venerdì 31 ottobre 2014
La ricetta della positività
“Essere positivi è un’arte.” (cit.) dice qualcuno. Io invece credo che la positività, un’arma estremamente importante quando si decide di combattere contro l’anoressia, non sia un qualcosa che cade dal cielo, e che viceversa sia necessario imparare ad essere positive.
A volte, guardandosi intorno, può sembrare che ci siano delle persone che sono spontaneamente dei veri e propri artisti della positività, sanno affrontare tutte le sfide con un sorriso, e rendono la loro vita serena, ottimistica, e persino un po’ magica. Sono le persone di cui tutti vorrebbero circondarsi, che emanano una luce che attira gli altri come falene, che rappresentano una fonte di ispirazione. Magari in questo momento avete vicino a voi qualche persona del genere, e gli volete bene, e siete curiose di capire come riescono a vivere la loro vita, e forse talvolta cercate anche di essere come loro.
Bè, io credo che la positività sia un gioco aperto a tutti. Non è riservato ad un ristretto manipolo di persone, anzi, io penso che la tela per l’arte della positività sia rappresentata dal mondo intero, e che dunque chiunque possa fruirne, a maggior ragione se si sta cercando di tenere testa all’anoressia. Per trovare la positività occorre cominciare a cercare dentro di noi, per poi portare quello che troviamo verso l’esterno… e ci accorgeremmo che, in realtà, non è esattamente un gioco da ragazzi. Io credo che la positività sia come una ricetta che contempla:
Un pizzico di elasticità mentale
Una manciata di fiducia in se stesse
Un bel po’ di auto-ironia
Una goccia di accettazione
Un sacco di occhi nuovi con cui guardare le stesse cose
Un cucchiaio di determinazione
Gratitudine q.b.
Quando si segue la ricetta della felicità, si produce una monoporzione: cibo per noi stesse, e solo per noi stesse. Ma se si tiene fede al programma dell’intero pasto, possiamo essere in grado di alimentare anche gli altri.
Splittiamo dunque la ricetta nei suoi singoli ingredienti.
“Un pizzico di elasticità mentale” è il primo ingrediente perché senza di esso finiremmo inevitabilmente per essere giudicanti, o comunque prive di empatia. Anche se l’elasticità mentale può sembrare non correlata alla positività necessaria per combattere l’anoressia, io credo che sia uno dei componenti-chiave. Ritengo sia impossibile avere una visione positiva del mondo e delle persone che ci circondano senza quel pizzico di elasticità mentale. Pensate a chi non ha vissuto un DCA sulla propria pelle: guardandoci potrebbe pensare che siamo solo delle ragazzine superficiali che vogliono dimagrire per fare le modelle. Una visione di questo tipo, rigidamente aggrappata a falsi stereotipi, senza il benché minimo accenno di elasticità mentale, fa sì che le persone saltino a conclusioni affrettate, e che se la prendano con noi senza neanche un briciolo di positività. Possono riversarci addosso miriadi di falsi luoghi comuni sull’anoressia, fare commenti inappropriati, scaricare su di noi la loro frustrazione di fronte a un qualcosa che non capiscono… e di tutto ciò ne risentiamo negativamente anche noi, che accumuliamo rabbia e sentimenti negativi verso chi si comporta così.
Però, metteteci dentro un pizzico di elasticità mentale, e vedrete quando meno influente sarà sul vostro umore l’opinione che la gente ha sui DCA, e i commenti che ricevete. Se vi fermate a mettere in atto l’elasticità mentale necessaria per pensarci, infatti, vi renderete conto che chi dice cose del genere parla per cliché, non ha alcuna esperienza diretta e dunque, in sostanza, non sa cosa sta dicendo. E chi parla per sentito dire, necessariamente è di una superficialità estrema. Per cui, quanto può buttarvi davvero giù il commento di una persona che parla perché ha la bocca, ma non sa niente? E lo stesso vale per la frustrazione altrui. Forse coloro che vi si rivolgono scortesemente e fanno commenti impropri sul vostro DCA stanno vivendo una giornataccia. Magari hanno avuto problemi sul lavoro, o non hanno proprio un lavoro. Magari hanno qualcuno che sta male in famiglia. Magari hanno litigato con un caro amico. Magari hanno perso una competizione sportiva. Magari sono bocciati ad un esame universitario, o hanno preso un brutto voto ad un compito in classe. Queste persone saranno comunque scortesi con voi, e vi faranno dei commenti sgradevoli, ma un pizzico di elasticità mentale cambia VOI, ragazze, non queste persone. Quando c’è l’elasticità mentale di comprendere che dietro ad un luogo comunque che vi viene sbattuto addosso o dietro ad un commento inappropriato c’è superficialità, ignoranza, o problemi personali, si smette di dare tanto peso a determinate parole, e così non si lascia spazio alla negatività che quelle parole potrebbero ingenerare. Rimane la positività. E, se siete fortunate, la vostra positività potrebbe anche trasmettersi alla persona che vi ha giudicate con superficialità.
“Una manciata di fiducia in se stesse” è il secondo ingrediente, perché credere nelle proprie capacità è il modo migliore per trovare il coraggio di iniziare a fare le cose, di iniziare a combattere contro l’anoressia, e di proseguire conseguendo pregevoli risultati. La fiducia in se stesse rende l’impasto più forte, perché non importa se nella vita ci si pongono di fronte delle difficoltà: se abbiamo fiducia in noi stesse, possiamo superarle mantenendo la positività. Pensateci: se la fiducia in sé non esistesse nella ricetta, tutte le difficoltà che inevitabilmente si presentano nel corso della vita finirebbero per sommergerci, e la negatività regnerebbe sovrana.
“Un bel po’ di auto-ironia” è il terzo ingrediente, perché se non riuscite a sorridere di voi stesse la positività non può attecchire. Gli artisti della positività lo sanno: per loro tutto è divertente. Può essere divertente svegliarsi la mattina e pensare alla giornata che stiamo per affrontare, possiamo trovare il lato divertente in tantissime piccole cose, e il divertimento rappresenta una grade sorgente di positività. La capacità di fare auto-ironia non è un qualcosa di superficiale, ma scava molto a fondo dentro di noi. Ci insegna che la vita non è meramente un gioco cui giocare, ma un regalo da assaporare a fondo.
L’auto-ironia è quello che ci fa sorridere anche quando apparentemente non c’è proprio niente di cui sorridere. La vita non è un qualcosa che va tollerato, è un qualcosa di cui va goduto. Non sarà mai tutto rose e fiori, momenti difficili accadranno e non potremo farci niente, ma l’ironia rimarrà sempre lì, pronta a togliere il pungiglione che sta iniettando veleno. Talvolta dobbiamo solo cercarla. L’ironia, il divertimento non sono semplicemente un qualcosa che si apprezza all’esterno, ma stanno anche dentro di noi. Le cose spiacevoli che ci succedono nella vita possono provocarci una di queste 3 reazioni: sconvolgerci lasciandoci impotenti, affogarci nella negatività e nell’autocommiserazione, o cercare il lato ironico della situazione. Solo coloro che hanno la terza reazione scelgono di mantenere una visione positiva, per cui la positività è un’arte che può risollevare anche nei momenti più difficili – risollevare voi stesse in prima battuta, e magari anche qualcun altro. Citando: “Il domani può arrecare dolore, ma non può rubare la tua gioia”. Si tratta di trovare le rose che crescono dal letame, anche quando quel letame sembra solo merda.
“Una goccia di accettazione” è l’ingrediente successivo, e non può essere sostituito. Penso che vada a braccetto con l’auto-ironia, peraltro. Riuscire ad ironizzare su tutto è una gran cosa, in teoria, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E, allora, ecco che arriva l’accettazione a giocare la sua parte. Per poter vivere con positività, occorre accettare il fatto che, a differenza di quanto l’anoressia vorrebbe farci credere, non possiamo controllare i tornadi che si abbattono nella nostra vita. Spesso e volentieri, non possiamo neanche prevenirli. Di conseguenza, non possiamo essere preparate ad affrontarli. Accettare che i momenti difficili esistono significa non focalizzarsi sulla loro negatività e cercare ogni risorsa possibile per superarli ed andare avanti. L’accettazione è quel che aiuta ad attraversare il peggio puntando verso il meglio. L’accettazione può essere molto difficile. È una parola correlata alla pazienza, un altro concetto non molto maneggevole.
Accettazione significa che non dobbiamo rimanere impotenti, impantanate nella negatività di una situazione. Non possiamo cambiare il vento, è vero, ma possiamo dirigere le vele. Non possiamo scegliere cosa ci accade nella cita, ma abbiamo tutta la possibilità di scegliere come reagire a ciò che ci accade nella vita. E questo è parte della positività. Possiamo scegliere di rimanere positive alla faccia delle difficoltà, del dolore, della tristezza, ed è molto difficile il farlo – ma se davvero lo vogliamo, abbiamo tutte le capacità per farlo. E le cose andranno veramente meglio, se siamo in grado di scegliere di reagire, e come farlo.
“Un sacco di occhi nuovi con cui guardare le stesse cose” continua la lista degli ingredienti. Perché la vita non cambia, però possiamo cambiare noi. Fino a che continueremo a guardare le cose sotto l’ottica malata dell’anoressia, avremo in punto di vista del tutto parziale nonché patologico. Ed è perciò estremamente difficile essere positive quando tutta la nostra vita è condizionata da una malattia. Però, se anche le cose non cambiano, noi possiamo scegliere il punto di vista da cui guardarle, ed influenzare così la visione che abbiamo di esse. Si tratta di imparare a guardare ambo le facce di una stessa medaglia, in maniera tale da potersi focalizzare sull’alternativa più sana e più positiva.
“Un cucchiaio di determinazione” è il sesto ingrediente, perché quando si decide di combattere contro l’anoressia è molto importante avere la possibilità di essere seguite da specialisti, psicologi e dietisti, per combattere efficacemente contro la malattia. Ma tutti gli specialisti più quotati del mondo non potranno fare un bel niente per noi, se noi per prime non decidiamo di voler tenere testa all’anoressia. E la decisione di combattere contro l’anoressia è un qualcosa che va rinnovato giorno dopo giorno. Per cui sta a noi decidere se continuare a combattere. E più combattiamo, più ci allontaniamo dall’anoressia, più riscopriamo di poter avere una vita di qualità. E questo indirettamente aumenta la nostra positività, perché vivere sempre più a pieno ci permette di vedere quante cose che valgono sono presenti nella nostra esistenza.
