentare si estende così anche all’altro ambito della vita che si teme di non essere in grado di riuscire a controllare, in maniera tale per cui riusciamo a gestire la situazione… ma a spese della nostra salute. Perciò, per poter andare avanti sulla strada del ricovero occorre comprendere che alle medesime situazione stressanti si può far fronte anche con altre modalità che non hanno niente a che vedere con la restrizione alimentare, che non sono lesive nei confronti di noi stesse, e che ci permettono di gestire emotivamente e praticamente la situazione senza più bisogno di ricorrere al DCA.
L come Lavorare sui veri problemi. Penso sia palese che la restrizione alimentare e il peso perso rappresentano la punta di un ice-berg ben più profondo ed estremamente complesso. L’anoressia è una malattia multifattoriale, ergo alla sua insorgenza concorrono millemila concause diverse per ciascuna di noi. La perdita di peso e la restrizione alimentare costituiscono l’estrinsecazione clinica della patologia, che però in realtà è una malattia mentale che affonda le sue radici in tutt’altri problemi individuali. Sono quelle le vere problematiche che sostengono l’anoressia, l’erroneo comportamento alimentare è solo un comodo capro espiatorio che poco e niente ha a che vedere con i veri problemi che ci stanno dietro. Ed è proprio questi problemi che devono essere individuati e sui quali occorre Lavorare (ovviamente anche con l’aiuto della psicoterapia), perché è solo mettendoci face-to-face con essi, per quanto sia duro e difficile, che potremo darci la possibilità di risolverli.
M come Migliorare la propria qualità della vita. Sebbene parlare di “guarigione” possa essere, a mio parere, utopico per una malattia come l’anoressia, si può senz’ombra di dubbio parlare di remissione. Avere una remissione dell’anoressia significa che la sua vocina sta sempre da qualche parte nella nostra testa e cerca di fregarci, ma che noi siamo più forti di lei, e scegliamo scientemente di ignorare la sua voce per seguire un stile alimentare sano e fare quello che ci va, senza più assecondarla. In questo modo è possibile studiare, lavorare, fare sport, avere hobby, stare bene, uscire con gli amici e, insomma, avere una vita di qualità veramente elevata.
N come Ne vale la pena. Percorrere la strada del ricovero significa intraprendere una battaglia tosta e complessa. Significa sentirsi crollare il mondo addosso, dover stringere i denti continuamente, ed essere stanche, ed aver voglia di mollare riabbandonandoci al DCA, dove tutto sembrava più semplice. Eppure, se si tiene duro, più si va avanti e più ci si rende conto di quanto l’anoressia ci aveva tolto, e di quanto si può stare meglio se lottiamo per riconquistarcelo. I progressi non si vedono dall’oggi al domani, e sul momento può sembrare una lotta dura ed inconcludente, ma sul lungo termine, se vi guardate indietro, vi accorgerete che pian piano di progressi ne avete fatti eccome. Che vi siete poco a poco allontanate dalle ossessioni dell’anoressia, per riprendere in mano la vostra vita e riempirla di tutto ciò che vi piace davvero. E, sì, Ne vale la pena.
O come Obiettivi. Penso che, nel momento in cui si decide di intraprendere la lotta contro l’anoressia, possa essere importante fissare degli Obiettivi. Non degli Obiettivi a breve termine, che secondo me sono assolutamente deleteri perché fanno montare l’ansia da prestazione per cui non si combina nulla di buono e ci si sente da schifo per questo, bensì degli Obiettivi a lungo termine, senza scadenze temporali rigide, che rappresentano quello che vorreste ottenere dalla vostra battaglia contro l’anoressia. Possono essere Obiettivi complessi, come per esempio il ridurre le manie di controllo, o anche Obiettivi più semplici, come per esempio il riuscire a mangiare insieme a vostri amici. In ogni caso, abbiate chiari i vostri Obiettivi, ed elaborate delle strategie per raggiungerli in tutto il tempo che vi sarà necessario: l’essere riuscite a raggiungere un Obiettivo vi darà più forza, determinazione e fiducia in voi stesse.
