Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 29 novembre 2013

Una critica costruttiva

Tra i commenti al post precedente, decontestualizzata da esso, ho ricevuto una critica costruttiva da parte di Katniss-L., cui voglio dedicare il post di oggi per 2 motivi:

1) Quello che Katniss-L. ha scritto, seppure in chiave critica, è interessante e ragionato, e mi sembrava perciò limitativo il ridurlo ad una mera risposta ad un commento, anche perché vengono sollevate delle tematiche che potrebbero essere condivise anche da altre/i lettrici/lettori del mio blog, per cui così facendo posso rispondere a chiunque stesse pensando le medesime cose che Katniss-L. mi ha scritto.

2) Ho delle idee ben precise in merito a questa critica costruttiva che mi è stata rivolta, perché il mio modus operandi su questo blog è coerente e motivato, e mi sembra corretto espletarlo. Qui ho la possibilità di spiegare il perché. Inoltre, trattandosi di una critica, non volevo “nasconderla” tra i commenti glissando con una rapida risposta, ma condividere con tutte voi il mio pensiero al riguardo.

Ringrazio comunque Katniss-L. per la sua critica costruttiva, perché ovviamente mi fa sempre piacere ricevere apprezzamenti per quello che scrivo sul blog (e a chi non fa piacere ricevere opinioni positive?!...), ma apprezzo molto anche l’onestà di chi, con correttezza ed educazione, mi spiega il suo punto di vista che può pure contrastare il mio. Del resto, le opinioni sono opinabili per antonomasia, quindi è ovvio che ognuno la veda a suo modo, perché la soggettività interindividuale è innegabile ed è quello che ci rende uniche. Perciò, ben vengano anche i pareri contrastanti: la luce è tale solo e soltanto se esiste anche l’ombra.

E arriviamo dunque al fatidico commento di Katniss-L.:

“Cara Veggie, leggo da molto tempo il tuo blog, ma non ho mai commentato finora. Premettendo che apprezzo moltissimo il “lavoro” che stai facendo su questo blog, vorrei comunque esprimere alcune mie perplessità. 

Mi sono laureata in psicologia da alcuni mesi, e proprio in virtù del percorso di studi che ho fatto e del lavoro che andrò a svolgere, leggendo il tuo blog mi sono talvolta sorpresa a pensare a quanto possa essere difficile per te scegliere cosa scrivere nei post, ma soprattutto “cosa” rispondere alle persone che ti commentano quando ti espongono la loro situazione e ti chiedono cosa fare. 

Tu hai affermato più volte che non dai giudizi né suggerimenti perché non ti compete in quanto non professionista. Questa affermazione mi sorprende, perché nelle risposte che scrivi ai vari commenti, dai sempre dei consigli, che talvolta sono molto chiare e nette. Mi riferisco, per esempio, a quando scrivi (cito le tue testuali parole copiate da alcune tue risposte a dei commenti): “Non so se sei seguita da una dietista e/o da una psicologa, in ogni caso ti consiglio vivamente di rivolgerti a queste figure professionali”, oppure: “Quando ti assalgono i pensieri propri del DCA, anziché agirli, cerca di fare qualsiasi altra cosa per distrarti”, oppure: “Cerca di mangiare tutto quello che è previsto dal tuo “equilibrio alimentare”, pensando che il cibo adesso è la tua medicina” oppure: “Prima chiedi aiuto, meglio sarà, per cui non esitare a farlo”; giusto per citare alcuni esempi. A me queste sembrano delle indicazioni molto nette. Oppure in un’altra occasione scrivi: “Mi sembra che il tuo problema principale in questo momento sia che stai aggravando la tua patologia di base piangendoti addosso in maniera incredibile”, e questo mi “puzza” molto di giudizio. Allora, quello che mi chiedo è: non è un tantino azzardato da parte tua scrivere su un blog risposte a domande di persone sconosciute sulla base di ciò che affermano? 

A me capita di pensare alle storie che ascolto dai pazienti mentre svolgo il mio tirocinio come a un intreccio complicatissimo, non fosse altro che il punto di vista del soggetto narrante, ammesso in buona fede ma deformato da meccanismi inconsapevoli, è solo una fioca luce nella ricerca non certo della “verità”, ma di una interpretazione plausibile e verosimile di ciò che emerge nella relazione di coppia psicoterapeuta-paziente. 

Quindi, quando sul blog ti vengono fatte certe domande o dette certe cose, tu sei chiamata a muoverti sulle sabbie mobili nel momento in cui rispondi. E data la precisione delle domande che talora ti vengono rivolte, come un giudice non puoi esimerti dal prendere una posizione. 

In definitiva, mi interrogo sull’opportunità di dare delle risposte a commenti di persone sconosciute, sulla base di una manciata d’indizi, che peraltro chi scrive sceglie accuratamente.” 

Cara Katniss-L., le cose che scrivi sono tutt’altro che sciocche, ma converrai con me in merito alla constatazione che chi mi scrive è abbastanza intelligente da sapere che non sarò io, con le mie poche parole di risposta, a risolvere le loro problematiche (alimentari e non), poiché problemi seri la cui gestione richiede – come spesso e volentieri consiglio, è vero, e qui lo ribadisco – l’intervento di specialisti.