“Gratitudine q.b.” è l’ultimo ingrediente della ricetta della positività. Non avremo mai troppa gratitudine, per cui non c’è bisogno di misurarla. Basta mettercela dentro. La gratitudine cambia un sacco la prospettiva. Trasforma i disastri in opportunità, le perdite in guadagni, e i sogni in realtà. Coltivare la gratitudine dovrebbe essere un obiettivo da raggiungere, e quando ci riusciamo è tangibile il modo in cui cambia la vita.
La gratitudine fa la differenza in una prospettiva positiva, è rende più solida la positività. Chiunque avrà eventi spiacevoli nel corso della propria vita, ma l’attitudine alla gratitudine è quello che può tenere lontane dalla negatività. Se vi alzate una mattina, con l’intenzione di prendere la vostra automobile per andare al lavoro/a scuola perché piove stile remake del diluvio universale, e appena arrivate di fronte alla vostra macchina vi accorgete che qualche cretino vi ha rotto uno specchietto laterale, anziché incavolarvi come scimmie, la gratitudine vi permette di vedere l’accaduto sotto un altro punto di vista: “Il cretino che mi ha rotto lo specchietto merita tutte le infamate del mondo… ma, per lo meno, ho comunque un’auto funzionante che mi permetterà di arrivare a lavoro/a scuola senza bagnarmi da capo a piedi”.
Un altro modo per alimentare la gratitudine è non dare mai niente per scontato. Avete parcheggiato l’auto mezza storta nell’unico buchetto di mezzo parcheggio che siete riuscite a trovare? Siate grate del fatto che avete trovato comunque da parcheggiare. Avete un giorno di ferie in pieno Agosto in cui avevate programmato di andare in piscina, e piove con tanto di tuoni e fulmini per tutto il giorno? Siate grate che non dovete lavorare all’aperto con quel maltempo. Vi sembra di non riuscire più a controllare la vostra vita come invece illusoriamente vi sembrava di essere capaci di farlo con l’anoressia? Siate grate per aver recuperato salute psicofisica. Vi siete svegliate anche stamattina? Siate grate per avere di fronte a voi un giorno da riempire con tutti i colori della vita. E questi sono solo dei banali esempi, ovviamente, delle cose che possiamo dare per scontato nella vita di tutti i giorni. Ci dà subito fastidio il naso chiuso quando ci prende il raffreddore, e la febbre quando abbiamo l’influenza, ma forse non ci eravamo ricordate di essere grate quando stavamo bene ed eravamo piene di energia.
La ricetta della positività è relativamente semplice e non necessita di niente che la insaporisca. Non va mai fuori moda, e non perde mai il suo appeal. È una ricetta per una sola persona – ciascuna di voi, singolarmente – che può però anche nutrire chi vi sta intorno. Con la positività diventate luce, e potete illuminare anche qualcun altro. Sì, la positività a suo modo è un’arte… perciò, quando la utilizzate, fate in modo che diventi il vostro capolavoro.
Bè, io credo che la positività sia un gioco aperto a tutti. Non è riservato ad un ristretto manipolo di persone, anzi, io penso che la tela per l’arte della positività sia rappresentata dal mondo intero, e che dunque chiunque possa fruirne, a maggior ragione se si sta cercando di tenere testa all’anoressia. Per trovare la positività occorre cominciare a cercare dentro di noi, per poi portare quello che troviamo verso l’esterno… e ci accorgeremmo che, in realtà, non è esattamente un gioco da ragazzi. Io credo che la positività sia come una ricetta che contempla:
Un pizzico di elasticità mentale
Una manciata di fiducia in se stesse
Un bel po’ di auto-ironia
Una goccia di accettazione
Un sacco di occhi nuovi con cui guardare le stesse cose
Un cucchiaio di determinazione
Gratitudine q.b.
Quando si segue la ricetta della felicità, si produce una monoporzione: cibo per noi stesse, e solo per noi stesse. Ma se si tiene fede al programma dell’intero pasto, possiamo essere in grado di alimentare anche gli altri.
Splittiamo dunque la ricetta nei suoi singoli ingredienti.
“Un pizzico di elasticità mentale” è il primo ingrediente perché senza di esso finiremmo inevitabilmente per essere giudicanti, o comunque prive di empatia. Anche se l’elasticità mentale può sembrare non correlata alla positività necessaria per combattere l’anoressia, io credo che sia uno dei componenti-chiave. Ritengo sia impossibile avere una visione positiva del mondo e delle persone che ci circondano senza quel pizzico di elasticità mentale. Pensate a chi non ha vissuto un DCA sulla propria pelle: guardandoci potrebbe pensare che siamo solo delle ragazzine superficiali che vogliono dimagrire per fare le modelle. Una visione di questo tipo, rigidamente aggrappata a falsi stereotipi, senza il benché minimo accenno di elasticità mentale, fa sì che le persone saltino a conclusioni affrettate, e che se la prendano con noi senza neanche un briciolo di positività. Possono riversarci addosso miriadi di falsi luoghi comuni sull’anoressia, fare commenti inappropriati, scaricare su di noi la loro frustrazione di fronte a un qualcosa che non capiscono… e di tutto ciò ne risentiamo negativamente anche noi, che accumuliamo rabbia e sentimenti negativi verso chi si comporta così.
Però, metteteci dentro un pizzico di elasticità mentale, e vedrete quando meno influente sarà sul vostro umore l’opinione che la gente ha sui DCA, e i commenti che ricevete. Se vi fermate a mettere in atto l’elasticità mentale necessaria per pensarci, infatti, vi renderete conto che chi dice cose del genere parla per cliché, non ha alcuna esperienza diretta e dunque, in sostanza, non sa cosa sta dicendo. E chi parla per sentito dire, necessariamente è di una superficialità estrema. Per cui, quanto può buttarvi davvero giù il commento di una persona che parla perché ha la bocca, ma non sa niente? E lo stesso vale per la frustrazione altrui. Forse coloro che vi si rivolgono scortesemente e fanno commenti impropri sul vostro DCA stanno vivendo una giornataccia. Magari hanno avuto problemi sul lavoro, o non hanno proprio un lavoro. Magari hanno qualcuno che sta male in famiglia. Magari hanno litigato con un caro amico. Magari hanno perso una competizione sportiva. Magari sono bocciati ad un esame universitario, o hanno preso un brutto voto ad un compito in classe. Queste persone saranno comunque scortesi con voi, e vi faranno dei commenti sgradevoli, ma un pizzico di elasticità mentale cambia VOI, ragazze, non queste persone. Quando c’è l’elasticità mentale di comprendere che dietro ad un luogo comunque che vi viene sbattuto addosso o dietro ad un commento inappropriato c’è superficialità, ignoranza, o problemi personali, si smette di dare tanto peso a determinate parole, e così non si lascia spazio alla negatività che quelle parole potrebbero ingenerare. Rimane la positività. E, se siete fortunate, la vostra positività potrebbe anche trasmettersi alla persona che vi ha giudicate con superficialità.
“Una manciata di fiducia in se stesse” è il secondo ingrediente, perché credere nelle proprie capacità è il modo migliore per trovare il coraggio di iniziare a fare le cose, di iniziare a combattere contro l’anoressia, e di proseguire conseguendo pregevoli risultati. La fiducia in se stesse rende l’impasto più forte, perché non importa se nella vita ci si pongono di fronte delle difficoltà: se abbiamo fiducia in noi stesse, possiamo superarle mantenendo la positività. Pensateci: se la fiducia in sé non esistesse nella ricetta, tutte le difficoltà che inevitabilmente si presentano nel corso della vita finirebbero per sommergerci, e la negatività regnerebbe sovrana.
“Un bel po’ di auto-ironia” è il terzo ingrediente, perché se non riuscite a sorridere di voi stesse la positività non può attecchire. Gli artisti della positività lo sanno: per loro tutto è divertente. Può essere divertente svegliarsi la mattina e pensare alla giornata che stiamo per affrontare, possiamo trovare il lato divertente in tantissime piccole cose, e il divertimento rappresenta una grade sorgente di positività. La capacità di fare auto-ironia non è un qualcosa di superficiale, ma scava molto a fondo dentro di noi. Ci insegna che la vita non è meramente un gioco cui giocare, ma un regalo da assaporare a fondo.
L’auto-ironia è quello che ci fa sorridere anche quando apparentemente non c’è proprio niente di cui sorridere. La vita non è un qualcosa che va tollerato, è un qualcosa di cui va goduto. Non sarà mai tutto rose e fiori, momenti difficili accadranno e non potremo farci niente, ma l’ironia rimarrà sempre lì, pronta a togliere il pungiglione che sta iniettando veleno. Talvolta dobbiamo solo cercarla. L’ironia, il divertimento non sono semplicemente un qualcosa che si apprezza all’esterno, ma stanno anche dentro di noi. Le cose spiacevoli che ci succedono nella vita possono provocarci una di queste 3 reazioni: sconvolgerci lasciandoci impotenti, affogarci nella negatività e nell’autocommiserazione, o cercare il lato ironico della situazione. Solo coloro che hanno la terza reazione scelgono di mantenere una visione positiva, per cui la positività è un’arte che può risollevare anche nei momenti più difficili – risollevare voi stesse in prima battuta, e magari anche qualcun altro. Citando: “Il domani può arrecare dolore, ma non può rubare la tua gioia”. Si tratta di trovare le rose che crescono dal letame, anche quando quel letame sembra solo merda.
“Una goccia di accettazione” è l’ingrediente successivo, e non può essere sostituito. Penso che vada a braccetto con l’auto-ironia, peraltro. Riuscire ad ironizzare su tutto è una gran cosa, in teoria, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E, allora, ecco che arriva l’accettazione a giocare la sua parte. Per poter vivere con positività, occorre accettare il fatto che, a differenza di quanto l’anoressia vorrebbe farci credere, non possiamo controllare i tornadi che si abbattono nella nostra vita. Spesso e volentieri, non possiamo neanche prevenirli. Di conseguenza, non possiamo essere preparate ad affrontarli. Accettare che i momenti difficili esistono significa non focalizzarsi sulla loro negatività e cercare ogni risorsa possibile per superarli ed andare avanti. L’accettazione è quel che aiuta ad attraversare il peggio puntando verso il meglio. L’accettazione può essere molto difficile. È una parola correlata alla pazienza, un altro concetto non molto maneggevole.
