Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 30 novembre 2012

L' "okay plateau"

In questi giorni ho finito di leggere un libro intitolato “Moonwalking with Einstein”. È un libro che parla della scienza della memoria e di come un giornalista è riuscito a diventare il campione statunitense di memorizzazione. L’autore, Joshua Foer, menziona una cosa che chiama l’ “okay plateau”. Riferisce questo plateau alle proprie capacità di memorizzazione. Dice che l’allentamento continuo nella memorizzazione ha migliorato enormemente le sue capacità in tal senso, ma non abbastanza da competere a livello nazionale.

(Ebbene sì, negli U.S.A. esistono delle gare di memorizzazione…per quanto a noi possa sembrare assurdo, per loro fare queste gare è una cosa assolutamente usuale.) 

Dunque, l’ “okay plateau” è una sorta di punto di stallo tra il punto in cui siamo e quello in cui si vorrebbe arrivare. Vai bene, ma non sei eccezionale. Puoi farlo a livello amatoriale, ma non a livello agonistico. Una via di mezzo.

Ecco, secondo me in questo c’è una forte analogia col percorso di ricovero da un DCA. Si possono migliorare molto i nostri comportamenti più esteriori nei confronti del cibo e del corpo, e così molte persone possono pensare che siamo “guarite”. Ma noi in realtà sappiamo di non esserlo… siamo ancora nella via di mezzo. Abbiamo ancora certi pensieri distorti e certe fisse, sebbene la nostra salute fisica non sia più nell’immediato pericolo. Si può funzionare, anche se non in maniera ottimale. Se le persone vi stanno intorno solo per un lasso di tempo non molto lungo, in genere non si rendono conto del vostro DCA. Abbiamo raggiunto l’ “okay plateau”.

Per quelli che sanno la verità, invece, è più facile cogliere i segnali del DCA stesso. La lentezza nel finire i pasti, il non indossare determinati capi d’abbigliamento, la necessità di avere comunque altri tipi di “rituali di controllo”. Forse per qualcuno tutte queste sono cose insignificanti, e se si comporta così una persona che non ha mai avuto un disordine alimentare, il suo comportamento può essere a tutti gli effetti normale, semplice conseguenza della sua caratterialità. Ma questi non sono comportamenti “normali”… non per chi ha e sta combattendo un DCA.

Disconnettere noi stesse dall’ “okay plateau” è difficile. Foer dice: perché esso dà sicurezza. Perché sappiamo come starci, quale precario equilibrio tenere. Chi si sposta da una posizione per raggiungerne un’altra, si espone ad un rischio. Questo fa paura. Quindi si rimane bloccate nell’ “okay plateau” molto a lungo.

È proprio così che va il percorso di ricovero dall’anoressia. Riprendere peso è decisamente difficile, ma non è la cosa peggiore. Nutrendosi in maniera corretta, l’aumento di peso è fisiologico e molto graduale, dunque un qualcosa con cui possiamo tutto sommato relazionarci. I progressi che facciamo in tal senso possono essere facilmente misurati, quantificati. Ma uscire dall’ “okay plateau” a livello mentale, è incredibilmente molto, molto più difficile. Non si tratta semplicemente di seguire l’ “equilibrio alimentare” prescritto dalla dottoressa di turno, ma di lavorare su noi stesse, sulla nostra mentalità, sulla nostra personalità. Occorre sviluppare maggiore flessibilità mentale. Occorre imparare a gestire l’ansia. E, soprattutto, occorre scavare dentro noi stesse per capire quali sono i nostri veri problemi, quelli per i quali abbiamo avuto bisogno di un tampone come l’anoressia. Cose che non hanno niente a che vedere con il cibo, ma che rappresentano i nostri più veri e profondi problemi, ciò che ci ha fatto usare l’anoressia come strategia di coping.

