Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 28 giugno 2013

Allenare i muscoli anti-DCA

Karate è lo sport che pratico da quando ero poco più che una bambina.

Recentemente, parlando col mio maestro Carlo, che ha avuto dei problemi muscolo-scheletrici, mi ha detto:

“Penso che trovarsi di fronte ad una qualsiasi difficoltà inizialmente sia come flettere un muscoletto che è molto affaticato. Il medico ti dice ti fare degli esercizi per rafforzarlo, ma all’inizio riesci a fare pochissime ripetizioni, poi devi subito smettere. Però, dopo un mese di esercizio, le cose vanno meglio e sei in grado di fare un numero di ripetizioni decisamente maggiore. Dopo due mesi le cose vanno ancora meglio, ma non alla perfezione. Sembra di stare meglio, però ci sono momenti in cui le cose peggiorano. E quando succede non è facile, perché ti sembra che tutto l’allenamento che hai fatto fino a quel momento sia andato sprecato, per cui ti scoraggi, però poi ti fai forza e ricominci ad allenarti. Non sai se quel peggioramento è momentaneo o permanente, ma comunque il ricominciare ad allenarti ti permette di cercare di fare un lavoro ancora migliore. Se oggi riesci a fare 49 ripetizioni, e domani arrivi a 50, sembra un piccolo passo, invece per me è una grande cosa”.

Dopo aver sentito questo discorso, ho pensato che, in un certo senso, si può applicare anche alla nostra lotta contro l’anoressia/la bulimia. Spesso, durante la psicoterapia, i medici parlano di “guarigione” dal DCA, come se il ricovero fosse un evento, non un processo. Il che, secondo me, è errato, perché un evento è un qualcosa di passivo. Voglio dire, un evento è un qualcosa che succede quando meno te lo aspetti, un qualcosa su cui tutto quello che fai non ha influenza. Se una persona decide di andare in vacanza, che so, a Parigi, l’evento è rappresentato dall’arrivo in Parigi. Ma per arrivare in questa città è necessario un viaggio. Per il teletrasporto non siamo ancora attrezzati. Ed il viaggio è fondamentale, perché senza di esso nessun turista potrebbe mai arrivare a Parigi.

Concepire il ricovero da un DCA come un viaggio piuttosto che come una meta è di grande importanza: perché implica il fatto che dobbiamo lavorare sul ricovero, non accade così, ad uno schiocco di dita, ce lo dobbiamo costruire quotidianamente. Che poi, a voler essere ancora più precise, il ricovero non è un evento, e non è neanche soltanto un processo: è un insieme di abilità che a poco a poco dobbiamo diventare capaci di gestire e padroneggiare. Personalmente, sono piuttosto brava ad imparare nuove cose. Come per imparare qualsiasi cosa, c’è sempre bisogno d’iniziare dalle basi e padroneggiarle, per poter poi procedere e fare le cose veramente più ganze. Quando facevo le scuole superiori, la materia in cui andavo meglio – e che mi piaceva molto – era la Matematica. (Okay, questo mi rende piuttosto una nerd…) Ma ho iniziato a studiarla in prima elementare. Ho dovuto imparare a fare le quattro operazioni, l’algebra, la geometria e la trigonometria prima d’iniziare a fare cose veramente fighe come lo studio di funzioni, o gli integrali di secondo grado.

Direi che vale un po’ la stessa cosa anche quando ci apprestiamo a combattere contro un DCA: inizialmente riusciremo ad opporci alla voce del disturbo alimentare soltanto un numero limitato di volte al giorno, e solo col tempo, sforzandoci di ignorare quello che ci suggerisce il DCA quanto più possibile, si riesce ad opporci allo stesso per lassi di tempo più lunghi. E questo è un tipo d’apprendimento tutt’altro che rapido. Perché c’è un sacco di ansia da sopportare quando non si restringe l’alimentazione come l’anoressia ci suggerirebbe di fare. E perché ci sono un sacco di abitudini malate indotte dal DCA, un sacco di schemi mentali malati da rompere.

Una volta ho letto su una rivista che in psicologia 10.000 ore sono il numero magico di ore che è necessario svolgere per una determinata attività, per potersi considerare esperti nella stessa. È il numero di ore in cui è necessario fare partica per diventare veramente efficienti e produttivi in un certa attività. Ora, io non sono sicura che questo dato empirico sia mai stato testato scientificamente, ma quel che conta è l’idea che dà: ovvero, l’idea che per diventare veramente in gamba in una certa attività, c’è bisogno di esercitarsi su quell’attività per un lasso di tempo molto lungo. Non è il talento innato che rende una superstar. Ci vuole un sacco di olio di gomito.

