Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 27 giugno 2014

Il problema della "pseudo anoressia"

Squillino le trombe e rullino i tamburi, gente: ecco a voi un nuovo disturbo alimentare. Si chiama “pseudo anoressia”.

Un momento… cosacosacosa?? Avevamo veramente bisogno di un altro nomignolo per un DCA come le tante drunkoressia, ortoressia, vigoressia che, a mio parere, negano l’estrema sofferenza che accompagna ogni qualsiasi disturbo alimentare? Inoltre, secondo me, dare nomi specifici ai DCA fa accendere una competitività che è insita in questo tipo di patologie. Se io dico “pseudo anoressia”, sembra che il prefisso implichi che se solo ti impegni un po’ di più, o se solo perdi qualche altro chilo, allora anche tu potrai avere una vera e propria anoressia nervosa! Già che ho letto di persone che hanno un DCAnas, e che per questo non si sentono “abbastanza malate”… ecco, la “pseudo anoressia” a mio avviso suscita lo stesso effetto. In ogni caso, adesso si parla di “pseudo anoressia” quando una persona presenta queste caratteristiche:

• Si alimenta di nascosto
• Non mangia mai in pubblico
• Il suo peso corporeo aumenta e diminuisce continuamente alternativamente
• È ossessionata da corpo, peso, alimentazione

Il problema è che personalmente classificherei la maggior parte di questi comportamenti come alimentazione disordinata, piuttosto che come un vero e proprio disordine alimentare. I criteri sopraelencati possono infatti tranquillamente descrivere una qualsiasi persona che mangia scorrettamente, ma non ha un DCA. Il problema è che ancora non siamo molto bravi a discernere tra alimentazione disordinata e disordini alimentari. Persino le associazioni più famose che si occupano specificatamente di DCA non hanno ancora trovato un criterio per splittare le due cose. Può un disordine alimentare essere un caso estremo di alimentazione disordinata? Non lo sappiamo ancora. Secondo me NO, però questa è solo la mia opinione, e la verità è che non lo sappiamo.

Se ci pensate, i golden standard per la dagnosi di DCA sono ancora oggi dei test psicologici (per esempio il Test EAT-26, il Questionario SCOFF, il Test EDE, etc…) che per lo più vanno a valutare fattori relativi alla dieta e all’immagine corporea. In questo modo, viene dato per implicito il fatto che tanto maggiori sono le alterazioni della dieta e della percezione dell’immagine corporea, tanto più è probabile che la persona in questione abbia un DCA, e che sia grave. Tuttavia, se ci si concentra solo su queste cose, risulteranno positive al test anche persone che non hanno un DCA, ma solo un’alimentazione disordinata. E, viceversa, risulteranno negative ai test persone che invece hanno un vero e proprio DCA, ma che non sono particolarmente centrate sulla dieta o sull’immagine corporea. Il margine d’imprecisione di questi test dunque è in realtà ENORME.

Personalmente ritengo che un modo migliore per discernere tra disordine alimentare ed alimentazione disordinata potrebbe essere rappresentato dalla determinazione dell’intrusività dei pensieri indotti dal (presunto) disturbo alimentare. A prescindere dal peso, dal B.M.I., dalla frequenza con cui una si abbuffa e/o vomita, bisognerebbe vedere quanto i comportamenti ed i pensieri dettati dal (presunto) DCA incidono negativamente sulla qualità della vita. Questo secondo me sarebbe il vero e corretto criterio per valutare la presenza nonché la “gravità” (virgolette d’obbligo!) di un DCA (quale che sia). Quando si parla di “qualità della vita”, infatti, si fa contemporaneamente riferimento sia al campo fisico che a quello psicologico: è indubbio che non si possa avere una buona qualità della vita con un corpo fisicamente non in salute (vuoi per il sottopeso eccessivo in chi è affetta da anoressia, vuoi per i danni prodotti dalle condotte di compensazione in chi è affetta da bulimia, vuoi per le abbuffate in chi soffre di binge, etc…), e allo stesso tempo è indubbio che non si possa avere una buona qualità della vita con una mentalità pervasa dal DCA... perché tanto più esso è presente nella nostra testa, tanto più si perde in vita sociale, lavoro, studio, sport, e tutte quelle cose che rendono la nostra vita appunto una vita di qualità. Ergo, secondo me la qualità della vita (e l’entità della sua compromissione) sarebbe il parametro ottimale nella valutazione della presenza e della “gravità” di un DCA, compendiando tutti gli aspetti suddetti, fisici e mentali.