Averne abbastanza – ovvero segnale di pericolo “sto-per-gettare-la-spugna-e-smettere-di-combattere-contro-il-DCA” – è molto facile non solo perchè spostarsi dall’ “okay plateau” richiede una fatica pazzesca, ma anche perchè può subentrare il pensiero scoraggiante che siamo lì bloccate senza possibilità di miglioramento. Ma non è così. Arrivare all’ “okay plateau” è un passo cruciale, ma ciò non significa che siamo arrivate. Ci vuole tanto, ma è possibile renderci pienamente conto di questo, e comprendere la differenza tra dove siamo adesso, e dove potremo essere. Se solo continuiamo a combattere.

venerdì 23 novembre 2012

Consiglio per le evitanti

Girovagando su Internet ho trovato una frase che ha attirato la mia attenzione:

"Emotivamente, tutto quello che vuoi è scappare. Ma per quella che è la mia esperienza, se fissi il pitbull che sta nel giardino di qualcuno, è meglio che rimani immobile dove sei. Affronta il problema. In questo modo, non può darti un morso nel didietro”. 

Generalmente, chi ha un DCA tende a scappare via dai veri problemi ad esso sottesi. Lo stesso concentrare l’attenzione sulla restrizione alimentare è un modo per non fissarla su qualcos’altro. Il fatto è che i problemi non se ne vanno solo perchè ci si concentra su pensieri e si hanno una serie di comportamenti tipici del DCA. Restano lì. E, se non li affrontiamo ma continuiamo a nasconderci dietro l’anoressia, aumentano sempre di più.

La frase che ho citato all’inizio del post centra bene il concetto di che cos’è il “ricovero” dall’anoressia: imparare ad affrontare i pitbull faccia-a-faccia. L’anoressia ci permette di evitare i problemi della vita quotidiana che ci spaventano e che pensiamo di non essere capaci di affrontare. Si corre via, il che sul momento può apparire come una “liberazione”, ma poi si finisce inevitabilmente con un bel po’ di morsi nel sedere. Sebbene l’impulso sia quello di voltarsi e correre via quanto più velocemente possibile, quel che bisogna imparare a fare è rimanere ferme ed affrontare i veri problemi.

L’evitamento è, secondo me, uno dei motivi per cui è così difficile separarsi da un DCA. Nel momento in cui canalizziamo tutte le nostre energie nell’anoressia, ogni qualsiasi altro aspetto della nostra vita (problemi compresi, quindi) sfuma. Tutti i pensieri si centrano, a seconda del tipo di DCA, sulla restrizione alimentare, sulle abbuffate, sulle condotte di compensazione, e tutti gli altri problemi sembrano ben meno… problematici. Perché diventano secondari al DCA stesso. Tutti i veri problemi che abbiamo possono essere paragonati ai pitbull: ne fuggiamo via. E loro ci mordono nel didietro. E più corriamo via, più i loro denti affondano.

E non dimentichiamo che la stessa anoressia, inizialmente vista come una “soluzione”, finisce per creare essa stessa dei problemi, dei nuovi pitbull. Si cade tanto più nella spirale discendente di un DCA quanto più si cercando di evitare i problemi che il DCA stesso crea. Perché sembra più semplice evitarli ponendo il DCA stesso in qualità di schermo, che affrontare tutti i casini della nostra vita cercando di fare ordine.

Tuttavia, l’evitamento dei veri problemi dà sollievo a breve termine: sul momento si ha certamente una riduzione dell’ansia, ma quella stessa ansia continua ad accumularsi a monte, e questo innesca una sorta di circolo vizioso che rinforza il DCA per fornire uno schermo ancora maggiore all’ansia, e così via. Affrontare i problemi, quali che siano (relazionarsi con gli altri, accettare il proprio ruolo in una situazione negativa, mangiare quei particolari cibi…) è certamente molto più duro e difficile, però non è un palliativo, a differenza dell’anoressia. Sul momento si sta peggio, ma affrontare quei problemi arrecherà benessere a lungo termine.

Una delle cose più difficili da fare in un percorso di ricovero è smetterla di scappare dai problemi da cui vorremmo solo scappare. L’anoressia non è un modo per cancellare i problemi, è solo un modo per evitarli… e per evitare la vita. Eppure bisogna imparare ad affondare tutto quello che ci ha fatte ammalare. Ed è difficile. Molto difficile. Perché siamo così abituate all’evitamento, che affrontare i problemi e la vita fa un’immensa paura. Eppure, anche questo è un passo avanti sulla strada del ricovero, anche questa e una sfida. E non c’è nient’altro da dire tranne: afffrontiamola a testa alta.

venerdì 16 novembre 2012

Voler vivere con l'anoressia??

