Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 24 febbraio 2012

Prevenzione delle ricadute: Identificare le situazioni di rischio

Eh sì. Identificare le situazioni di rischio. Quando si è nel pieno dell’anoressia, praticamente qualsiasi cosa rimanda all’anoressia stessa. Anche durante i primi passi sulla strada del ricovero la situazione persiste. Un piccolo sbaglio può farci venire voglia di punirci, di prendercela con noi stesse. Una minima critica che qualcuno ci rivolge può ributtarci nella spirale. Ogni situazione ansiogena fa scattare la molla della restrizione alimentare.

Anche se alcune cose riusciamo a tenerle sotto controllo, ci sono un mucchio di situazioni che possono amplificare i tipici pensieri del DCA e rendere più vulnerabili alle ricadute. Una parte importante nell’identificare le situazioni di rischio consiste nell’anticipare la situazioni in cui potremmo aver bisogno di un supporto extra. L’altra parte consta di costruire quello che mi piace chiamare “un piano di mitigazione” (in realtà è un termine che ho rubato all’ospedale, veniva usato quando facevo tirocinio al Pronto Soccorso, però secondo me si adatta bene anche alla prevenzione delle ricadute nell’anoressia), in maniera tale da poter sopravvivere all’evento avverso con il minimo danno possibile.

Le situazioni di rischio possono essere molteplici, e sono comunque estremamente variabili da persona a persona. Tanto per fare qualche esempio estremamente limitato, situazioni di rischio possono essere date da:

- Malattie fisiche che comportano una riduzione dell’appetito
- Cambiamenti in un qualche ambito della vita
- Vedere che un’amica ha avuto una ricaduta o ha perso peso
- Un aumento di peso (specie se rapido)
- Un nuovo lavoro/Una nuova esperienza scolastica
- Una sconfitta in un qualsiasi ambito della vita
- Una critica ricevuta da qualcuno
- Il dover comprare vestiti nuovi
- Il dover mangiare senza poter seguire l’ “equilibrio alimentare” prescritto dal dietista
- Fare qualcosa che spezza la routine quotidiana (per esempio, una cena di lavoro al ristorante)
- Aumento dell’ansia e dello stress
- Difficoltà nelle relazioni interpersonali
- Delusioni e ferite
- Etc…

Alcune di queste situazioni di rischio possono essere evitate, ma non tutte e non sempre. Analogamente, alcune di queste situazioni di rischio possono essere anticipate, anche se non tutte e non sempre. Detto questo, se non possiamo evitare le situazioni di rischio e non possiamo anticiparle, che altro possiamo fare? Come facevo quando tirocinavo al Pronto Soccorso, bisogna elaborare un piano (un piano di mitigazione!) che ci aiuti a relazionarci con queste situazioni difficili senza farci ricadere a pieno nell’anoressia.

È possible creare un “piano di mitigazione” generale per tutte le situazioni di rischio, e addizionarvi qualcosa per farlo aderire alla particolare situazione in cui ci si viene a trovare.

In generale, un “piano di mitigazione” può comprendere i seguenti aspetti:

- Utilizzare tutti i sistemi di supporto che si hanno a disposizione: psicoterapeuti/dietisti/familiari/amici
- Aumentare la frequenza degli appuntamenti con gli psicoterapeuti/dietisti
- Parlare di ciò che ci porta a ricadere, cercando di trovare insieme agli altri una soluzione
- Cercare di fare il meglio che si può per affrontare quella difficile situazione
- Rispettare rigorosamente le dosi dell’ “equilibrio alimentare” per ogni cibo, imponendosi di non sgarrare neanche di un grammo
- Essere oneste con noi stesse sulla reale natura del problema
- Avere la consapevolezza che le ricadute sono parte integrante del percorso di ricovero, e non fanno di noi delle fallite
- Ascoltare la voce della razionalità e non la spinta verso i comportamenti anoressici data dall’emotività
- Prendere le distanze dalle persone che consideriamo ansiogene
- Ricercare l’auto-aiuto e il supporto che si può avere tramite Internet
- Avere la consapevolezza che il proprio “equilibrio alimentare” e la propria attività fisica è quella GIUSTA PER NOI STESSE, a prescindere da ciò che fanno gli altri
- Evitare di fare cose che potrebbero aumentare l’ansia e il disagio
- Etc...

