venerdì 28 febbraio 2014
"Essere anoressica" VS "Avere l'anoressia"
Il post di oggi trae spunto dal commento che Kay mi ha lasciato nel post precedente. Mi riferisco a:
“Questo post è molto divertente, ma perché quando gli altri ti fanno le domande e usano la parola “anoressica” tu rispondi sempre con “avere l’anoressia”? (Non è solo questo post, ti leggo da un po’ di tempo e ho notato che scrivi sempre “avere l’anoressia”, ma non dici mai “anoressica”).”
Il commento è breve e semplice, eppure solleva una questione che reputo molto interessante, e che mi sembra corretto approfondire.
Partiamo da un dato di fatto: è vero, non utilizzo il termine “anoressica”, ma dico sempre “avere l’anoressia”; in questo Kay si rivela attenta lettrice. Non è una casualità o un vizio di forma, è una mia deliberata scelta, perché non ritengo che i due termini siano sinonimi e perciò utilizzo l’unico che ritengo essere corretto.
Perché noi non siamo anoressiche, noi ABBIAMO l’anoressia.
Io sono, io ho. Una parola di differenza, un abisso in mezzo.
Allora ho fatto un giretto tra i blog, e mi sono accorta che, effettivamente, più volte vengono utilizzate le espressioni “sono anoressica”/”sono bulimica”, come se chi scrive percepisse l’anoressia/la bulimia come modo di essere, e dunque come identità.
E’ vero anche nei commenti che lasciate in questo blog, dove a volte leggo “io sono anoressica”/”io sono bulimica”, e più ci penso, più mi rendo conto che generalmente non funziona così.
Stando in un Pronto Soccorso, la raccolta dell’anamnesi prevede il chiedere ai pazienti un resoconto delle loro pregresse patologie. Ma quante persone affette, per esempio, da reflusso gastro-esofageo dicono: “Io sono un reflussore”?. Quante persone affette da enfisema polmonare dicono “Io sono enfisematoso”? Nessuna. Alla domanda: “Ha malattie di rilevo?” che pongo routinariamente ogni qualvolta raccolgo un’anamnesi, le risposte sono tassativamente: “Ho il reflusso”, “Ho l’enfisema polmonare”.
Il punto forse è che nelle malattie che affliggono prettamente il corpo, la persona avverte spontaneamente la dissociazione del soma dall’ “io”, cosa che nelle malattie psichiatriche non succede di default. In fin dei conti, quando va tutto bene, quando il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere dei polmoni, un fegato, dei reni. Ci si sente tutt’uno: il corpo aderisce perfettamente a noi stesse – ed è noi stesse. Se si ha una malattia organica, che so, se fa male un braccio, all’improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice infatti “Mi fa male un braccio”, piuttosto che “Sento male al braccio”, come a sottolineare questa distanza.
Eppure, nel campo dei DCA, è frequente sentire persone che dicono “sono anoressica”/”sono bulimica”. Come se la base di una malattia mentale quale un DCA non permettesse la realizzazione di questa dissociazione – come se la malattia facesse parte del sé. Ed ecco che la malattia cessa di essere tale e assurge ad identità.
Dunque perché quando si parla di malattie fisiche si utilizza sempre il verbo avere (“ho mal di testa”, “ho mal di stomaco”, “ho il raffreddore”, etc…) e quando si parla di disturbi alimentari si cede spesso spontaneamente il passo al verbo essere? Quand’è che la malattia-DCA può non essere più percepito come tale, cioè come malattia vera e propria?
Io credo che la distorsione possa verificarsi poiché il cervello parla a se stesso, e parlando a se stesso muta le proprie percezioni.
Supponiamo che nel cervello ci siano due interpreti che comunicano tra loro. E supponiamo che il primo interprete sia un corrispondente dall’estero che dà notizie sul mondo – ove per mondo intendo tutto quello che c’è fuori e dentro al corpo. Il secondo interprete è invece un commentatore che scrive editoriali. Leggono l’uno il lavoro dell’altro. A uno servono i dati, all’altro una sintesi; s’influenzano a vicenda.
Fanno conversazioni del tipo:
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro al tallone.
Secondo Interprete: Credo sia la scarpa troppo stretta.
Primo Interprete: Controllato. Tolta la scarpa. Il piede fa ancora male.
Secondo Interprete: L’hai guardato?
Primo Interprete: Fatto. È arrossato.
Secondo Interprete: Sangue?
Primo Interprete: No.
Secondo Interprete: Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Però un minuto dopo c’è un altro rapporto.
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro il tallone.
Secondo Interprete: Lo so già.
Primo Interprete: Fa ancora male. S’è pure gonfiato.
Secondo Interprete: E’ solo una vescica. Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Cinque minuti dopo…
Secondo Interprete: Non stuzzicarla.
Primo Interprete: Se la faccio scoppiare starò meglio!
Secondo Interprete: Questo lo pensi tu. Lasciala stare.
Primo Interprete: Okay. Ma fa ancora male.
Quel che succede invece nei disturbi alimentari è che ci sono dei problemi di comunicazione tra il primo e il secondo interprete. Per cui succedono cose del tipo:
Primo Interprete: C’è un pinguino nella mia camera.
Secondo Interprete: Non è un pinguino… è un letto.
Primo Interprete: E’ un pinguino! È un pinguino!
Secondo Interprete: Mi sembra una cosa ridicola… Andiamo a vedere.
Allora, dendriti, neuroni, serotonina e interpreti si radunano tutti e trotterellano verso la camera. Se uno non ha una malattia che coinvolge la psiche, l’asserzione del secondo interprete, che quello è un letto, verrà accettata dal primo. Altresì, viceversa. Il problema, nella malattia che coinvolge la psiche è che il primo interprete vede davvero un pinguino. I messaggi che trasmettono i neuroni sono in qualche modo errati. Solo che, quello che succede di norma, è che il secondo interprete s’interroga: cosa sta succedendo? Lui dice che c’è un pinguino, ma io non ne sono convinto; forse c’è qualcosa che non va in me. C’è abbastanza dubbio da fornire un appiglio, da comprendere il gap esistente tra l’essere e l’avere, e il rendersi conto dunque di essere affette da una patologia che sarà opportuno affrontare con l’aiuto della psicoterapia e della riabilitazione nutrizionale. Identificarsi nella malattia invece è deleterio, perché se tutti i neuroni dicono che c’è un pinguino, il dubbio viene meno. Non c’è più un vero e proprio spazio per l’analisi, perché la malattia non è neanche più malattia, è un’identità, e subentra la quantomai falsa ma illudente considerazione che non si può guarire da noi stesse, e quindi tanto vale non buttare tempo ed energie in una psicoterapia. E questo può rallentare e/o fallare enormemente un percorso di ricovero.
Ma io sono del tutto convinta che noi non siamo delle malattie. Per questo utilizzo sempre il verbo avere. Non è un gap italiano, il mio, è una scelta intenzionale. E credo che concretizzare il fatto di avere una malattia, ma non esserlo, sia il primo passo concreto per potervi combattere.
Perciò, ragazze, vi dico semplicemente che non dovete assolutamente accettare la frase “sono anoressica/bulimica”, perchè così facendo vincolate voi stesse ad una malattia, e vi permettete una quantomeno parziale identificazione nella malattia, cosa che, a mio parere, è solo deleteria. Non dovete accettare questa frase, dovete RIBELLARVI a questa frase… questo è il vero passo avanti. Certo, occorre essere consapevoli di AVERE una malattia, sennò non si può neanche decidere d’iniziare a combatterla, ma esserne consapevoli non credo sia necessariamente sinonimo del fatto che il DCA debba essere parte di noi… non lo è, infatti, come del resto non lo è nessuna malattia.