Credo che molte delle ragazze che commentano il mio blog scrivano per rompere un silenzio con se stesse, per raccontarsi come si farebbe con quell’amica, quell’amico, cui non si riescono a rivelare problematiche così importanti e pervasive come un DCA. Diciamo che i commenti che ricevo – e le risposte che do – sono una specie di specchio che riflette le persone, le loro verità, le loro bugie, le loro sofferenze, le loro difficoltà, le loro speranze, le loro illusioni, etc. E’ chi commenta i miei post a guardarsi in quello specchio, che le aiuta a capire non solo ciò che sta succedendo, ma ciò che si nascondono, che si inventano.

Io so di non rispondere a delle persone del tutto vere ed autentiche, ma soltanto a quello che loro vogliono apparire a me e a se stesse. Per questo bastano gli indizi “scelti”, come dici tu, ma non sempre accuratamente, dico io.

Io non ho mai pensato di esercitare un potere più o meno salvifico, ma come semplice blogger, di condividere la mia esperienza di vita con l’anoressia, di esprimere il mio punto di vista, di creare un piccolo spazio virtuale di condivisione e sostegno reciproco nella lotta contro i DCA, di chiacchierare con persone sconosciute che proprio per questo si raccontano come vogliono, rimanendo aderenti alla loro realtà oppure inventandosi.

Tu dici che non è vero che io non esprimo consigli o giudizi: premesso che gli esempi che tu hai citato riguardo a ciò che ho scritto sono completamente decontestualizzati e quindi un po’ fuorvianti per come li presenti tu rispetto a come suonavano nell’originale, quando erano inseriti nel relativo commento, in quanto ai consigli, sono come tali soggettivi perché provenienti da un essere umano (non a caso, premetto sempre “Secondo me”, “Io penso che”, “A mio parere”, etc), e dunque passibili di valutazione da parte di chi li riceve, e di sciente decisione su cosa fare a prescindere da quello che io posso aver scritto. In quanto ai giudizi, diciamo che se li do, non è sulla persona che scrive (che ovviamente non conosco, e dunque non mi permetterei mai), ma unicamente su quello che scrive (che è quello che la persona mi vuol far arrivare).
Questo mi toglie dalle responsabilità che invece, giustamente, tu hai in quanto psicoterapeuta.

Quelli che scrivo non sono ordini da eseguire né verità assolute, ma semplice condivisione di quello che mi ha aiutata, in un passato più o meno remoto, a stare meglio nella mia lotta contro l'anoressia, nella speranza che possa essere d’aiuto anche a chi mi legge.

venerdì 22 novembre 2013

Lasciar andare l'idea della perfetta guarigione

Se avete mai sentito in qualche programma televisivo qualcuno che ha un DCA parlare di come immagina possa essere una sua futura guarigione, siete perdonate per aver pensato che quel qualcuno stesse cercando di convincervi ad acquistare uno stock di pentole in una telepromozione.

A volte in TV o su Internet capita di vedere video (o di leggere post) di persone che dicono come pensano che sarà la loro vita una volta che saranno guarite dal DCA. Sono persone che dicono cose come: “Si guarisce dall’anoressia quando si riesce ad amare se stesse. Quando si riesce ad amare il proprio corpo e ad accettare tutte le proprie imperfezioni. Quando si arriva a questo, ci si rende conto che la vita è bellissima, è meravigliosa. Si riescono a raggiungere le radici del proprio DCA. E non ci si ricade mai, mai, mai, MAI più. Si guarisce del tutto, e questo è per sempre.”

Ecco, quando sento cose del genere, mi sembra un po’ di stare a sentire una telepromozione che ti vuol vendere qualche cosa. O l’inno di una setta segreta con una parola d’ordine e una divisa contraddistintiva.

Okay, credo che la maggior parte delle persone che hanno vissuto/vivono un DCA, abbiano la consapevolezza che non esiste una guarigione perfetta. Ma stando a quello che dicono alcune persone quando parlano di come immaginano la loro vita post-DCA, a me sembra che tendano a dipingere la cosiddetta guarigione come una forma idealizzata di Come-La-Vita-Sarà-Da-Ora-In-Poi-Sempre-Nel-Persempre-Amen. Non è in questo che consiste la strada del ricovero, secondo me. Se decidete d’iniziare a combattere contro il vostro DCA, e vi rendete conto che la dura realtà consta nel doversi opporre all’anoressia giorno dopo giorno, con fatica, con difficoltà, i discorsi sull’utopica perfetta guarigione non cominciano a sembravi un pochino fake?

Certo, a chi non piace pensare che dall’anoressia si possa guarire in toto, senza alcun residuato psicofisico, e che la vita senza il DCA possa essere perfetta? Ritrovare un’alimentazione completamente spontanea, amare il cibo, amare la propria fisicità. E poi svegliarsi ogni mattina, alzarsi da letto, guardarsi allo specchio e vedere quant’è sexy il riflesso che rimanda. Niente più giornatacce passate in preda a manie di controllo, niente più ansie. Soltanto autonomia, sicurezza di sé, e felicità. Penso che chiunque di noi possa aver immaginato, anche solo per un momento, qualcosa del genere pensando ad un futuro senza più anoressia.