Alcuni di questi punti sono applicabili in svariate situazioni, mentre altri hanno una maggiore specificità. L’idea è quella di costruire un “piano di mitigazione” che sia flessibile e che possa essere applicato a molteplici situazioni che ci vedono a rischio ricaduta, una sorta di “linee guida” da utilizzare quando ci rendiamo conto che l’anoressia rischia di nuovo di avere la meglio su di noi.

Sapere e volere è potere, si dice dalle mie parti, e nel caso della prevenzione delle ricadute credo sia assolutamente vero. La frase “uomo avvisato, mezzo salvato” calza a pennello. Se, per esempio, si riesce ad anticipare una situazione di rischio (per esempio, un invito a cena da parte di amici), si può cominciare ad applicare il “piano di mitigazione” prima che l’evento abbia luogo. Sebbene questo non possa magari evitare del tutto ogni slittamento all’indietro, può comunque essere importante per contenere i danni.

venerdì 17 febbraio 2012

Prevenzione delle ricadute: Punti di forza & difficoltà

Inizio oggi un nuovo ciclo di post, sempre in risposta a una domanda che, con sfumature differenti, mi è stata rivolta da molte di voi: come prevenire/evitare le ricadute nel DCA quando si sta percorrendo la strada del ricovero? Dato che questo è un argomento di cruciale importanza per tutte noi, comincerò dalle fondamenta.

Uno dei punti principali nella prevenzione delle ricadute consiste nell’individuare quali sono le difficoltà che spingono a ricadere nel DCA che potremmo dover affrontare, in modo da anticiparle, creando preventivamente un piano che ci permetta di affrontarle senza sbatterle immediatamente sul versante dell’anoressia restringendo l’alimentazione, ma cercando d’individuare altre strategie di coping. Un altro aspetto fondamentale nella prevenzione delle ricadute consiste nel valutare quali siano i nostri punti di forza. Cosa possiamo fare quando ci troviamo immerse nelle difficoltà e tutto ci spinge verso una ricaduta nei comportamenti tipici dell’anoressia?

Per prima cosa, possiamo stendere una lista in merito a quelli che sono i nostri punti di forza e le nostre difficoltà: una rete di sicurezza per il nostro piano di prevenzione per le ricadute.

Tanto per fare qualche esempio.

Punti di forza:
- Avere vicino familiari e amici supportivi
- Avere la possibilità di consultare psicologi/psichiatri/dietisti
- Lavorare su noi stesse per identificare ed analizzare ciò che spinge a ricadere
- Motivazione a stare meglio
- Capacità di ritagliarsi altre possibilità oltre l’anoressia
- Capacità di direzionare il pensiero distogliendolo dall’ossessività del DCA
- Forza di volontà e determinazione
- Etc…

Difficoltà:
- Solitudine
- Ansia
- Perfezionismo
- Dismorfofobia (solo in chi, ovviamente, presenta questo sintomo)
- Competitività
- Paura del cambiamento
- Disagio con la propria fisicità
- Tendenza ad assecondare le ossessioni del DCA
- Etc…

Dopo aver redatto una lista di questo tipo, bisogna prendere in considerazione ognuna delle difficoltà, e scrivere un’altra lista in cui ad ogni difficoltà si associa una strategia di coping che sia diversa dall’adottare i comportamenti tipici dell’anoressia. Tanto per fare un esempio prendendo un aspetto che credo interessi chiunque abbia un DCA, come relazionarci con il disagio che proviamo rispetto al nostro corpo senza restringere l’alimentazione.