Noi NON SIAMO la nostra malattia. Noi ABBIAMO una malattia. Perchè noi, noi come persone, siamo molto, molto, molto, MOLTO di più di una malattia.
“Questo post è molto divertente, ma perché quando gli altri ti fanno le domande e usano la parola “anoressica” tu rispondi sempre con “avere l’anoressia”? (Non è solo questo post, ti leggo da un po’ di tempo e ho notato che scrivi sempre “avere l’anoressia”, ma non dici mai “anoressica”).”
Il commento è breve e semplice, eppure solleva una questione che reputo molto interessante, e che mi sembra corretto approfondire.
Partiamo da un dato di fatto: è vero, non utilizzo il termine “anoressica”, ma dico sempre “avere l’anoressia”; in questo Kay si rivela attenta lettrice. Non è una casualità o un vizio di forma, è una mia deliberata scelta, perché non ritengo che i due termini siano sinonimi e perciò utilizzo l’unico che ritengo essere corretto.
Perché noi non siamo anoressiche, noi ABBIAMO l’anoressia.
Io sono, io ho. Una parola di differenza, un abisso in mezzo.
Allora ho fatto un giretto tra i blog, e mi sono accorta che, effettivamente, più volte vengono utilizzate le espressioni “sono anoressica”/”sono bulimica”, come se chi scrive percepisse l’anoressia/la bulimia come modo di essere, e dunque come identità.
E’ vero anche nei commenti che lasciate in questo blog, dove a volte leggo “io sono anoressica”/”io sono bulimica”, e più ci penso, più mi rendo conto che generalmente non funziona così.
Stando in un Pronto Soccorso, la raccolta dell’anamnesi prevede il chiedere ai pazienti un resoconto delle loro pregresse patologie. Ma quante persone affette, per esempio, da reflusso gastro-esofageo dicono: “Io sono un reflussore”?. Quante persone affette da enfisema polmonare dicono “Io sono enfisematoso”? Nessuna. Alla domanda: “Ha malattie di rilevo?” che pongo routinariamente ogni qualvolta raccolgo un’anamnesi, le risposte sono tassativamente: “Ho il reflusso”, “Ho l’enfisema polmonare”.
Il punto forse è che nelle malattie che affliggono prettamente il corpo, la persona avverte spontaneamente la dissociazione del soma dall’ “io”, cosa che nelle malattie psichiatriche non succede di default. In fin dei conti, quando va tutto bene, quando il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere dei polmoni, un fegato, dei reni. Ci si sente tutt’uno: il corpo aderisce perfettamente a noi stesse – ed è noi stesse. Se si ha una malattia organica, che so, se fa male un braccio, all’improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice infatti “Mi fa male un braccio”, piuttosto che “Sento male al braccio”, come a sottolineare questa distanza.
Eppure, nel campo dei DCA, è frequente sentire persone che dicono “sono anoressica”/”sono bulimica”. Come se la base di una malattia mentale quale un DCA non permettesse la realizzazione di questa dissociazione – come se la malattia facesse parte del sé. Ed ecco che la malattia cessa di essere tale e assurge ad identità.
Dunque perché quando si parla di malattie fisiche si utilizza sempre il verbo avere (“ho mal di testa”, “ho mal di stomaco”, “ho il raffreddore”, etc…) e quando si parla di disturbi alimentari si cede spesso spontaneamente il passo al verbo essere? Quand’è che la malattia-DCA può non essere più percepito come tale, cioè come malattia vera e propria?
Io credo che la distorsione possa verificarsi poiché il cervello parla a se stesso, e parlando a se stesso muta le proprie percezioni.
Supponiamo che nel cervello ci siano due interpreti che comunicano tra loro. E supponiamo che il primo interprete sia un corrispondente dall’estero che dà notizie sul mondo – ove per mondo intendo tutto quello che c’è fuori e dentro al corpo. Il secondo interprete è invece un commentatore che scrive editoriali. Leggono l’uno il lavoro dell’altro. A uno servono i dati, all’altro una sintesi; s’influenzano a vicenda.
Fanno conversazioni del tipo:
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro al tallone.
Secondo Interprete: Credo sia la scarpa troppo stretta.
Primo Interprete: Controllato. Tolta la scarpa. Il piede fa ancora male.
Secondo Interprete: L’hai guardato?
Primo Interprete: Fatto. È arrossato.
Secondo Interprete: Sangue?
Primo Interprete: No.
Secondo Interprete: Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Però un minuto dopo c’è un altro rapporto.
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro il tallone.
Secondo Interprete: Lo so già.
Primo Interprete: Fa ancora male. S’è pure gonfiato.
Secondo Interprete: E’ solo una vescica. Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Cinque minuti dopo…
Secondo Interprete: Non stuzzicarla.
Primo Interprete: Se la faccio scoppiare starò meglio!
Secondo Interprete: Questo lo pensi tu. Lasciala stare.
Primo Interprete: Okay. Ma fa ancora male.
Quel che succede invece nei disturbi alimentari è che ci sono dei problemi di comunicazione tra il primo e il secondo interprete. Per cui succedono cose del tipo:
Primo Interprete: C’è un pinguino nella mia camera.
Secondo Interprete: Non è un pinguino… è un letto.
Primo Interprete: E’ un pinguino! È un pinguino!
Secondo Interprete: Mi sembra una cosa ridicola… Andiamo a vedere.
Allora, dendriti, neuroni, serotonina e interpreti si radunano tutti e trotterellano verso la camera. Se uno non ha una malattia che coinvolge la psiche, l’asserzione del secondo interprete, che quello è un letto, verrà accettata dal primo. Altresì, viceversa. Il problema, nella malattia che coinvolge la psiche è che il primo interprete vede davvero un pinguino. I messaggi che trasmettono i neuroni sono in qualche modo errati. Solo che, quello che succede di norma, è che il secondo interprete s’interroga: cosa sta succedendo? Lui dice che c’è un pinguino, ma io non ne sono convinto; forse c’è qualcosa che non va in me. C’è abbastanza dubbio da fornire un appiglio, da comprendere il gap esistente tra l’essere e l’avere, e il rendersi conto dunque di essere affette da una patologia che sarà opportuno affrontare con l’aiuto della psicoterapia e della riabilitazione nutrizionale. Identificarsi nella malattia invece è deleterio, perché se tutti i neuroni dicono che c’è un pinguino, il dubbio viene meno. Non c’è più un vero e proprio spazio per l’analisi, perché la malattia non è neanche più malattia, è un’identità, e subentra la quantomai falsa ma illudente considerazione che non si può guarire da noi stesse, e quindi tanto vale non buttare tempo ed energie in una psicoterapia. E questo può rallentare e/o fallare enormemente un percorso di ricovero.
Ma io sono del tutto convinta che noi non siamo delle malattie. Per questo utilizzo sempre il verbo avere. Non è un gap italiano, il mio, è una scelta intenzionale. E credo che concretizzare il fatto di avere una malattia, ma non esserlo, sia il primo passo concreto per potervi combattere.
Perciò, ragazze, vi dico semplicemente che non dovete assolutamente accettare la frase “sono anoressica/bulimica”, perchè così facendo vincolate voi stesse ad una malattia, e vi permettete una quantomeno parziale identificazione nella malattia, cosa che, a mio parere, è solo deleteria. Non dovete accettare questa frase, dovete RIBELLARVI a questa frase… questo è il vero passo avanti. Certo, occorre essere consapevoli di AVERE una malattia, sennò non si può neanche decidere d’iniziare a combatterla, ma esserne consapevoli non credo sia necessariamente sinonimo del fatto che il DCA debba essere parte di noi… non lo è, infatti, come del resto non lo è nessuna malattia.