Per cui, nel momento in cui si cominciano ad allenare i muscoli anti-DCA, inizialmente non saremo in grado di utilizzarli molto efficacemente e/o molto a lungo. E va bene così. È quel che ci si aspetta quando una persona che ha vissuto per tanti anni nel pieno del disturbo alimentare prova ad allontanarsi da esso. Ma, proprio come nell’allenamento muscolare, si comincia col sollevare i pesi più leggeri per poi aumentare progressivamente, lo stesso bisogna fare col DCA. Continuare a combattere giorno dopo giorno: all’inizio sarà parecchio difficile e non riusciremo a fare molto, ma a poco a poco, se continuiamo comunque costantemente a cercare di opporci ai pensieri indotti dall’anoressia, il farlo diventerà un po’ meno faticoso, e i risultati saranno progressivamente migliori. È così che il fare cose che quando eravamo nel pieno dell’anoressia ci parevano inimmaginabili, diventa poco a poco sempre più tangibile e meno tosto.


P.S.= Essendo questo il mio blog, posso scriverci quello che mi pare e piace. Però, in realtà, questo blog è tanto mio quanto di tutte voi che lo leggete e lo commentate, perciò… Io ho un sacco di idee su ciò che vorrei scrivere in questo blog, ma non sono nella vostra testa, quindi non so cosa voi vorreste leggere.

Per cui, se vi va, lasciatemi nei commenti (o mandatemi tramite mail: veggie.any@gmail.com) un appunto su ciò che vi farebbe piacere leggere su questo blog. Siete interessate a come vengono trattati i DCA a Timbuctù? Alle nuove ricerche sulla genetica dell’anoressia? Alle nuove frontiere terapeutiche per i DCA? Ai consigli su come riuscire a magiare tutto quello che vi ha prescritto la dietista? Agli aneddoti sui casini che si combinano noi protomedici quando siamo di turno? (Vi assicuro che non abbiamo niente di che invidiare a “Scrubs” in quanto a surrealismo!)

Mi farebbe molto piacere se mi diceste cosa vi piacerebbe leggere qui! 

Non vi prometto che scriverò post su ogni qualsiasi cosa mi venga suggerita, né che saranno i migliori post che abbiate mai letto. Quel che prometto è che presterò attenzione ai vostri suggerimenti, e cercherò per quanto possibile di attenermi alle vostre richieste.

Fatemi sapere: è l’unico modo che ho per conoscere ciò che state pensando, e per cercare di rendere questo blog più vicino a quello che v’interessa!

venerdì 21 giugno 2013

Le cose buone (NON) arrivano per chi sa aspettare: I veri danni delle lunghe liste d'attesa

Chiedere aiuto quando si ha un DCA, è sempre un qualcosa di estremamente difficile per chiunque si trovi in questa situazione. Le motivazioni per cui è difficile possono essere molteplici, e variabili da persona a persona. Per alcune rivelare il proprio DCA può suscitare sentimenti d’intensa vergona. Per altre chiedere aiuto è umiliante. Per altre ancora c’è la difficoltà di abbandonare una strategia di coping che, per quanto patologica, è comunque assolutamente funzionale. E così via. Per non parlare delle difficoltà che s’incontrano nel parlare del proprio DCA a degli psicoterapeutici che potrebbero non essere in sintonia con la nostra personalità, o scarsamente provvisti d’empatia.

Comunque, in genere, quando proprio non se ne può veramente più del disturbo alimentare, quando stiamo veramente male e ci rendiamo conto che non abbiamo più niente da perdere, ci si decide a rivolgersi alla ASL/USL richiedendo di essere prese in carico e seguite per il nostro DCA. Cosa succede? Succede che nella maggior parte dei casi si riesce ad avere un appuntamento, ma le liste d’attesa sono spaventosamente lunghe. È l’altra faccia della medaglia dell’avere una sanità pubblica: la cosa estremamente positiva è che chiunque, a prescindere dal proprio status economico, può accedere alle cure. La cosa negativa è che questo crea liste d’attesa veramente lunghissime. La cosa è naturalmente variabile da regione a regione: qui dove vivo io le cose vanno relativamente bene, ma parlando con altre ragazze che hanno un DCA e che hanno chiesto aiuto in regioni differenti da quella in cui abito io, mi sono sentita dire che anche solo per avere un primo appuntamento c’è da aspettare 3 – 4 mesi.

In quale magico mondo una lista d’attesa di 4 mesi può essere considerate accettabile? (E non mi riferisco solo ai DCA, ma a tutte le malattie, comprese quelle più letali.)

Se una ragazza sottopeso causa anoressia si rivolge alla propria ASL/USL, e le viene detto che prima di avere un appuntamento dovrà attendere 4 mesi, il messaggio subliminale che passa è: non sei abbastanza malata. Non hai bisogno di essere visitata con urgenza. Non meriti medici che ti seguano. Non sei abbastanza importante da essere aiutata. Smettila di essere così infantile. Ripigliati.

Questo è il motivo per cui molte ragazze che soffrono d’anoressia/bulimia vanno incontro a problemi di salute anche gravi (e, purtroppo, in alcuni casi letali) mentre sono in lista d’attesa. Tuttavia, la maggior parte delle ragazze riesce in qualche modo a farcela e a rimanere relativamente stabile fino a che non arriva il giorno dell’appuntamento. Che cosa succede poi?

Alcuni ricercatori si sono posti questa domanda e hanno provato a capire in che modo una lunga attesa possa influenzare la successiva risposta al trattamento da parte di una malata di DCA. I risultati cui sono giunti paiono tutt’altro che incoraggianti.