Piano contro il disagio per la fisicità
- Focalizzarci su quello che il nostro corpo può fare, piuttosto che su quello che il nostro corpo è
- Fare sport insieme a un’amica piuttosto che da sole
- Ripetere più e più volte: “Il mio corpo sta bene ed è in salute se io mantengo questo peso, e non quando pesavo XX chili in meno
- Parlarne con familiari/amici/terapeuti per cercare di stemperare le sensazioni che proviamo
- Non fare checking e stare il meno possibile davanti allo specchio
- Non pesarsi
- Accettare il fatto che il nostro corpo non è come vorremmo che fosse, ma che può andar bene comunque
- Ricordare: restringere l’alimentazione è una soluzione-placebo, poiché di fatto non serve a nulla, non risolve veramente quello che ci sta sotto. L’anoressia è una soluzione a breve termine che diventa un problema a lungo termine

Ovviamente questa lista non ha la pretesa di essere esaustiva, né di risolvere completamente il problema della difficile accettazione della nostra fisicità, né evitare che si abbiano ricadute, tuttavia penso possa essere un buon punto di partenza… e potete elaborarla per qualsiasi punto della vostra lista di difficoltà.

venerdì 10 febbraio 2012

La metafora della maratona

Ed eccomi qui a completare le mie risposte, concludendo con il commento di justvicky che scrive: “Perchè durante la scalata , nel momento in cui sei appeso alla roccia e tenti con tutte le forze di non cadere, la vetta sembra sempre il doppio della distanza reale. I compagni di arrampicata sembrano sempre km sopra di te, più bravi, quasi ti volessero lasciare indietro. E tu , appeso a quella roccia che non sai bene dove appigliarti per procedere allo step sucessivo, ti senti bersaglio di tutto.[…]”.

Il ricovero, direi, oltre che una scalata, è anche una corsa. Ed è più una maratona che uno sprint di 100 metri. È lungo. È duro. È difficile. È faticoso. È snervante. Ed è necessario tenere il passo.

Proprio stamattina, cercando il modo migliore per rispondere alle parole di justvicky, pensavo alla metafora ricovero = maratona, e mi è tornata in mente una cosa che il mio maestro di karate (che una volta, quand’era più giovane, ha corso la maratona di New York) era solito dire. Lui diceva che, ovviamente, dato che detta maratona consiste nel percorrere 42 Km, i 21 Km rappresentano la metà della gara. Una volta superato il 21° chilometro, tecnicamente, si è scollinato.

Il mio maestro di karate diceva anche che chiunque abbia corso una maratona direbbe che la corsa non è a metà una volta raggiunto il 21° chilometro. No, quando si arriva al 22° chilometro, ci si considera ancora all’inizio. Molti maratoneti non considerano se stessi a metà della corsa fino a che non superano il 30° chilometro. Il mio maestro? Lui diceva che si sentiva a metà corsa quando si era lasciato alle spalle 34 Km.

Anche un bambino capirebbe che arrivare al 30° chilometro o addirittura al 34° significa aver compiuto ben più di metà della corsa. Non è che il mio maestro di karate sia una tale schiappa in matematica, semplicemente lui diceva che gli ultimi 8 Km gli sembravano tanto lunghi e faticosi quanto i primi 34.

Questo, secondo me, è perfettamente aderente alla strada del ricovero. È un po’ come se stessimo arrancando, e guardando i chilometri che a poco a poco ci lasciamo alle spalle, ci sentissimo come se fossimo ancora bel lontane dal traguardo. “Eppure è così tanto che sto camminando” pensiamo “che sono vicina alla fine. Devo essere vicina alla fine”. Ma mancano ancora 3, 7, 10 chilometri se non di più. Come diamine si può continuare a tener duro così a lungo??

Gli ultimi passi sulla strada del ricovero sembrano i più lunghi di tutti, e tutto quello che si può fare è impegnarsi al massimo e stringere i denti. Quegli ultimi 8 Km – quella che sembra la parte terminale della strada del ricovero – sono tanto lunghi, duri e faticosi come i primi 34 Km messi tutti insieme. Ed è difficile per chi non ha mai provato un DCA sulla propria pelle comprendere questo. Chi non è mai stata anoressica misura le distanze matematicamente: la metà della maratona è al 21° chilometro. Non fa una piega. Ma per chi è anoressica la calcolatrice non funziona, perché nessuna macchinetta può misurare l’intensità della fatica, dei sentimenti, dell’impegno, della determinazione, della forza che il percorrere la strada del ricovero richiede.