Okay. Sono pronta a scommettere che chiunque legge questo mio blog, ne segue almeno un altro paio che trattano sempre di disturbi alimentari. E che, pertanto, tutte avranno notato che ci sono blog tenuti da ragazze che, pur avendo un DCA, non figurano l’idea di poterlo combattere, in quanto sostengono che il DCA sia parte integrante di se stesse e della loro vita, e/o lo considerano comunque una scelta vantaggiosa. Non sto parlando delle ragazze che si autodefiniscono “pro-ana”, "pro-mia" e cazzatelle affini, mi riferisco piuttosto a quelle persone che utilizzano i propri blog come una sorta di “valvola di sfogo” nel tentativo di buttare fuori un po’ della merda che il DCA quotidianamente riversa nelle loro vite, ma che nonostante la consapevolezza di quanto il DCA sia distruttivo, sono restie ad iniziare un percorso di ricovero. Avrete anche notato che si tratta per lo più di ragazze che hanno l’anoressia, e che invece chi soffre di bulimia o di binge non percepisce positivamente il suo DCA – cosa che trovo piuttosto interessante, ma ci tornerò più avanti.

Dunque, ricapitolando: si tratta di ragazze che hanno un DCA conclamato, diagnosticato, che in taluni casi in passato hanno anche intrapreso percorsi di ricovero che poi però hanno abbandonato, e che nonostante razionalmente si rendano conto della pericolosità dei DCA per la propria salute, per una ragione o per un’altra non si sentono pronte a staccarsi dal loro disturbo alimentare – il che, ad una lettura superficiale, può far pensare che queste ragazze vogliano rimanere malate, ma secondo me le cose non stanno proprio così… comunque, ci tornerò su tra qualche minuto.

Allo stesso tempo, ci sono il mio blog e tutta una serie di blog con contenuti affini, che potrebbero essere indicati come spiccatamente “pro-ricovero”. Insomma, tutti quei blog tenuti da ragazze che parimenti hanno un DCA, ma che sono già fermamente decise a combatterlo. E che, talvolta, rimangono (rimaniamo, mi ci metto anch’io) un po’ stizzite di fronte a quelle che dicono di voler perseverare nel loro DCA.

Osservando questa dicotomia tra blog che trovo molto interessante, mi è venuto inevitabilmente da chiedermi: cosa rende diverse le ragazze che dicono di voler vivere col DCA, da quelle che dicono di volerlo combattere? La mia risposta è stata: NIENTE. Perché sono dell’idea che chiunque scriva che non vuole combattere contro l’anoressia non significa necessariamente che quella persona voglia avere l’anoressia. Se state leggendo questo post e appartenete a coloro che sono dell’idea di voler vivere con il proprio DCA, dopo aver letto questo probabilmente starete pensando: “No no no no no. Hai torto, hai torto. Non ne sai niente di tutto questo, evidentemente non sai cosa significhi avere l’anoressia.” (E invece, purtroppo, lo so fin troppo bene.) Ma lasciate un attimo che vi spieghi. Io credo che il dire di non voler combattere contro l’anoressia non significa desiderare di avere l’anoressia in sé.

Io sono fermamente convinta che l’anoressia sia utilizzata come simbolo di tutte le cose che nella vita di una persona vanno storte. Una strategia di coping, insomma: non è importante in sé, è importante per quello che rappresenta, per quello che va a tappare.

E, ovviamente, a questo punto le persone che stanno leggendo e che non contemplano l’idea di combattere contro l’anoressia, dissentiranno con quanto ho appena scritto, e diranno: “No, ma io voglio davvero essere anoressica. Ce l’ho da così tanto tempo, che ormai fa parte di me, non mi ricordo nemmeno di com’era la mia vita prima dell’anoressia, ma ora l’anoressia è nella mia vita e mi va bene così. Voglio davvero restringere l’alimentazione, perdere peso, bruciare calorie, insomma, voglio davvero continuare a tenere questo comportamento.” Bè, poco ma sicuro, voi davvero DESIDERATE continuare a tenere questo comportamento. Lo desiderate. Lo so. Ma perchè?