Noi NON SIAMO la nostra malattia. Noi ABBIAMO una malattia. Perchè noi, noi come persone, siamo molto, molto, molto, MOLTO di più di una malattia.
venerdì 21 febbraio 2014
F.A.Q. ( = Foolishly Asked Questions)
[Premessa: Penso che l’ironia rappresenti un aspetto molto importante della nostra lotta contro il DCA. Ergo, questo post nasce proprio con quest’intenzione: basarmi su alcune e-mail che ho ricevuto per fare ironia. Non ho alcuna intenzione di offendere nessuno – e, se qualcuna dovesse riconoscersi e sentirsi offesa, chiedo scusa in anticipo – e, naturalmente, l’anonimato è garantito. Don’t take it too seriously, girls: è solo per farci una risata. Buona lettura.]
Avendo riportato la mia e-mail su questo blog, frequentemente ricevo messaggi da parte vostra. Con alcune di voi mi scrivo abitualmente, e sono veramente contenta che questo blog ci abbia permesso di conoscerci in alcuni casi anche nella vita reale, e comunque al di là del mero disturbo alimentare.
Per il resto: il 90% delle e-mail che ricevo sono da parte di persone che desiderano condividere con me la loro esperienza di DCA, persone che mi chiedono consigli di auto-aiuto da affiancare alla psicoterapia, persone cui piace il mio blog, persone che semplicemente hanno bisogno di sfogarsi (ne approfitto per ringraziare tutte/i coloro che mi scrivono… GRAZIE!); il 5% invece sono da parte di persone che m’indirizzano critiche costruttive, e che parimenti ringrazio, perché critiche intelligenti di questo tipo servono per guardarsi da un altro punto di vista e riflettere. Infine, vi è un restante 5% che… bè, non saprei proprio come classificare. Ora, è cosa nota che su Internet gira veramente gente di tutti i tipi, ma a volte riesco a rimanere comunque senza parole. Mi riferisco a quelle persone che, in tutta serietà, mi scrivono raccontandomi più o meno in breve la loro esperienza di DCA (e non solo) e raggiungono l’acme della loro e-mail concludendola con una topica domanda. Di quelle che le leggi e ti chiedi se chi le ha scritte ci è o ci fa. Ma ci fa parecchio, eh!
Per cui, nel post di oggi ho deciso di riunire le più folli, astruse e insensate domande sull’anoressia ed affini che mi sono state indirizzate. Con le mie relative risposte, ovviamente. Perché anche se si parla di disturbi alimentari, che sono una cosa seria, credo che un po’ d’ironia faccia sempre bene. Veder… ehm, ridere per credere. ^___^
Giusto perché c’insegnano che la Matematica non è un’opinione, mentre la forma della lingua italiana che s’impara tipo in prima elementare invece sembra proprio esserlo:
• Ma te quante calorie mangi mediamente al giorno?
Non mangio calorie. Mangio cibo.
Questo quesito invece mi è stato rivolto da un’attentissima lettrice alla quale evidentemente non sono sfuggiti i fatti che questo non è un blog pro ana, e che il mio DCA sia, da manuale, Anoressia Nervosa Sottotipo 1:
• Vorrei poter vomitare, ma non ci riesco. Sai dirmi quali oggetti posso utilizzare per ottenere un buon risultato?
Ma certo. Ecco qui un prontuario step-by-step.
1) Utilizza le mani per abbassare il chiusino del water.
2) Utilizza le gambe per uscire dal gabinetto.
3) Utilizza le mani ancora una volta per chiudere la porta del gabinetto.
4) Utilizza le gambe ancora una volta per andare in un’altra stanza. Possibilmente una in cui non sei sola.
5) L’impulso di vomitare a poco a poco passa: hai ottenuto un buon risultato.
Le classiche ed immancabili:
• Quanto pesi?
• Sono alta 167 cm, qual è il peso perfetto per la mia altezza?
Altre perle:
• Qual è la dieta migliore da seguire?
Quella in cui quando hai fame mangi quanto e quello che ti va, e smetti quando ti senti sazia. La migliore in assoluto.
• Perché le anoressiche sono sempre così serie?
No, guarda, forse sembriamo serie dall’esterno. All’interno siamo party h24, tutto sesso, droga e rock’n’roll.
(SEMPRE serie? Cioè, ma questo cosa fa nella vita, lo stalker di gente malata di anoressia?)
• Chi ha l’anoressia sta sempre da sola perché odia tutti gli altri?
No, odiamo solo chi ci fa domande del genere.
• Visto che studi Medicina, conosci qualcosa che possa fungere da soppressore dell’appetito?
Cibo. La risposta che stai cercando è “CIBO”.
• Quando eri nel pieno dell’anoressia, come ti guardavi allo specchio?
Con gli occhi.
• Sono anoressica da quando avevo 13 anni. Potrei essere pronta per fare sesso?
Se lo chiedi a me… no, suppongo che tu non sia pronta. (Ma non per via dell’anoressia, eh!)
(Qualcuna mi spieghi la correlazione tra l’essere affette da un DCA e l’avere rapporti sessuali. Vi prego. Poi la spieghi anche all’autrice della domanda.)
• Io ora peso XX chili. Pensi che sembrerei anoressica se perdessi altri 10 chili e entrassi in una 36?
Non puoi sembrare anoressica. L’anoressia è una malattia, non una taglia.
• Per essere anoressica devi aver perso un certo tot di peso o avere un BMI sotto un certo valore?
NO!!!!!!!!
E, per finire, alcune risposte serie:
• Ma, in fin dei conti, tutto ciò che vorrei dire si riduce a 3 parole: perché non digiunare?
In 3 parole? Perché ti ucciderà.
• Come si può iniziare un percorso di ricovero?
1) Decidere di voler veramente iniziare un percorso di ricovero.
2) Ricercare aiuto professionale.
3) Tanto – ma tanto – olio di gomito.
• Come sei riuscita a combattere contro l’anoressia?
Ho VOLUTO farlo.
Avendo riportato la mia e-mail su questo blog, frequentemente ricevo messaggi da parte vostra. Con alcune di voi mi scrivo abitualmente, e sono veramente contenta che questo blog ci abbia permesso di conoscerci in alcuni casi anche nella vita reale, e comunque al di là del mero disturbo alimentare.
Per il resto: il 90% delle e-mail che ricevo sono da parte di persone che desiderano condividere con me la loro esperienza di DCA, persone che mi chiedono consigli di auto-aiuto da affiancare alla psicoterapia, persone cui piace il mio blog, persone che semplicemente hanno bisogno di sfogarsi (ne approfitto per ringraziare tutte/i coloro che mi scrivono… GRAZIE!); il 5% invece sono da parte di persone che m’indirizzano critiche costruttive, e che parimenti ringrazio, perché critiche intelligenti di questo tipo servono per guardarsi da un altro punto di vista e riflettere. Infine, vi è un restante 5% che… bè, non saprei proprio come classificare. Ora, è cosa nota che su Internet gira veramente gente di tutti i tipi, ma a volte riesco a rimanere comunque senza parole. Mi riferisco a quelle persone che, in tutta serietà, mi scrivono raccontandomi più o meno in breve la loro esperienza di DCA (e non solo) e raggiungono l’acme della loro e-mail concludendola con una topica domanda. Di quelle che le leggi e ti chiedi se chi le ha scritte ci è o ci fa. Ma ci fa parecchio, eh!