P come Provare ad accettarsi. Io non penso che necessariamente occorra arrivare ad amarsi. Tanto meglio se una ci riesce, è evidente, ma non lo vedo come un qualcosa di necessario allo svincolarsi dall’anoressia. Penso che sia più che sufficiente riuscire ad accettarsi: ovvero riuscire ad acquisire l’oggettiva consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre potenzialità, e il focalizzarci, più che sulla nostra fisicità, su quelle che sono le cose che facciamo nella vita (lo studio, il lavoro, i rapporti con gli altri, etc…) in maniera tale da avere dei buoni risultati in questi campi, che ci consentano di vivere bene con noi stesse anche senza bisogno della stampella dell’anoressia.
Q come Quel che è altro dall’anoressia. Lo so che è come scoprire l’acqua calda, ma una delle cose che credo possa aiutare di più nella lotta quotidiana contro l’anoressia, è il trovare qualcosa che sia per noi interessante e coinvolgente come lo è stata a lungo l’anoressia stessa. In sostanza: occorre cercare di dare più importanza ad altre cose, quali che siano, e cercare poco a poco di costruirsi una vita autonoma al di là dell'anoressia, poiché nel momento in cui si arriva ad avere una vita che compendia numerosi interessi “sani” e positivi, ci si rende conto che l’anoressia non ci serve più poi così tanto.
R come Riabilitazione nutrizionale. Credo che in un percorso di Ricovero sia imprescindibile essere affiancata da una figura professionale quale un dietologo/dietista/nutrizionista che ci permetta, grazie all’elaborazione di un “equilibrio alimentare” individualizzato, di rientrare progressivamente nel nostro set-point fisiologico di peso corporeo. Banalmente, questo è di fondamentale importanza per riacquistare salute fisica… e mentale. Ma su questo argomento ci torno tra un paio di lettere.
S come Scegliere la vita. Non essere più malata e ricominciare a vivere a pieno. Affrontare quelli che sono i veri problemi che si nascondono dietro il capro espiatorio del cibo e della fisicità, e tener loro testa, uscendone vincitori. Stringere i denti tutti i giorni nella consapevolezza che le cose possono cambiare in meglio se ce la si mette tutta per. Smetterla di sopravvivere e ricominciare a vivere una vita che sia degna d’essere chiamata tale.
T come Terapia. E qui mi ricollego alla lettera “R”. Penso che la Terapia psicologica, affiancata alla riabilitazione nutrizionale, rappresenti il binomio essenziale in un percorso di ricovero dal DCA. Penso che le 2 cose debbano coesistere e procedere di pari passo nel momento in cui una persona trova il coraggio di chiedere aiuto. La riabilitazione nutrizionale è necessaria perché un corpo fortemente debilitato dalla carenza di cibo, oltre a essere ovviamente a rischio per ogni qualsiasi malattia fisica, non permette di pensare lucidamente. Anche se a noi sembra di essere lucide, quando siamo fortemente sottopeso non possiamo biologicamente esserlo: perché la carenza di alimenti non permette la sintesi di numerosi neurotrasmettitori che sono quelli che, appunto, in condizioni normali ci permettono di pensare lucidamente. Per cui, fare psicoterapia senza supporto nutrizionale serve a ben poco, perché non si ha la lucidità mentale per concretizzare a pieno e mettere in pratica i suggerimenti dello psicoterapeuta, non si è neanche realmente in grado di rifletterci. Allo stesso modo, è altrettanto inutile la riabilitazione alimentare da sola, non affiancata da psicoterapia, perché comunque essa comporta delle variazioni di peso che verranno mal tollerate se la persona non fa contemporaneamente un percorso psicologico di accettazione e di lavoro su di sé, e sarà molto più rapida e frequente la ricaduta nel DCA, perché la persona non ci ha lavorato su. Ci vogliono ambo le cose. Giusto per dirla con un esempio semplificato (colleghi medici, non me ne vogliate!), se io ho un’infezione che mi dà febbre, per guarire devo prendere la Tachipirina ed un antibiotico contemporaneamente: se prendo solo la Tachipirina, sparirà la febbre e mi sembrerà di stare bene, ma il batterio continuerà a proliferare nel mio organismo e la malattia riaffiorerà. Se prendo solo l’antibiotico, il batterio scomparirà, ma sarò sempre fiaccata dalla persistente febbre. Per guarire, c’è bisogno di assumere entrambi i farmaci. E lo stesso vale per la Terapia psicologica e per la riabilitazione nutrizionale quando si ha l’anoressia: come le due parti inscindibili di un’equazione, non possono esistere l’una senza l’altra perché si completano e si embricano vicendevolmente.