Si pone dunque la questione: “Perchè qualcuna vuole davvero questo?”. E le ragioni possono essere estremamente complesse e numerose, variabili da persona a persona, ma una di queste, comune a tutte, credo che sia il fatto che c’è il bisogno di controllo. Nessuna in realtà vuole l’anoressia in sé – ma tutte si vuole la sensazione di controllo che deriva dal riuscire a restringere l’alimentazione. Ha un senso, no? Voglio dire, non penso che chiunque abbia un DCA possa essere completamente in disaccordo con questo. Chi di voi potrebbe dirmi, in onestà, che non vuole sentirsi in controllo? Che non vuole sentirsi come se, controllando l’alimentazione, potesse tenere a bada l’ansia e quindi avere la (illusoria) sensazione di poter controllare ogni ambito della propria vita e piegarlo a proprio piacimento? Chi non vuole sentirsi forte e sicura di se stessa almeno in qualcosa come la restrizione alimentare?

Chiunque, nella vita, ha piacere a sentirsi sicuro di sé in qualcosa, ha piacere a sentire che sta controllando qualcosa. È solo che le persone che hanno un DCA intraprendono una via patologica per ottenere queste sensazioni. Non è il desiderio di controllo in sé ad essere patologico – è il modo in cui esso si manifesta.

Inoltre, ho avuto modo di notare, nessuna delle persone che ha avuto un DCA lo considera come un qualcosa di assolutamente negativo perché, se non altro, è stato “grazie” al DCA che hanno ricevuto l’aiuto di cui avevano bisogno, ma che non avrebbero ottenuto altrimenti – ed è questa, secondo me, un’altra delle ragioni per cui certe ragazze si dichiarano non convinte di voler combattere contro l’anoressia. In fin dei conti, se una ragazza ha un DCA, e tutte le persone intorno sono così preoccupate per la sua perdita di peso, sono così preoccupate per la sua magrezza eccessiva, sono così preoccupate per la sua mancanza del ciclo, sono così terrorizzate all’idea che quella ragazza possa morire, e così via – ecco che vengono ottenute cose che altrimenti non si sarebbero potute avere. Questa è la triste realtà di un disturbo alimentare. Di ogni qualsiasi disturbo alimentare, anche se l’anoressia è il caso più eclatante.

Con un DCA si ottiene la possibilità di poter parlare con uno psicoterapeuta, si ottiene l’attenzione, l’ascolto e l’affetto delle persone che stanno intorno, molto più di quanto quelle persone dedicavano attenzione, ascolto ed affetto prima che il disturbo alimentare esordisse. E, allo stesso tempo, per la maggior parte del tempo, chi ha un DCA dentro di sé non vorrebbe tenere tutti i comportamenti tipici del disturbo stesso… vorrebbe solo ottenere dagli altri le cose che ottiene quando tiene quei comportamenti. E questa, per alcune, può sembrare una valida ragione per non combattere seriamente contro l’anoressia.

Voglio dire, se c’è una ragazza che non si sente presa in considerazione, che ha la sensazione che a chi le sta vicino non interessi niente di lei, che si sente messa in disparte, e poi scopre che se tiene dei comportamenti alimentari erronei allora tutti si preoccupano per lei e le stanno vicini – e lei si sente considerata, sente l’affetto altrui, la loro preoccupazione per ciò che sta facendo – perché non dovrebbe portare avanti quel comportamento alimentare erroneo? È qui che la mente s’auto-inganna.

“Qual è una buona ragione per combattere contro l’anoressia?” è dunque l’altra cosa che si chiedono queste ragazze. E questa domanda è la ragione per cui certe ragazze abbandonano la psicoterapia e si trincerano dietro il proprio disturbo alimentare. È la ragione per cui dicono di non voler intraprendere la strada del ricovero. È perché temono che, migliorando il loro stato di salute, potrebbero venir meno l’affetto e l’attenzione che l’anoressia ha calamitato su di loro. (Al solito, parlo di “anoressia” semplicemente perché si tratta del mio DCA e perciò mi viene più spontaneo, ma ovviamente quanto scritto ritengo valga per ogni qualsiasi disturbo alimentare.)