Accettazione significa che non dobbiamo rimanere impotenti, impantanate nella negatività di una situazione. Non possiamo cambiare il vento, è vero, ma possiamo dirigere le vele. Non possiamo scegliere cosa ci accade nella cita, ma abbiamo tutta la possibilità di scegliere come reagire a ciò che ci accade nella vita. E questo è parte della positività. Possiamo scegliere di rimanere positive alla faccia delle difficoltà, del dolore, della tristezza, ed è molto difficile il farlo – ma se davvero lo vogliamo, abbiamo tutte le capacità per farlo. E le cose andranno veramente meglio, se siamo in grado di scegliere di reagire, e come farlo.
“Un sacco di occhi nuovi con cui guardare le stesse cose” continua la lista degli ingredienti. Perché la vita non cambia, però possiamo cambiare noi. Fino a che continueremo a guardare le cose sotto l’ottica malata dell’anoressia, avremo in punto di vista del tutto parziale nonché patologico. Ed è perciò estremamente difficile essere positive quando tutta la nostra vita è condizionata da una malattia. Però, se anche le cose non cambiano, noi possiamo scegliere il punto di vista da cui guardarle, ed influenzare così la visione che abbiamo di esse. Si tratta di imparare a guardare ambo le facce di una stessa medaglia, in maniera tale da potersi focalizzare sull’alternativa più sana e più positiva.
“Un cucchiaio di determinazione” è il sesto ingrediente, perché quando si decide di combattere contro l’anoressia è molto importante avere la possibilità di essere seguite da specialisti, psicologi e dietisti, per combattere efficacemente contro la malattia. Ma tutti gli specialisti più quotati del mondo non potranno fare un bel niente per noi, se noi per prime non decidiamo di voler tenere testa all’anoressia. E la decisione di combattere contro l’anoressia è un qualcosa che va rinnovato giorno dopo giorno. Per cui sta a noi decidere se continuare a combattere. E più combattiamo, più ci allontaniamo dall’anoressia, più riscopriamo di poter avere una vita di qualità. E questo indirettamente aumenta la nostra positività, perché vivere sempre più a pieno ci permette di vedere quante cose che valgono sono presenti nella nostra esistenza.
“Gratitudine q.b.” è l’ultimo ingrediente della ricetta della positività. Non avremo mai troppa gratitudine, per cui non c’è bisogno di misurarla. Basta mettercela dentro. La gratitudine cambia un sacco la prospettiva. Trasforma i disastri in opportunità, le perdite in guadagni, e i sogni in realtà. Coltivare la gratitudine dovrebbe essere un obiettivo da raggiungere, e quando ci riusciamo è tangibile il modo in cui cambia la vita.
La gratitudine fa la differenza in una prospettiva positiva, è rende più solida la positività. Chiunque avrà eventi spiacevoli nel corso della propria vita, ma l’attitudine alla gratitudine è quello che può tenere lontane dalla negatività. Se vi alzate una mattina, con l’intenzione di prendere la vostra automobile per andare al lavoro/a scuola perché piove stile remake del diluvio universale, e appena arrivate di fronte alla vostra macchina vi accorgete che qualche cretino vi ha rotto uno specchietto laterale, anziché incavolarvi come scimmie, la gratitudine vi permette di vedere l’accaduto sotto un altro punto di vista: “Il cretino che mi ha rotto lo specchietto merita tutte le infamate del mondo… ma, per lo meno, ho comunque un’auto funzionante che mi permetterà di arrivare a lavoro/a scuola senza bagnarmi da capo a piedi”.
Un altro modo per alimentare la gratitudine è non dare mai niente per scontato. Avete parcheggiato l’auto mezza storta nell’unico buchetto di mezzo parcheggio che siete riuscite a trovare? Siate grate del fatto che avete trovato comunque da parcheggiare. Avete un giorno di ferie in pieno Agosto in cui avevate programmato di andare in piscina, e piove con tanto di tuoni e fulmini per tutto il giorno? Siate grate che non dovete lavorare all’aperto con quel maltempo. Vi sembra di non riuscire più a controllare la vostra vita come invece illusoriamente vi sembrava di essere capaci di farlo con l’anoressia? Siate grate per aver recuperato salute psicofisica. Vi siete svegliate anche stamattina? Siate grate per avere di fronte a voi un giorno da riempire con tutti i colori della vita. E questi sono solo dei banali esempi, ovviamente, delle cose che possiamo dare per scontato nella vita di tutti i giorni. Ci dà subito fastidio il naso chiuso quando ci prende il raffreddore, e la febbre quando abbiamo l’influenza, ma forse non ci eravamo ricordate di essere grate quando stavamo bene ed eravamo piene di energia.
La ricetta della positività è relativamente semplice e non necessita di niente che la insaporisca. Non va mai fuori moda, e non perde mai il suo appeal. È una ricetta per una sola persona – ciascuna di voi, singolarmente – che può però anche nutrire chi vi sta intorno. Con la positività diventate luce, e potete illuminare anche qualcun altro. Sì, la positività a suo modo è un’arte… perciò, quando la utilizzate, fate in modo che diventi il vostro capolavoro.
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venerdì 24 ottobre 2014
Cosa raccontano le testate giornalistiche
Poiché leggo molto spesso articoli scientifici, una delle cose che trovo più interessanti e rivelatrici è il vedere come testate giornalistiche diverse raccontano la stessa storia. Alcune si limitano a riportare lo studio in questione parola per parola, mentre altre ne danno una rielaborazione. In quest’ultimo caso, ogni testata ha un differente focus, ed enfatizza diverse parti dello studio.
Ma non è di questo che volevo parlare.
Quel che trovo più interessante è il vedere come certi studi scientifici vengono maneggiati e modellati dai mezzi di comunicazione di massa per essere dati in pasto al cittadino medio.
Nella fattispecie, mi riferisco allo studio di Guido Frank, recentemente pubblicato sulla rivista “Neuropsychopharmacology”: Anorexia Nervosa and Obesity are Associated with Opposite Brain Reward Response.
Questo studio è stato oggetto di un sacco di recensioni, tra le quali:
Brain Reward Systems Of Obese Women Different From Those Of Women With Anorexia: Study (Huffington Post)
Brain Circuits Differ in Women with Anorexia vs. Obesity (PsychCentral)
L’articolo presente sul PsychCentral si apre dicendo: “Perché una persona diventa anoressica e un’altra obesa? Colpa del cervello”. Il problema è che un’affermazione del genere non ha niente a che vedere con l’originario studio. I ricercatori hanno esaminato l’attività cerebrale in donne che erano già anoressiche o obese. Non uno studio pregresso, mi spiego? Nessuno ha monitorato l’attività cerebrale prima che queste donne diventassero anoressiche o obese, e il monitoraggio è avvenuto solo nel corso della condizione già conclamata. È il cervello che causa l’anoressia? È il cervello che causa l’obesità? Ancora non si sa. Le alterazioni mentali possono essere tanto la cause quanto la conseguenza del DCA stesso.
Per non dire come l’affermazione “Colpa del cervello” sia un’enorme semplificazione. Io credo che moltissimi differenti circuiti neurali rendano una persona più o meno predisposta a sviluppare un DCA, e penso che tutto quello (di bello e di brutto) che accade nella vita accresce o riduce questa predisposizione naturale. Il cervello svolge un importantissimo ruolo nello sviluppo dell’anoressia, nessun dubbio su ciò. Svolge un ruolo molto importante rispetto a chi si ammala e perché si ammala. Ma non è il solo ed esclusivo fattore. Quindi incolpate pure il cervello se vi va, ma state certi che c’è anche ben altro.
Quel che l’originario studio afferma è molto più significativo e profondo di ciò che la recensione del PsychCentral racconta. Basilarmente, quel che i ricercatori hanno scoperto è che il cervello di una donna anoressica e quello di una donna obesa rispondono in maniera diversa quando queste bevono acqua zuccherata. La donna anoressica ha un forte incremento del livello cerebrale di dopamina quando beve acqua e zucchero, la donna obesa ha un incremento molto minore, se comparate con il gruppo di controllo (donne normopeso e normoalimentate). Hmmm… bè, che pensarne?!?... Non voglio dire che l’aver scoperto questo non sia importante, ma l’idea che l’anoressia possa essere dovuta ad un’anomalia nella risposta cerebrale all’assunzione di cibo mi sembra, più che scienza, fanta-scienza.
Quel che non mi torna delle conclusioni che trae questo studio è il fatto che, secondo me, il gruppo di controllo non è attendibile. Non potrebbe essere che le donne anoressiche hanno avuto una secrezione di dopamina particolarmente abbondante per il semplice fatto che quando si sono sottoposte al test erano malnutrite? Perché non monitorare queste donne nel tempo, e vedere se la loro secrezione di dopamina si sarebbe normalizzata non appena avessero ricominciato ad alimentarsi normalmente e ripreso almeno un po’ del peso perso? E perché non sono state incluse nello studio anche donne che si considerano “guarite” dall’anoressia, e dicono che non hanno più segni fisici, psicologici, o emozionali del DCA?
Le neuroscienze sono ancora una sorta di campo minato, è difficile fare studi in questo ambito e riportare risultati attendibili e comprovati. Per ogni piccola novità, è facile sensazionalizzare. Ma trovo comunque al contempo affascinante e rivelatore il modo in cui questi studi vengono riportati al cittadino medio. Il titolo del Press Release è molto meno interessante rispetto agli altri, ma il contenuto è più aderente alla realtà dello studio: Brain circuitry is different for women with anorexia and obesity.
Nella parte conclusiva dello studio, ci sono molte più incertezze di quello che le varie testate giornalistiche vogliono far sembrare. “E’ chiaro che nel cervello umano ci sono dei sistemi neuronali che regolano l’introito di cibo” dice Frank. “Il ruolo specifico di queste reti neuronali nei disturbi alimentari come l’anoressia nervosa e, il suo contrario, l’obesità*, rimane tuttavia non chiaro”. (mia traduzione)
*La mia personale opinione, invece, è che la parola “anoressia” non sia affatto il contrario di “obesità”. Parole come “sottopeso” e “malnutrizione” possono essere, a mio avviso, considerate il contrario di chi giornalmente assume un quantitativo eccessivo di calorie, ma l’obesità in sé non è un DCA. Può essere la conseguenza di un DCA, per esempio di una bulimia senza condotte di eliminazione, o di un binge eating disorder, ma di per sé l’obesità non è un DCA. I due gruppi confrontati, secondo me, quindi, non erano proprio idonei allo studio.