U come Un passo alla volta. La fretta è cattiva consigliera, si sa, e questo è tanto più vero quando si sta combattendo contro l’anoressia. Iniziando la terapia, credo sia spontaneo il desiderare di vedere risultati tangibili a stretto raggio, ma in questo caso le cose non vanno rapidamente. Anzi, più si cerca di spingere sull’acceleratore, più è facile inciampare in una ricaduta. Per cui, prendetevi tutto il tempo di cui sentite di avere bisogno per fare Un passo alla volta. Non mettetevi fretta. Arriverete a meta, ma ci vorrà tempo, ad ognuna il suo. Prendetevi sempre tutto il tempo di cui sentite di aver bisogno. Le cose buone arrivano per chi sa aspettare (e, nel frattempo, si impegna e ce la mette tutta per ottenerle!).
V come Volontà. Penso che la forza di Volontà rappresenti la chiave di volta nel combattere contro l’anoressia. Possiamo anche avere la disposizione la migliore equipe medica del mondo, e possiamo anche essere circondati dalle persone più comprensive e supportive del mondo, ma non servirà se noi per prime non abbiamo in noi la voglia di combattere contro l’anoressia. Certo, l’aiuto di specialisti e il supporto di chi ci vuole bene sono fondamentali per poter sostenere la battaglia contro un DCA, ma il primus movens può essere solo e soltanto la nostra forza di Volontà di combattere, di opporci alla malattia, di cambiare le cose, con tutta la determinazione di cui disponiamo. Perché Volere è potere – mai vero come quando si tratta di dar battaglia all’anoressia!
Z come Zero. Che è quello che auguro a tutte voi (a tutte NOI). Di fare piazza pulita dell’anoressia, e ricominciare da Zero. Di allontanarsi quanto più possibile dalla malattia, per poter riprendere le redini della propria vita. Perché lo so che l’anoressia più sembrare (illusoriamente) incredibilmente rassicurante, con la sua parvenza di controllo totale, a fronte di una vita che spesso e volentieri risulta essere del tutto random. Effettivamente la vita è un qualcosa che sfugge, che vuole essere inseguita, è un qualcosa di leggero e fragile, solo sfiorarle un’ala può comportare la fine del suo volo. Eppure la morte non riempie mai. Lascia un vuoto simile al buco allo stomaco. Credo che sia la vita ciò di cui si ha fame.
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venerdì 6 dicembre 2013
Gestire la consapevolezza di sè
La consapevolezza di sè è un qualcosa d’interessante. Ci modella, ci rende quelle che siamo, c’insegna e ha un notevole impatto sulle nostre vite. Senza la consapevolezza di sé non possiamo imparare niente su noi stesse. Se non impariamo niente su noi stesse, non possiamo crescere interiormente. E senza crescita interiore, si rimane stagnanti nell’impasse.
La consapevolezza di sè non sempre è una cosa piacevole, e chi ha un DCA lo sa bene. Talvolta si notano cose di noi stesse che vorremmo soltanto spazzare sotto il tappeto. Altre volte scopriamo cose che ci fanno dire “A-ha!”, e delle vere e proprie rivelazioni spezzano la sofferenza indotta dal DCA. Altre volte ancora, la consapevolezza di sé è scomoda. Ci rendiamo conto, forse a malincuore... forse anche accidentalmente... e poi dobbiamo affrontare quello cui ci siamo messe faccia a faccia. Dobbiamo guardare nello specchio della nostra mente e decidere cosa farne di ciò che vediamo lì.