Uno studio a tal proposito è stato pubblicato lo scorso anno su “Behaviour Research and Therapy”, ed i ricercatori hanno valutato i fattori che hanno portato le pazienti affette da un DCA ad abbandonare la terapia ambulatoriale. Alcuni di questi fattori sono strettamente individuali, ma uno dei più importanti predittori di abbandono della terapia è rappresentato proprio dalla lunghezza della lista d’attesa prima di avere un appuntamento (Carter et al., 2012).

Esaminiamo quindi un po’ i dati, e vediamo cosa hanno trovato questi ricercatori. Per prima cosa, la definizione di “abbandono”.

“L’ “abbandono” della terapia viene comunemente definito come una cessazione non consensuale della terapia da parte della paziente, o dovuto all’incapacità della paziente di accettare gli obiettivi del trattamento stesso (per esempio, raggiungere un B.M.I. pari a 18, o cessare il vomito autoindotto).”
 (mia traduzione) 

Il mancato compimento fino alla fine del percorso terapeutico è un qualcosa di molto serio: la statistica dice che dal 30 al 70% delle pazienti con un DCA non completano il loro percorso terapeutico. Piuttosto che considerare queste pazienti come non complianti, a me questo sembra un chiaro segnale sia della forza dell’anoressia, sia dell’ansia estrema prodotta dall’idea di abbandonare sia i comportamenti sia il pattern mentale tipico del DCA.

I ricercatori, per studiare quali fossero i fattori che allontanavano precocemente le ragazze affette da DCA dalla terapia, hanno valutato 189 pazienti che erano seguite in regime ambulatoriale tra il 2005 e il 2010. Le pazienti in questione avevano un’età compresa tra i 16 e i 53 anni (per lo più, comunque, erano intorno ai 26 anni), e solo 4 di queste (2,1%) erano uomini. Di queste pazienti, il 18% era affetta da anoressia, il 40,2% da bulimia, e il 41,8% da DCAnas. Di ciascuna paziente sono stati valutati molteplici parametri: il peso prima dell’esordio del DCA, il peso che avevano al momento dello studio, la durata del DCA, la presenza di comorbidità (autolesionismo, DOC, disturbo bipolare, disturbo borderline, disturbo d’ansia, depressione, etc…) e così via, nonché alcune informazioni demografiche di base.

I ricercatori hanno anche valutato quanto tempo queste persone fossero state in lista d’attesa prima di accedere al loro primo appuntamento. (Il trattamento in questione consisteva nella terapia cognitive-comportamentale, 20 sedute per le persone affette da bulimia/DCAnas, e 40 – 50 sedute per le persone affette da anoressia.)

Di tutte le pazienti che avevano iniziato il trattamento, il 55% l’ha portato a termine, mentre il 45% no. È una percentuale di abbandono altissima. Le pazienti che hanno abbandonato, l’hanno fatto per lo più dopo una dozzina di sedute. Non ci sono grosse differenze nei tassi d’abbandono della terapia in persone affette da diversi tipi di DCA. 

Se non è dunque la tipologia di DCA che influisce sul tasso d’abbandono della terapia, cos’altro lo fa?

Queste le risposte dei ricercatori:

• Peso corporeo. I maggiori tassi d’abbandono della terapia sono stati riscontrati nelle pazienti che avevano un minore peso corporeo.

• Comorbidità. La concomitante presenza di altre patologie psichiatriche oltre al DCA (soprattutto i disturbi d’ansia) ha favorito l’abbandono della terapia.

• Evitamento. Le pazienti che presentavano un atteggiamento di forte evitamento nei confronti delle emozioni negative, e una minore resistenza allo stress indotto dal percorso terapeutico, abbandonavano più facilmente la terpia. E, indovinate un po’…

• Lunghezza della lista d’attesa. Tanto più le pazienti avevano aspettato il trattamento, tanto più era lunga la lista d’attesa, tanto maggiore era poi l’abbandono della terapia. Nella fattispecie, il maggiore tasso d’abbandono della terapia è stato riscontrato nelle ragazze che avevano passato più di 3 mesi in lista d’attesa.

L’importanza dell’aver individuato questi 4 punti è che, tra tutti, la lunghezza della lista d’attesa è quello (teoricamente) più facilmente modificabile. Se una paziente si rivolge all’ASL/USL solo quando il suo peso è enormemente basso, non ci si può far nulla. Ed è difficile anche agire su fattori come la comorbidità o l’evitamento, sebbene lavorare su questi fronti potrebbe rendere una paziente meggiormente capace di portare a termine la terapia. Ma questi sono fattori strettamente individuali.

Viceversa, una lista d’attesa è un fattore esterno alle pazienti stesse, un fattore che dipende dall’efficienza e dalla disponibilità del sistema sanitario nazionale, e sul quale dunque è possibile agire concretamente. Una lista d’attesa pazzescamente lunga non ha ripercussioni negative solo a breve termine (la paziente potrebbe peggiorare drasticamente o addirittura morire durante l’attesa), ma anche a lungo termine, poiché la tendenza alla cronicizzazione dei DCA è un significativo predittore della possibilità che ha una persona di non riuscire ad essere aderente alla terapia, e dunque di non riuscire ad avere una remissione. Il problema è quindi duplice.