Ma non è di questo che volevo parlare.
Quel che trovo più interessante è il vedere come certi studi scientifici vengono maneggiati e modellati dai mezzi di comunicazione di massa per essere dati in pasto al cittadino medio.
Nella fattispecie, mi riferisco allo studio di Guido Frank, recentemente pubblicato sulla rivista “Neuropsychopharmacology”: Anorexia Nervosa and Obesity are Associated with Opposite Brain Reward Response.
Questo studio è stato oggetto di un sacco di recensioni, tra le quali:
Brain Reward Systems Of Obese Women Different From Those Of Women With Anorexia: Study (Huffington Post)
Brain Circuits Differ in Women with Anorexia vs. Obesity (PsychCentral)
L’articolo presente sul PsychCentral si apre dicendo: “Perché una persona diventa anoressica e un’altra obesa? Colpa del cervello”. Il problema è che un’affermazione del genere non ha niente a che vedere con l’originario studio. I ricercatori hanno esaminato l’attività cerebrale in donne che erano già anoressiche o obese. Non uno studio pregresso, mi spiego? Nessuno ha monitorato l’attività cerebrale prima che queste donne diventassero anoressiche o obese, e il monitoraggio è avvenuto solo nel corso della condizione già conclamata. È il cervello che causa l’anoressia? È il cervello che causa l’obesità? Ancora non si sa. Le alterazioni mentali possono essere tanto la cause quanto la conseguenza del DCA stesso.
Per non dire come l’affermazione “Colpa del cervello” sia un’enorme semplificazione. Io credo che moltissimi differenti circuiti neurali rendano una persona più o meno predisposta a sviluppare un DCA, e penso che tutto quello (di bello e di brutto) che accade nella vita accresce o riduce questa predisposizione naturale. Il cervello svolge un importantissimo ruolo nello sviluppo dell’anoressia, nessun dubbio su ciò. Svolge un ruolo molto importante rispetto a chi si ammala e perché si ammala. Ma non è il solo ed esclusivo fattore. Quindi incolpate pure il cervello se vi va, ma state certi che c’è anche ben altro.
Quel che l’originario studio afferma è molto più significativo e profondo di ciò che la recensione del PsychCentral racconta. Basilarmente, quel che i ricercatori hanno scoperto è che il cervello di una donna anoressica e quello di una donna obesa rispondono in maniera diversa quando queste bevono acqua zuccherata. La donna anoressica ha un forte incremento del livello cerebrale di dopamina quando beve acqua e zucchero, la donna obesa ha un incremento molto minore, se comparate con il gruppo di controllo (donne normopeso e normoalimentate). Hmmm… bè, che pensarne?!?... Non voglio dire che l’aver scoperto questo non sia importante, ma l’idea che l’anoressia possa essere dovuta ad un’anomalia nella risposta cerebrale all’assunzione di cibo mi sembra, più che scienza, fanta-scienza.
Quel che non mi torna delle conclusioni che trae questo studio è il fatto che, secondo me, il gruppo di controllo non è attendibile. Non potrebbe essere che le donne anoressiche hanno avuto una secrezione di dopamina particolarmente abbondante per il semplice fatto che quando si sono sottoposte al test erano malnutrite? Perché non monitorare queste donne nel tempo, e vedere se la loro secrezione di dopamina si sarebbe normalizzata non appena avessero ricominciato ad alimentarsi normalmente e ripreso almeno un po’ del peso perso? E perché non sono state incluse nello studio anche donne che si considerano “guarite” dall’anoressia, e dicono che non hanno più segni fisici, psicologici, o emozionali del DCA?
Le neuroscienze sono ancora una sorta di campo minato, è difficile fare studi in questo ambito e riportare risultati attendibili e comprovati. Per ogni piccola novità, è facile sensazionalizzare. Ma trovo comunque al contempo affascinante e rivelatore il modo in cui questi studi vengono riportati al cittadino medio. Il titolo del Press Release è molto meno interessante rispetto agli altri, ma il contenuto è più aderente alla realtà dello studio: Brain circuitry is different for women with anorexia and obesity.
Nella parte conclusiva dello studio, ci sono molte più incertezze di quello che le varie testate giornalistiche vogliono far sembrare. “E’ chiaro che nel cervello umano ci sono dei sistemi neuronali che regolano l’introito di cibo” dice Frank. “Il ruolo specifico di queste reti neuronali nei disturbi alimentari come l’anoressia nervosa e, il suo contrario, l’obesità*, rimane tuttavia non chiaro”. (mia traduzione)
*La mia personale opinione, invece, è che la parola “anoressia” non sia affatto il contrario di “obesità”. Parole come “sottopeso” e “malnutrizione” possono essere, a mio avviso, considerate il contrario di chi giornalmente assume un quantitativo eccessivo di calorie, ma l’obesità in sé non è un DCA. Può essere la conseguenza di un DCA, per esempio di una bulimia senza condotte di eliminazione, o di un binge eating disorder, ma di per sé l’obesità non è un DCA. I due gruppi confrontati, secondo me, quindi, non erano proprio idonei allo studio.
venerdì 17 ottobre 2014
Diagnosi di DCA nelle giovanissime: è davvero così terribile?
È difficile ignorare la nuova moda ultimamente lanciata dai Mass Media: i DCA che colpiscono le giovanissime, bambine che frequentano ancora le scuole elementari. Le storie che vengono raccontante s’incentrano spesso sul crescente numero di bambine (generalmente pre-adolescenti) che si presentano all’osservazione medica con un disturbo alimentare. Questi articoli/servizi televisivi consistono per lo più in asserzioni strappalacrime di quanto la situazione sia terribile, senza ovviamente trascurare il classico cliché dell’incolpare il mondo della moda e dello spettacolo per la crescente esposizione delle bambine ad immagini di modelle/attrici/cantanti magrissime.
Prendete, per esempio, QUESTO.
Alcune delle affermazioni ivi contenute recitano:
“Solo nell’ultimo anno, 42 bambine sotto i 10 anni sono state portate in ospedale e ricoverate.”
“Sconvolgentemente nuove statistiche rivelano che la “diagnosi primaria” era DCA.”
“Molti enti ritengono che i social media siano una delle maggiori cause, con molte giovani vittime della malattia che pubblicano selfie dei loro corpi emaciati su Twitter.”
(mia traduzione)
Bene, prima di rabbrividire di fronte a queste frasi roboanti, facciamo innanzitutto un attimo mente locale su quella che è la fonte di tali affermazioni: un giornale on-line in cerca di lettori. Secondariamente: dov’è la ricerca scientifica su cui si basano le affermazioni fatte dall’articolo in questione? In terzo luogo: cosa succederebbe se una maggiore attenzione nel diagnosticare i DCA anche nelle bambine non fosse una notizia così terribile come i Mass Media vorrebbero far credere?
Okay, non fraintendetemi: per me è orribile quando vengo a sapere che una qualsiasi persona si è ammalata di DCA. Proprio perché, avendolo vissuto sulla mia pelle, so quanto un DCA sia devastante. Per cui, non sto assolutamente dicendo che un DCA a qualsiasi età, inclusa l’infanzia, sia una cosa positiva. Proprio per niente. Detto questo, ciò che sappiamo è che:
Tanto più precoce è la diagnosi di DCA, tanto minore è la durata della fase acuta della malattia, e tanto più precoce è l’intervento sia sul piano psichico che su quello alimentare, tanto più facile è allontanarsi dal DCA stesso. [Fonte]
Per molti anni i medici hanno ritenuto che i DCA fossero “roba da adolescenti”. Se ci pensate, è anche un luogo comune piuttosto diffuso quello dell’adolescente malata di anoressia: sei non sei un’adolescente, non puoi avere un DCA. Quest’asserzione è, ovviamente, del tutto sbagliata. È sbagliata perchè non prende in considerazione il fatto che chi si ammala di DCA durante l’adolescenza può trascinarsi dietro brandelli più o meno ampi di malattia anche crescendo, e questo fa sì che le donne adulte malate abbiano maggiori difficoltà a veder riconosciuta la loro patologia e a chiedere e a ricevere aiuto, e allo stesso tempo incide negativamente sulle bambine e sulle pre-adolescenti che vengono considerate “troppo giovani per avere una malattia del genere”.
Pertanto, bambine malate di anoressia/bulimia possono non ricevere un’opportuna diagnosi, e non essere trattate adeguatamente. Se questo succede, quando diventano delle adolescenti, il loro DCA è ancora presente. Per cui, se anche poteva esserci, una diagnosi precoce è venuta meno. E questo fa sì che queste persone abbiano poi maggiori difficoltà nel percorrere la strada del ricovero. Per cui, se ad oggi i DCA vengono riconosciuti, diagnosticati e rapidamente trattati anche nelle giovanissime, non è forse una buona cosa?
Inoltre, sebbene certi articoli vogliano dare a credere che i DCA compaiono nelle bambine prima di quanto non sia mai successo sinora, in realtà non sono stati condotti dei veri e propri studi scientifici al riguardo, per cui non lo sappiamo per certo. Sappiamo solo che a più bambine viene diagnosticato un DCA, ma questo non significa che, in assoluto, ci siano più bambine malate di DCA, significa solo che i DCA vengono diagnosticati con più frequenza.
Invece di considerare l’incremento delle diagnosi di DCA nelle bambine universalmente come una Cosa Negativa, guardiamo al fatto che non è una cosa negativa come potrebbe sembrare a primo acchito, perché significa che più bambine ricevono aiuto psichico ed alimentare proprio nel momento in cui in DCA esordisce, e dunque nel momento più opportuno per avere maggiori possibilità di successo terapeutico. Questo non lo dico solo io, ma viene affermato anche da alcuni ricercatori, Dominique Meilleur ed i suoi colleghi. che hanno recentemente presentato il progetto della loro ricerca ad una conferenza che si è tenuta a Vancouver (Canada).