Per quel che mi riguarda, percorrendo la strada del ricovero mi sono accorta che le cose non stavano così. E quindi, ho regolato il tiro. Ma non abbassandolo. Non mi sono detta: “No, non è così che andranno le cose, non ci sperare neanche”, bensì mi sono detta: “Non guardare al risultato, focalizzati sul processo.”. Se infatti mi fossi concentrata su un’utopica prospettiva di perfetta guarigione, e poi mi fossi accorta che la necessità di controllo permaneva, e che la vita presentava comunque tutte le sue difficoltà, mi sarei buttata giù ed avrei mollato, perché mi sarei sentita incapace di raggiungere quell’obiettivo, e dunque una fallita. Invece, concentrandomi su quello che potevo fare concretamente, giorno dopo giorno, per migliorare la qualità della mia vita, mi sono accorta che potevo muovere dei piccoli passi avanti per cercare di fare in modo che pian piano la mia situazione fosse migliore rispetto a prima. Tuttora, se guardo oggettivamente al punto in cui mi trovo (da qualche parte lungo la strada del ricovero), mi rendo conto che la mia vita non è rose e fiori, e non somiglia a quella che dicono di voler avere le persone che immaginano una completa guarigione dal proprio DCA, però sono comunque riuscita a ripristinare una elevata qualità della mia vita e continuerò ad impegnarmi per ottenere ulteriori miglioramenti in futuro.

Anche leggendo su Internet narrazioni di ragazze che raccontano la propria vita con il DCA, mi rendo conto che queste storie si ripartiscono per la maggior parte in 2 grani filoni: quelle che concludono “Penso che il DCA rimarrà comunque un vissuto che mi segnerà e mi condizionerà per il resto della mia vita, sia nel mio rapporto nei confronti del cibo, che di me stessa, che degli altri”, e quelle che concludono con le telepromozioni succitate. Il problema è che, a mio avviso, ambo le mentalità conducono al fallimento. Nel primo caso, perché una persona si abitua al DCA a tal punto da rassegnarsi ad una sorta di convivenza più o meno passiva, e perde così la reattività che serve per riconquistare giorno dopo giorno una vita migliore; nel secondo caso, perché viene idealizzata a tal punto l’idea della guarigione, che non potrà mai concretizzarsi con quelle modalità, che la delusione che ne consegue porterà inevitabilmente ad avere delle ricadute.

Spesso ricevo e-mail da parte di ragazze che mi chiedono cosa mi ha fatto decidere di combattere contro l’anoressia, qual è stato il mio punto di svolta, cosa mi ha convinto a cercare di stare meglio e tornare a mangiare normalmente. Mi dispiace sempre rispondere loro che non è così che per me sono andate le cose. È vero, c’è stato un live delle t.A.T.u. che mi ha dato una bella spinta nella giusta direzione, ma questo è stato un input: sarebbe rimasto passivo e fine a se stesso se io non lo avessi agito. Non c’è stato nella mia vita un epocale cambiamento, una qualche epifania, un qualche evento che dall’oggi al domani mi ha fatto cambiare completamente idea e combattere fervidamente contro l’anoressia. Il mio è stato un percorso lento, costellato di ricadute. Però mi sono rialzata ogni volta, ho stretto i denti, ho tenuto duro, ho ricominciato a combattere. È possibile che ci siano persone alle quali succede una qualche cosa, un qualche epico evento, e da lì in poi sfrecciano sulla strada del ricovero senza mai deragliare… ma questo non è l’unico modo, secondo me, per percorrere questa strada.

E, tra l’altro, percorrere la strada del ricovero non è una passeggiata. Talvolta su certi Tumblr leggo frasi come: “The worst day in recovery is still better than the best day in relapse(“Il giorno peggiore mentre percorri la strada del ricovero è comunque meglio del giorno migliore di una ricaduta”). Onestamente? Se mi è concesso di dirlo, talvolta non è così. Talvolta la vita quotidiana è così difficile da affrontare, con tutti i suoi millemila imprevisti e difficoltà, che la sensazione di controllo che fa (illusoriamente) provare l’anoressia ti fa sentire molto meglio che il combattere l’anoressia stessa. Non è nel mio interesse né nei miei progetti un’ulteriore ricaduta nell’anoressia, ma sono consapevole che essendo stata l’anoressia una strategia di coping estremamente funzionale, è possibile che in futuro le difficoltà della vita mi porteranno ad un punto tale da mettermi nella necessità di riadottarla. Del resto, non ho scelto la restrizione alimentare perché volevo essere magra. Ho scelto la restrizione alimentare perché mi permetteva di provare quella sensazione di controllo che tanto anelavo poiché la vita – incontrollabile per antonomasia – mi sembrava così più facile da gestire.

Le difficoltà non cessano all’istante quando s’intraprende la strada del ricovero. I problemi che prima nascondevamo dietro al DCA restano, e ci si trova di fronte al difficile compito di affrontarli. E spesso sono schiaccianti. È dura. È veramente dura. Bisogna lavorarci su con la psicoterapia, perchè affrontare quei problemi è pure l’unico modo che abbiamo a disposizione per andare avanti.

Niente arcobaleni ed unicorni, qui. La strada del ricovero che sto percorrendo non è l’utopia della perfetta guarigione. Ma è un qualcosa che lentamente e gradualmente mi permette di stare meglio, e ce la metterò tutta per mantenere la rotta. Sì, ci sono state ricadute in passato, e non posso escludere l’eventualità che ce ne saranno in futuro. Sì, dovrò lavorare ancora tanto sulla mia necessità di controllo. Sì, molto probabilmente rimarrò vulnerabile all’anoressia per il resto della mia vita. Ma sapete cosa? Mi va bene così. Perchè potrò comunque arrivare ad avere un’ottima qualità della vita, anche se la vocina dell’anoressia rimarrà da qualche parte. Ma posso non agirla. E così le cose andranno meglio.