Gli autori dello studio, infatti, concludono:

“[…] Nelle persone affette da un disturbo alimentare, la motivazione all’intraprendere un percorso terapeutico è universalmente riconosciuta come un fattore critico nell’aderenza e nella riuscita del trattamento. Nell’esatto momento in cui una persona decide di chiedere aiuto per la sua anoressia/bulimia, la sua motivazione è al massimo livello possibile. Tuttavia, detta motivazione tende ad affievolirsi col tempo se non viene rapidamente ed efficacemente sostenuta. Pertanto, una lunga lista d’attesa rappresenta senz’altro uno dei fattori che favorisce l’abbandono terapeutico, prima e dopo aver iniziato un trattamento. E’ di fondamentale importanza dunque, per il sistema sanitario nazionale, avere ben chiare quali siano le conseguenze dell’avere lunghe liste d’attesa, e di come ciò favorisca l’abbandono terapeutico, e la proliferazione dei disturbi alimentari nei singoli individui.” 
(mia traduzione)

venerdì 14 giugno 2013

Anoressia e metabolismo

Disclaimer:

1) Non sono una dietista né una dietologa. Non studio Dietistica all’università, e non ho frequentato alcun corso specialistico in Scienze della Nutrizione Umana. Sono una laureanda in Medicina, e le mie conoscenze in merito all’alimentazione e al metabolismo derivano dall’esame di Nutrizione, che ho sostenuto nel contesto del corso integrato di Fisiologia.

 2) Questo blog, per quanto ne so basandomi sulle e-mail che ricevo, è letto anche da ragazze di 12 – 13 anni. Quello che scriverò in questo post vuol essere perciò fruibile anche per coloro che non hanno particolari competenze. Ergo, cercherò di esprimermi in maniera non troppo complicata, ed inevitabilmente dovrò ricorrere a delle semplificazioni. Chiedo scusa in anticipo a tutti i professionisti del settore sanitario che leggeranno questo post, che inevitabilmente presenterà delle imprecisioni e delle facilonerie; d’altronde l’obiettivo non è quello di scrivere un trattato medico, ma un qualcosa che possa essere letto e compreso anche da chi ha fatto tutt’altro genere di studi. (Se poi c’è qualche medico o qualche dietologo/dietista/nutrizionista che mi legge – bè, almeno una dietista so per certo che c’è, vero Ilaria?! – e vuol fare qualche precisazione senza scendere in tecnicismi comprensibili solo agli “addetti ai lavori”, è assolutamente benaccetto!)

3) Quello che scriverò in questo post ha carattere assolutamente GENERALE. Nessuna mi lasci commenti chiedendomi consigli sul suo caso specifico, perché NON sono una professionista del settore, quindi NON sono in grado di darvene. L’unico consiglio che do vivamente a tutte quante è quello di lasciar perdere i fai-da-te o i consigli chiesti a chi non se ne intende veramente, e rivolgersi invece appunto ad una figura professionale che possa aiutarvi ad impostare un piano alimentare personalizzato, perché credo che questo sia un elemento fondamentale per combattere contro l’anoressia.

Dopo questa doverosa premessa, arriviamo al post vero e proprio. L’argomento che sto per trattare l’avrete già capito dal titolo. Ne parlavo anche con justvicky qualche giorno fa, e molte di voi mi hanno scritto chiedendomi informazioni in merito al metabolismo, e ai cambiamenti ad esso indotti dall’anoressia. Effettivamente, la restrizione alimentare che accompagna l’anoressia altera tantissimo il metabolismo, e questo rappresenta uno dei fattori che, all’inizio di un percorso di ricovero, complica le cose, perché a fronte di piccoli introiti alimentari ci sono significativi aumenti di peso, che “spaventano” la persona e che le fanno venir voglia di mollare tutto.
La bella notizia, comunque, è che le alterazioni metaboliche indotte dall’anoressia sono col tempo reversibili. La brutta notizia è che per saperne di più dovrete sorbirvi tutto questo mio post.

Cominciamo dalle basi… ovvero dal metabolismo basale, appunto. Il metabolismo basale rappresenta il dispendio energetico che ha ogni qualsiasi organismo a riposo, ovvero l’energia che è necessaria a svolgere le funzioni metaboliche vitali (attività del sistema nervoso, circolazione sanguigna, contrazioni cardiache, attività respiratoria, etc…).
Data questa definizione, evidenziamo un dato di fatto: nelle 24 ore giornaliere, una persona completamente a riposo, che non si alza neanche da letto ma sta lì dormendo tutto il giorno, brucia più di 1000 Kcal. Ne siete sorprese? Pensate che lo stia inventando io? Ebbene, lasciate allora che ve lo dimostri matematicamente, con una formula che si chiama RMR (Resting Metabolic Rate):

RMR= (10 x peso in Kg) + (6.25 x altezza in cm) - (5 x età) - 161 

Grazie a questa formula chiunque può avere una stima piuttosto fedele di quante calorie brucerebbe se dormisse h 24.
Vi vedo già, lì, che state facendo i calcoli con i vostri dati: scommetto che nessuna di voi ha ottenuto un risultato minore di 1000, ci ho dato?
Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che la restrizione alimentare che si porta avanti con l’anoressia è inutile e deleteria proprio perché troppo restrittiva. E poiché un’alimentazione troppo restrittiva altera il metabolismo basale (ancora un attimo di pazienza, e ve ne spiegherò i perché e i percome), chiunque si rivolge ad una dietista per iniziare un percorso di ricovero, si vede proposta una dieta iniziale da 900 - 1000 Kcal/die, e fugge a gambe levate perché pensa che siano esagerate e la faranno ingrassare a dismisura e senza fine, si ricreda: la matematica non è un’opinione.