Per chi ha un DCA, non è sempre facile acquisire la consapevolezza di sè. Occorre impegnarsi contro le resistente poste in essere dalla malattia per riuscire a vederci veramente, a conoscere noi stesse, a capire quello che vogliamo dalla vita e come poterlo ottenere. Molto spesso, la consapevolezza di sé e l’introspezione vanno di pari passo: combattere contro l’anoressia infatti significa anche discernere quella che è la parte malata dalla parte sana e razionale di noi, e cercare di far prevalere quest’ultima.
In un certo senso, la consapevolezza di sè equivale al raccontare a noi stesse la nostra propria storia – ma senza parole smielate, senza soffermarsi sui dettagli insignificanti, e smettendola d’indossare gli occhiali dalle lenti rosa dell’anoressia. “Siediti un po’ qui, Veggie, e lascia che ti racconti la storia di te stessa in questa giornata. Lascia che ti spieghi come gli eventi t’influenzano, e cosa tutto questo potrebbe significare”. Ecco, è così che la mia mente lavora quando cerco di fare introspezione. A volte devo usare tutta la mia forza per spingere via un masso che mi ostruisce il passaggio, così da poter vedere la luce dietro di esso. A volte è come cercare di districare nodi incasinatissimi. A volte mi vedo costretta ad aprire una porta che avrei preferito tenere chiusa.
Ma la consapevolezza di sè ci rende delle persone migliori, ci rende più forti e dunque più in grado di combattere attivamente contro l’anoressia, per questo dobbiamo prenderla come se fosse un’avventura: qualche volta è piacevole, qualche volta no, ma è comunque una strada che si sta percorrendo e che ci porta avanti. Talvolta è un’arrampicata ripidissima. Talvolta è una tranquilla strada pianeggiante. E noi siamo, allo stesso tempo, le autiste e le passeggere.
Sebbene tutti i giorni la vita c’impartisca delle lezioni, è bene cercare sempre di guardare dentro noi stesse. Perché? Consapevolezza di sé. Se non possiamo essere esperte in nient’altro, possiamo almeno cercare di essere esperte di NOI STESSE.
Torniamo un attimo all’analogia della porta. “A volte mi vedo costretta ad aprire una porta che avrei preferito tenere chiusa” ho scritto. Siamo individui complessi – tutte noi, nessuna eccezione – ed è perciò perfettamente naturale, anche per le persone più sicure di se stesse, tutte d’un pezzo, o sempre allegre e sorridenti voler rifuggire dalla consapevolezza di sé, a volte. Figuriamoci quindi chi ha un DCA. Eppure, ogni piccola cosa che costituisce la nostra vita quotidiana contribuisce a costruire la nostra consapevolezza di sé. La consapevolezza di sé non deve alterare la propria vita né cambiare le proprie decisioni. Non deve neanche riguardare necessariamente i nostri problemi alimentari. Al cuore, la consapevolezza di sé riguarda più che altro la capacità di gestire le emozioni. Questo è: la capacità di gestire le emozioni.
Le emozioni alimentano le reazioni.
Le emozioni alimentano le azioni.
Le emozioni determinano l’umore.
Le emozioni possono guidare le decisioni.
Dunque, le emozioni che con l’anoressia ci affanniamo tanto a soffocare, sono in realtà estremamente importanti.
Ma a volte ci sembra che queste emozioni siano più grandi di noi. Ci sembra di non riuscire a tollerarle. Così mettiamo la maschera dell’anoressia per fingere che non esistano. Abbracciamo il nostro disturbo alimentare proprio per fuggire dalle emozioni, soprattutto da quelle che ci fanno paura. Ci sono tanti possibili scenari quante sono le emozioni stesse.