In conclusione: io non credo che si possa “guarire” dall’anoressia nel senso proprio del termine, e credo che qualcosa del DCA nella nostra mente rimarrà sempre. Ma credo anche che possa rimanerci in maniera passiva, senza più influenzare i nostri comportamenti, in maniera tale da permetterci di avere un’ottima qualità della vita. Credo fermamente infatti che sia possibile avere una remissione dell’anoressia, e che questa remissione possa protrarsi vita natural durante. Un po’ come l’acoolista, che avrà sempre la tentazione di bere, ma che razionalmente riuscirà sempre ad impedirsi di farlo, e nonostante la vocina nella sua testa riuscirà dunque comunque a vivere una vita di qualità elevata. Ecco, credo che lo stesso valga per l’anoressia.

Perciò, siate contente della grinta con cui ogni giorno riuscite ad affrontare la strada del ricovero, anche se non va tutto alla perfezione, anche se avete ancora l’impulso di restringere l’alimentazione, anche se avete ancora voglia di controllare tutto. I giorni di merda ci saranno comunque, ci saranno periodi che potranno comunque andare da schifo, perché così è la vita. Ma al di là di tutto questo, di tutte le follie, di tutti i casini, se continuiamo a combattere contro il DCA potremo trovare altre strategie di coping che non passino per la distruzione fisica e mentale, e potremo tornare ad avere una qualità della vita veramente elevata.

Ma questo succederà solo quando lasceremo andare l’idea della perfetta guarigione, la telepromozione della vita perfetta senza anoressia, e cominceremo a concentrarci sui nostri piccoli-grandi progressi quotidiani, cominciando ad abbracciare le piccole-grandi conquiste per le quali abbiamo lavorato così duramente.

venerdì 15 novembre 2013

Sottotipi di anoressia basati sulla personalità

Come, ne sono certa, la maggior parte di voi che mi leggete saprà, il DSM distingue 2 sottotipi di anoressia. Citando detto manuale:

Sottotipo 1: con restrizioni (restricting type). Nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto non ha presentato regolarmente episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o clisteri) 
Sottotipo 2: con abbuffate/condotte di eliminazione (binge eating/purging type). Nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o clisteri).

Per abbreviare, il sottotipo 1 viene indicato come AN-R (Anorexia Nervosa – Restricting) e il sottotipo 2 come AN-BP (Anorexia Nervosa – Binge/Purging) – dato che gli psichiatri sembrano amare gli acronimi tanto quanto amano chiedervi del vostro rapporto con la vostra mamma. Da un punto di vista comportamentale, questa sottoclassificazione pare scontata. Ma in realtà lo è meno di quanto sembri.

Nuove ricerche, infatti, stanno mostrando che questi 2 sottotipi comportamentali non sono il miglior modo per distinguere tra le varie tipologie di anoressia. Difatti un numero sempre maggiore di psicoterapeuti stanno facendo notare come le differenze caratteriali, di personalità, tra le persone affette da anoressia siano ad oggi più significative rispetto alla dicotomia AN-R e AN-BP, come è stato notato in uno studio condotto da Wildes et, al nel 2011.

 Alcuni studi longitudinali hanno dimostrato infatti che ci sono delle differenze tra AN-R e AN-BP sia riguardo all’efficacia delle varie tecniche terapeutiche, sia riguardo al tempo necessario per fare passi avanti sulla strada del ricovero, sia rispetto alla frequenza delle ricadute, sia in merito alla mortalità. Inoltre è stato osservato come una certa percentuale di soggetti AN-R, tenda a sviluppare dopo un lasso di tempo più o meno lungo AN-BP, mentre la restante percentuale rimane fissa sull’AN-R.

Volendo riassumere lo studio di cui vi parlavo: i ricercatori hanno studiato i profili di personalità di numerose persone affette da DCA, ed utilizzando queste differenti caratteristiche caratteriali, hanno diviso le persone affette da anoressia e da bulimia in 3 principali gruppi.

Tratti di personalità nei 3 gruppi: 

Supercontrollatrici (termine originario: Overcontrolled): Le supercontrollatrici estendono la loro necessità di controllo ben al di là del meno cibo, cercando di riuscire virtualmente a controllare ogni qualsiasi ambito della loro vita. Tendono ad essere rigide, affidabili, ottime leader, ma non hanno in realtà idea di cosa vorrebbero veramente per se stesse e dalla loro vita.
Sottocontrollatrici (termine originario: Undercontrolled – perdonate le pessime traduzioni, ma non credo esistano parole equivalenti in italiano): Le sottocontrollatrici hanno frequenti perdite di controllo che riguardano non solo l’ambito alimentare. Le persone appartenenti a questo gruppo sono spesso impulsive, emotive, molto sensibili, fortemente empatiche e dotate di una brillante intelligenza, ma tendono a soffocare la propria rabbia nei confronti degli altri rivolgendola su se stesse.
Perfezioniste (termine originario: Perfectionistic): Al di là dell’ovvio perfezionismo connesso al nome stesso della categoria, le appartenenti al gruppo delle perfezioniste sono persone molto precise, corrette, puntuali, propositive, gentili ed educate, ma con una certa tendenza alla depressione.
 (Suddivisione tratta da Westen & Harnden-Fischer, 2011) 

In questo studio iniziale lo scopo non era semplicemente quello di valutare le differenze di personalità nei DCA, ma anche quello di capire come questi tratti caratteriali potessero influenzare e quindi predire l’efficacia del trattamento. Credo che non vi sorprenderà il sapere che le persone che miglioravano più rapidamente dopo l’inizio di psicoterapia + riabilitazione nutrizionale erano le perfezioniste, seguite dalle supercontrollatrici, ed infine le sottocontrollatrici. In ogni caso, questo è semplicemente un esempio, e lo studio in questione peraltro era uno studio retrospettivo.