Com’è dunque che la restrizione alimentare dell’anoressia determina un abbassamento del metabolismo? Considerate che l’obiettivo primario del nostro corpo è quello di mantenersi in vita. Se perciò gli vengono fornite calorie inferiori a quelle che, in condizioni normali, gli sarebbero necessarie, l’organismo instaura dei meccanismi biologici adattativi che consentono comunque una discreta efficienza di tutte le funzioni primarie legate alla sopravvivenza. La presenza di questi meccanismi adattativi del dispendio energetico atti a preservare la sopravvivenza dell’ organismo in condizioni anche molto sfavorevoli, si traduce appunto nella diminuzione generalizzata delle attività metaboliche e quindi sia nella sospensione di alcune attività non ritenute dal corpo essenziali alla sopravvivenza (ecco perché sparisce il ciclo o, comunque, diventa irregolare), sia in una minore utilizzazione di energia da parte dei diversi tessuti e organi. L’abbassamento del metabolismo basale si accompagna peraltro ad una variazione nell’utilizzo dei substrati energetici: il glucosio (primaria fonte die energia per il nostro organismo), non più introdotto in quantità sufficiente con l’alimentazione ed esaurite le riserve epatiche di glicogeno (forma di stoccaggio del glucosio all’interno del fegato), viene prodotto a partire da substrati non glucidici tramite un processo biochimico chiamato gluconeogenesi: i substrati più utilizzati sono gli aminoacidi (i principali costituenti delle proteine) ed è per questo che il peso che si perde con la restrizione alimentare è dovuto principalmente alla perdita della massa muscolare. La massa grassa – salvo i casi di sottopeso più estremo – si riduce molto meno rispetto alla massa muscolare, perché la gluconeogenesi condotta a partire dagli acidi grassi è più tardiva rispetto a quella condotta a partire dagli aminoacidi.

La restrizione alimentare comporta inoltre una riduzione della cosiddetta termogenesi post prandiale, ovvero l’ aumento immediato del dispendio energetico che si osserva dopo l’ assunzione di un pasto o di singoli nutrienti. La termogenesi post prandiale è dovuta ai processi di assorbimento, metabolizzazione e deposito dei diversi substrati ma è anche sottoposta a meccanismi di regolazione più complessi e ancora non ben conosciuti. Nell’ anoressia, a fronte di una scarsa disponibilità di energia, la termogenesi post prandiale si riduce in accordo con un concetto generale di “risparmio metabolico” da parte dell’organismo (un’altra forma, quindi, di adattamento).

La riduzione del metabolismo basale e della termogenesi post prandiale sono adattamenti biologici piuttosto precoci quando s’inizia a restringere l’alimentazione. Ecco perché teoricamente ci sarebbe bisogno di mangiare sempre di meno per continuare a perdere peso: perché, abbassandosi il metabolismo, è sufficiente un introito alimentare sempre minore per soddisfare le esigenze dell’organismo (nei casi più estremi, il metabolismo si può abbassare anche a 500 Kcal/die). Questo spiega perché è inutile che, se dopo un periodo di restrizione alimentare il vostro peso smette di scendere, restringiate ulteriormente l’introito di cibo: con un metabolismo così ridotto, basta mangiare un’inezia per fare pari (o, addirittura, per dare sopra), per cui la discesa del peso si blocca (e, a volte, il peso ri-aumenta). È normale che sia così. Per cui, lasciate perdere scene da drama-queen stile: “OMG, ho mangiato 600 Kcal e il mio peso non è sceso di un grammo, sono disperata, è la tragedia più grande dell’umanità, altro che tsunami, terremoti, tornadi!... È quasi grave come quando Pikachu perde una battle contro un altro pokémon!” … è ovvio che se avete seguito un regime alimentare così distruttivamente restrittivo da portare il vostro metabolismo ai minimi storici, riprendete peso anche solo mangiando mezzo yogurt magro. Non sperate di continuare a dimagrire ancora restringendo ulteriormente l’alimentazione: il risultato migliore che potrete ottenere, praticamente, in questo modo sarà un collasso. Perché sotto un certo TOT minimo di calorie, l’organismo stacca la spina a intermittenza.