Personalmente, non penso di essere ancora arrivata al 34° chilometro. Però continuo a correre. E le parole del mio maestro di karate mi fanno capire meglio perché la strada del ricovero mi sembri ancora così dannatamente lunga, anche se talvolta mi viene da pensare che, dopo tutti questi anni e questi sforzi, dovrei avere già tagliato il traguardo da un pezzo.

venerdì 3 febbraio 2012

"Perché?": Le mie risposte

Ringraziandovi per le numerose risposte che avete lasciato al mio post precedente, come promesso adesso risponderò a ciò che ciascuna di voi ha scritto.

In quanto al commento di justvicky, le sue parole richiedono una trattazione più articolata che affronterò nel post di Venerdì prossimo.

Per tutte le altre, per comodità di trattazione, ho scelto di raggruppare alcuni dei commenti che hanno un contenuto simile… bè, veniamo a noi, dunque!

Alice sostiene che la sensazione di fallimento e d’incapacità di progredire nel percorso di ricovero sia legata al fatto che chi ha un DCA ha anche problemi di bassa autostima, e quindi non ha fiducia nelle proprie capacità di combattere riportando passi avanti e successi.
Questo è a suo modo certamente vero: molte ragazze che soffrono di DCA hanno un’autostima sotto ai piedi. Io credo però che la bassa autostima non sia tra le cause, ma tra le conseguenze del DCA. Se ci pensate, normalmente la gente basa la propria autostima sui successi che consegue nei vari ambiti della vita in cui si applica: l’aspetto fisico, il lavoro, lo studio, lo sport, la famiglia, le relazioni interpersonali, etc… Dal successo o meno in ciascuno di questi ambiti dipende un aumento o una riduzione dell’autostima. Nel momento in cui però viene fuori un DCA, l’unico ambito su cui la persona si focalizza è quello alimentare. Per cui, la persona giudica se stessa al 90% rispetto a quanto riesce a controllare l’alimentazione, e al 10% rispetto a tutti gli altri aspetti sopraelencati. Ovvio perciò che uno sgarro nel comportamento alimentare comprometta gran parte dell’autostima, visto che tutto è centrato lì. Ma il fatto che voi vediate magari in questo momento solo l’aspetto alimentare di voi stesse, non significa che non ci sia nient’altro, in realtà. Ci sono sempre anche tutte le altre cose. Re-imparare a dare il giusto valore ad ogni ambito della vita è indubbiamente un buon modo per progredire sulla strada del ricovero.

Withoutexit(?) e la ragazza che ha commentato anonimamente mettono l’accento sulla difficoltà nel fare passi avanti quando viene meno o comunque non è adeguato il supporto medico e familiare, facendo notale come questo possa intralciare il percorso di ricovero.
E’ vero, sicuramente un ambiente non supportivo non rende facile il muoversi nella lotta contro un DCA. Aumenta il senso d’insicurezza, e la falsa sensazione di non poter essere in grado di farcela. Ma è una falsa sensazione. Non è vero che non siete forti, volitive e determinate, è solo che state attraversando un momento in cui le circostanze e le persone sbagliate che avete incrociato finora vi stanno remando contro. Ma il fatto che non abbiate avuto molta fortuna finora con i terapeuti con cui avete avuto a che fare, non significa che non possiate trovare in futuro persone in grado di aiutarvi davvero. E’ difficile trovarle – e lo dice una che ha cambiato millemila terapeuti – ma esistono persone che possono darvi una mano a combattere, a trovare strategie di coping più funzionali e meno dannose. Semplicemente, non dovete arrendervi e continuare a cercarle.