Nella loro ricerca, hanno creato dei dettagliati profili biologici, psicologici e sociali di 215 bambine/i di età compresa tra gli 8 e i 12 anni (campione piccolo, è vero, ma per lo meno è un inizio...) che hanno presentato dei “problemi alimentari” senza una specifica malattia fisica che li inducesse. I ricercatori hanno trovato che:
• Il 95% di queste/i bambine/i avevano dei comportamenti alimentari restrittivi
• Il 69,4% era a disagio con il proprio corpo
• Il 46,6% riteneva di essere sovrappeso
• Il 15,5% si induceva il vomito occasionalmente
• Il 13,3% metteva in atto dei veri e propri comportamenti bulimici
Nello studio in questione Meilleur afferma:
“Questi risultati sono molto sconcertanti, ma possono aiutare i medici a fare diagnosi precoce nel momento in cui prendano in considerazione questi aspetti. […] Molti medici ritengono che la bulimia sia una malattia che compare solo durante l’adolescenza, ma il nostro studio indica che il problema può comparire anche prima. […] E’ perciò possibile che i DCA siano attualmente sotto-diagnosticati per carenza di consapevolezze e di competenze.”
(mia traduzione)
Non solo, lo studio in questione mostra anche che i DCA non sono una prerogativa femminile. Sostiene Meilleur:
“Le profonde similitudini tra bambini e bambine nell’infanzia supporta, a nostro avviso, l’ipotesi che fattori comuni sia fisici che psichici presenti, insieme ovviamente a molte altre concause, nel periodo dello sviluppo, possano favorire la comparsa di DCA in ambo i sessi.”
(mia traduzione)
Io ritengo, molto semplicemente, che ricevere aiuto iniziando un percorso di ricovero sia millemila volte meglio che soffrire in silenzio. Certo, il considerare che anche i giovanissimi possano soffrire di DCA può inizialmente scombinare statistiche e conoscenze, e può far sembrare la situazione più complicata e tragica di prima. Ma se la consapevolezza che anche le bambine si ammalano di DCA significa diagnosi precoce e dunque trattamento più precoce, allora io la ritengo una cosa positiva.
Prendete, per esempio, QUESTO.
Alcune delle affermazioni ivi contenute recitano:
“Solo nell’ultimo anno, 42 bambine sotto i 10 anni sono state portate in ospedale e ricoverate.”
“Sconvolgentemente nuove statistiche rivelano che la “diagnosi primaria” era DCA.”
“Molti enti ritengono che i social media siano una delle maggiori cause, con molte giovani vittime della malattia che pubblicano selfie dei loro corpi emaciati su Twitter.”
(mia traduzione)
Bene, prima di rabbrividire di fronte a queste frasi roboanti, facciamo innanzitutto un attimo mente locale su quella che è la fonte di tali affermazioni: un giornale on-line in cerca di lettori. Secondariamente: dov’è la ricerca scientifica su cui si basano le affermazioni fatte dall’articolo in questione? In terzo luogo: cosa succederebbe se una maggiore attenzione nel diagnosticare i DCA anche nelle bambine non fosse una notizia così terribile come i Mass Media vorrebbero far credere?
Okay, non fraintendetemi: per me è orribile quando vengo a sapere che una qualsiasi persona si è ammalata di DCA. Proprio perché, avendolo vissuto sulla mia pelle, so quanto un DCA sia devastante. Per cui, non sto assolutamente dicendo che un DCA a qualsiasi età, inclusa l’infanzia, sia una cosa positiva. Proprio per niente. Detto questo, ciò che sappiamo è che:
Tanto più precoce è la diagnosi di DCA, tanto minore è la durata della fase acuta della malattia, e tanto più precoce è l’intervento sia sul piano psichico che su quello alimentare, tanto più facile è allontanarsi dal DCA stesso. [Fonte]
Per molti anni i medici hanno ritenuto che i DCA fossero “roba da adolescenti”. Se ci pensate, è anche un luogo comune piuttosto diffuso quello dell’adolescente malata di anoressia: sei non sei un’adolescente, non puoi avere un DCA. Quest’asserzione è, ovviamente, del tutto sbagliata. È sbagliata perchè non prende in considerazione il fatto che chi si ammala di DCA durante l’adolescenza può trascinarsi dietro brandelli più o meno ampi di malattia anche crescendo, e questo fa sì che le donne adulte malate abbiano maggiori difficoltà a veder riconosciuta la loro patologia e a chiedere e a ricevere aiuto, e allo stesso tempo incide negativamente sulle bambine e sulle pre-adolescenti che vengono considerate “troppo giovani per avere una malattia del genere”.
Pertanto, bambine malate di anoressia/bulimia possono non ricevere un’opportuna diagnosi, e non essere trattate adeguatamente. Se questo succede, quando diventano delle adolescenti, il loro DCA è ancora presente. Per cui, se anche poteva esserci, una diagnosi precoce è venuta meno. E questo fa sì che queste persone abbiano poi maggiori difficoltà nel percorrere la strada del ricovero. Per cui, se ad oggi i DCA vengono riconosciuti, diagnosticati e rapidamente trattati anche nelle giovanissime, non è forse una buona cosa?
Inoltre, sebbene certi articoli vogliano dare a credere che i DCA compaiono nelle bambine prima di quanto non sia mai successo sinora, in realtà non sono stati condotti dei veri e propri studi scientifici al riguardo, per cui non lo sappiamo per certo. Sappiamo solo che a più bambine viene diagnosticato un DCA, ma questo non significa che, in assoluto, ci siano più bambine malate di DCA, significa solo che i DCA vengono diagnosticati con più frequenza.
Invece di considerare l’incremento delle diagnosi di DCA nelle bambine universalmente come una Cosa Negativa, guardiamo al fatto che non è una cosa negativa come potrebbe sembrare a primo acchito, perché significa che più bambine ricevono aiuto psichico ed alimentare proprio nel momento in cui in DCA esordisce, e dunque nel momento più opportuno per avere maggiori possibilità di successo terapeutico. Questo non lo dico solo io, ma viene affermato anche da alcuni ricercatori, Dominique Meilleur ed i suoi colleghi. che hanno recentemente presentato il progetto della loro ricerca ad una conferenza che si è tenuta a Vancouver (Canada).
Nella loro ricerca, hanno creato dei dettagliati profili biologici, psicologici e sociali di 215 bambine/i di età compresa tra gli 8 e i 12 anni (campione piccolo, è vero, ma per lo meno è un inizio...) che hanno presentato dei “problemi alimentari” senza una specifica malattia fisica che li inducesse. I ricercatori hanno trovato che:
• Il 95% di queste/i bambine/i avevano dei comportamenti alimentari restrittivi
• Il 69,4% era a disagio con il proprio corpo
• Il 46,6% riteneva di essere sovrappeso
• Il 15,5% si induceva il vomito occasionalmente
• Il 13,3% metteva in atto dei veri e propri comportamenti bulimici
Nello studio in questione Meilleur afferma:
“Questi risultati sono molto sconcertanti, ma possono aiutare i medici a fare diagnosi precoce nel momento in cui prendano in considerazione questi aspetti. […] Molti medici ritengono che la bulimia sia una malattia che compare solo durante l’adolescenza, ma il nostro studio indica che il problema può comparire anche prima. […] E’ perciò possibile che i DCA siano attualmente sotto-diagnosticati per carenza di consapevolezze e di competenze.”
(mia traduzione)
Non solo, lo studio in questione mostra anche che i DCA non sono una prerogativa femminile. Sostiene Meilleur:
“Le profonde similitudini tra bambini e bambine nell’infanzia supporta, a nostro avviso, l’ipotesi che fattori comuni sia fisici che psichici presenti, insieme ovviamente a molte altre concause, nel periodo dello sviluppo, possano favorire la comparsa di DCA in ambo i sessi.”
(mia traduzione)
Io ritengo, molto semplicemente, che ricevere aiuto iniziando un percorso di ricovero sia millemila volte meglio che soffrire in silenzio. Certo, il considerare che anche i giovanissimi possano soffrire di DCA può inizialmente scombinare statistiche e conoscenze, e può far sembrare la situazione più complicata e tragica di prima. Ma se la consapevolezza che anche le bambine si ammalano di DCA significa diagnosi precoce e dunque trattamento più precoce, allora io la ritengo una cosa positiva.
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venerdì 10 ottobre 2014
Le nostre infographic (1)
Chiedo venia per l’attesa, ragazze, ma finalmente sono riuscita a rimettere insieme tutti i frammenti che mi avete inviato e chiesto di realizzare… E dunque ecco a voi quello che spero possa essere solo il primo di una (lunga) serie di post costituito dalle infographic da noi realizzate. (click su ogni immagine per ingrandirla)
Apriamo le danze con l’infographic di Raffa, che illustra cosa veramente significa vivere prima-durante-dopo un DCA.
Quindi Wolfie, che parla di psicoterapia… sotto 2 diversi punti di vista.
È il turno di Vale, che contrappone le bugie che il DCA ci racconta alle nostre verità.
Il testimone passa poi alle bellissime infographic realizzate da Christiane.
A questo punto arriva Charlie, che ci fa vedere un confronto diretto tra vita con e senza DCA, ad ogni età.
E ora la simpaticissima infographic di Stella, che ci mostra la verità sul percorrere la strada del ricovero.
Ovviamente anch’io mi sono data da fare per realizzare le infographic che mi avevate richiesto, e dunque ecco la prima, che mi è stata richiesta sia da Connie che da Raffa, relativa alle attività alternative, ovvero alle strategie di coping che possiamo mettere in atto quando si combatte contro un DCA. Ho voluto illustrare, per ogni strategia, i suoi pro e i suoi contro affinché ognuna di noi possa scegliere l’attività più giusta per il momento che sta vivendo, soppesandone pregi e difetti. (Scontato a dirsi, ma comunque: queste sono solo strategie di auto-aiuto… NON sostituiscono in alcun modo la psicoterapia!)
Quest’altra mi è stata invece richiesta da Lexie, che mi aveva proposto di realizzare un’infographic per “chi non si sente abbastanza malata per chiedere aiuto”.
Infine, chiude questa prima serie l’infographic che mi è stata suggerita da Jonny, che ha come destinatarie le ragazze che tengono blog pro ana/mia. (L’ho dovuta spezzare in 3 per ragioni di spazio, ma le tre colonnine sono da considerarsi come se fossero tutt’uno, e da leggersi una in fina all’altra.) Jonny, forse non è esattamente quel che tu avevi in mente, ma spero che il risultato possa essere ugualmente efficace!
Bè, ragazze, spero che queste infographic vi piacciano e vi sembrino efficaci. Cosa ne pensate? Fatemelo sapere nei commenti, se vi va!