Il fatto che però il peso possa stabilizzarsi ad un livello più o meno basso proprio perché, mangiando di meno, il metabolismo basale si è ridotto, non significa che le cose stanno andando meglio, anzi. Vorrei farvi notare che si può morire a causa di un DCA anche se si è normopeso secondo il range stabilito dal B.M.I.. Questo perché, a prescindere al peso, la restrizione alimentare comporta comunque un danno a tutti i nostri organi. Se non introduciamo con l’alimentazione i nutrienti in maniera adeguata, il cervello, il cuore, i polmoni, il fegato, i reni, l’apparato digerente… ogni qualsiasi porzione del nostro organismo non lavora in maniera appropriata. La continua e progressiva perdita di peso che spesso è tipica dell’anoressia, è solo un sintomo fisico del danno che è stato prodotto con la restrizione alimentare. Il sintomo è sempre posteriore rispetto al danno. Quindi, se anche una persona non ha ancora una perdita di peso particolarmente significativa, questo non significa che il suo corpo non stia vivendo uno stato di deprivazione, e quindi di sofferenza. Il peso corporeo non è strettamente correlato con lo stato di salute. Questa è un’estrema semplificazione assolutamente fuorviante. Spesso è il motivo per cui persone con DCA non ricercano aiuto se non hanno perso TOT chili, perché pensano di non essere “abbastanza malate” per aver bisogno dell’intervento medico. Ma questo è sbagliato. Perché la compromissione della salute corporea data dalla restrizione alimentare, è molto più precoce rispetto al sintomo fisico della perdita di peso. Se ci pensate, questo è un concetto valido per tutte le malattie: sareste capaci di riconoscere una persona diabetica unicamente sulla base del suo aspetto fisico? No, perché è una malattia che si manifesta fisicamente solo quando è avanzata e non trattata. Ma il fatto che una persona diabetica sembri in perfetta salute, non significa che non abbia bisogno delle sue iniezioni di insulina. Per cui, la restrizione alimentare è pericolosa anche solo per il semplice fatto che l’organismo non riesce ad avere quello di cui necessita. E gli adattamenti metabolici sono proprio un tentativo di rispondere a quest’insufficienza. Ma il fatto che entri in azione un adattamento, è già indicativo del fatto che c’è qualcosa che non va.

In virtù di quanto ho appena scritto, una prima ovvia conclusione: a discapito di tutti i luoghi comuni che si trovano facilmente su Internet, relativi a cibi/bevande che dovrebbero fungere da acceleratori del metabolismo, quest’ultimo è accelerato/rallentato solo dalla QUANTITA’ di cibo che viene mangiato, poiché l’obiettivo finale del nostro organismo è sempre quello di mantenere quello che sarebbe il proprio set-point di peso corporeo. Non esiste un singolo magico cibo o una singola magica bevanda che accelera il metabolismo: per cui, voi che vi fate flebo di thé verde o cospargete ogni qualsiasi cosa commestibile di spezie, rassegnatevi. Nonostante questo, il vostro metabolismo non accelererà d’una virgola. (Anche perché, banalmente: se ci fosse un cibo/bevanda capace di accelerare il metabolismo, chiunque potrebbe consumare 10.000 Kcal al giorno di qualsiasi cosa, e poi mangiare/bere costantemente quel cibo/bevanda, e dato che esso accelererebbe il metabolismo, nessuno aumenterebbe d’un grammo. Dato che questa è fantascienza, è palesemente evidente che nessun cibo/bevanda ha simili proprietà magiche.)

Che cosa succede poi ad una persona che per tanto tempo ha ristretto l’alimentazione (e che, quindi, ha un metabolismo basale bassissimo), nel momento in cui inizia un percorso di ricovero e viene rialimentata? Succede quello che molte di voi già sanno benissimo, avendolo vissuto sulla propria pelle: un significativo aumento di peso in un lasso di tempo estremamente breve, che è fortemente ansiogeno e che rappresenta uno dei principali fattori trigger per ricadute nell’anoressia e/o abbandono della terapia nutrizionale e psicologica. Questo accade perché, se in un metabolismo fiaccato dalla restrizione alimentare, viene proposto un introito calorico superiore al livello cui il metabolismo si è assestato, tutto l’eccesso viene immediatamente tradotto in un aumento di peso da parte di un corpo che, in quel momento, è “avido” di calorie perché ne è stato privato per molto tempo, per cui tende ad “immagazzinare” tutto quello che c’è in più.

Tuttavia, quello che bisogna fare nella prima fase della rialimentazione, è avere pazienza: le modificazioni metaboliche dovute all’anoressia, infatti, NON sono irreversibili. Il metabolismo basale che ciascuna di noi aveva prima di entrare nell’anoressia, viene infatti a ripristinarsi nel giro di alcuni mesi… ma solo se si tiene duro nel primo momento di difficoltà, quando si vede risalire significativamente il peso, e si continua ad alimentarsi in maniera regolare. La chiave per normalizzare il metabolismo è infatti proprio quella di mangiare regolarmente tutti i giorni, seguendo l’ “equilibrio alimentare” che la dietista ci prescrive. È il tenere un regime alimentare regolare a lungo, che riporta infatti il metabolismo ai suoi livelli ottimali. Per cui, la rapida impennata del peso che si nota nelle prime settimane di rialimentazione, viene successivamente a ridursi poco a poco, man mano che il metabolismo si normalizza, perché a quel punto il corpo “si accorge” che gli vengono forniti tutti i nutrienti di cui ha bisogno nelle giuste quantità, e quindi vengono meno i meccanismi di adattamento metabolico che erano stati messi in atto con la restrizione alimentare. Quel che succede, quindi, è che al primo rapido recupero del peso segue un incremento molto più lento e graduale, uno stazionamento, o addirittura una diminuzione nel momento in cui il normale metabolismo è ripristinato. Questa progressiva normalizzazione del metabolismo, con le conseguenti oscillazioni di peso, proseguirà fino a che non avrete raggiunto il vostro set-point fisiologico di peso: a quel punto, il vostro peso si stabilizzerà, e rimarrete più o meno su quei valori, come avevo già spiegato nella seconda parte di QUESTO POST