Per cui, nel post di oggi ho deciso di riunire le più folli, astruse e insensate domande sull’anoressia ed affini che mi sono state indirizzate. Con le mie relative risposte, ovviamente. Perché anche se si parla di disturbi alimentari, che sono una cosa seria, credo che un po’ d’ironia faccia sempre bene. Veder… ehm, ridere per credere. ^___^
Giusto perché c’insegnano che la Matematica non è un’opinione, mentre la forma della lingua italiana che s’impara tipo in prima elementare invece sembra proprio esserlo:
• Ma te quante calorie mangi mediamente al giorno?
Non mangio calorie. Mangio cibo.
Questo quesito invece mi è stato rivolto da un’attentissima lettrice alla quale evidentemente non sono sfuggiti i fatti che questo non è un blog pro ana, e che il mio DCA sia, da manuale, Anoressia Nervosa Sottotipo 1:
• Vorrei poter vomitare, ma non ci riesco. Sai dirmi quali oggetti posso utilizzare per ottenere un buon risultato?
Ma certo. Ecco qui un prontuario step-by-step.
1) Utilizza le mani per abbassare il chiusino del water.
2) Utilizza le gambe per uscire dal gabinetto.
3) Utilizza le mani ancora una volta per chiudere la porta del gabinetto.
4) Utilizza le gambe ancora una volta per andare in un’altra stanza. Possibilmente una in cui non sei sola.
5) L’impulso di vomitare a poco a poco passa: hai ottenuto un buon risultato.
Le classiche ed immancabili:
• Quanto pesi?
• Sono alta 167 cm, qual è il peso perfetto per la mia altezza?
Altre perle:
• Qual è la dieta migliore da seguire?
Quella in cui quando hai fame mangi quanto e quello che ti va, e smetti quando ti senti sazia. La migliore in assoluto.
• Perché le anoressiche sono sempre così serie?
No, guarda, forse sembriamo serie dall’esterno. All’interno siamo party h24, tutto sesso, droga e rock’n’roll.
(SEMPRE serie? Cioè, ma questo cosa fa nella vita, lo stalker di gente malata di anoressia?)
• Chi ha l’anoressia sta sempre da sola perché odia tutti gli altri?
No, odiamo solo chi ci fa domande del genere.
• Visto che studi Medicina, conosci qualcosa che possa fungere da soppressore dell’appetito?
Cibo. La risposta che stai cercando è “CIBO”.
• Quando eri nel pieno dell’anoressia, come ti guardavi allo specchio?
Con gli occhi.
• Sono anoressica da quando avevo 13 anni. Potrei essere pronta per fare sesso?
Se lo chiedi a me… no, suppongo che tu non sia pronta. (Ma non per via dell’anoressia, eh!)
(Qualcuna mi spieghi la correlazione tra l’essere affette da un DCA e l’avere rapporti sessuali. Vi prego. Poi la spieghi anche all’autrice della domanda.)
• Io ora peso XX chili. Pensi che sembrerei anoressica se perdessi altri 10 chili e entrassi in una 36?
Non puoi sembrare anoressica. L’anoressia è una malattia, non una taglia.
• Per essere anoressica devi aver perso un certo tot di peso o avere un BMI sotto un certo valore?
NO!!!!!!!!
E, per finire, alcune risposte serie:
• Ma, in fin dei conti, tutto ciò che vorrei dire si riduce a 3 parole: perché non digiunare?
In 3 parole? Perché ti ucciderà.
• Come si può iniziare un percorso di ricovero?
1) Decidere di voler veramente iniziare un percorso di ricovero.
2) Ricercare aiuto professionale.
3) Tanto – ma tanto – olio di gomito.
• Come sei riuscita a combattere contro l’anoressia?
Ho VOLUTO farlo.
venerdì 14 febbraio 2014
"The Biggest Loser" e un'ipocrisia ancora più "Big"
Alcuni giorni fa una lettrice di questo blog (che preferisce rimanere anonima) mi ha segnalato tramite e-mail un programma televisivo chiamato “The Biggest Loser”, chiedendomi cosa ne pensassi. Poiché non ne avevo mai neanche sentito parlare, prima di esprimere un’opinione mi sembrava giusto capire di cosa si trattasse. E così ho scoperto che “The Biggest Loser” è un reality show americano, che è però possibile seguire anche sui nostri computer in streaming. Questo reality consta di più concorrenti obesi, che devono perdere quanto più peso possibile, e soprattutto devono perderne più degli altri concorrenti per vincere (vince chi perde più peso nello stesso lasso di tempo, infatti), tramite un’alimentazione ridottissima e un allenamento spaccaossa sotto la supervisione di un personal trainer. Ho scoperto anche che questo programma esiste da un bel po’, e poiché in U.S.A. è stato molto seguito, ne sono state fatte più stagioni. Nell’ultima stagione la vincitrice è stata una ragazza di 24 anni, Rachel Frederickson, che in poco meno di 7 mesi ha perso 70 chili, passando da 118 chili a 48 chili. E proprio a causa di questa drastica e rapida perdita di peso si sono scatenate numerose polemiche negli U.S.A., e su molteplici Social Network.
Okay, io non ho mai seguito una singola puntata di questo programma perché non è proprio il mio genere di cosa, ma sono comunque del tutto certa che: A) Non mi sarebbe piaciuto e B) Non è un programma edificante da seguire per nessuna persona in generale.
Forse alcune di voi lo conoscono e lo hanno seguito, e forse alcune di voi potranno dire che far dimagrire una persona obesa è positivo, e che perciò questo è un programma che trasmette energia e voglia di impegnarsi per raggiungere gli obiettivi, e che promuove una cultura della salute. Rispetto la vostra opinione. Ma non sono d’accordo.
Ho scoperto che nella puntata finale di ogni stagione di questo reality show ciascuno dei concorrenti mostra il risultato di settimane e settimane diduro lavoro, dieta ed esercizio fisico alimentazione da Biafra e allenamento alla morte. E che la vincitrice dell’ultima stagione (ehm, perdente?) ha scatenato un inferno di commenti e di polemiche: tanto che alla fine i presentatori, i personal trainers, i dietisti, e i telespettatori si sono dichiarati d’accordo nel decretare che la vincitrice del programma aveva perso veramente troppo peso e che si era ammalata di anoressia (nell'ovviamente falso e semplicistico luogo comune che magrezza eccessiva = anoressia).
Se v’interessano maggiori dettagli potete leggere ciò che è stato scritto QUI, ma sappiate che ci sarebbe un sacco e una sporta in più da dire quando si parla di diete, attività fisica, peso, perdita di peso, etc.
In questo post voglio meramente esprimere la mia opinione al riguardo – come tale, opinabile per antonomasia.
Okay, partiamo da un dato di fatto. Considerati peso ed altezza di Rachel (dati trovati su Internet), la ragazza ha attualmente un B.M.I. di 18, quindi tecnicamente parlando sta al limite inferiore del normopeso. Ma se andasse in una clinica che si occupa di DCA, e raccontasse le modalità con cui ha perso peso, probabilmente verrebbe incoraggiata a prendere qualche chilo e a farsi seguire da una psicologa.
Penso che “The Biggest Loser” sia un programma potenzialmente pericoloso? Cazzarola, SI.
Ma la cosa che trovo più disdicevole è: Perché la gente si preoccupa solo e soltanto degli effetti della restrizione alimentare e/o dell’attività fisica eccessiva in persone che sono obiettivamente magre?