P.S.= Continuate ad inviarmi le vostre infographic o a suggerirmi idee per realizzarne di nuove: non appena ne avrò raccolte altre, realizzerò un nuovo post condividendole!
P.P.S.= Dalla seconda infographic di Christiane vorrei trarne un video, ma ho bisogno della vostra collaborazione. Vi chiedo pertanto di rispondere (nei commenti o via email – veggie.any@gmail.com – come preferite) a questa domanda: qual è la cosa che più vi aiuta nella vostra quotidianità a combattere contro l’anoressa/la bulimia/il DCAnas? Niente risposte filosofiche, solo cose semplici e concrete, che io possa inserire nel video. Esempio banale: la cosa che più mi aiuta è giocare a calcio. Se poi trovate un’immagine che rappresenta la vostra risposta (nell’esempio citato, un pallone da calcio), inviatemela tramite email, affinché io possa raccoglierle tutte ed inserirle nel video, che conterrà tutto ciò che ci aiuta quotidianamente a combattere contro l’anoressia e a ricostruire una vita fuori dall’ombra della malattia.
Apriamo le danze con l’infographic di Raffa, che illustra cosa veramente significa vivere prima-durante-dopo un DCA.
Quindi Wolfie, che parla di psicoterapia… sotto 2 diversi punti di vista.
È il turno di Vale, che contrappone le bugie che il DCA ci racconta alle nostre verità.
Il testimone passa poi alle bellissime infographic realizzate da Christiane.
A questo punto arriva Charlie, che ci fa vedere un confronto diretto tra vita con e senza DCA, ad ogni età.
E ora la simpaticissima infographic di Stella, che ci mostra la verità sul percorrere la strada del ricovero.
Ovviamente anch’io mi sono data da fare per realizzare le infographic che mi avevate richiesto, e dunque ecco la prima, che mi è stata richiesta sia da Connie che da Raffa, relativa alle attività alternative, ovvero alle strategie di coping che possiamo mettere in atto quando si combatte contro un DCA. Ho voluto illustrare, per ogni strategia, i suoi pro e i suoi contro affinché ognuna di noi possa scegliere l’attività più giusta per il momento che sta vivendo, soppesandone pregi e difetti. (Scontato a dirsi, ma comunque: queste sono solo strategie di auto-aiuto… NON sostituiscono in alcun modo la psicoterapia!)
Quest’altra mi è stata invece richiesta da Lexie, che mi aveva proposto di realizzare un’infographic per “chi non si sente abbastanza malata per chiedere aiuto”.
Infine, chiude questa prima serie l’infographic che mi è stata suggerita da Jonny, che ha come destinatarie le ragazze che tengono blog pro ana/mia. (L’ho dovuta spezzare in 3 per ragioni di spazio, ma le tre colonnine sono da considerarsi come se fossero tutt’uno, e da leggersi una in fina all’altra.) Jonny, forse non è esattamente quel che tu avevi in mente, ma spero che il risultato possa essere ugualmente efficace!
Bè, ragazze, spero che queste infographic vi piacciano e vi sembrino efficaci. Cosa ne pensate? Fatemelo sapere nei commenti, se vi va!
P.S.= Continuate ad inviarmi le vostre infographic o a suggerirmi idee per realizzarne di nuove: non appena ne avrò raccolte altre, realizzerò un nuovo post condividendole!
P.P.S.= Dalla seconda infographic di Christiane vorrei trarne un video, ma ho bisogno della vostra collaborazione. Vi chiedo pertanto di rispondere (nei commenti o via email – veggie.any@gmail.com – come preferite) a questa domanda: qual è la cosa che più vi aiuta nella vostra quotidianità a combattere contro l’anoressa/la bulimia/il DCAnas? Niente risposte filosofiche, solo cose semplici e concrete, che io possa inserire nel video. Esempio banale: la cosa che più mi aiuta è giocare a calcio. Se poi trovate un’immagine che rappresenta la vostra risposta (nell’esempio citato, un pallone da calcio), inviatemela tramite email, affinché io possa raccoglierle tutte ed inserirle nel video, che conterrà tutto ciò che ci aiuta quotidianamente a combattere contro l’anoressia e a ricostruire una vita fuori dall’ombra della malattia.
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venerdì 3 ottobre 2014
Immagine corporea: è un concetto utile? (Ma anche no!)
In un articolo di PubMed che ho letto qualche giorno fa, veniva menzionato uno studio condotto abbastanza recentemente in merito alla percezione della propria immagine corporea in chi ha un DCA. Mi sono incuriosita, e così ho deciso di scaricare l’articolo in questione, scritto da Kate Gleeson e Hannah Frith nel 2006. Il punto focale di questo studio infatti è proprio il cercare di rispondere alla domanda: il concetto di “immagine corporea”, per com’è attualmente articolato, è effettivamente utile per valutare chi ha un DCA?
Questa apparentemente semplice domanda cela in realtà una questione piuttosto controversa: dopotutto, all’immagine corporea viene ascritta una significativa centralità in molti studi (e strategie terapeutiche) relativi ai DCA. Credo che chiunque di noi che abbia un DCA si sia sentita dire almeno una volta nella propria vita, da un qualche medico/psichiatra/psicologo/dietista/nutrizionista che è importante migliorare la percezione della propria immagine corporea, che così facendo si può riuscire a far pace col cibo, con l’esercizio fisico, con gli altri, col DCA. Insomma, per come la mettono alcuni specialisti, sembrerebbe che lavorare sulla propria immagine corporea rappresenti la panacea per la guarigione dall’anoressia, che imparare ad amare il proprio corpo per com’è costituisca la chiave di volta per vincere i DCA.
Mi perdonino suddetti specialisti, ma io non sono d’accordo. Voglio mettere in chiaro che io penso che le intenzioni che stanno dietro la retorica dell’ “immagine corporea positiva” siano fondamentalmente buone, forse persino ammirevoli (sebbene un tantinello utopiche, a mio avviso). Tuttavia, mi ha colpito molto il modo in cui le autrici del suddetto studio hanno esplicitato che le ipotesi che stanno alla base della corrente concettualizzazione dell’ “immagine corporea” possono limitare la comprensione di come gli individui vi si relaziono, e di come agiscono con e sul proprio corpo.
Quali sono i postulati che stanno alla base dell’attuale concetto di “immagine corporea”?
1 - Che l’immagine corporea “esiste”.
2 – Che l’immagine corporea è un prodotto (socialmente mediato) della percezione.
3 – Che l’immagine corporea è un qualcosa di interiore.
4 – Che l’immagine corporea può essere trattata come se fosse reale, ed accuratamente valutata.
5 – Che le persone forniscano risposte neutre in merito all’immagine corporea di sé che hanno nella propria testa.
1. POSTULATO: L’IMMAGINE CORPOREA “ESISTE”
Pensateci bene: questo in realtà non è così strano come potrebbe sembrare. Poiché l’immagine corporea è compresa e studiata, si presume che sia una “cosa” che tutti gli individui possiedono e cui si relazionano. Che questa “immagine” sia accurata o meno, i ricercatori danno per scontato che ogni singola persona ce l’abbia. Altrimenti, che senso avrebbe valutare l’immagine corporea?
Tradizionalmente, l’immagine corporea viene definita come: “l'immagine del nostro corpo che formiamo nella nostra mente, vale a dire, il modo in cui il corpo appare a noi stessi” (Schilder, 1950). Rudd & Lennon (2000), espandono questa definizione includendo le percezioni e gli atteggiamenti tenuti verso il proprio corpo.
Proprio come altri costrutti, questo postulato (l’esistenza dell’immagine corporea) rende l’immagine corporea misurabile, valutabile, e idealmente ci permettono di spiegare perché le persone si comportano in un certo modo nei confronti del proprio corpo. Per esempio, alcuni ricercatori avevano ipotizzato che una sostanziale inaccuratezza della percezione dell’immagine corporea fosse ciò che spingeva le persone con un DCA a cercare di dimagrire costantemente, a prescindere dal loro peso reale. (Non è in realtà così.)
2. POSTULATO: L’IMMAGINE CORPOREA E’ UN PRODOTTO (SOCIALMENTE MEDIATO) DELLA PERCEZIONE
Se si parte dall’assunto che l’immagine corporea è una “cosa” che si genera nella mente umana, ecco che viene spontaneo concludere che allora essa è creata attraverso la nostra percezione. Delle vecchissime ricerche sui DCA erano innamorate dell’idea dell’esistenza di una discrepanza nella percezione dell’immagine corporea. Mi riferisco agli studi di psicologi quali Bruch (1962) e Slade & Russell (1973), che non la smettevano più di insistere su quanto le persone malate di anoressia non riuscissero a vedere il proprio corpo per quello che realmente era. (L’anoressia non è una malattia della vista, buongiorno!) Questi sono meramente 2 esempi del modo in cui la psicologia si è sempre concentrata (eccessivamente!) sulla percezione dell’immagine corporea.
Nonostante tutti questi tentativi di mettere ampiamente in risalto la centralità dell’immagine corporea nei DCA, nessuno degli studi di questo tipo è mai riuscito a trovare una relazione statisticamente significativa tra stima delle proprie dimensioni corporee ed insoddisfazione per il proprio aspetto. Nessuno. L'attenzione percettiva pone anche l'accento sulle cose che "distorcono" la percezione, come le pressioni culturali e psicologiche. Ricerche più recenti si sono concentrate sulle discrepanze nella percezione dell’immagine corporea, per esempio chiedendo a delle donne di scegliere quale corpo tra vari esempi mostrati sarebbe stato il loro "ideale", trovando spesso che le donne scelgono corpi più magri del proprio; ma nessuna di queste ricerche riesce a dimostrare se e quanto questo abbia un impatto sui pensieri, comportamenti e relazioni.
3. POSTULATO: L’IMMAGINE CORPOREA E’ UN QUALCOSA DI INTERIORE
L’immagine corporea viene spesso descritta come un qualcosa che “appartiene” all’individuo. Gli individui, naturalmente, agiscono ed impattano nel mondo che li circonda. Tuttavia, alla fine della fiera, ci sono una serie di forze che vengono viste come agenti sull’individuo, ed influenzanti l’immagine mentale che essi hanno sul proprio corpo. Nonostante la raffica di ricerche mirate a valutare l’influenza dei fattori esterni sull’immagine corporea, non abbiamo in realtà alcuna certezza o conferma su come esattamente le immagini proposte dai Mass Media, possano impattare sulla percezione dell’immagine corporea.