Il principale problema comunque, secondo me, sta in quelli che sono gli attuali criteri diagnostici di anoressia e bulimia. Per dirla terra-terra, sono abbastanza assurdi. Anche perché sono estremamente limitativi: per cui, se si vuole valutare l’aderenza a questi criteri, viene fuori che in realtà circa il 50 – 70% delle persone con un DCA, ha in effetti un DCAnas (Walsh & Sysko, 2009). Anche se molti, persino medici, si riferiscono ai DCAnas considerandoli una sorta di “DCA subclinici”, io credo che questo sia totalmente, completamente ed assolutamente sbagliato. Perché la penso così? Perché i tassi di mortalità nelle persone affette da DCAnas (la cosiddetta “anoressia subclinica nella fattiscpecie”) e “pseudo anoressia” sono attualmente uguali identici a quelli di chi è affetta da anoressia o bulimia (Crow et al., 2009)

Visto che a molte persone viene diagnosticato un DCAnas, mi viene da pensare che non si stia facendo un granché di lavoro per definire cosa sia veramente un DCA. Nello studio di Walsh & Sysko che vi ho linkato prima, i ricercatori configurano quelle che chiamano “Grandi Categorie per la Diagnosi di DCA”, al fine di ridurre il numero di diagnosi di DCAnas e classificare più accuratamente le varie tipologie di disturbi alimentari ed i loro sintomi. In questo studio vengono dunque create 4 Grandi Categorie: “Anoressia Nervosa e disordini alimentari comportamentalmente simili”, “Bulimia Nervosa e disordini alimentari comportamentalmente simili”, “Binge Eating Disorder e disordini alimentari comportamentalmente simili” e “DCAnas”. In questo modo si potrebbe farla finita con i requisiti di peso e di presunta distorsione dell’immagine corporea tuttora presenti nella diagnosi di anoressia, così come con il numero di abbuffate che una persona dovrebbe fare ogni settimana per poter rientrare nella diagnosi di bulimia.

Uno studio restrospettivo ha dimostrato che utilizzando questo schema calssificativo, tra le persone che si rivolgevano al “Columbia Centre for Eating Disorders”, la prevalenza dei DCAnas poteva essere ridotta dal 39,3% al 2,4% (Sysko & Walsh, 2011). Ovviamente, ci sono un sacco di difficoltà nel passare a questo tipo di schema perché non sappiamo quanto possano essere effettivamente simili tra loro le persone che rientrano in una medesima categoria diagnostica. Tuttavia io credo che smetterla di considerare i numeri sarebbe un’ottima cosa da fare, perché ora come ora, basandoci così tanto sui numeri per fare diagnosi, un sacco di ragazze vengono trattate come se i loro DCA non fossero seri solo perché non rispondono a pieno a criteri diagnostici numerici di anoressia e bulimia. In realtà, non è affatto vero che i DCA di quelle ragazze non sono seri, è che i criteri diagnostici attuali sono UNA STRONZATA. (Sì, penso che questo sia il termine tecnico più adatto da usare in questo contesto…)

In conclusione, quello che vorrei dire semplicemente è: non abbiamo alcun bisogno di un “nuovo” DCA. Abbiamo già parole su parole per definirli. Perciò, anziché perdere tempo a coniare neologismi, sarebbe il caso di concentrarsi sul miglioramento dei criteri per diagnosticare i DCA. Le persone cui viene appiccicata l’etichetta di “pseudo anoressia” non hanno necessariamente un “disturbo alimentare subclinico”: possono essere anche persone che hanno un vero e proprio DCA conclamato. Quell’anoressia che viene definita “subclinica” è in effetti virtualmente indistinguibile dall’anoressia clinicamente conclamata. C’è bisogno di aumentare la consapevolezza in merito a queste patologie, e abbiamo anche bisogno di un metodo efficace per descrivere e considerare in toto i disturbi alimentari, in qualsiasi forma essi si presentino, senza perdere tempo ad inventare nuovi nomi che veramente lasciano solo il tempo che trovano.

venerdì 20 giugno 2014

Combattere contro l'anoressia: Tips & Tricks

1. Concentratevi su ogni qualsiasi cosa non abbia niente a che vedere con i soliti pensieri che vi mette in testa l’anoressia.  

2. Se avete qualche problema strettamente inerente la vostra alimentazione, contattate immediatamente la dietista/nutrizionista che vi segue e parlatene con lei, al fine di trovare una soluzione razionale e alimentarmente corretta, ma che allo stesso tempo non vi crei troppi problemi.