Sicuramente gli avversari di Rachel hanno seguito diete simili alla sua, ed hanno fatto altrettanta attività fisica. Anche loro hanno perso molto peso, (anche se non sono arrivati a perdere i 70 chili di Rachel), in un lasso di tempo relativamente breve, il che può essere provocato solo da A) un’alimentazione eccessivamente restrittiva e limitata qualitativamente o B) un’attività fisica veramente esasperata e non mirata (o, suppongo, C) entrambe). Tuttavia, se leggete qualcosa su Internet vi accorgerete che la stragrande maggioranza della gente è preoccupata solo e soltanto per Rachel. Una donna magra. Perché non per gli altri?
Mi sembra semplicistico rispondere a questa domanda dicendo: bè, perché gli altri non sono stati i vincitori del programma. Sicuramente c’è del vero in questo – le luci dei riflettori si puntano sempre su chi vince, perché questo fa audience. Ma, perdonate il francesismo, penso sia una stronzata.
Quando io ero estremamente sottopeso e descrivevo la modesta attività fisica che facevo (mi ero ridotta a 2 soli allenamenti di karate la settimana di un’ora ciascuno, perché ero così sottopeso che non avrei retto altro) tutti si sdegnavano. Dicevano che quell’attività fisica era pericolosa per una persona nelle mie condizioni. Questo era verissimo, niente da eccepire. Ma quando ho cominciato a mangiare seguendo l’ “equilibrio alimentare” prescritto dalla mia dietista, sono tornata al mio set-point di peso corporeo fisiologico, pur essendo comunque una persona magra perché lo sono di costituzione, e ho ricominciato a fare allenamenti di karate consistenti e pure a lavorare come istruttrice di karate, nessuno ha battuto ciglio. Dicevano che non era più malattia, era dedizione e professionalità. Perché per loro ero sana e in forma.
Dunque, quella stessa attività fisica che se svolta da una donna molto magra fa scattare l’etichetta di “anoressia”, è la medesima che le persone “sovrappeso” o “obese” vengono incoraggiate a fare. Se una persona eccede col peso, le viene consigliato di stare a dieta stretta e di fare attività fisica. È così che vanno le cose.
Rachel seppure vincitrice del programma, non potrà mai vincere. La sua drammatica perdita di peso la condanna ad essere un’eterna perdente. All’inizio, era una ragazza obesa. Questo la portava a considerarsi una perdente. Adesso è magra – troppo magra, dicono tutti, è diventata anoressica. Di nuovo, una sconfitta. E, tra l’altro, sicuramente in un lasso di tempo più o meno lungo questa ragazza riguadagnerà del peso, anche solo perché quando si dimagrisce così in fretta parte dei chili persi sono relativi a perdita di liquidi – ovvero disidratazione – per cui basterà una corretta reidratazione per farle riprendere del peso. Un’altra sconfitta: perché a quel punto tutti saranno pronti a commentare su come Rachel, che aveva perso così tanto peso, è nuovamente ingrassata. NON E’ POSSIBILE VINCERE.
È vero che l’obesità è pericolosa per la salute, ma anche una dieta esageratamente restrittiva, un esercizio fisico tostissimo e una rapida perdita di peso in un lasso di tempo ridotto sono altrettanto pericolosi per la salute, qualsiasi sia il peso di partenza della persona, fine della fiera. Il fatto che una persona parta dall’obesità per raggiungere il normopeso, se il percorso non viene condotto sotto supervisione medica e adeguatamente dilazionato nel tempo, non è sinonimo di guadagnarci in salute. Qualsiasi sia il peso di partenza di una persona, se ne perde troppo in poco tempo, danneggia il suo organismo. Per non parlare delle turbe psicologiche che possono accompagnare un processo del genere, e che possono pure predisporre una persona su cui gravano già dei fattori di rischio a sviluppare un DCA.
Niente di strano che le persone di preoccupino per la perdita di peso di Rachel. Quello che mi sembra profondamente ipocrita, però, è che nessuno si preoccupi degli altri concorrenti del reality, che hanno sicuramente seguito la medesima dieta e fatto la sua stessa attività fisica, e che hanno comunque perso molto peso in poco tempo, ma che poiché non sono dimagriti altrettanto, vengono salutati con pacche sulle spalle ed incoraggiati a continuare sulla stessa strada perché possono riuscire a perdere ancora peso.
E lo stesso vale per chi ha un DCA: non solo una persona sottopeso che restringe l’alimentazione, e che quindi desta l’attenzione, è da considerare a rischio anoressia. Anche persone sovrappeso o normopeso possono maturare la stessa patologia. Perché l’anoressia non è una questione di peso, è una questione di attitudine mentale.
Okay, io non ho mai seguito una singola puntata di questo programma perché non è proprio il mio genere di cosa, ma sono comunque del tutto certa che: A) Non mi sarebbe piaciuto e B) Non è un programma edificante da seguire per nessuna persona in generale.
Forse alcune di voi lo conoscono e lo hanno seguito, e forse alcune di voi potranno dire che far dimagrire una persona obesa è positivo, e che perciò questo è un programma che trasmette energia e voglia di impegnarsi per raggiungere gli obiettivi, e che promuove una cultura della salute. Rispetto la vostra opinione. Ma non sono d’accordo.
Ho scoperto che nella puntata finale di ogni stagione di questo reality show ciascuno dei concorrenti mostra il risultato di settimane e settimane di
Se v’interessano maggiori dettagli potete leggere ciò che è stato scritto QUI, ma sappiate che ci sarebbe un sacco e una sporta in più da dire quando si parla di diete, attività fisica, peso, perdita di peso, etc.
In questo post voglio meramente esprimere la mia opinione al riguardo – come tale, opinabile per antonomasia.
Okay, partiamo da un dato di fatto. Considerati peso ed altezza di Rachel (dati trovati su Internet), la ragazza ha attualmente un B.M.I. di 18, quindi tecnicamente parlando sta al limite inferiore del normopeso. Ma se andasse in una clinica che si occupa di DCA, e raccontasse le modalità con cui ha perso peso, probabilmente verrebbe incoraggiata a prendere qualche chilo e a farsi seguire da una psicologa.
Penso che “The Biggest Loser” sia un programma potenzialmente pericoloso? Cazzarola, SI.
Ma la cosa che trovo più disdicevole è: Perché la gente si preoccupa solo e soltanto degli effetti della restrizione alimentare e/o dell’attività fisica eccessiva in persone che sono obiettivamente magre?
Sicuramente gli avversari di Rachel hanno seguito diete simili alla sua, ed hanno fatto altrettanta attività fisica. Anche loro hanno perso molto peso, (anche se non sono arrivati a perdere i 70 chili di Rachel), in un lasso di tempo relativamente breve, il che può essere provocato solo da A) un’alimentazione eccessivamente restrittiva e limitata qualitativamente o B) un’attività fisica veramente esasperata e non mirata (o, suppongo, C) entrambe). Tuttavia, se leggete qualcosa su Internet vi accorgerete che la stragrande maggioranza della gente è preoccupata solo e soltanto per Rachel. Una donna magra. Perché non per gli altri?
Mi sembra semplicistico rispondere a questa domanda dicendo: bè, perché gli altri non sono stati i vincitori del programma. Sicuramente c’è del vero in questo – le luci dei riflettori si puntano sempre su chi vince, perché questo fa audience. Ma, perdonate il francesismo, penso sia una stronzata.