E la ragione – e qui mi riallaccio con quanto avevo scritto all’inizio del post – per cui l’atteggiamento “non voglio mollare il DCA” è più frequente in chi ha l’anoressia che non in chi ha la bulimia o il binge, è perché spesso chi ha questi ultimi due DCA è normopeso o sovrappeso. E così riceve comunque poche attenzioni da chi gli sta intorno. Inoltre, da quel che ho capito parlando con ragazze che hanno questi due DCA, l’abbuffata e il vomito auto-indotto vengono vissuti come una perdita di controllo, e questo riporta all’altro aspetto di chi ho già parlato. Comportamenti di questo tipo, peraltro, inducono da parte degli altri commenti quali: “Perché non la smetti di mangiare così tanto? Perché non provi a perdere qualche chilo?”. Il che è estremamente sciocco, perché è come dire a una persona che ha l’anoressia: “Perché mangi così poco? Perché non provi a prendere qualche chilo?”. Non è così semplice ed immediato. Non è mai così semplice ed immediato. Se lo fosse, non credete che chiunque abbia un DCA impiegherebbe straordinariamente poco per guarire?!...

Dunque, tirando le somme. Io penso che chiunque affermi di voler convivere con un DCA conclamato, in realtà vuole combatterlo, o potrebbe facilmente essere sul punto di pensare di volerlo combattere. Ha solo timore che, una volta migliorate le condizioni fisiche, tutti gli altri pensino che sta finalmente bene, e che non ha più alcun tipo di problema; visto che la maggior parte della gente che non ha vissuto un DCA tende ad associare la guarigione dall’anoressia al recupero di un peso e di un aspetto decente, e che quindi nessuno possa poi più curarsi di loro, e che quindi tornino esattamente nella situazione di partenza. Ma chi ha vissuto un disturbo alimentare, chi lo vive, sa che la fisicità è solo la cosa più superficiale. E che combattere contro l’anoressia significa molto, molto, MOLTO di più del mero recuperare qualche chilo. Perché i veri problemi che vengono esternalizzati con una strategia di coping quale l’anoressia, sono molto più profondi ed intricati della banale restrizione alimentare.

Se combattere contro l’anoressia significasse essere prese in considerazione, ascoltate, aiutate nei momenti di difficoltà anche senza avere un DCA conclamato e senza tenere i comportamenti alimentari erronei tipici del DCA stesso – avere le stesse attenzioni che si hanno quando si ha un DCA conclamato ma senza bisogno di restringere l’alimentazione/abbuffarsi/vomitare, o qualsiasi cosa ciascuna di noi faccia col cibo – nonché riuscire comunque a sentirsi forti, sicure di sé, in controllo, e speciali, io credo che chiunque vorrebbe combattere contro l’anoressia senza pensarci due volte. Io penso che le ragazze che dicono di non volersi opporre all’anoressia, temano di perdere quelle sensazioni e quelle attenzioni che l’anoressia per la prima volta nella loro vita gli permette di percepire e di ricevere, ed è per questo che dicono di non voler abbandonare la restrizione alimentare. Ma il punto è che abbiamo una voce proprio per esprimere quello che non ci va, anziché proiettarlo sul corpo e lasciare che sia lui a parlare per noi. E che possiamo essere speciali anche senza l’anoressia, perché non è una malattia che può renderci tali, ma solo la nostra personalità e il modo in cui ci rapportiamo alla vita.

Ovvio, questo è solo il mio punto di vista… In ogni caso, se siete o non siete d’accordo con quello che ho scritto, fatemelo sapere nei commenti. Questo è quel che io penso delle ragazze che tengono dei blog o che mi scrivono via e-mail dicendomi che non sono affatto convinte di voler combattere contro l’anoressia. E voi, che ne pensate? Lasciatemi il vostro feedback nei commenti, se vi va!

venerdì 9 novembre 2012

Perchè chiedersi perchè?

Se c’è una domanda che mi è stata fatta millemila volte, questa è: Perchè ti sei ammalata di anoressia?
È una domanda cui volevo conoscere la risposta sia per soddisfare la mia naturale curiosità, sia perché per molto tempo sono stata convinta che, se avessi capito questo, avrei compiuto la svolta fondamentale nel mio percorso di ricovero.

L’idea sottostante questo pensiero era il semplice assunto: Se riesco a capire perché ho iniziato a restringere l’alimentazione, allora troverei la chiave per smettere di farlo.

Il problema sta nel fatto che quest’assunto è di per sè sbagliato. In fin dei conti, ad oggi sappiamo perché il pancreas smette di produrre insulina negli individui affetti da Diabete Mellito di Tipo I, ma tale conoscenza non permette al pancreas di ricominciare magicamente a produrre quest’ormone. Allo stesso modo, comprendere quelle che sono state le nostre personali motivazioni all’anoressia, non significa che possiamo cambiare tutto di punto in bianco.