Okay, questo per dirla nella maniera più breve (si fa per dire… ^^” ) e più semplice possibile. Spero che adesso possiate sentirvi anche solo un pochino meno in ansia quando vi siederete di fronte al tavolo, e dovrete seguire il vostro “equilibrio alimentare”.

Se mi sono espressa in maniera comunque poco chiara fatemelo sapere, che cercherò di spiegarmi meglio, e se avete delle domande, fatemele pure. Cercherò di rispondervi nella maniera più esauriente possibile, con gli ovvi limiti elencati a inizio post.

venerdì 7 giugno 2013

Cosa significa scegliere la strada del ricovero

Quando avevo più o meno sui 18 – 19 anni, nessuno sapeva cosa fare con me. Tutta la schiera di psicologi, dietisti, psichiatri, medici con cui avevo avuto a che fare, avevano di fatto alzato bandiera bianca. Dovevo essere io a scegliere scientemente, razionalmente e lucidamente di percorrere la strada del ricovero, dicevano loro, e questo era un qualcosa che io chiaramente non stavo facendo. Fino a che io non l’avessi fatto, non c’era niente che loro potessero fare per me. Avrei cominciato a percorrere la strada del ricovero quando sarei stata pronta.

Ovviamente, ho qualche problemuccio con questo modo di vedere la cosa. Non dico che sia una visione sbagliata, ma è quantomeno una visione molto semplicistica e riduttiva. Prima cosa, dà per scontato che una persona che è nel pieno dell’anoressia sia lucidamente e decisamente capace di scegliere di combattervi contro. Seconda cosa, fa sembrare il ricovero come una scelta sciente, un’unica e ben precisa scelta che una persona compie, e quando lo fa allora magicamente guarisce dall’anoressia.

Il problema è che la strada del ricovero non si sceglie lucidamente e scientemente una volta per tutte. Occorre scegliere di percorrere la strada del ricovero giorno dopo giorno, ogni mattina quando ci svegliamo e ci apprestiamo ad affrontare un’altra giornata, e bisogna rimarcare a noi stesse questa scelta ogni 5 – 6 volte al giorno. Occorre fare questa scelta anche quando proprio non vorremmo. Non è dunque una singola scelta che si fa una volta per tutte, e non è affatto semplice.

Se ci pensate, la stragrande maggioranza dei protocolli terapeutici per i DCA sono fatti per persone che cercano e vogliono (o, tutt’al più, accettano) seguire un protocollo terapeutico. E, insomma, è relativamente facile fare una psicoterapia e una riabilitazione nutrizionale ad una persona che è consenziente, vuole percorrere la strada del ricovero, e ce la mette tutta per essere aderente alle indicazioni mediche. Ma quando si parla di persone nel pieno dell’anoressia, laddove non è infrequente una spiccata difficoltà a comprendere quanto i propri pensieri e i propri comportamenti siano deviati, è veramente difficile riuscire ad intraprendere un percorso di ricovero, perché i medici non sanno come far fronte ad una paziente che non ha nessun interesse a staccarsi dall’anoressia. Per cui, piuttosto che cercare di elaborare nuove strategie terapeutiche per rendere più compliante una paziente che è ancora molto dentro il DCA, è decisamente più facile, economico e conveniente dire alla paziente che “noi ti potremo aiutare solo e soltanto quando tu sarai pronta a percorrere la strada del ricovero”.

Il problema principale di questa concezione medica – e della sua applicazione alle pazienti che hanno un DCA – è che una delle caratteristiche che più frequentemente s’incontrano nelle persone che hanno un DCA (anoressia in particolare) è che non c’è nessuna voglia d’iniziare un percorso di ricovero. Le motivazioni che rendono le persone affette da DCA estremamente restie ad iniziare un percorso di ricovero sono molteplici, e variano a persona a persona: solo per fare qualche esempio, le difficoltà a staccarsi dall’anoressia possono essere legate al fatto che essa rappresenta un’ottima strategia di coping, che fornisce un’illusoria sensazione di controllo, che la persona non si sente “abbastanza malata” da meritare di ricevere aiuto terapeutico, e così via. Ovviamente sarebbe cosa buona e giusta che ogni persona malata di DCA fosse in grado di prendere una decisione riflessiva e razionale in merito alla necessità di curarsi, ma spesso e volentieri le cose non stanno così.