3. Evitate di leggere su Internet o sulle riviste ogni qualsiasi cosa abbia a che fare con l’alimentazione, evitate programmi televisivi che parlano di cibo. Piuttosto, cercate di ragionare su quali possano essere quei veri problemi che state disperatamente cercando di soffocare sotto il capro espiatorio dell'alimentazione.

4. Visualizzate dentro la vostra mente dove volete arrivare con il vostro percorso di ricovero, e concentratevi su cosa potete fare al momento come piccolo passo per raggiungere poco a poco il vostro obiettivo ultimo.

5. Quando sentite di avere un problema che scarichereste mettendo in atto comportamenti tipici del DCA, prendete fiato e fermatevi un attimo a pensare a cosa potreste concretamente fare per affrontare (e magari anche risolvere) quel problema senza utilizzare la vecchia strategia di coping rappresentata dall’anoressia.  

6. Cercate quotidianamente strategie di coping che non siano disfunzionali e nocive come l’anoressia, ma che vi consentano comunque di tamponare le difficoltà.  

7. Distraetevi in ogni modo possibile. State più tempo con i vostri amici: essere circondate da persone con cui state bene e con cui fate cose divertenti, è un ottimo modo per decentrare l’attenzione dai soliti pensieri tipici del DCA, e per passare momenti piacevoli.

8. Se avete delle difficoltà mirate sul momento del pasto in sé (per esempio, non riuscite ancora a seguire il vostro “equilibrio alimentare”), cercate di mangiare insieme a qualcuno che vi aiuti a mantenervi “sulla giusta strada”.  

9. Cercate di circondarvi di persone che abbiano una relazione sana con il cibo e con il proprio corpo, che non parlino affatto di queste tematiche, anzi, che se ne freghino proprio.  

9 bis. Evitate di circondarvi di persone che sono nel pieno di un DCA, che seguono diete, che hanno un’alimentazione incongrua, che non fanno altro che triare in ballo argomenti che vi riportano a piè pari dentro il DCA: con persone del genere intorno le probabilità di ricaduta aumentano considerevolmente.

10. Imparate a riconoscere quelli che sono i pensieri indotti dall’anoressia, che non hanno perciò niente di fondato né di vero in sé. Discernete quelli che sono i pensieri provocati dalla malattia, dai vostri veri pensieri. Non identificatevi nei pensieri della malattia. Quella è la patologia che avete, non siete voi.  

11. Se sentite che state per cedere, alzate il telefono e chiedete aiuto. A chiunque riteniate opportuno. Familiari, amici, psicoterapeuti, dietisti… chiunque.  

12. Non isolatevi. La solitudine è una delle maggiori trappole che l’anoressia può tendervi. Quando si è da sole, senza distrazione alcuna, è molto più facile che la mente si fissi su quelli che sono i pensieri tipici del DCA.  

13. Leggete libri, riviste, blog pro-ricovero, che non abbiano niente a che fare con l’alimentazione, ma che possano supportare la vostra motivazione.

14. Cercate di evitare tutto quello che ormai sapete essere un trigger che può favorire la vostra ricaduta nel DCA.  

15. Fate una cosa gentile al giorno nei confronti di voi stesse.  

16. Abbiate cura di voi stesse come se foste delle bambine: non siate troppo severe con voi stesse, datevi la possibilità di provare, di sbagliare, e di riprovare ancora e ancora e ancora. Gli obiettivi più lontani si raggiungono per piccoli passi.  

17. Non arrendetevi. Rialzatevi dopo ogni ricaduta, e ricominciate a lottare con più forza e più convinzione di prima. E ricordate che noi siamo fatte per combattere. Quando ci ammaliamo, il nostro corpo combatte per ripristinare la propria omeostasi. Quando tratteniamo il fiato, il nostro corpo combatte per riprendere a respirare. Quando ci tagliamo accidentalmente, il nostro corpo combatte per riparare la ferita. Ci sono millemila piccolissime cose – dalla superficie cutanea alla cellula posta più in profondità – che sono frutto di un costante combattimento che il nostro corpo pone in essere affinchè noi possiamo essere qui, oggi, davanti ai nostri computer, a scrivere/leggere queste parole. Perciò, se ogni nostra singola molecola non si arrende mai, perché mai dovremmo essere noi a farlo?

venerdì 13 giugno 2014

Peso recuperato, alimentazione corretta, ma niente ciclo mestruale in vista? E allora?