Viceversa, i ricercatori erano interessati ad uno studio prospettivo, per cercare di capire come questi tratti caratteriali influenzassero il percorso di ricovero, e come si modificassero nel corso dello stesso.

Alcune settimane fa, dei ricercatori hanno pubblicato il loro studio su “Behaviour Research and Therapy”. Questo studio si è basato su 116 donne affette da anoressia (alcune con AN-R, altre con AN-BP) che seguivano una psicoterapia e una riabilitazione nutrizionale di tipo ambulatoriale, per valutare la relazione tra la loro personalità e i sintomi clinici presentati (Lavender et al., 2013) Per prima cosa, i ricercatori hanno somministrato a queste donne una batteria di test di personalità e di questionari sui DCA. Dopo 2 settimane di terapia, hanno chiesto a queste donne come si sentissero in quel momento, e quali fossero stati gli eventuali cambiamenti nei comportamenti tipici del loro DCA, in 6 diversi momenti del giorno. Le partecipanti allo studio, in base alla loro personalità, erano state divise in supercontrollatrici (14,7%), sottocontrollatrici (47,4%) e perfezioniste (37,9%).

Le componenti dei 3 sottogruppi di personalità non differivano in termini di età, B.M.I., epoca della diagnosi di DCA. Le persone affette da AN-BP non differivano neanche per numero delle abbuffate, induzione del vomito, iperattività fisica giornaliera. Non sorprendentemente, le ragazze appartenenti al gruppo delle perfezioniste avevano quasi tutte comorbidità quali disturbi d’ansia, DOC o depressione, le persone con AN-BP appartenevano quasi tutte al gruppo delle sottocontrollatrici, le persone con AN-R quasi tutte al gruppo delle supercontrollatrici.

Gli autori hanno concluso:

“[…] Questi risultati suggeriscono che possa essere utile sottosuddividere le persone con un DCA ina base alla loro personalità per poter tipizzare il trattamento, e che le differenze di personalità possono rappresentare una valida strategia di classificazione delle persone affette da disturbi alimentari.” 
(mia traduzione) 

In soldoni: la propria personalità, il proprio carattere, ha molto a che fare con il modo in cui una persona si comporta, ben più dell’attuale sottotipizzazione diagnostica basata esclusivamente sui sintomi. D’altro canto, la tipologia di personalità non permette di distinguere i vari pattern di DCA in maniera tanto schematica da permettere una diagnosi secondo i dettami del DSM. L’importanza di questa suddivisione basata sulla personalità sta nel fatto che varia la risposta ai diversi approcci terapeutici, e quindi è possibile scegliere delle terapie più mirate sulla base del carattere del singolo.

Fortunatamente, questa ricerca è stata ripetuta su 154 ragazze ricoverate in una clinica per DCA (lo studio di Wildes cui avevo accennato). In questo caso i ricercatori hanno valutato tramite opportuni test la personalità delle ragazze al momento dell’ammissione in clinica. L’età media delle partecipanti allo studio era di 25 anni, e l’età media della durata di malattia era di 8 anni.

Anche in questo caso, i ricercatori hanno suddiviso le pazienti nei 3 gruppi di personalità: supercontrollatrici (20,8%), sottocontrollatrici (42,9%) e perfezioniste (36,4%). Di nuovo, anche in questo caso le partecipanti allo studio erano simili tra loro per età, B.M.I., anni di durata della malattia, ad indicare che i tratti della personalità non sono predittivi rispetto alla severità o alla durata di un DCA.

Tuttavia, i 3 gruppi hanno avuto, dopo il ricovero, risultati significativamente differenti. Le perfezioniste sono quelle che se la sono cavata meglio, le sottocontrollatrici quelle che hanno avuto i risultati peggiori: esito sfavorevole alla dimissione, dimissione contro il parere medico, più frequenti ricadute durante i successivi 3 mesi di follow-up. Nella fattispecie, il gruppo delle sottocontrollatrici aveva una probabilità di esito sfavorevole della terapia 3,56 volte maggiore rispetto alle supercontrollatrici, e addirittura 11,23 volte maggiore rispetto alle perfezioniste.

Quando i ricercatori hanno invece analizzato i risultati basandosi sulla suddivisione proposta dal DSM tra persone AN-R e persone AN-BP, è risultato soltanto che al momento della dimissione le ragazze con AN-BP avevano raggiunto risultati peggiori rispetto a quelle con AN-R, ma non c’erano differenze al termine dei 3 mesi di follow-up. Non proprio la stessa cosa, no?!

Dunque, cosa significa tutto questo per noi che abbiamo un DCA? 

Per prima cosa, c’è da considerare che questa suddivisione in 3 gruppi è basata su cluster di personalità. Sebbene alcune persone abbiano tratti caratteriali che le fanno rientrare perfettamente in uno di questi 3 sottogruppi, altre possono avere tratti di personalità comuni a 2 o addirittura a tutti e 3 i sottogruppi. I ricercatori hanno diviso le ragazze sulla base di quale gruppo rispecchiasse maggiormente il loro carattere, ma ovviamente non c’era un’aderenza assolutamente perfetta. Un altro aspetto da considerare è che i questionari schematizzano la personalità di una persona, ma non la rappresentano in toto, e soprattutto fotografano la personalità di una ragazza nel preciso momento in cui essa si sottopone al test. Non tengono conto del fatto che la personalità di quella ragazza possa essere stata ampiamente modificata dal DCA. Sebbene certamente alcuni aspetti basilari del nostro carattere rimangano invariati per tutta la nostra vita, ci sono tratti caratteriali che sono più malleabili, per cui non solo cambiano con l’arrivo del DCA, ma cambiano anche in funzione della nostra crescita e delle nostre esperienze di vita.