Ma, come delle avventuriere della nostra interiorità, dobbiamo resistere dall’indossare la maschera dell’anoressia, ed andare avanti. Così, decidiamo di aprire quella porta che avremmo preferito rimanesse chiusa. E la si richiude di scatto, ci si allontana da essa, non abbastanza pronte ad affrontare ciò che potremmo trovarvi dietro. Si rimane così in disparte, ascoltando quello che fingiamo di non ascoltare. O forse è il contrario - forse si fa finta di ascoltare cosa c'è dietro quella porta, per tutto il tempo in cui non ci sentiamo ancora pronte. Si continua a mantenere la distanza, ma abbiamo già aperto la porta, quindi non è come se non avessimo fatto attenzione, giusto?
Ma poi, c’è qualcosa che ci chiama. Non lo si vuole ancora affrontare, ma siamo pronte ad ascoltare. Così ci si riavvicina cautamente alla porta, e si appoggia su di essa un orecchio.
Ed ecco che ci troviamo trascinate nel viaggio. Aspettiamo, ascoltiamo, forse dialogando con noi stesse: “Mi sento davvero così?”. “No, certo che non mi sento così”. “O mi sento così?”. “Ma non è così che mi comporto!”. “Può essere vero quell che provo, allora?”. “Non voglio provare questo, ho scelto l’anoressia proprio per non dover provare più niente!”. Siamo abbastanza vicine all’avventurare la testa al di là della porta, per concedere a quello che ci attende di occupare un pezzetto della nostra mente. Ma l’anoressia ci fa ancora pensare che è ingiusto dover affrontare certe cose… perché non tutte le emozioni sono positive come sembrano quando si stringe quella coperta di Linus che è l’anoressia.
Tuttavia, alla fine, mettendoci tutto il nostro coraggio e trattenendo il fiato, ci permettiamo non solo di ascoltare ciò che si sussurra dietro la porta, ma anche di riconoscerlo, qualsiasi cosa sia. “Ci sono delle cose di me che non mi piacciono, e per coprirle sto adottando una strategia di coping che mi farà più male che bene a lunga gittata: un DCA”. “Il vero problema non è il mio aspetto fisico né cosa/quanto mangio, i veri problemi sono quelli che mi tengo dentro e che fingo d’ignorare scaricando tutte le mie preoccupazioni sul comodo capro espiatorio del comportamento alimentare errato”. “Ecco, l’anoressia mi fa pensare questa cosa e me la fa passare per vera, ma in realtà sono consapevole che si tratta di una balla bella e buona”. Così, riuscendo finalmente ad aprire gli occhi, possiamo iniziare a vedere uno spiraglio di luce.
E adesso sappiamo quel che dobbiamo fare. Cominciamo ad essere consapevoli di noi stesse e delle bugie che l’anoressia ci racconta. Abbiamo aperto la porta: siamo pronte a fronteggiare qualsiasi cosa ci aspetti al di là di essa.
Molto probabilmente quello che troveremo dietro la porta non ci farà strillare dalla gioia, ma non sarà mai così terribile come ce lo faceva immaginare l’anoressia quando la porta stava ancora chiusa. E, fissando quella porta e tutto ciò che si trova oltre essa, con 1) un po’ di fiducia in noi stesse, 2) la consapevolezza che siamo umane, e 3) il desiderio di conoscere le vere noi stesse oltre alle maschere create dall’anoressia, ci aiuta ad incrementare giorno dopo giorno la nostra consapevolezza di sé.
L’intricatissimo lavoro d’introspezione che è necessario per prendere le distanze dall’anoressia richiede tempo, attenzione, dedizione, pazienza, coraggio e cura. Non possiamo pare passi avanti sulla strada del ricovero se continuiamo ostinatamente a sbattere contro una porta che ci rifiutiamo di aprire. Dobbiamo prendere viceversa il coraggio a quattro mani, e aprirla. Buttarla giù. E, prendendoci tutto il tempo che ci è necessario, riuscire a guardare oltre quella porta senza il timore di non essere capaci di affrontare ciò che ci attende. Perché lo siamo.