Date un’occhiata al DSM: quando si parla di criteri diagnostici per l’anoressia, questi si basano fortemente su dati che sono in realtà difficili da misurare e quantificare obiettivamente. La grande eccezione è rappresentata dall’amenorrea: l’assenza di mestruazioni (il cosiddetto “ciclo”) per almeno 3 mesi consecutivi. Questo criterio è stato fortunatamente eliminato dal DSM-V, ma per tanti anni ha purtroppo infestato il DSM-IV-TR.

Perchè questo criterio diagnostico? Forse perchè è facile da misurare oggettivamente; ed ecco che spesso viene commesso l’errore di considerare il ritorno del ciclo come un marker di “salute” e di “guarigione” dall’anoressia. In alcuni casi la ricomparsa del ciclo viene considerata come un obiettivo centrale del percorso terapeutico.

[Viceversa, il non perdere il ciclo viene spesso percepito da chi ha un DCA come la conferma che “non si è abbastanza malate”. Il loro DCA non viene legittimato perché pensano che se hanno ancora il ciclo vuol dire che il loro corpo è ancora in salute, per cui “devono perdere ancora peso” o “non meritano di chiedere aiuto” – il che è ovviamente un pensiero profondamente malato e completamente sbagliato.]

Spesso mi è capitato di leggere su vari blog di ragazze che stanno seguendo un percorso di ricovero, il cui peso si è ristabilito, che mangiano in maniera corretta e regolare, ma a cui non è ancora ritornato il ciclo mestruale. Ovviamente si chiedono cosa stia succedendo. Dovrei mangiare di più? Dovrei mangiare diversamente? Dovrei riprendere altro peso? Rispondere (correttamente!) a domande di questo tipo è una cosa pressochè impossibile da fare on-line. Ma mi ha fatto venire voglia di approfondire ulteriormente l’argomento. Il punto cruciale credo che sia:

Da che cosa dipende la ricomparsa del ciclo mestruale durante il percorso di ricovero dall’anoressia?

Per rispondere a questa domanda, oltre alle mie competenze professionali personali, mi baso soprattutto su uno specifico studio che è stato condotto al riguardo da Golden et al.

Qui sotto, vi metto un’immagine di quello che normalmente succede nel corpo di una donna in merito alla regolazione delle mestruazioni. Si tratta, in pratica, di una serie di circuiti a feedback positivo e negativo. Date un’occhiata a come i diversi ormoni aumentano e riducono la loro concentrazione ematica in maniera molto significativa durante il ciclo (per esempio, il picco dell’LH – ormone lutenizzante – si registra subito prima dell’ovulazione).

Ovviamente questo ciclo è alterato durante i periodi di amenorrea, e dunque gli autori dello studio in questione hanno cercato di vedere se ci fossero dei fattori che potevano predire o che potevano essere associati al ritorno del ciclo mestruale. Oltre a considerare i livelli di questi ormoni, i ricercatori hanno valutato anche il peso, la percentuale di massa grassa corporea, e l’entità dell’esercizio fisico fatto dalle pazienti.

I ricercatori hanno effettuato uno studio di coorte della durata di 2 anni, iniziato con 100 adolescenti affette da anoressia (sia sottotipo 1 che sottotipo 2), con 69 ragazze disponibili al primo follow-up dopo 12 mesi, e 59 ragazze disponibili al secondo follow-up dopo 24 mesi.

Caratteristiche delle ragazze coinvolte nello studio:
• Età compresa tra i 12 e i 24 anni.
• Peso perso mediamente: 13,5 chili.
• Amenorrea mediamente della durata di 11 mesi.
• Tutte stavano seguendo un percorso di ricovero al momento dello studio.  

Risultati principali:
• Dopo un anno, 47 delle 69 pazienti ripresentatesi al follow-up aveva nuovamente il ciclo (68%)
• Dopo 2 anni, 56 delle 59 pazienti ripresentatesi al follow-up aveva nuovamente il ciclo (95%)

Al follow-up di 24 mesi, per le 56 ragazze cui era tornato il ciclo:
• La durata totale media dell’amenorrea era stata pari a 22 mesi.
• Il ritorno del ciclo richiedeva necessariamente un aumento di peso.
• Il ritorno del ciclo avveniva nella maggior parte dei casi ad un peso maggiore rispetto al peso a cui il ciclo era andato via.
• Nella maggior parte dei casi il ciclo ritornava quando le ragazze raggiungevano un peso che era circa il 90% del loro Set Point di peso fisiologico.
• A 48 ragazze il ciclo era tornato dopo 6 mesi di mantenimento del loro Set Point di peso fisiologico.