Il punto è che se si comincia ad arrovellarsi eccessivamente sulle motivazioni tali per cui, si finisce per perdersi in una marea di “perchè” inconcludenti. Anche se si riuscisse a trovare una parziale risposta, ciò non significa che questa farà d’incanto cessare il nostro comportamento alimentare scorretto. Inoltre, più si scava e più si troverà da scavare, per cui sarebbe impossibile trovare una risposta a tutti i “perché”, inutile scervellarsi all’eccesso.

Con questo non voglio assolutamente dire che non bisogna chiedersi perchè si sia sviluppato un DCA, ma voglio semplicemente dire che la domanda “perchè?” non è la più utile da farsi. Penso che sarebbe meglio impiegare il proprio tempo chiedendosi cose come:

• Quali sono i momenti/le situazioni che più facilmente possono indurmi ad avere una ricaduta?
• Come posso stare meglio? Come posso mantenermi sulla strada del ricovero?
• Quali sono I “campanelli d’allarme” che mi possono far capire che sto per avere una ricaduta?
• Quali sono i reali benefici che un DCA può darmi? E quail quelli che può darmi il percorrere la strada del ricovero?
 • Quali sono le persone che possono darmi una mano mentre percorro questa strada difficile?

Non penso che comprendere i perchè nascosti dietro un DCA possa essere particolarmente doloroso. In fin dei conti, capire che il vero problema non è il cibo ma tutta una serie di problemi personali, quotidiani e relazionali che sfociano sul cibo, certamente aiuta a delocalizzare l’attenzione e concentrare le forse su ciò che bisogna davvero combattere. Il mio problema relativo al chiedersi perché stava nel fatto che credevo che conoscere la risposta significasse automaticamente avere una svolta nel mio percorso di ricovero. È una bella teoria, ma ora come ora ritengo sia anche una visione largamente ottimistica del modo in cui il nostro cervello lavora.

Inoltre una teoria di questo tipo, volendola generalizzare, presuppone l’assunto che ragazze malate di anoressia/bulimia/DCAnas siano fin dal primo momento razionalmente consapevoli della loro malattia – e questo non è sostanzialmente mai il caso. Così come inizialmente non si riescono a razionalizzare i comportamenti sbagliati che il DCA induce: sono più che altro compulsioni. Se una persona ha un OCD (DOC), se ne frega altamente del perché stia facendo una determinata cosa. Può anche comprenderlo, ma in quel momento tutto ciò che desidera è sentirsi meglio. Dover ricominciare a mangiare regolarmente seguendo un "equilibrio alimentare" prescritto da un dietista può spaventare una persona affetta da anoressia, e questa sensazione di spavento c’è e basta, sta lì, non si chiede la sua ragion d’essere. Il cervello non ragiona razionalmente di fronte ai sentimenti.

Non dobbiamo per forza conoscere ogni minimo dettaglio del perchè stiamo facendo una determinate cosa, al fine di smettere di farla. Certo, capire perché la facciamo può darci una mano, ma non è assolutamente necessario. L’importante è farla. L’importante è combattere contro il DCA. Pertanto, la domanda che vorrei fare a chi mi chiede perché io mi sia ammalata di anoressia, è: Perché un sacco di gente continua ad insistere a chiedermi il perché io mi sia ammalata di anoressia?

venerdì 2 novembre 2012

Evitare la verità

Sebbene si senta frequentemente parlare del potere della conoscenza, molto spesso l’ignoranza pare comunque preferibile. Soprattutto se si ha un DCA, e si arriva al punto in cui bisogna guardarci in faccia e dirci la verità.

Mi sono chiesta perchè sia così difficile ammettere di avere un DCA e soprattutto raccontarci la verità a proposito di quelli che sono i veri problemi sottostanti che si sono concretizzati clinicamente sotto forma di disturbo alimentare. Sono arrivata alla conclusione che ci siano 3 motivi principali:

1. Ammettere che si ha un DCA richiede un cambiamento di ciò in cui si crede. A ben pensarci, infatti, si ricercano sempre input che confermino quelle che sono le nostre credenze, e si escludono automaticamente quelli che le contrastano.