La consapevolezza di sè non sempre è una cosa piacevole, e chi ha un DCA lo sa bene. Talvolta si notano cose di noi stesse che vorremmo soltanto spazzare sotto il tappeto. Altre volte scopriamo cose che ci fanno dire “A-ha!”, e delle vere e proprie rivelazioni spezzano la sofferenza indotta dal DCA. Altre volte ancora, la consapevolezza di sé è scomoda. Ci rendiamo conto, forse a malincuore... forse anche accidentalmente... e poi dobbiamo affrontare quello cui ci siamo messe faccia a faccia. Dobbiamo guardare nello specchio della nostra mente e decidere cosa farne di ciò che vediamo lì.
Per chi ha un DCA, non è sempre facile acquisire la consapevolezza di sè. Occorre impegnarsi contro le resistente poste in essere dalla malattia per riuscire a vederci veramente, a conoscere noi stesse, a capire quello che vogliamo dalla vita e come poterlo ottenere. Molto spesso, la consapevolezza di sé e l’introspezione vanno di pari passo: combattere contro l’anoressia infatti significa anche discernere quella che è la parte malata dalla parte sana e razionale di noi, e cercare di far prevalere quest’ultima.
In un certo senso, la consapevolezza di sè equivale al raccontare a noi stesse la nostra propria storia – ma senza parole smielate, senza soffermarsi sui dettagli insignificanti, e smettendola d’indossare gli occhiali dalle lenti rosa dell’anoressia. “Siediti un po’ qui, Veggie, e lascia che ti racconti la storia di te stessa in questa giornata. Lascia che ti spieghi come gli eventi t’influenzano, e cosa tutto questo potrebbe significare”. Ecco, è così che la mia mente lavora quando cerco di fare introspezione. A volte devo usare tutta la mia forza per spingere via un masso che mi ostruisce il passaggio, così da poter vedere la luce dietro di esso. A volte è come cercare di districare nodi incasinatissimi. A volte mi vedo costretta ad aprire una porta che avrei preferito tenere chiusa.
Ma la consapevolezza di sè ci rende delle persone migliori, ci rende più forti e dunque più in grado di combattere attivamente contro l’anoressia, per questo dobbiamo prenderla come se fosse un’avventura: qualche volta è piacevole, qualche volta no, ma è comunque una strada che si sta percorrendo e che ci porta avanti. Talvolta è un’arrampicata ripidissima. Talvolta è una tranquilla strada pianeggiante. E noi siamo, allo stesso tempo, le autiste e le passeggere.
Sebbene tutti i giorni la vita c’impartisca delle lezioni, è bene cercare sempre di guardare dentro noi stesse. Perché? Consapevolezza di sé. Se non possiamo essere esperte in nient’altro, possiamo almeno cercare di essere esperte di NOI STESSE.
Torniamo un attimo all’analogia della porta. “A volte mi vedo costretta ad aprire una porta che avrei preferito tenere chiusa” ho scritto. Siamo individui complessi – tutte noi, nessuna eccezione – ed è perciò perfettamente naturale, anche per le persone più sicure di se stesse, tutte d’un pezzo, o sempre allegre e sorridenti voler rifuggire dalla consapevolezza di sé, a volte. Figuriamoci quindi chi ha un DCA. Eppure, ogni piccola cosa che costituisce la nostra vita quotidiana contribuisce a costruire la nostra consapevolezza di sé. La consapevolezza di sé non deve alterare la propria vita né cambiare le proprie decisioni. Non deve neanche riguardare necessariamente i nostri problemi alimentari. Al cuore, la consapevolezza di sé riguarda più che altro la capacità di gestire le emozioni. Questo è: la capacità di gestire le emozioni.
Le emozioni alimentano le reazioni.
Le emozioni alimentano le azioni.
Le emozioni determinano l’umore.
Le emozioni possono guidare le decisioni.
Dunque, le emozioni che con l’anoressia ci affanniamo tanto a soffocare, sono in realtà estremamente importanti.
Ma a volte ci sembra che queste emozioni siano più grandi di noi. Ci sembra di non riuscire a tollerarle. Così mettiamo la maschera dell’anoressia per fingere che non esistano. Abbracciamo il nostro disturbo alimentare proprio per fuggire dalle emozioni, soprattutto da quelle che ci fanno paura. Ci sono tanti possibili scenari quante sono le emozioni stesse.