Cosa si può dire delle ragazze cui il ciclo non era ancora ritornato al follow-up dopo 2 anni?

Escluse quelle ragazze che erano ancora parecchio sottopeso, se si considerano dunque solo quelle ragazze il cui peso si era più o meno ristabilito, tra coloro cui era tornato il ciclo, e coloro cui non era tornato, NON C’ERA ALCUNA DIFFERENZA di B.M.I., percentuale di massa grassa, recupero del peso fino a tornare al Set Point.

In quanto all’esercizio fisico: il 50% delle ragazze cui non era tornato il ciclo faceva ancora attività fisica in maniera eccessiva… ma la faceva anche il 42% delle ragazze cui era tornato il ciclo!

E allora, c’è veramente qualcosa che si correla con la presenza/assenza del ciclo, e che può predire quando il ciclo potrebbe ritornare?

Ebbene, ci dice lo studio in questione, SI: i livelli di estradiolo erano significativamente più bassi nelle ragazze cui NON era tornato il ciclo. Il 90% delle pazienti cui era tornato il ciclo aveva dei buoni livelli di estradiolo, perfettamente nel range della normalità. Viceversa, solo il 19% delle ragazze cui non era tornato il ciclo aveva livelli normali di estradiolo.

C’è da sottolineare comunque che il 10% delle ragazze cui era tornato il ciclo aveva comunque dei livelli di estradiolo molto bassi (e che, come dicevo, il 19% delle ragazze con livelli di estradiolo normali non aveva comunque il ciclo). Il che ci suggerisce che il corpo umano è tremendamente COMPLICATO. (Perciò, non panicate se il ciclo non vi è ancora tornato ma il vostro peso è già più alto rispetto a quello che avevate quando vi è andato via, o viceversa: è normale).

Aggiungo inoltre che, al primo follow-up, le ragazze messe a confronto tra quelle che avevano di nuovo il ciclo e quelle che non lo avevano ancora, erano simili tra loro per età, età del menarca, durata dell’amenorrea, durata della fase peggiore dell’anoressia, quantitativo di peso perso, entità di attività fisica fatta.

Un’altra cosa di questo studio che ho trovato interessante: le ragazze rimaste senza ciclo avevano pure livelli di LH così bassi da non essere pressoché misurabili all’inizio dello studio. La possibilità di rimanere senza ciclo è stata stimata 10 volte maggiore nelle ragazze che avevano inizialmente un LH pressoché assente, rispetto a quelle che avevano invece livelli di LH bassissimi (ovvio, dato il sottopeso) ma comunque misurabili.

Vorrei precisare inoltre che maggiore è il lasso di tempo in cui si rimane senza ciclo, maggiore è la compromissione ossea, maggiore dunque è il rischio di sviluppare osteopenia o addirittura osteoporosi anche in giovanissima età, perché gli ormoni che regolano la presenza del ciclo (gli estrogeni in particolar modo) sono attivi anche sulle ossa.

Comunque, tornando allo studio. Una delle cose che trovo più interessante di questa ricerca è che gli autori erano in grado di predire (retrospettivamente, suppongo…) quali ragazze avevano maggiori possibilità di rimanere senza ciclo, e quali (in un lasso di tempo ovviamente variabile da persona a persona) invece avevano maggiori possibilità che gli ritornasse. Il gruppo ad alto rischio per il non-ritorno del ciclo era rappresentato dalle ragazze con bassi livelli di estradiolo e bassi livelli di GnRH (GnHR nella figura che ho postato sopra). Ed inoltre, come vi dicevo, quelle che avevano inizialmente livelli di LH così bassi da essere praticamente non misurabili.

Gli autori dello studio concludono:

“[…] abbiamo dunque trovato che raggiungere almeno il 90% del peso rispetto al proprio Set Point di peso fisiologico, garantisce nella maggior parte dei casi il ritorno del ciclo, nell’86% delle pazienti entro 6 mesi dal recupero di questo peso. (Sebbene alcune abbiano recuperato il ciclo anche dopo 2 anni o più di peso corretto stabile). Il ritorno del ciclo non dipende meramente ed unicamente dalla percentuale di massa grassa corporea o dal peso, bensì dal recupero della funzione dell’asse endocrino ipotalamo-ipofisi-ovaie, ripristino funzionale che può essere valutato al meglio mediante la misurazione dei livelli sierici di estradiolo.”
(mia traduzione) 

Ergo, se siete preoccupare perché nonostante il recupero ponderale il ciclo non vi è ancora tornato, o se siete semplicemente curiose, chiedete al vostro medico di famiglia di poter misurare i vostri livelli ematici di estradiolo (basta un comune prelievo del sangue).