2. Ammettere che si ha un DCA richiede il successivo compimento di azioni indesiderate. Poiché razionalmente si è consapevoli che il DCA è un qualcosa di pericoloso per la salute, ammetterlo significa, in coscienza, iniziare a combatterlo: andare dai medici, mettere al corrente i familiari, talora andare in clinica… tutte cose estremamente ansiogene. Allora si preferisce continuare a tenere gli occhi chiusi.

3. Ammettere che si ha un DCA ci fa provare emozioni negative. In netto contrasto con tutte le sensazioni emotivamente piacevoli che invece l’anoressia stessa ci aveva fatto provare.

Penso che questi 3 punti, per quanto semplicistici, centrino bene il motivo tale per cui è così difficile iniziare il percorso di ricovero. Per farlo, infatti, bisogna affrontare la verità ammettendo che si è malate, che non si ha il controllo del nostro DCA (e di nessun ambito della nostra vita), che bisognerà iniziare un percorso mirato a porre fine a questi comportamenti alimentari dannosi per la nostra salute. È tanta roba.

Iniziare a percorrere la strada del ricovero significa dover accettare un sacco di verità tutt’altro che piacevoli, e non sempre si è pronte a questo. Il problema è che continuare ad ignorare (o a fingere d’ignorare) la verità, non la rende comunque meno vera.

L’essere umano presenta una sorta di peculiare cecità selettiva verso i problemi che lo riguardano. Da tener presente, peraltro, che questa cecità è individuale, e che gli esterni vendono invece come stanno le cose. Possiamo evitare la verità creandoci il nostro universo alternativo, e talvolta le differenze sono veramente sottili. Non siamo poi così in ritardo, oh, insomma, non troppo in ritardo, oh, insomma, non quando è veramente importante arrivare in orario. E che diamine, in fin dei conti, chi non ha peculiarità riguardo la propria alimentazione? Ci sono un sacco di persone che pesano meno di noi e che sono comunque in salute…. Ma man mano che il DCA procede, l’universo alternativo comincia a diventare sempre più simile alla Zona d’Ombra. Chiunque può mangiare questo gelato senza prendere peso, tranne noi. Il thè verde potrebbe essere calorico, quindi meglio non usarlo. Se si smette adesso di correre di sicuro si prenderà un sacco di peso. E altri pensieri simili.

Se veramente iniziassimo a chiederci quanto davvero sia “normale” il comportamento alimentare di un DCA, e cosa succederebbe se decidessimo di apportarvi un reale cambiamento, dovremo affrontare il fatto che il nostro DCA è molto più problematico di quel che credevano (o volevamo ostinarci a credere) che fosse. Aggiungiamo il fatto che un DCA apporta una buona dose di anosognosia (termine medico che indica l’incapacità d’ammettere che siamo malate), e il nostro cervello potrà continuare a bersi una buona dose di bugie e mezze verità per anni ed anni.

Iniziare a percorrere la strada del ricovero significa ammettere che per tanti anni abbiamo vissuto una bugia. Significa affrontare di petto tutti i problemi che veramente abbiamo dentro e che hanno portato all’insorgenza del disturbo alimentare, e rompere la routine che, per quanto malata, era comunque in grado di lenire l’ansia. Significa entrare nel mondo di ciò da cui per tanto tempo eravamo scappate.

È molto più semplice, perciò, evitare la verità, mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi, ed continuare ad ignorare (o a fingere d’ignorare) tutto quanto.

Certo, la verità prima o poi finisce comunque per venire a galla, quando si sta fisicamente/mentalmente troppo male per tirare avanti con l’anoressia. Ma fa così paura che si preferisce evitarla fino all’ultimo.

C’è però un qualcosa che forse molte di voi non sanno, o comunque più che non saperlo non lo concretizzano: affrontare la verità e andare avanti a testa alta non è così terribile come crediamo sia prima di farlo. Ovvio, non è certo piacevole, ma estirpare le bugie che l’anoressia ci fa raccontare agli altri e, soprattutto, a noi stesse, ci dà la possibilità di affrontare la vita per quello che è veramente. E ci fa vedere che possiamo riuscirci e che, perciò, siamo molto più forti di quel che credevamo di essere.
 
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