Inoltre, c’è da considerare anche il fatto che la risposta immediata ad un ricovero in clinica non è direttamente proporzionale all’entità della remissione dall’anoressia che il singolo può conseguire nel corso della propria vita. Infatti Wildes scrive:

“[…] una possibile spiegazione è che quei fattori che permettono di predire, inizialmente, la risposta alla terapia, differiscono da quelli associate ai risultati a lungo termine. Per esempio, una personalità supercontrollatrice consente di tollerare meglio l’ambiente della clinica rispetto ad una sottocontrollatrice, che avrà più difficoltà a far fronte ai propri impulsi. Tuttavia, nel lungo termine, una personalità supercontrollatrice mal tollera il controllo esercitato dall’esterno, e quindi è più facile che abbia delle ricadute per la sua spasmodica necessità di riacquisire quello che percepisce come il proprio controllo. […]” 
(mia traduzione) 

Il che ricalca perfettamente la mia esperienza personale. Il gruppo delle supercontrollatrici mi calza a pennello, in quanto a personalità (e, non a caso, il mio disturbo alimentare è AN-R). Tralasciando il mio primo ricovero, coatto perchè ero minorenne e quindi totalmente improduttivo, durante gli altri 4 ricoveri sono riuscita ad avere buoni risultati nell’immediato, riuscendo a seguire senza particolare fatica od ansia lo schema alimentare che mi veniva somministrato, e riuscendo a limitare le mie manie di controllo su tutto. Ma questi progressi si esaurivano rapidamente dopo la dimissione. È per questo che ho avuto una montagna di ricadute. Percepivo il controllo su tutto come talmente necessario che riuscire a ridurlo è stata un’impresa che mi ha richiesto un sacco di tempo e di fatica, e su cui comunque sto ancora lavorando.

Ma io credo che la nostra personalità non sia frutto del destino. Scegliere un’Università che mi piaceva e trovare un lavoro che ho fin da subito adorato, sebbene non abbia arrestato le ricadute, mi è stato comunque estremamente d’aiuto per smorzare certi sintomi. Grazie alla psicoterapia, inoltre, sto cercando di lavorare sulla mia personalità, e credo che questa possa essere una cosa utile a chiunque abbia un DCA: cercare di lavorare su se stesse, per cambiare quegli aspetti di noi che perpetrano il disturbo alimentare. Okay, ho sempre una spiccata tendenza a voler controllare le cose, e probabilmente questo tratto di personalità mi accompagnerà sempre, ma ci sto lavorando su per fare in modo che non sia questo controllo a finire per controllarmi la vita.

venerdì 8 novembre 2013

Quando ti senti sul punto di mollare...

1. …focalizzati sul perchè hai iniziato a combattere. Su quali erano le tue motivazioni nel momento in cui hai deciso d’intraprendere il tuo percorso di ricovero contro l’anoressia. Su qual era la “scintilla” che ti ha spinto ad intraprendere una determinata direzione, e su tutte le cose che in questo momento possono servirti da ispirazione e da supporto positivo per continuare a combattere.

2. …scrivi una lista dei motivi per cui vale la pena continuare a percorrere la strada del ricovero, e concentrati su quelli. Datti degli obiettivi generali e a lungo termine, e cerca ogni giorno di muovere anche un solo minuscolo passo in avanti. Rammenta sempre che tu hai tutto quel che serve per raggiungere ogni traguardo che vuoi.

3. …datti il permesso di farlo, se è quello che veramente vuoi. Ma non dev’essere una presa per sfinimento, dev’essere una tua scelta cosciente e senziente. Devi essere tu che, consapevole delle conseguenze, decidi di mollare. Questo ti ricorderà che sei comunque tu che controlli tutto quello che fai nella tua vita, nel bene e nel male: che scegli di ricadere perché vuoi ricadere. E che, se hai la capacità e la volontà di scegliere questo, allora hai anche tutta la volontà e la capacità di scegliere di rialzarti e combattere.

4. …stila una lista dei “pro” e dei “contro” relativi al continuare a combattere – già questo dovrebbe decentrare la tua attenzione dalla voglia di mollare, e farti razionalizzare su quello che c’è di positivo nel perseguire la tua lotta contro l’anoressia. Cosa ci guadagni se continui a combattere? Quali saranno i “pro” di questa scelta? Come ti sentirai quando ti sarai lasciata alle spalle almeno un pochino l’anoressia, e avrai ricominciato almeno un pochino a vivere, e non solo a sopravvivere?

5. …anziché concentrarti su ciò che in questo momento ti fa stare male e ti fa venire voglia di arrenderti, anziché pensare a tutto ciò che rende difficile il combattere contro l’anoressia, utilizza le energie che investiresti in questi pensieri vani per escogitare delle soluzioni che possano consentirti di andare avanti a combattere senza cedimenti.