In ogni caso, giustamente gli autori dello studio precisano:

“Non esiste uno specifico livello di estradiolo che può prevedere quando le mestruazioni torneranno, prima della ricomparsa del ciclo. È possibile che un elevato livello di estradiolo indichi una correlazione, e non una predizione, del ritorno del ciclo. Elevati livelli di estrogeni esprimono meramente un ulteriore fondamentale cambiamento: la riattivazione in toto dell’asse ipotalamo-ipofisi-ovaie.” 
(mia traduzione) 

Dal mio punto di vista, il punto centrale di tutto questo è: se siete ancora molto sottopeso, o se comunque siete ancora lontane dal vostro Set Point di peso corporeo fisiologico (a prescindere dal peso in sé), è normale che non abbiate il ciclo. Tuttavia, il nostro corpo è IMMENSAMENTE COMPLICATO (come se non lo sapeste di già, eh?!) il che significa che non esiste un singolo fattore (peso corporeo, percentuale di massa grassa, B.M.I., qualità/quantità di alimentazione, entità dell’attività fisica, peso prima del DCA, etc…) che può adeguatamente predire quando vi ritornerà il ciclo durante il vostro percorso di ricovero. E, in certi casi, anche quando il peso è stato recuperato, e si è di nuovo raggiunto il proprio Set Point, le mestruazioni possono comunque non venire per mesi o addirittura per anni, perché dipendono tantissimo dall’azione ormonale, e se gli ormoni rimangono sballati, anche il ciclo ne risente. Per cui, non fate caso al peso che avevate quando vi è andato via il ciclo, e non vi angosciate se ancora non vi è tornato: riattivare l’asse ipotalamo-ipofisi-ovaie richiede ben di più del semplice recupero ponderale.

[Considerazione collaterale: l’assenza di mestruazioni non è sinonimo di assenza di ovulazione ( – e viceversa: la presenza di mestruazioni non è sinonimo di presenza di ovulazione). Ergo, se anche a causa del vostro DCA siete attualmente in amenorrea, potreste comunque avere l’ovulazione, il che significa che se avete dei rapporti potreste comunque rimanere incinta. Dunque divertitevi pure, assolutamente!, ma non dimenticate il condom!! ^__^]

venerdì 6 giugno 2014

Ampliare gli orizzonti: Neuroscienze VS Psicologia dei DCA

Ho letto l’abstract di un articolo pubblicato recentemente che illustra quali sono le maggiori problematiche inerenti il trattamento delle malattie mentali in generale, e dei disturbi alimentari in particolare. Quest’articolo, scritto da Jim Harris e Ashton Steele, e pubblicato su “Eating Disorders: The Journal Of Treatment And Prevention”, s’intitola provocatoriamente: “Have we lost our minds? The siren song of reductionism in Eating Disorder research and theory”.

Gli autori affermano che, nell’ultimo quinquennio, “il focus della ricerca sui DCA è stato shiftato dalla mente al cervello”. Personalmente, sono in disaccordo con quest’affermazione su 2 livelli. Innanzitutto, questa frase dà per assunto che “mente” e “cervello” siano 2 entità separate. Ma io non credo proprio che lo siano. La “mente” è semplicemente il range di funzioni consce che sono espletate dal cervello: per esempio i pensieri, le credenze, le emozioni, le intenzioni, le motivazioni ed i comportamenti. Queste sono funzioni mentali che originano nel cervello, sono eseguite dal cervello, e sono interpretate dal cervello.

Infatti, recenti sviluppi nella genetica e nelle tecniche di neuroimaging hanno permesso agli scienziati di studiare la struttura, le funzioni e i circuiti cerebrali nei minimi dettagli, cosa che non era possibile fare precedentemente. I ricercatori hanno utilizzato queste nuove tecnologie per creare e testare nuove ipotesi riguardo il funzionamento del cervello nelle persone che hanno un DCA. E si sono così accorti che, quando il DCA è pienamente in atto, nel cervello si verificano delle alterazioni funzionali; né più e né meno di quanto accade per chi ha un disturbo bipolare o la schizofrenia.