Quando io ero estremamente sottopeso e descrivevo la modesta attività fisica che facevo (mi ero ridotta a 2 soli allenamenti di karate la settimana di un’ora ciascuno, perché ero così sottopeso che non avrei retto altro) tutti si sdegnavano. Dicevano che quell’attività fisica era pericolosa per una persona nelle mie condizioni. Questo era verissimo, niente da eccepire. Ma quando ho cominciato a mangiare seguendo l’ “equilibrio alimentare” prescritto dalla mia dietista, sono tornata al mio set-point di peso corporeo fisiologico, pur essendo comunque una persona magra perché lo sono di costituzione, e ho ricominciato a fare allenamenti di karate consistenti e pure a lavorare come istruttrice di karate, nessuno ha battuto ciglio. Dicevano che non era più malattia, era dedizione e professionalità. Perché per loro ero sana e in forma.
Dunque, quella stessa attività fisica che se svolta da una donna molto magra fa scattare l’etichetta di “anoressia”, è la medesima che le persone “sovrappeso” o “obese” vengono incoraggiate a fare. Se una persona eccede col peso, le viene consigliato di stare a dieta stretta e di fare attività fisica. È così che vanno le cose.
Rachel seppure vincitrice del programma, non potrà mai vincere. La sua drammatica perdita di peso la condanna ad essere un’eterna perdente. All’inizio, era una ragazza obesa. Questo la portava a considerarsi una perdente. Adesso è magra – troppo magra, dicono tutti, è diventata anoressica. Di nuovo, una sconfitta. E, tra l’altro, sicuramente in un lasso di tempo più o meno lungo questa ragazza riguadagnerà del peso, anche solo perché quando si dimagrisce così in fretta parte dei chili persi sono relativi a perdita di liquidi – ovvero disidratazione – per cui basterà una corretta reidratazione per farle riprendere del peso. Un’altra sconfitta: perché a quel punto tutti saranno pronti a commentare su come Rachel, che aveva perso così tanto peso, è nuovamente ingrassata. NON E’ POSSIBILE VINCERE.
È vero che l’obesità è pericolosa per la salute, ma anche una dieta esageratamente restrittiva, un esercizio fisico tostissimo e una rapida perdita di peso in un lasso di tempo ridotto sono altrettanto pericolosi per la salute, qualsiasi sia il peso di partenza della persona, fine della fiera. Il fatto che una persona parta dall’obesità per raggiungere il normopeso, se il percorso non viene condotto sotto supervisione medica e adeguatamente dilazionato nel tempo, non è sinonimo di guadagnarci in salute. Qualsiasi sia il peso di partenza di una persona, se ne perde troppo in poco tempo, danneggia il suo organismo. Per non parlare delle turbe psicologiche che possono accompagnare un processo del genere, e che possono pure predisporre una persona su cui gravano già dei fattori di rischio a sviluppare un DCA.
Niente di strano che le persone di preoccupino per la perdita di peso di Rachel. Quello che mi sembra profondamente ipocrita, però, è che nessuno si preoccupi degli altri concorrenti del reality, che hanno sicuramente seguito la medesima dieta e fatto la sua stessa attività fisica, e che hanno comunque perso molto peso in poco tempo, ma che poiché non sono dimagriti altrettanto, vengono salutati con pacche sulle spalle ed incoraggiati a continuare sulla stessa strada perché possono riuscire a perdere ancora peso.
E lo stesso vale per chi ha un DCA: non solo una persona sottopeso che restringe l’alimentazione, e che quindi desta l’attenzione, è da considerare a rischio anoressia. Anche persone sovrappeso o normopeso possono maturare la stessa patologia. Perché l’anoressia non è una questione di peso, è una questione di attitudine mentale.
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venerdì 7 febbraio 2014
Dalla parte delle pazienti difficili
Quando ho affrontato il mio primo ricovero in una clinica specializzata per il trattamento di DCA, sono stata una vera bega per tutti: in parole povere, una rompicoglioni. Non lo dico né con vergogna e rimprovero, né con orgoglio. Ero una rompicoglioni, è semplicemente un dato di fatto. Ero ancora minorenne, e il ricovero era stato coatto, per cui io non ero assolutamente consenziente né collaborativa: non rispettavo l’ “equilibrio alimentare” che mi era stato assegnato, rispondevo in maniera maleducata ai terapeuti, facevo scherzi alla “Pranked” alle altre ragazze ricoverate, stavo sempre zitta durante la terapia di gruppo e mostravo palese disinteresse, prendevo per il culo tutti, non rispettavo le regole. Ero arrogante e strafottente. Ero convinta che avrei potuto farcela da sola a tenere testa all’anoressia, pensavo che un’alimentazione corretta fosse solo una secondarietà rispetto al trattamento psicoterapico, ho sempre tenuto un atteggiamento sgradevole e sgarbato, ero noncurante rispetto ai danni fisici dell’anoressia, e mi sentivo una straganza solo perché tra tutte le ragazze ricoverate in quel momento ero l’unica con una diagnosi di “Anoressia nervosa Sottotipo 1”, cioè prettamente restrittiva, senza mai uno sgarro, senza mai un’incrinatura al mio rigido ed egosintonico controllo.
Appunto, ero una rompicoglioni.
Ripensandoci adesso, mi dispiace di essermi comportata così nei confronti del personale della clinica, e delle altre ragazze ricoverate. Non lo meritavano. Ostentavo una gran sicurezza e sembravo la più forte e la più tosta di tutti, solo per celare il fatto che in realtà ero terrorizzata. Ero terrorizzata da tutto quanto. Mi faceva più paura l’idea di poter non avere più l’anoressia, che tutti i danni che mi procurava l’anoressia stessa. Oscillavo tra momenti in cui razionalmente riconoscevo la necessità di combattere contro l’anoressia e la consapevolezza di non poterlo fare da sola, e momenti in cui pensavo che andava bene così e che non avevo bisogno di niente e nessuno. Gli psicoterapeuti, i dietisti, le infermiere, tutto il personale della clinica, e le altre ragazze ricoverate sono rimaste prese in mezzo ad una mia guerra che era prettamente interiore. Un dietista e uno psicologo competenti ed intelligenti non la prendevano sul personale, e cercavano di tener testa alle mie stronzate. Tutti gli altri, invece, o se la sono presa perché non rientravo negli schemi e non ero collaborativa come le altre ragazze, o – suppongo – sono riuscita ad intimidirli così tanto con la mia falsa sicurezza e volitività, che mi hanno lasciata fare quello che volevo. Anoressia: 1, Veggie: 0.
Quel primo ricovero è stato sicuramente l’esperienza peggiore, tuttavia anche in seguito non sono mai stata una paziente facile, e non ho mai preteso di esserlo. Ciò detto, credo che chiunque voglia avere a che fare soltanto con “pazienti facili”, non debba lavorare nel campo dei disturbi alimentari.
Dopo quel primo disastroso ricovero, comunque, ce ne sono stati altri 4, nella medesima struttura ma dilazionati negli anni: a quel punto ero maggiorenne, e sono stata io ogni volta a richiedere il ricovero, quindi ero decisamente più collaborativa. Durante questi 4 ricoveri ho conosciuto un sacco di altre ragazze che potevano tranquillamente essere classificate come “pazienti difficili”. In effetti, conosco ben poche persone affette da un DCA che non siano state “pazienti difficili”.
I nostri modi di scatenare l’inferno, tuttavia, variano notevolmente da persona a persona. Generalizzando, ci sono ragazze apertamente difficili: quelle che si agitano, gridano, imprecano, si rifiutano di seguire le regole, dicono esplicitamente al personale di non rompere, rifiutano il cibo. Possono sembrare solo delle arroganti maleducate ma, come lo sono stata io, sono in realtà delle ragazze spaventate.