6. …sii consapevole del fatto che percorrere la strada del ricovero da un DCA non è semplice, non è rapido, non è divertente, non è scevro da ricadute, non ti fa sentire bene nell’immediato, è ansiogeno, è estremamente complicato. Per quanto tu possa andare avanti, per quanti passi avanti su possa fare, l’anoressia sarà sempre lì, acquattata nella tua testa, pronta a reimpossessarsi dei tuoi pensieri quando meno te l’aspetti. Tenere quotidianamente a bada l’anoressia sarà sempre un duro lavoro, se però ci riuscite sarà anche una vittoria. E, come dice la canzone, “no pain, no gain”. O, se preferite, come dicono nel telefilm Scrubs: “Nothing in this world that's worth having comes easy."

venerdì 1 novembre 2013

Lasciar andare l'idea del "peso corporeo ideale"

(Premessa: quanto segue deriva in parte dai miei studi, ma in altra parte dai miei ragionamenti e dalla mia opinione personale. Sono assolutamente convinta di ciò che scrivo in merito alla mia opinione, ma questo non la rende comunque ovviamente verità assoluta.) 

Leggendo qualsiasi cosa riguardi i DCA – soprattutto l’anoressia – dagli studi scientifici alla letteratura, sembra impossibile riuscire ad evitare le frasi “peso corporeo ideale” e “peso corporeo previsto”. Spesso e volentieri i pesi sono espressi in percentuale rispetto al peso corporeo ideale/previsto. Lo stesso DSM pone come criterio diagnostico per l’anoressia: “peso corporeo al di sotto dell'85% rispetto a quanto previsto”. E anche l’efficacia dei trattamenti viene valutata sulla capacità di ritornare all’ 85%/90%/95% (scegliete quello che preferite) del peso corporeo ideale/previsto.

Posso essere molto terra-terra? “Peso corporeo ideale/previsto” è una frase che DETESTO.

In molti studi i ricercatori calcolano il “peso corporeo ideale” sulla base del 50° percentile del B.M.I. rispetto all’età. Avete presente i percentili su cui si valuta la crescita dei neonati? Ecco, sostanzialmente la stessa cosa. Data una certa età di una persona, e data la sua altezza, è possibile calcolare il “peso corporeo ideale” di un individuo. Questo “peso corporeo ideale” viene spesso considerato il peso che chi è affetta da un DCA dovrebbe raggiungere… perché, cavolo, lo dice il nome stesso che è “ideale”!!

Okay, allora, ragioniamoci un attimo su. Il 50° percentile per il peso o per il B.M.I. è in realtà “ideale” solo per quell’ 1% della popolazione che fisiologicamente, naturalmente, senza aver mai avuto un DCA né problemi di alcun tipo con l’alimentazione, cade su quel percentile. Per il restante 99% della popolazione, il 50° percentile rappresenta una sovra o una sottostima del proprio peso.

Ora, so benissimo che viene fatto un sacco di lavoro da parte dei medici quando si tratta di definire appropriati obiettivi di recupero del peso corporeo per una persona che ha un DCA, e stimare che una persona debba raggiungere il 50° percentile di peso (rispetto alla sua età e alla sua altezza) può essere un punto di partenza non del tutto negativo, in mancanza di altri dati… Ma possiamo almeno ammettere che questa è solo una stima generica, e non un “ideale”?!

Tanto più che il “peso corporeo ideale” corrisponde ad una cifra. Ad un numero ben preciso. Il che è stupido. Basti pensare al fatto che il peso di una qualsiasi donna può variare da alcuni etti finanche ad alcuni chili durante il ciclo mestruale. Inoltre, il peso corporeo di una qualsiasi persona (uomo o donna che sia) può variare in base allo stato di idratazione, al periodo dell’anno, all’assetto ormonale, alla vicinanza dall’ultimo pasto rispetto alla pesata, al fatto di aver svuotato o meno vescica ed intestino… e un sacco di altre cose.

Parlando con alcune ragazze che sono state ricoverate in una clinica specializzata nel trattamento per DCA (della quale non faccio il nome per ovvi motivi), mi è stato detto che al momento del ricovero veniva assegnato loro un “peso corporeo ideale” da raggiungere: quello corrispondente, in funzione della loro altezza, ad un B.M.I. = 19. Cioè, seriamente?? E io che pensavo che fossero le persone con un DCA quelle fissate con il controllo di tutto, oppure quelle fissate con gli obiettivi di peso e di B.M.I. da raggiungere… e pensavo che, viceversa, il compito di una clinica fosse quello di permettere alla persona di fare introspezione e di sviscerare le sue vere problematiche, svincolandosi e mettendo in secondo piano cibo e peso… E invece mi sbagliavo, a quanto pare non solo chi ha un DCA, ma anche alcune cliniche si focalizzano su numeri, peso e B.M.I..

Commento soltanto: BAH.

Inoltre, quando si parla di qualcosa come il “peso corporeo ideale”, trovo veramente ironico l’utilizzo della parola “ideale”. Perché, di quale “ideale” siamo parlando, esattamente? Gli ideali culturali? (Ma non fatemi ridere…) Gli ideali matematici? Gli ideali statistici? Gli ideali di salute? Forse. Ma, nuovamente, non esiste un peso specifico e ben preciso che corrisponde alla “salute”. Ogni persona ha un certo range di peso che per lei può essere comunque considerato associato ad uno stato di salute “ideale”.

Una volta una psichiatra con cui avevo da poco intrapreso un percorso psicoterapeutico mi propose di impostare il mio obiettivo di peso da raggiungere (poiché in quel periodo ero piuttosto sottopeso, in quanto reduce da una ricaduta) chiedendo a me quanto volessi pesare, quale peso fossi stata disposta a raggiungere, considerandolo come se fosse il mio “peso corporeo ideale”. Hmmm, chiedere ad una persona affetta da anoressia restrittiva quanto vorrebbe idealmente pesare mi sembra quantomeno miope, per non dire di peggio. (Per la cronaca: ovviamente mollai questa psicoterapia dopo il quarto incontro o giù di lì.)