Tuttavia, mentre la ricerca genetica e di neuroimaging ha proliferato nel campo dei DCA, altrettanto è stato fatto per quel che concerne le ricerche sugli aspetti psicologici e sui trattamenti psicoterapeutici dei DCA, soprattutto per quel che riguarda la terapia cognitivo-comportamentale, e la terapia familiare. Al contrario di quanto affermano Harris e Steele, non abbiamo “lost our minds”. Abbiamo semplicemente allargato gli orizzonti e approfondito il campo d’indagine per studiare le basi neuroscientifiche delle malattie mentali come le nuove tecnologie permettono di fare.

Harris e Steele, scindendo il concetto di “mente” da quello di “cervello”, sostengono che i DCA siano malattie del “cervello”, e che quindi necessitino di cure mirate sull’anomalia neurobiologica sottostante: in parole povere, farmaci. I due ricercatori infatti concludono che c’è molto da lavorare in campo farmacologico, perché in effetti ad oggi non è stato ancora trovato alcun farmaco che riesca a garantire significativi benefici alle pazienti affette da anoressia/bulimia/binge/DCAnas.

Quest’assunto semplicistico e il suo corollario riflettono a mio avviso una sostanziale mancanza di comprensione dell’interazione tra il funzionamento del cervello e i sintomi delle patologie psichiatriche. Secondo me, infatti, gli autori sbagliano nel non riuscire a riconoscere il fatto che molti interventi psicoterapeutici sono estremamente utili (spesso e volentieri anche più di quelli farmacologici) per migliorare la qualità della vita di pazienti con patologie psichiatriche che pure possono avere una base biologica.

Giusto per fare un esempio: è ampiamente riconosciuto tanto dalla comunità scientifica quanto dagli psicologi, che l’autismo è una malattia biologico-neurologica determinata per lo più dalla mancanza di una particolare tipologia di neuroni (i cosiddetti “neuroni-specchio”). Tutt’oggi, non esiste alcun farmaco che abbia mostrato significativi miglioramenti nel trattamento dell’autismo. Il gold-standard per il trattamento dell’autismo è ad oggi l’A.B.A. (Applied Behavior Analysis), che è una sottospecie di terapia comportamentale incentrata sulla costruzione delle competenze, formazione dei genitori, e modificazione delle contingenze ambientali (chiedo venia ad eventuali psicoterapeuti che leggono per la mia semplicistica spiegazione). La maggior parte dei bambini con autismo risponde molto bene a questo tipo di terapia, e alcuni di loro possono addirittura arrivare ad integrarsi a scuola nelle classi di bambini “normali” senza che si noti la discrepanza tra chi ha l’autismo e chi non ce l’ha.

Vi dice qualcosa? Dovrebbe, visto che è esattamente ciò che accade nel mondo dei DCA. Qui i trattamenti psicologici sono molteplici, perché ognuna di noi ha il proprio carattere e quindi risponde in maniera diversa, per cui la psicoterapia necessita di essere personalizzata, però effettivamente grazie alla psicoterapia si possono fare grossi passi avanti, che ad oggi nessun farmaco in sé permette di fare.

Credo che ci siano molti preconcetti sulla psicoterapia. Per esempio, molte persone pensano che la finalità della psicoterapia sia semplicemente quella di ri-insegnare alla paziente ad alimentarsi correttamente. Non funziona assolutamente così, ma proprio per niente. La gestione degli aspetti alimentari dev’essere lasciata nelle mani di un dietista/dietologo/nutrizionista, la funzione della psicoterapia è quella di scavare nell’interiorità, di capire ed affrontare quali sono i veri problemi che si nascondono dietro il banale capro espiatorio dell’anoressia/bulimia. Certo, riprendere ad alimentarsi correttamente fa parte del percorso di ricovero, ed è importante che questo avvenga. Ma è solo una delle tante componenti della strada del ricovero.

Altro esempio: molte gente pensa che grazie alla psicoterapia la persona possa uscirne “come nuova”, completamente cambiata. Di nuovo, un falso luogo comune. L’obiettivo della psicoterapia non è assolutamente quello di cambiare il carattere di una persona, bensì di insegnarle semplicemente a smussare certi angoli, ad usare i suoi punti di forza, e a trovare nuovi armi per affrontare le situazioni difficili, mettendo così in atto strategie di coping che siano differenti da quella distruttiva del DCA.