4. POSTULATO: L’IMMAGINE CORPOREA PUO’ ESSERE TRATTATA COME SE FOSSE REALE, ED ACCURATAMENTE VALUTATA
Questo postulato riecheggia il primo della lista, e fa fiorire una marea di critiche sulle modalità con cui l’immagine corporea viene valutata.
• L’immagine corporea dev’essere semplificata per poter essere valutata: per esempio, con gli studi che chiedono alle partecipanti di scegliere il proprio corpo ideale tra 9 diverse shilouettes proposte, che possono o meno includere l’immagine corporea “ideale” presente nella testa delle partecipati.
• Le risposte differenti e di un numero limitatissimo di donne vengono considerate rappresentative delle differenze percettive “reali”.
• Queste diverse risposte vengono trattate come se fossero intrinsecamente significative: ogni discrepanza da esse viene valutata come “insoddisfazione”.
5. POSTULATO: LE PERSONE FORNISCONO RIPOSTE NEUTRE IN MERITO ALL’IMMAGINE CORPOREA DI SE’ CHE HANNO NELLA PROPRIA TESTA
Le persone sono generalmente consapevoli che la loro esistenza è inscritta in un particolare ambiente culturale. Se anche un individuo può rispondere ad un questionario affermando che la sua immagine corporea “ideale” è più magra del loro corpo ideale, questo non dice sostanzialmente niente su quanto questo incida nella lista delle priorità di vita dell’individuo.
La maggior parte delle donne potrebbe dire di voler essere, in misura più o meno ampia, più magra di quello che è, ma solo un’irrisoria percentuale di esse si ammala di anoressia. Ergo, non esiste alcuna correlazione diretta tra le 2 cose, perché se ci fosse una reazione causa-effetto, tutte quelle donne si ammalerebbero. E questa è la dimostrazione del fatto che i DCA sono malattie multifattoriali determinate da così tante cause che eventuali discrepanze sulla percezione dell’immagine corporea possono avere un ruolo minimale o addirittura nullo sullo sviluppo di un DCA.
Quello che secondo me dovremmo fare, perciò, è ri-concettualizzare i problemi.
1. Focus di ricerca ristretto
L’immagine corporea è un qualcosa di estremamente complesso e variegato. Se diamo per scontato che l’immagine corporea sia semplicemente il mediatore tra pensiero ed azione, tagliamo fuori moltissime importanti domande, quali per esempio:
• Com’è che la percezione dell’immagine corporea è diversa in persone diverse?
• Come si può capire quale sia l’influenza che ha la percezione della propria immagine corporea sul singolo individuo, e come questa moduli la vita quotidiana e le interazioni con gli altri?
• Ci sono altre modalità d’interpretare le problematiche comportamentali, al di là del banale scaricare la colpa sull’immagine corporea?
2. Sottovalutazione del contesto
Come precedentemente detto, le persone sono immerse nell’ambiente esterno che le circonda. Ma finora, tutte le indagini sono state solo ed esclusivamente mirate a valutare come le immagini proposte dai Mass Media potessero influenzare la percezione della propria immagine corporea.
Fortunatamente, sembra che alcuni recentissimi studi stanno cercando di mettere in relazione come l’immagine corporea del singolo possa condizionare di partenza la sua relazione con mondo circostante, ancor prima di ricevere input esterni. Questi studi stanno mettendo in evidenza il fatto che la percezione dell’immagine corporea del singolo individuo non è univoca ed unitaria, ma varia in base al contesto in cui il soggetto si trova (se è in giro con gli amici, se a al lavoro/a scuola, etc…) e in base alle persone con cui interagisce.
3. De-enfatizzare la produzione discorsiva dell’immagine corporea
Quando consideriamo l’immagine corporea come una “cosa reale”, dimentichiamo che c’è un divario tra il modo in cui essa viene percepita, e il modo in cui viene esplicitata. Per cui, anche il fatto che i Mass Media propongano certi tipi di immagine, non ha per tutti la stessa risonanza, e non necessariamente scalfisce la percezione del singolo.
4. Ignorare la natura sociale della percezione
La percezione dei corpi, e del proprio corpo in particolare, può essere valutata comparandola a corpi altrui o al proprio. Inoltre, piuttosto che essere un tutto unitario, l’immagine corporea può concentrarsi su singole parti del corpo.
Dentro uno “schema dell’immagine corporea” i singoli individui possono concentrarsi su certi aspetti, che possono essere diversi da persona a persona. Una persona può anche accettare di avere dei fianchi più ampi, purchè questo comporti l’avere un seno più grosso, se quella è una parte del corpo su cui centra particolarmente la sua attenzione.
5. Distrazione dalla natura dialogica dell’immagine corporea
E’ opinione erronea ma comune che l’influenza dei Mass Media sull’immagine corporea sia unidirezionale. Quest’erronea convinzione sottovaluta significativamente la capacità delle persone di essere senzienti e critiche nei confronti delle immagini trasmesse dai Mass Media.
Lo studio di cui vi parlavo mette in evidenza come le adolescenti, leggendo una rivista modaiola, possano allo stesso tempo gradirla, comparare il proprio corpo a quello delle cover girl, e allo stesso tempo essere consapevoli dell’esistenza del fotoritocco, e criticare quella bellezza del tutto artificiosa. Il che è decisamente il prodotto di una mente senziente.
6. Individuazione delle preoccupazioni per il proprio corpo
Di nuovo, occorre considerare il fatto che noi interagiamo con altre persone. Noi non siamo affatto dei burattini, dei corpi passivi: ci impegnamo nelle relazioni con gli altri, e ci chiediamo cosa loro pensino di noi.
Inoltre, le modalità con cui le persone si relazionano alla propria immagine corporea, variano da individuo ad individuo. Non tutti recepiscono uno stesso messaggio allo stesso modo, e questa è una verità che molto spesso viene considerata ovvia, scontata, e quindi viene sottovalutata.
Dopo tutto ciò con cui vi ho tediato finora, tiriamo le somme: in che modo possiamo relazionarci all’immagine corporea, e rendere questo costrutto più utile? Le autrici dello studio suggeriscono che l’immagine corporea potrebbe essere compresa in maniera migliore se considerata come un attivo, variegato e continuo processo di raffigurazione di se stessi. Tant’è che preferiscono utilizzare il termine “body imaging” anziché “body image”, perché cattura splendidamente la fluidità e la continuatività della costruzione/decostruzione dell’immagine corporea.
Per concettualizzare l’immagine corporea in questo modo, bisogna intenderla come “un processo attivo che l'individuo si impegna a modificare, migliorare, e venire a patti con il proprio corpo in specifici contesti temporali, vitali e relazionali”.
Anziché essere un “prodotto”, l’immagine corporea viene considerate come un’ “attività”, una distinzione che le autrici sottolineano perchè può aiutare a catturare l’esperienza complessissima e riflessiva di essere nel proprio corpo.
Devo dire che il modo in cui quest’articolo reinterpreta l’immagine corporea non mi dispiace affatto. Quel che penso sia particolarmente importante in questo approccio è che, nonostante la resistente retorica dell’ "immagine corporea positiva", quest’articolo sembra fare piccoli progressi in merito alle modalità in cui gli individui che hanno un DCA si possono relazionare al proprio corpo. Questo mi porta a credere che manchi decisamente qualcosa in merito alla comprensione di come ogni singolo individuo si relazioni al proprio corpo, e se, in effetti, l’ “immagine corporea” sia un concetto che è universalmente e uniformemente rilevante per tutte coloro che hanno un DCA.
Questa apparentemente semplice domanda cela in realtà una questione piuttosto controversa: dopotutto, all’immagine corporea viene ascritta una significativa centralità in molti studi (e strategie terapeutiche) relativi ai DCA. Credo che chiunque di noi che abbia un DCA si sia sentita dire almeno una volta nella propria vita, da un qualche medico/psichiatra/psicologo/dietista/nutrizionista che è importante migliorare la percezione della propria immagine corporea, che così facendo si può riuscire a far pace col cibo, con l’esercizio fisico, con gli altri, col DCA. Insomma, per come la mettono alcuni specialisti, sembrerebbe che lavorare sulla propria immagine corporea rappresenti la panacea per la guarigione dall’anoressia, che imparare ad amare il proprio corpo per com’è costituisca la chiave di volta per vincere i DCA.
Mi perdonino suddetti specialisti, ma io non sono d’accordo. Voglio mettere in chiaro che io penso che le intenzioni che stanno dietro la retorica dell’ “immagine corporea positiva” siano fondamentalmente buone, forse persino ammirevoli (sebbene un tantinello utopiche, a mio avviso). Tuttavia, mi ha colpito molto il modo in cui le autrici del suddetto studio hanno esplicitato che le ipotesi che stanno alla base della corrente concettualizzazione dell’ “immagine corporea” possono limitare la comprensione di come gli individui vi si relaziono, e di come agiscono con e sul proprio corpo.
Quali sono i postulati che stanno alla base dell’attuale concetto di “immagine corporea”?
1 - Che l’immagine corporea “esiste”.
2 – Che l’immagine corporea è un prodotto (socialmente mediato) della percezione.
3 – Che l’immagine corporea è un qualcosa di interiore.
4 – Che l’immagine corporea può essere trattata come se fosse reale, ed accuratamente valutata.
5 – Che le persone forniscano risposte neutre in merito all’immagine corporea di sé che hanno nella propria testa.
1. POSTULATO: L’IMMAGINE CORPOREA “ESISTE”
Pensateci bene: questo in realtà non è così strano come potrebbe sembrare. Poiché l’immagine corporea è compresa e studiata, si presume che sia una “cosa” che tutti gli individui possiedono e cui si relazionano. Che questa “immagine” sia accurata o meno, i ricercatori danno per scontato che ogni singola persona ce l’abbia. Altrimenti, che senso avrebbe valutare l’immagine corporea?
Tradizionalmente, l’immagine corporea viene definita come: “l'immagine del nostro corpo che formiamo nella nostra mente, vale a dire, il modo in cui il corpo appare a noi stessi” (Schilder, 1950). Rudd & Lennon (2000), espandono questa definizione includendo le percezioni e gli atteggiamenti tenuti verso il proprio corpo.