Un altro genio assoluto (una nutrizionista, nella fattispecie) era convinta che il “peso corporeo ideale” che avrei dovuto raggiungere era quello previsto dal B.M.I., per cui il target sarebbe stato quello di raggiungere un valore di B.M.I. almeno pari a 18,5. (Sì, ho mollato anche questa nutrizionista, naturalmente.) Certamente il B.M.I. può essere considerato un buon range nella valutazione del peso corporeo, perchè ci sono studi scientifici che dimostrano che le persone che hanno una maggiore aspettativa di vita e una minore incidenza delle malattie, sono effettivamente quelle che hanno un B.M.I. compreso tra 18,5 e 25. Ma questo non è comunque un assoluto, è solo una statistica, e il peso del singolo non risponde alla statistica, bensì risponde al proprio patrimonio genetico. Il set-point di peso corporeo è una cosa assolutamente individualizzata, e sebbene in molti casi cada in quello che il B.M.I. definisce “normopeso”, nulla vita che possa cadere anche sopra o sotto questo range, e che la persona sia comunque in salute, perché è fisiologicamente geneticamente settata su un peso al di fuori del normopeso stimato col B.M.I..

Inoltre, quando si fa una valutazione sul peso di una persona che ha un DCA, credo sia di fatto estremamente difficile determinare quale sia il “peso corporeo ideale” che essa dovrebbe raggiungere. Può infatti sorgere spontaneo il pensiero: il mio “peso corporeo ideale” è quello che avevo prima di ammalarmi di anoressia. Okay… ma questo è solo parzialmente vero. Perché se una ragazza si ammala di anoressia a 10 anni, avrebbe ancora un bel po’ di sviluppo da fare… e – annuncio di pubblico servizio – non è generalmente salutare per una donna pesare quanto pesava quando era una 10enne. Poi, certo, se una si ammala a 25 anni, allora il discorso del tornare al peso precedente alla malattia ha un senso… ma occorre non farci fuorviare da questa considerazione.

Il problema è che l’idea di “peso corporeo ideale” è veicolata da un enorme bagaglio culturale. Fortunatamente, ultimamente mi è capitato di leggere su Internet che ci sono diversi professionisti nel campo dei DCA che cercano di spiegare e di far passare l’idea che si può essere in salute anche se si indossano taglie diverse, che c’è più da puntare sulla terapia degli aspetti mentali dell’anoressia, e non limitarsi a valutare solamente l’aspetto della rialmentazione… e questo mi dà un po’ di speranza, perché vedo che c’è gente che finalmente apre gli occhi.

E dunque, se non usiamo “peso corporeo ideale”, qual è l’alternativa? Peso target? Forse… ma per le adolescenti, in pieno periodo di crescita e sviluppo, i target non sono stazionari. Perciò, penso che dovremo lasciar andare l’idea di “peso corporeo ideale/previsto”, e focalizzarsi invece (oltre che, ovviamente, sugli aspetti mentali della malattia) su qual è il set-point di peso biologico di ciascuna paziente. Fare un discorso assolutamente individualizzato, lasciando perdere le generalizzazioni. Ognuna di noi discende da una certa famiglia, ha la propria genetica, il proprio morfotipo, le proprie peculiarità costituzionali. Ogni persona ha un suo proprio range di peso corporeo che è biologicamente appropriato per lei stessa. Niente a che vedere con i target o con l’idealità, bensì con la genetica, la biologia, e il set-point di ciascuna di noi. Questa è la realtà.

Occorre smetterla di pensare che esista un valore univoco di B.M.I. che definisce lo stato di salute o il “peso corporeo ideale” delle persone. Occorre smetterla di pensare che essere sottopeso sia solo e soltanto sinonimo di avere un B.M.I. < 18,5. Non è così. Ognuna di noi ha il suo set-point fisiologico di peso corporeo, un suo proprio range di “normalità”: si è sottopeso se si scende al disotto di quel proprio ed individuale range. Ma questo range non necessariamente corrisponde a quello del B.M.I.. Per quanto la maggior parte delle persone abbia effettivamente un set-point fisiologico ascrivibile ad un B.M.I. compreso tra 18,5 e 25, ci sono alcune persone che per stare bene hanno bisogno di un peso che corrisponde ad un B.M.I. > 25, e alcune altre persone che sono perfettamente in salute pur con un B.M.I. < 18,5. È la variabilità interindividuale, quella che non può essere assoggettata a nessuna statistica. Per cui, se per esempio c’è una ragazza il cui set-point di peso fisiologico corrisponde ad un B.M.I. = 26, e poi il suo peso cala fino ad arrivare ad un B.M.I. = 23, la statistica dice che è meglio, perché la ragazza è passata da un sovrappeso ad un normopeso… ma, in realtà, rispetto al suo standard fisiologico, la ragazza in questione non è normopeso, bensì sottopeso! E, per lei, quella non rappresenta perciò una situazione di salute. Ragionare per numeri aiuta senz’altro a schematizzare, ma non dimentichiamo che le statistiche non possono trascendere l’individualità. Dobbiamo dunque essere consapevoli del fatto che alcune persone hanno set-point di peso biologicamente appropriati che sono anche al di sopra di B.M.I. = 25, o al di sotto di B.M.I. = 18,5. E va bene così.

In un mondo di circa 7 miliardi d’individui, non esiste alcun assoluto “peso corporeo ideale”. È un qualcosa di assolutamente variabile e soggettivo. Prima accetteremo questo dato di fatto, meglio staremo tutti quanti.
 
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