Ma, come delle avventuriere della nostra interiorità, dobbiamo resistere dall’indossare la maschera dell’anoressia, ed andare avanti. Così, decidiamo di aprire quella porta che avremmo preferito rimanesse chiusa. E la si richiude di scatto, ci si allontana da essa, non abbastanza pronte ad affrontare ciò che potremmo trovarvi dietro. Si rimane così in disparte, ascoltando quello che fingiamo di non ascoltare. O forse è il contrario - forse si fa finta di ascoltare cosa c'è dietro quella porta, per tutto il tempo in cui non ci sentiamo ancora pronte. Si continua a mantenere la distanza, ma abbiamo già aperto la porta, quindi non è come se non avessimo fatto attenzione, giusto?
Ma poi, c’è qualcosa che ci chiama. Non lo si vuole ancora affrontare, ma siamo pronte ad ascoltare. Così ci si riavvicina cautamente alla porta, e si appoggia su di essa un orecchio.
Ed ecco che ci troviamo trascinate nel viaggio. Aspettiamo, ascoltiamo, forse dialogando con noi stesse: “Mi sento davvero così?”. “No, certo che non mi sento così”. “O mi sento così?”. “Ma non è così che mi comporto!”. “Può essere vero quell che provo, allora?”. “Non voglio provare questo, ho scelto l’anoressia proprio per non dover provare più niente!”. Siamo abbastanza vicine all’avventurare la testa al di là della porta, per concedere a quello che ci attende di occupare un pezzetto della nostra mente. Ma l’anoressia ci fa ancora pensare che è ingiusto dover affrontare certe cose… perché non tutte le emozioni sono positive come sembrano quando si stringe quella coperta di Linus che è l’anoressia.
Tuttavia, alla fine, mettendoci tutto il nostro coraggio e trattenendo il fiato, ci permettiamo non solo di ascoltare ciò che si sussurra dietro la porta, ma anche di riconoscerlo, qualsiasi cosa sia. “Ci sono delle cose di me che non mi piacciono, e per coprirle sto adottando una strategia di coping che mi farà più male che bene a lunga gittata: un DCA”. “Il vero problema non è il mio aspetto fisico né cosa/quanto mangio, i veri problemi sono quelli che mi tengo dentro e che fingo d’ignorare scaricando tutte le mie preoccupazioni sul comodo capro espiatorio del comportamento alimentare errato”. “Ecco, l’anoressia mi fa pensare questa cosa e me la fa passare per vera, ma in realtà sono consapevole che si tratta di una balla bella e buona”. Così, riuscendo finalmente ad aprire gli occhi, possiamo iniziare a vedere uno spiraglio di luce.
E adesso sappiamo quel che dobbiamo fare. Cominciamo ad essere consapevoli di noi stesse e delle bugie che l’anoressia ci racconta. Abbiamo aperto la porta: siamo pronte a fronteggiare qualsiasi cosa ci aspetti al di là di essa.
Molto probabilmente quello che troveremo dietro la porta non ci farà strillare dalla gioia, ma non sarà mai così terribile come ce lo faceva immaginare l’anoressia quando la porta stava ancora chiusa. E, fissando quella porta e tutto ciò che si trova oltre essa, con 1) un po’ di fiducia in noi stesse, 2) la consapevolezza che siamo umane, e 3) il desiderio di conoscere le vere noi stesse oltre alle maschere create dall’anoressia, ci aiuta ad incrementare giorno dopo giorno la nostra consapevolezza di sé.
L’intricatissimo lavoro d’introspezione che è necessario per prendere le distanze dall’anoressia richiede tempo, attenzione, dedizione, pazienza, coraggio e cura. Non possiamo pare passi avanti sulla strada del ricovero se continuiamo ostinatamente a sbattere contro una porta che ci rifiutiamo di aprire. Dobbiamo prendere viceversa il coraggio a quattro mani, e aprirla. Buttarla giù. E, prendendoci tutto il tempo che ci è necessario, riuscire a guardare oltre quella porta senza il timore di non essere capaci di affrontare ciò che ci attende. Perché lo siamo.
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