Proprio come altri costrutti, questo postulato (l’esistenza dell’immagine corporea) rende l’immagine corporea misurabile, valutabile, e idealmente ci permettono di spiegare perché le persone si comportano in un certo modo nei confronti del proprio corpo. Per esempio, alcuni ricercatori avevano ipotizzato che una sostanziale inaccuratezza della percezione dell’immagine corporea fosse ciò che spingeva le persone con un DCA a cercare di dimagrire costantemente, a prescindere dal loro peso reale. (Non è in realtà così.)
2. POSTULATO: L’IMMAGINE CORPOREA E’ UN PRODOTTO (SOCIALMENTE MEDIATO) DELLA PERCEZIONE
Se si parte dall’assunto che l’immagine corporea è una “cosa” che si genera nella mente umana, ecco che viene spontaneo concludere che allora essa è creata attraverso la nostra percezione. Delle vecchissime ricerche sui DCA erano innamorate dell’idea dell’esistenza di una discrepanza nella percezione dell’immagine corporea. Mi riferisco agli studi di psicologi quali Bruch (1962) e Slade & Russell (1973), che non la smettevano più di insistere su quanto le persone malate di anoressia non riuscissero a vedere il proprio corpo per quello che realmente era. (L’anoressia non è una malattia della vista, buongiorno!) Questi sono meramente 2 esempi del modo in cui la psicologia si è sempre concentrata (eccessivamente!) sulla percezione dell’immagine corporea.
Nonostante tutti questi tentativi di mettere ampiamente in risalto la centralità dell’immagine corporea nei DCA, nessuno degli studi di questo tipo è mai riuscito a trovare una relazione statisticamente significativa tra stima delle proprie dimensioni corporee ed insoddisfazione per il proprio aspetto. Nessuno. L'attenzione percettiva pone anche l'accento sulle cose che "distorcono" la percezione, come le pressioni culturali e psicologiche. Ricerche più recenti si sono concentrate sulle discrepanze nella percezione dell’immagine corporea, per esempio chiedendo a delle donne di scegliere quale corpo tra vari esempi mostrati sarebbe stato il loro "ideale", trovando spesso che le donne scelgono corpi più magri del proprio; ma nessuna di queste ricerche riesce a dimostrare se e quanto questo abbia un impatto sui pensieri, comportamenti e relazioni.
3. POSTULATO: L’IMMAGINE CORPOREA E’ UN QUALCOSA DI INTERIORE
L’immagine corporea viene spesso descritta come un qualcosa che “appartiene” all’individuo. Gli individui, naturalmente, agiscono ed impattano nel mondo che li circonda. Tuttavia, alla fine della fiera, ci sono una serie di forze che vengono viste come agenti sull’individuo, ed influenzanti l’immagine mentale che essi hanno sul proprio corpo. Nonostante la raffica di ricerche mirate a valutare l’influenza dei fattori esterni sull’immagine corporea, non abbiamo in realtà alcuna certezza o conferma su come esattamente le immagini proposte dai Mass Media, possano impattare sulla percezione dell’immagine corporea.
4. POSTULATO: L’IMMAGINE CORPOREA PUO’ ESSERE TRATTATA COME SE FOSSE REALE, ED ACCURATAMENTE VALUTATA
Questo postulato riecheggia il primo della lista, e fa fiorire una marea di critiche sulle modalità con cui l’immagine corporea viene valutata.
• L’immagine corporea dev’essere semplificata per poter essere valutata: per esempio, con gli studi che chiedono alle partecipanti di scegliere il proprio corpo ideale tra 9 diverse shilouettes proposte, che possono o meno includere l’immagine corporea “ideale” presente nella testa delle partecipati.
• Le risposte differenti e di un numero limitatissimo di donne vengono considerate rappresentative delle differenze percettive “reali”.
• Queste diverse risposte vengono trattate come se fossero intrinsecamente significative: ogni discrepanza da esse viene valutata come “insoddisfazione”.
5. POSTULATO: LE PERSONE FORNISCONO RIPOSTE NEUTRE IN MERITO ALL’IMMAGINE CORPOREA DI SE’ CHE HANNO NELLA PROPRIA TESTA
Le persone sono generalmente consapevoli che la loro esistenza è inscritta in un particolare ambiente culturale. Se anche un individuo può rispondere ad un questionario affermando che la sua immagine corporea “ideale” è più magra del loro corpo ideale, questo non dice sostanzialmente niente su quanto questo incida nella lista delle priorità di vita dell’individuo.
La maggior parte delle donne potrebbe dire di voler essere, in misura più o meno ampia, più magra di quello che è, ma solo un’irrisoria percentuale di esse si ammala di anoressia. Ergo, non esiste alcuna correlazione diretta tra le 2 cose, perché se ci fosse una reazione causa-effetto, tutte quelle donne si ammalerebbero. E questa è la dimostrazione del fatto che i DCA sono malattie multifattoriali determinate da così tante cause che eventuali discrepanze sulla percezione dell’immagine corporea possono avere un ruolo minimale o addirittura nullo sullo sviluppo di un DCA.
Quello che secondo me dovremmo fare, perciò, è ri-concettualizzare i problemi.
1. Focus di ricerca ristretto
L’immagine corporea è un qualcosa di estremamente complesso e variegato. Se diamo per scontato che l’immagine corporea sia semplicemente il mediatore tra pensiero ed azione, tagliamo fuori moltissime importanti domande, quali per esempio:
• Com’è che la percezione dell’immagine corporea è diversa in persone diverse?
• Come si può capire quale sia l’influenza che ha la percezione della propria immagine corporea sul singolo individuo, e come questa moduli la vita quotidiana e le interazioni con gli altri?
• Ci sono altre modalità d’interpretare le problematiche comportamentali, al di là del banale scaricare la colpa sull’immagine corporea?
2. Sottovalutazione del contesto
Come precedentemente detto, le persone sono immerse nell’ambiente esterno che le circonda. Ma finora, tutte le indagini sono state solo ed esclusivamente mirate a valutare come le immagini proposte dai Mass Media potessero influenzare la percezione della propria immagine corporea.
Fortunatamente, sembra che alcuni recentissimi studi stanno cercando di mettere in relazione come l’immagine corporea del singolo possa condizionare di partenza la sua relazione con mondo circostante, ancor prima di ricevere input esterni. Questi studi stanno mettendo in evidenza il fatto che la percezione dell’immagine corporea del singolo individuo non è univoca ed unitaria, ma varia in base al contesto in cui il soggetto si trova (se è in giro con gli amici, se a al lavoro/a scuola, etc…) e in base alle persone con cui interagisce.
3. De-enfatizzare la produzione discorsiva dell’immagine corporea
Quando consideriamo l’immagine corporea come una “cosa reale”, dimentichiamo che c’è un divario tra il modo in cui essa viene percepita, e il modo in cui viene esplicitata. Per cui, anche il fatto che i Mass Media propongano certi tipi di immagine, non ha per tutti la stessa risonanza, e non necessariamente scalfisce la percezione del singolo.
4. Ignorare la natura sociale della percezione
La percezione dei corpi, e del proprio corpo in particolare, può essere valutata comparandola a corpi altrui o al proprio. Inoltre, piuttosto che essere un tutto unitario, l’immagine corporea può concentrarsi su singole parti del corpo.
Dentro uno “schema dell’immagine corporea” i singoli individui possono concentrarsi su certi aspetti, che possono essere diversi da persona a persona. Una persona può anche accettare di avere dei fianchi più ampi, purchè questo comporti l’avere un seno più grosso, se quella è una parte del corpo su cui centra particolarmente la sua attenzione.
5. Distrazione dalla natura dialogica dell’immagine corporea
E’ opinione erronea ma comune che l’influenza dei Mass Media sull’immagine corporea sia unidirezionale. Quest’erronea convinzione sottovaluta significativamente la capacità delle persone di essere senzienti e critiche nei confronti delle immagini trasmesse dai Mass Media.
Lo studio di cui vi parlavo mette in evidenza come le adolescenti, leggendo una rivista modaiola, possano allo stesso tempo gradirla, comparare il proprio corpo a quello delle cover girl, e allo stesso tempo essere consapevoli dell’esistenza del fotoritocco, e criticare quella bellezza del tutto artificiosa. Il che è decisamente il prodotto di una mente senziente.
6. Individuazione delle preoccupazioni per il proprio corpo
Di nuovo, occorre considerare il fatto che noi interagiamo con altre persone. Noi non siamo affatto dei burattini, dei corpi passivi: ci impegnamo nelle relazioni con gli altri, e ci chiediamo cosa loro pensino di noi.
Inoltre, le modalità con cui le persone si relazionano alla propria immagine corporea, variano da individuo ad individuo. Non tutti recepiscono uno stesso messaggio allo stesso modo, e questa è una verità che molto spesso viene considerata ovvia, scontata, e quindi viene sottovalutata.
Dopo tutto ciò con cui vi ho tediato finora, tiriamo le somme: in che modo possiamo relazionarci all’immagine corporea, e rendere questo costrutto più utile? Le autrici dello studio suggeriscono che l’immagine corporea potrebbe essere compresa in maniera migliore se considerata come un attivo, variegato e continuo processo di raffigurazione di se stessi. Tant’è che preferiscono utilizzare il termine “body imaging” anziché “body image”, perché cattura splendidamente la fluidità e la continuatività della costruzione/decostruzione dell’immagine corporea.
Per concettualizzare l’immagine corporea in questo modo, bisogna intenderla come “un processo attivo che l'individuo si impegna a modificare, migliorare, e venire a patti con il proprio corpo in specifici contesti temporali, vitali e relazionali”.
Anziché essere un “prodotto”, l’immagine corporea viene considerate come un’ “attività”, una distinzione che le autrici sottolineano perchè può aiutare a catturare l’esperienza complessissima e riflessiva di essere nel proprio corpo.
Devo dire che il modo in cui quest’articolo reinterpreta l’immagine corporea non mi dispiace affatto. Quel che penso sia particolarmente importante in questo approccio è che, nonostante la resistente retorica dell’ "immagine corporea positiva", quest’articolo sembra fare piccoli progressi in merito alle modalità in cui gli individui che hanno un DCA si possono relazionare al proprio corpo. Questo mi porta a credere che manchi decisamente qualcosa in merito alla comprensione di come ogni singolo individuo si relazioni al proprio corpo, e se, in effetti, l’ “immagine corporea” sia un concetto che è universalmente e uniformemente rilevante per tutte coloro che hanno un DCA.
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