Sonia riferisce a proposito della difficoltà di capire cosa voglia fare veramente e quale sia la strada giusta da intraprendere, considerate le difficoltà dell’affidarsi ai medici.
Quando si è ancora dentro l’anoressia, la “confusione nella testa” – citando – che si avverte, è proprio legata al fatto che, pur avendo iniziato un percorso di ricovero, l’anoressia è ancora presente nella nostra vita. Non si può pretendere che le cose cambino dall’oggi al domani, non si può pretendere che sia tutto facile e chiaro fin dal primo momento. Bisogna armarci di pazienza e saper aspettare, perché il una lotta come quella contro i DCA, i progressi si vedono solo su lunga gittata. È normale, soprattutto all’inizio, essere confuse. La nebbia si dirada man mano che si va avanti. Capisco anche come all’inizio possa essere difficile accettare il “controllo” proveniente dai medici, ma è necessario (e anche temporaneo, don’t worry, non c’è monitoraggio medico vita natural durante) perché quando siamo nell’anoressia non abbiamo più alcun controllo autonomo. È la malattia che ci controlla spietatamente. Dite che non è vero? Pensateci: non è forse vero che un piatto di spaghetti al pomodoro ha più controllo sulla vostra vita di quanto non ne abbiate voi stesse?!!...

Vale mette in luce l’aspetto legato all’immagine corporea, sottolineando quanto sia difficile in riuscire ad accettare l’aumento di peso, e come il vedere il peso che si alza possa precludere ogni volta ad una ricaduta in un loop senza fine.
Questo mi fa pensare ai ricoveri ospedalieri, o comunque in strutture non specializzate, dove l’obiettivo primario è il recupero del peso, a prescindere dal tempo necessario per farlo, per cui può accadere che una ragazza si veda costretta a prendere diversi chili in poche settimane, e questo rappresenta veramente un fattore di rischio ricaduta. Ma, in realtà, non esistono tempi standardizzati per il recupero del peso. Anzi, con l’eccezione delle situazioni ove c’è reale rischio di vita, penso che il peso debba essere ripreso in maniera estremamente graduale. Questo aiuta ad abituarsi in maniera naturale a una situazione che procede così lentamente da essere, sul momento, quasi impercettibile. Così non è solo il corpo che si riprende, ma anche la testa (per questo è importante abbinare la psicoterapia alla rialimentazione), e questo permette di non avere troppi sbalzi e riuscire a tollerare gli incrementi riducendo il margine di ricaduta. Ci vuole un dietista specializzato che aiuti, in questo, ovviamente, che sappia afferrare per mano ogni volta che ci sentiamo sul punto di ricadere.

Ilaria lega il suo senso di fallimento e di mancata progressione ai giudizi che gli altri lanciano addosso in caso di insuccesso, facendoci sentire sbagliate e imperfette.
E’ vero, non siamo perfette. E menomale che non lo siamo. Perché nell’acqua perfettamente limpida i pesci non ci sono. E dato che non viviamo in una bolla di sapone ma in un contesto sociale, è normale essere circondate da persone che “guardano” e giudicano quello che facciamo. Non soltanto relativamente al nostro percorso di ricovero, ma rispetto ad ogni singolo aspetto della nostra vita. Anche solo dopo aver detto questo, risulta palese che per non essere giudicate dagli altri, dovremo chiuderci in una stanza e non fare assolutamente niente. Il mondo ci giudica e noi – più o meno consapevolmente – giudichiamo il mondo. Quando si decide di fare un tentativo di percorrere la strada del ricovero, inevitabilmente ci si espone. Ed esporsi significa accettare non solo il bel tempo, ma anche le critiche e i giudizi. Ma quello che si fa, lo dobbiamo fare per noi stesse, non per gli altri. Perché se cerchiamo la comprensione, la compassione, le coccole altrui, aspetteremo una vita e ci ritroveremo con il niente in mano. Perciò, è solo per noi stesse che dobbiamo decidere cosa si vuole fare, perché siamo noi le uniche che possono veramente prenderci cura di noi stesse. Nel momento in cui scegliamo di tentare la strada del ricovero, sappiamo a priori che potremo fallire. E che, dunque, potremo essere giudicate, schernite, derise, infamate da chiunque. Però noi dobbiamo essere convinte che percorrere quella strada è la cosa giusta da fare: dobbiamo crederci fino in fondo. E proprio nel momento in cui ci crederemo al 100%, i giudizi altrui non saranno più in grado di scalfirci.