A differenza di quella che è la credenza popolare, la psicoterapia non consiste nello sdraiarsi sul lettino davanti allo psichiatra e parlare del proprio rapporto con la madre. Questo tipo di psicoterapia che veniva praticata tipo 60 anni fa è del tutto superata, perché è stato dimostrato che non conduce ad alcun reale risultato. Viceversa, le psicoterapie odierne sono tutte basate sull’evidenza (Evidence-Based, per usare il termine tecnico): e sono psicoterapie attive, che spingono alla riflessione e all’azione e, credeteci o meno, sono funzionali.

Mi viene veramente rabbia quando sento le persone fare generalizzazioni in ambo i sensi, e dire: “La psicoterapia non funziona per malattie come i DCA”, oppure “La psicoterapia è l’unico e il miglior modo possibile per trattare i DCA”. La verità è più specifica: ci sono alcuni tipi di psicoterapia, basati sull’evidenza, che sono effettivamente utili per trattare i DCA; ma il tipo di psicoterapia da applicare che risulta funzionale varia da persona a persona, sulla base del suo carattere e del DCA che ha (non tutti i tipi di psicoterapia sono efficaci indiscriminatamente su tutte le pazienti!). Inoltre, in alcuni casi medicalmente valutati, può essere anche utile affiancare dei farmaci alla psicoterapia, principalmente laddove ci sono delle comorbidità (per esempio DCA + depressione, DCA + ansia, DCA + DOC, etc…), perché questo può agevolare il percorso in quegli specifici casi selezionati: dei farmaci non va abusato, ma neanche vanno evitati come fossero peste. Vanno usati nella maniera opportuna, e quando necessario, sotto prescrizione medica.

Dal mio punto di vista, non è sbagliato studiare i DCA anche da un punto di vista neuroscientifico. Però, occorre specificare che cosa s’intende, quando si parla di “studiare i DCA da un punto di vista neuroscientifico”.

A mio avviso, studiare i DCA da un punto di vista neuroscientifico NON significa:

• Che i DCA possono solo essere trattati con i farmaci.
• Che i fattori psicologici e le millemila concause individuali sono irrilevanti.
• Che la personalità della paziente non conta.
• Che la paziente non ci può fare niente, perché sono malattie che dipendono solo da un malfunzionamento del cervello.
• Che la psicoterapia è obsoleta.

Viceversa, studiare i DCA da un punto di vista neuroscientifico, secondo me SIGNIFICA:

• Che i DCA sono MALATTIE, nessuna differenza con tumori, diabete o schizofrenia.
• Che le pazienti scelgono, sì, un sintomo alimentare, ma non scelgono una malattia.
• Che i DCA non sono causati prettamente da dinamiche familiari o pressione sociale.
• Che la prevenzione primaria ad impostazione del tipo: “spieghiamo a tutti che le modelle sono troppo magre e non devono essere imitate”, oppure come: “devi imparare ad amare te stessa”, non serve a una pippa.
• Che una volta nel pieno del DCA, le alterazioni delle funzioni neurotrasmettitoriali sono simili per tutte, e che per correggerle occorre tornare ad alimentarsi regolarmente.
• Che avere genitori/sorelle/fratelli/parenti stretti con un DCA aumenta il rischio che anche la figlia/sorella/nipote abbia un DCA, non meramente per genetica, ma perché il cervello è un organo altamente imitativo e reiterativo.
• Che i farmaci possono essere utili, (MA NON CURATIVI!), in alcuni casi medicalmente valutati.
• Che ricominciare ad alimentarsi correttamente è necessario per eliminare alcuni sintomi dei DCA che sono proprio connessi alle alterazioni cerebrali conseguenti alla scorretta alimentazione, ma che questa è solo una piccola parte del percorso di ricovero.
• Che la psicoterapia mirante al trovare e all’affrontare le vere problematiche che si nascondono dietro all’anoressia, è fondamentale per fare passi avanti sulla strada del ricovero.
• Che per ogni paziente è necessario trovare un tipo specifico di psicoterapia che funzioni su di lei, perché non esistono panacee universali.
• Che le teorie elaborate nel secolo scorso, e propinate come verità assolute, in merito alle cause dei DCA sono per lo più scazzate.

Spero che Harris e Steele (e tutti i professionisti impiegati nella ricerca delle terapie per i DCA) possano concretizzare questi punti. Ancora più in generale, se la gente avesse anche solo queste conoscenze di base sui DCA, familiari ed amici di chi è malata potrebbero relazionarsi alla paziente in maniera migliore, senza lasciarsi condizionare da cliché e falsi luoghi comuni.
 
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