Ci sono poi invece ragazze altrettanto difficili, ma in maniera più velata, meno esplicita: quelle che se hanno difficoltà a mangiare qualcosa lo nascondono nel tovagliolo e se lo mettono in tasca, quelle che se non vogliono partecipare alla terapia di gruppo fingono interesse ma in realtà pensano a tutt’altro, quelle che dicono ai terapeuti ciò che si aspettano di sentirsi dire ma poi fanno comunque quello che vogliono.
Queste ragazze danno meno nell’occhio ma alla fine, in ambo i casi, si arriva agli psicoterapeuti che dicono: “Non sappiamo come aiutarti, non sappiamo cos’è che ti fa stare male, perché non ci parli di quelli che sono i tuoi problemi?”. E di fronte a questo interrogativo, entrambe le tipologie di “pazienti difficili” rimangono sedute in silenzio. Fissano lo psicoterapeuta con aria inespressiva, e scuotono le spalle come a volersi scrollare di dosso la domanda.
Con entrambe le tipologie di “pazienti difficili”, dopo un po’ di tempo i terapeuti iniziano a sentirsi frustrati, e alla fine se ne lavano le mani. Pensano che noi, essendo “pazienti difficili”, non ne valiamo la pena. Pensano che non valga la pena di perdere energie e tempo con noi. Sentono che non riescono ad aiutarci, e ne sono imbarazzati, o provano vergogna, o semplicemente non concepiscono il fatto che tutte le loro lauree e dottorati possano non averli comunque resi in grado di entrare nella nostra mentalità e poter essere effettivamente d’aiuto. Non vogliono avere a che fare con pazienti che sembrano accondiscenti ma che poi fanno comunque come vogliono, e men che meno con pazienti che gridano, che li insultano, che fanno le arroganti, salvo poi ricevere una telefonata dal Pronto Soccorso a mezzanotte che li informa dell’ennesima prodezza (dis)alimentare delle loro assistite.
Non dimenticherò mai la psicoterapeuta che mi scaricò dicendomi: “Tu non sei malata di anoressia, l’anoressia è solo un sintomo, una manifestazione della tua vera malattia: tu sei malata di controllo, ecco qual è il vero problema. Ma se tu per prima non sei disposta a rinunciare a questo controllo, la tua patologia cronicizzerà, ed io non posso fare niente per te.”
Lei ha mollato con me. E anche altri terapeuti, successivamente.
Loro ci rinunciano, con noi “pazienti difficili”, si arrendono. Alzano bandiera bianca.
E così noi alziamo bandiera bianca con noi stesse.
Quello che tali terapeuti non hanno mai fatto è rimanere abbastanza a lungo da capire che quando ci aggrappiamo disperatamente al nostro disturbo alimentare
per paura
o rabbia
o pura testadaggine…
… quando ci aggrappiamo disperatamente ad esso contro ogni logica e razionalità, ecco, quegli psicoterapeuti che si arrendono non sapranno mai che un giorno noi ci aggrapperemo alla strada del ricovero con altrettanta fierezza.
Non fraintendetemi, non voglio dire che bisogna essere sempre entusiaste del tipo oh-percorrere-la-strada-del-ricovero-è-una-meraviglia-assoluta!, perché è ovvio che le cose non stanno così. Spesso e volentieri percorrere la strada del ricovero è tutt’altro che semplice e divertente, ed è ben arduo affrontare la lotta quotidiana contro il DCA. Pensare che una persona possa essere sempre al 100% super-iper-motivata a combattere contro l’anoressia è semplicemente sciocco.
Ma la forza che ci vincola al nostro disturbo alimentare – contro ogni parvenza di una vita normale, anche quando dilania noi stesse e le nostre relazioni con familiari ed amici, anche quando sappiamo che potremmo morire se continuiamo a seguire il DCA – è una risorsa. Perché quella forza noi la possediamo. Dobbiamo solo direzionarla nella giusta direzione: verso la strada del ricovero.
Le caratteristiche della propria personalità, come la capacità di essere una rompicoglioni, sono in genere neutre. Sono quello che sono. È il modo in cui le utilizziamo che fa la differenza. Essere una narcisista manipolatrice non vi aiuterà a farvi un sacco di amici, ma potrebbe rendervi un’ottima politica o un’ottima CEO. La paura di staccarsi da un DCA può essere poco a poco trasformata nella paura di ricadere di nuovo nel DCA. Un rifiuto ostinato a provare qualcosa di nuovo può lasciarvi bloccate nell’anoressia per decenni O può significare che la vostra abitudine di combattere contro il DCA un giorno sarà altrettanto solida.
Fin troppe ragazze vengono tacciate di essere “pazienti difficili” e vengono mollate dai terapeuti, con conseguente chiusura al trattamento, ricaduta, e infognamento ancora peggiore nel DCA a causa del senso di fallimento provato. Non metto in dubbio che possano effettivamente essere delle “pazienti difficili”. Non nego che, per gli psicoterapeuti, lavorare con una paziente malata di anoressia/bulimia/DCAnas possa essere un compito ingrato e molto difficile. Ma quando le persone cominciano a rendersi conto di quali sono le 2 facce della medaglia dell’essere rompicoglioni, possiamo cominciare ad allontanarci dal nostro DCA. Spesso e volentieri non siamo intenzionalmente “difficili” (ehm, okay, ammetto che effettivamente in certe occasioni io ho cercato di fare la difficile…), bensì siamo confuse, e spaventate, e bloccate, e arrabbiate. Chi non sarebbe “difficile” in situazioni del genere? L’essere una “paziente difficile” da trattare non giustifica gli psicoterapeuti che se ne lavano le mani. L’essere una “paziente difficile” non dovrebbe essere una scusa per gli psicoterapeuti per rinunciare. Purtroppo troppo spesso è proprio così.
Sì, io sono stata una “paziente difficile”. Sì, mi è stato detto che ero una malata di controllo, che sarei stata una paziente cronica e al di là di ogni possibile aiuto. Sì, mi sono dovuta fare un culo come un rosone per trovare la psicologa e la dietista che facessero al mio caso, e soprattutto per combattere contro l’anoressia giorno dopo giorno, cosa che sto facendo tuttora. Sì, ci ho impiegato anni, ed anni, ed anni, ed anni. Ma adesso ho davvero una buonissima qualità della vita.
“Difficile” NON è sinonimo di “Impossibile” né di “Senza speranza” – non lo dimenticate.
Appunto, ero una rompicoglioni.
Ripensandoci adesso, mi dispiace di essermi comportata così nei confronti del personale della clinica, e delle altre ragazze ricoverate. Non lo meritavano. Ostentavo una gran sicurezza e sembravo la più forte e la più tosta di tutti, solo per celare il fatto che in realtà ero terrorizzata. Ero terrorizzata da tutto quanto. Mi faceva più paura l’idea di poter non avere più l’anoressia, che tutti i danni che mi procurava l’anoressia stessa. Oscillavo tra momenti in cui razionalmente riconoscevo la necessità di combattere contro l’anoressia e la consapevolezza di non poterlo fare da sola, e momenti in cui pensavo che andava bene così e che non avevo bisogno di niente e nessuno. Gli psicoterapeuti, i dietisti, le infermiere, tutto il personale della clinica, e le altre ragazze ricoverate sono rimaste prese in mezzo ad una mia guerra che era prettamente interiore. Un dietista e uno psicologo competenti ed intelligenti non la prendevano sul personale, e cercavano di tener testa alle mie stronzate. Tutti gli altri, invece, o se la sono presa perché non rientravo negli schemi e non ero collaborativa come le altre ragazze, o – suppongo – sono riuscita ad intimidirli così tanto con la mia falsa sicurezza e volitività, che mi hanno lasciata fare quello che volevo. Anoressia: 1, Veggie: 0.