Così tutti i medici si rintanano nei loro uffici, ed aspettano che la ragazza sia “pronta” a percorrere la strada del ricovero. Il problema è che più a lungo una persona viene lasciata in balìa del DCA, più sarà difficile che essa possa scegliere autonomamente di percorrere la strada del ricovero. Più una persona perde peso, minore è la produzione neurotrasmettitoriale, minore è la lucidità, più è difficile rendersi conto dello stato patologico in cui si verte, e scegliere un percorso di ricovero.

Tra l’altro, tutti i comportamenti tipici del DCA diventano molto rapidamente delle abitudini. Si restringe quando ci si trova davanti un piatto col Cibo X, perché è semplicemente quello che ci abituiamo a fare di fronte al Cibo X. Facciamo sempre lo stesso tipo di attività fisica per lo stesso lasso di tempo e nello stesso momento della giornata, perché è nel nostro programma mentale, che diventa un’abitudine. Mangiamo solo determinate quantità di determinati cibi in un certo ordine e ad una certa ora. Il cervello è un organo estremamente abitudinario e reiterativo. Poco a poco, aderisce sempre di più a quelle che sono delle “regole” che inconsciamente stabiliamo quando abbiamo un DCA.

Ecco che l’anoressia diventa la nostra nuova normalità.

Ben presto, tutto si appiattisce. Ci si dimentica com’era quando avevamo più energia. Si tralasciano hobby, interessi, studio, lavoro, perché l'anoressia occupa gran parte della nostra mente e della nostra giornata. Si allontanano gli amici perché non vogliamo che sappiano del nostro DCA. Ci si dimentica di come si faceva a mangiare senza farci problemi prima che l'anoressia esordisse. Ci si dimentica… tutto. Inizialmente, si ricorda ancora com’era la nostra vita in quando l’anoressia non la faceva da padrona. Ma poco a poco, anche questi ricordi s’indeboliscono, e comincia a parerci che in tutta la nostra vita non ci sia mai stato altro che l’anoressia. Si dimentica.

La frase “scegliere scientemente, razionalmente e lucidamente di percorrere la strada del ricovero” mi irrita per varie ragioni, soprattutto perché fa pensare che la strada del ricovero sia una tantum, una scelta che si fa una volta per tutte e poi non ci si pensa più. Come se io oggi scegliessi d’indossare un paio di jeans e una camicia bianca. Faccio questa scelta, indosso questi indumenti, ed è finta qui. Combattere contro l’anoressia non è così semplice. Non è in alcun modo una singola scelta.

Fare colazione. Io mi ricordo quando la mattina mi alzavo da letto e m’intrippavo in pensieri Shakespeariani del tipo “restringere a colazione o non restringere a colazione? Questo è il problema”. E anche quando decidi che, diamine, niente seghe mentali, quella cavolo di colazione la devi proprio fare senza restringere, allora devi decidere se prendere il latte coi biscotti e, nel caso, quali biscotti. Quanti biscotti. E, tra l’altro, quale tipo di latte. Intero? Parzialmente scremato? Scremato? E poi, nient’altro oltre a latte e biscotti? Succo di frutta o no. Qualcos’altro al posto del succo di frutta. Caffè o no (a me il caffè non piace, quindi un problema in meno… almeno questo!). E questo è solo il primo pasto della giornata. E cosa succede quei giorni in cui non si ha proprio per niente voglia di fare colazione? Che si fa, allora? Come si fa ad obbligarsi a mangiare comunque?

Io credo che scegliere la strada del ricovero non è come una lampadina che si accende di punto in bianco. Credo che per scegliere la strada del ricovero sia necessario un supporto medico anche quando non siamo ancora propriamente complianti, e anche quando lo siamo occorre comunque rinnovare questa scelta giorno dopo giorno. Perché è solo così che l’anoressia che è diventata col tempo la nostra normalità, può lasciare il posto al percorrere la strada del ricovero, che col tempo deve diventare la nostra nuova normalità. Più si sceglie la strada del ricovero, più sceglierla risulta essere meno faticoso. Ma per arrivare a questo, occorre imporsi di fare cose che ci danno discomfort, fare comunque cose che non vorremmo fare, cose che allontanano il (fasullo) senso di controllo che ci faceva provare l’anoressia, per lasciarci nell’incertezza di affrontare le sfide della vita senza più ricorrere ad una strategia di coping malata quale è il DCA. Significa che, anche nei momenti in cui non siamo propriamente ancora in grado di percorrere la strada del ricovero perché ancora troppo dentro all’anoressia, c’è bisogno di un supporto nutrizionale e psicoterapeutico che ci fornisca strategie di coping alternative, onde evitare il dilagare dell’ansia che ci riporterebbe immediatamente ad avere una ricaduta. Scegliere di percorrere la strada del ricovero è una scelta che, secondo me, dovremmo rinnovare giorno dopo giorno per tutta la nostra vita. Ma quando il percorrere la strada del ricovero diventa un’abitudine esattamente come lo era diventata l’anoressia, allora non sarà comunque facile e divertente, ma non sarà neanche più così dura come lo è nei primi tempi.
 
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