Wolfie e Victoria parlano della routinarietà del DCA, e della conseguente paura a lasciarlo andare, nella sensazione che dopo rimanga un “vuoto” troppo difficile da colmare.
È inevitabile che dopo tanti anni passati con un DCA, questo diventi in un certo senso parte integrante della nostra vita. E ciò rende difficile il lasciarlo andare, perché si ha sempre timore a “lasciare la strada vecchia per la nuova”. In fin dei conti, un DCA è una malattia ma, paradossalmente, si rivela un meccanismo di coping così efficace da rappresentare, sebbene in maniera distorta, anche una cura. Nel momento in cui si sceglie un sintomo, è come se si scegliesse di andare a piantare una bandiera sulla cima dell’Everest, per dimostrare a noi stesse e agli altri che siamo capaci di portare a termine un progetto. Dimostrare che siamo capaci di non avere fame, sete, freddo, bisogno, desiderio è ciò che spinge a salire sempre più in alto. Certo, poi ci si rende conto che quello che avevamo intrapreso era un progetto fallimentare, che era una strategia che non conduceva da nessuna parte. Però è in quel progetto fallimentare che abbiamo investito tutte noi stesse. Perciò, forse, quel che serve per abbandonare la posizione, è che vengano riconosciute la sofferenza e il coraggio. E dunque, ragazze, voglio dirvi che la vostra sofferenza ed il vostro coraggio mi sono chiari, palesi, evidenti. Che scorgo la vostra dolorosa arrampicata e posso sentire la lotta disperata verso una vita che ogni giorno incanta e sotterra. Voglio dirvi che il vostro coraggio potete adesso usarlo per fare qualcosa per voi stesse, non più contro voi stesse. E che lo sforzo che farete per percorrere la strada del ricovero, data la vostra volontà, si rivelerà sicuramente, alla lunga, un successo.

Jonny ammette che la sua non-progressione nel percorso di ricovero, è legata a una sua attuale non-volontà di fare passi avanti. ShadeOfTheSun quota le sue parole.
Di fronte a un commento del genere (e, Jonny, l’ho riletto un’infinità di volte) non posso che dire: rispetto. So che tutti i momenti della vita non sono uguali. Se anche solo 6 anni fa qualcuno mi avesse detto che un giorno io mi sarei dedicata a questo blog, avrei telefonato al CIM. Questo solo per dire che non tutti i momenti della vita effettivamente sono adatti per iniziare un percorso di ricovero. Ed è giusto che ciascuna si prenda i propri tempi ed inizi questo percorso nel momento in cui si sente pronta ad accettarlo senza riserve, altresì ne conseguirebbero inevitabili ricadute che servirebbero solo a rafforzare l’idea di fallimento e ad allontanare dalla strada del ricovero. Perciò, se sentite che adesso non siete pronte, aspettate il vostro momento. Ma, mi raccomando, non utilizzate l’attesa come una scusa. Il “momento giusto” non arriva dal cielo. Non è che vi svegliate una mattina e dite: “Oh, guarda un po’, oggi è la mia giornata, vai che inizio a combattere contro l’anoressia!”… no, non succede purtroppo. Siete voi che dovete crearvi il vostro “momento giusto”. Darvi un’opportunità. Perché in realtà non è vero che non volete combattere. Non è vero che volete passare il resto della vostra vita con l’anoressia. Perché nessuno sceglie e convive con un male percependolo come tale, ma solo se, per sbaglio, lo viene a considerare un bene rispetto a qualcos’altro che viene percepito come un male maggiore. È questo su cui dovete lavorare: su ciò che ci sta dietro. Perché sarà questa la chiave che darà l’avvio al vostro processo di cambiamento, alla vostra strada di ricovero. So cosa significa avere la vita dentro che avete voi, ragazze. È così tanta, talmente tanta che a volte sembra abbia il paradossale potere di uccidere.
 
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