Quel primo ricovero è stato sicuramente l’esperienza peggiore, tuttavia anche in seguito non sono mai stata una paziente facile, e non ho mai preteso di esserlo. Ciò detto, credo che chiunque voglia avere a che fare soltanto con “pazienti facili”, non debba lavorare nel campo dei disturbi alimentari.
Dopo quel primo disastroso ricovero, comunque, ce ne sono stati altri 4, nella medesima struttura ma dilazionati negli anni: a quel punto ero maggiorenne, e sono stata io ogni volta a richiedere il ricovero, quindi ero decisamente più collaborativa. Durante questi 4 ricoveri ho conosciuto un sacco di altre ragazze che potevano tranquillamente essere classificate come “pazienti difficili”. In effetti, conosco ben poche persone affette da un DCA che non siano state “pazienti difficili”.
I nostri modi di scatenare l’inferno, tuttavia, variano notevolmente da persona a persona. Generalizzando, ci sono ragazze apertamente difficili: quelle che si agitano, gridano, imprecano, si rifiutano di seguire le regole, dicono esplicitamente al personale di non rompere, rifiutano il cibo. Possono sembrare solo delle arroganti maleducate ma, come lo sono stata io, sono in realtà delle ragazze spaventate.
Ci sono poi invece ragazze altrettanto difficili, ma in maniera più velata, meno esplicita: quelle che se hanno difficoltà a mangiare qualcosa lo nascondono nel tovagliolo e se lo mettono in tasca, quelle che se non vogliono partecipare alla terapia di gruppo fingono interesse ma in realtà pensano a tutt’altro, quelle che dicono ai terapeuti ciò che si aspettano di sentirsi dire ma poi fanno comunque quello che vogliono.
Queste ragazze danno meno nell’occhio ma alla fine, in ambo i casi, si arriva agli psicoterapeuti che dicono: “Non sappiamo come aiutarti, non sappiamo cos’è che ti fa stare male, perché non ci parli di quelli che sono i tuoi problemi?”. E di fronte a questo interrogativo, entrambe le tipologie di “pazienti difficili” rimangono sedute in silenzio. Fissano lo psicoterapeuta con aria inespressiva, e scuotono le spalle come a volersi scrollare di dosso la domanda.
Con entrambe le tipologie di “pazienti difficili”, dopo un po’ di tempo i terapeuti iniziano a sentirsi frustrati, e alla fine se ne lavano le mani. Pensano che noi, essendo “pazienti difficili”, non ne valiamo la pena. Pensano che non valga la pena di perdere energie e tempo con noi. Sentono che non riescono ad aiutarci, e ne sono imbarazzati, o provano vergogna, o semplicemente non concepiscono il fatto che tutte le loro lauree e dottorati possano non averli comunque resi in grado di entrare nella nostra mentalità e poter essere effettivamente d’aiuto. Non vogliono avere a che fare con pazienti che sembrano accondiscenti ma che poi fanno comunque come vogliono, e men che meno con pazienti che gridano, che li insultano, che fanno le arroganti, salvo poi ricevere una telefonata dal Pronto Soccorso a mezzanotte che li informa dell’ennesima prodezza (dis)alimentare delle loro assistite.
Non dimenticherò mai la psicoterapeuta che mi scaricò dicendomi: “Tu non sei malata di anoressia, l’anoressia è solo un sintomo, una manifestazione della tua vera malattia: tu sei malata di controllo, ecco qual è il vero problema. Ma se tu per prima non sei disposta a rinunciare a questo controllo, la tua patologia cronicizzerà, ed io non posso fare niente per te.”
Lei ha mollato con me. E anche altri terapeuti, successivamente.
Loro ci rinunciano, con noi “pazienti difficili”, si arrendono. Alzano bandiera bianca.
E così noi alziamo bandiera bianca con noi stesse.
Quello che tali terapeuti non hanno mai fatto è rimanere abbastanza a lungo da capire che quando ci aggrappiamo disperatamente al nostro disturbo alimentare
per paura
o rabbia
o pura testadaggine…
… quando ci aggrappiamo disperatamente ad esso contro ogni logica e razionalità, ecco, quegli psicoterapeuti che si arrendono non sapranno mai che un giorno noi ci aggrapperemo alla strada del ricovero con altrettanta fierezza.
Non fraintendetemi, non voglio dire che bisogna essere sempre entusiaste del tipo oh-percorrere-la-strada-del-ricovero-è-una-meraviglia-assoluta!, perché è ovvio che le cose non stanno così. Spesso e volentieri percorrere la strada del ricovero è tutt’altro che semplice e divertente, ed è ben arduo affrontare la lotta quotidiana contro il DCA. Pensare che una persona possa essere sempre al 100% super-iper-motivata a combattere contro l’anoressia è semplicemente sciocco.
Ma la forza che ci vincola al nostro disturbo alimentare – contro ogni parvenza di una vita normale, anche quando dilania noi stesse e le nostre relazioni con familiari ed amici, anche quando sappiamo che potremmo morire se continuiamo a seguire il DCA – è una risorsa. Perché quella forza noi la possediamo. Dobbiamo solo direzionarla nella giusta direzione: verso la strada del ricovero.
Le caratteristiche della propria personalità, come la capacità di essere una rompicoglioni, sono in genere neutre. Sono quello che sono. È il modo in cui le utilizziamo che fa la differenza. Essere una narcisista manipolatrice non vi aiuterà a farvi un sacco di amici, ma potrebbe rendervi un’ottima politica o un’ottima CEO. La paura di staccarsi da un DCA può essere poco a poco trasformata nella paura di ricadere di nuovo nel DCA. Un rifiuto ostinato a provare qualcosa di nuovo può lasciarvi bloccate nell’anoressia per decenni O può significare che la vostra abitudine di combattere contro il DCA un giorno sarà altrettanto solida.
Fin troppe ragazze vengono tacciate di essere “pazienti difficili” e vengono mollate dai terapeuti, con conseguente chiusura al trattamento, ricaduta, e infognamento ancora peggiore nel DCA a causa del senso di fallimento provato. Non metto in dubbio che possano effettivamente essere delle “pazienti difficili”. Non nego che, per gli psicoterapeuti, lavorare con una paziente malata di anoressia/bulimia/DCAnas possa essere un compito ingrato e molto difficile. Ma quando le persone cominciano a rendersi conto di quali sono le 2 facce della medaglia dell’essere rompicoglioni, possiamo cominciare ad allontanarci dal nostro DCA. Spesso e volentieri non siamo intenzionalmente “difficili” (ehm, okay, ammetto che effettivamente in certe occasioni io ho cercato di fare la difficile…), bensì siamo confuse, e spaventate, e bloccate, e arrabbiate. Chi non sarebbe “difficile” in situazioni del genere? L’essere una “paziente difficile” da trattare non giustifica gli psicoterapeuti che se ne lavano le mani. L’essere una “paziente difficile” non dovrebbe essere una scusa per gli psicoterapeuti per rinunciare. Purtroppo troppo spesso è proprio così.
Sì, io sono stata una “paziente difficile”. Sì, mi è stato detto che ero una malata di controllo, che sarei stata una paziente cronica e al di là di ogni possibile aiuto. Sì, mi sono dovuta fare un culo come un rosone per trovare la psicologa e la dietista che facessero al mio caso, e soprattutto per combattere contro l’anoressia giorno dopo giorno, cosa che sto facendo tuttora. Sì, ci ho impiegato anni, ed anni, ed anni, ed anni. Ma adesso ho davvero una buonissima qualità della vita.
“Difficile” NON è sinonimo di “Impossibile” né di “Senza speranza” – non lo dimenticate.
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