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venerdì 15 febbraio 2013

Una malattia potenzialmente letale

Una domanda che mi sento spesso rivolgere da chi mi scrive via e-mail è: ma un DCA è davvero una malattia così grave? È veramente una patologia potenzialmente letale?

Quindi, ecco qui la mia risposta affinchè tutte possiate leggerla.

No, non tutte le persone che hanno un disturbo alimentare sono immediatamente a rischio di morire per le complicanze fisiche determinate da anoressia e bulimia, o per suicidio. Allo stesso modo, non tutte le persone con un DCA vanno incontro alla morte come diretto risultato del DCA. Eppure, statistiche alla mano, un’adolescente affetta da anoressia ha una probabilità di morire 12 volte maggiore rispetto alla sua compagna di banco che non ha un DCA. Questa stessa adolescente ha anche una probabilità 60 volte maggiore della compagna di banco di tentare il suicidio.

In termini prettamente medici, si utilizza la parola “life-threatening”. Tra le varie traduzioni letterali potrei metterci “che può uccidere”, “che minaccia la vita”, “potenzialmente mortale”, “molto grave, pericolosa, critica”. Si tratta, in buona sostanza, di una parola che viene associata a tutte quelle diagnosi, sindromi o condizioni patologiche in cui il rischio di mortalità è considerato elevato – soprattutto se, quando la patologia in questione non viene trattata, c’è un altissimo rischio che il paziente muoia. Non bisogna fare confusione con i cosiddetti ALTEs – apparent life threatening events (eventi che mettono apparentemente in rischio di vita). Questo temine si usa infatti per indicare quelle situazioni in cui c’è un improvviso arresto respiratorio, o un’ostruzione delle vie aeree, o anomalie a livello della funzionalità cardiaca e neurologica. Una delle cose che permette di classificare un DCA come una malattia “life-threatening” è rappresentata dal fatto che chi segue attivamente comportamenti tipici del disturbo alimentare (restrizione alimentare, vomito auto-indotto, abuso di lassativi, etc…) è sostanzialmente a rischio per un ALTEs.

E c’è da ricordare che uno dei veri problemi con un DCA e che noi (noi affette da un DCA, tanto quanto i medici, tanto quanto i genitori) non possiamo dire quando un evento ALTEs sta per accadere. Il modo in cui il nostro corpo reagisce alle modificazioni indotte dai comportamenti tipici di un DCA consiste nel cercare di mantenere l’omeostasi delle funzioni vitali quanto più a lungo possibile, prendendo le risorse necessarie dalle funzioni non vitali (ecco perché quando si scende sotto un certo peso in genere compare l’amenorrea). E continua a farlo fino a che tutte le riserve biologiche non si sono esaurite. Il che spesso non si nota, fino al momento in cui compare l’emergenza, l’ALTEs.

Gli squilibri elettrolitici acuti che fanno seguito ad un episodio di vomito auto-indotto e che possono provocare eventi sincopali o cardiopatie sono un esempio di rischio. E anche se un paziente venisse monitorato 24 ore su 24, non sempre questi eventi sono comunque prevedibili.

La potenziale letalità di un DCA è, ovviamente, relativa e soggettiva. Però, se si considera che la mortalità annua nella popolazione di affette da anoressia/bulimia è circa dell’1%, quando nella popolazione di pari ma senza un DCA è sull’ordine dello 0.012%/anno, si capisce bene che stiamo parlando di un GROSSO incremento del rischio di morte. E se infine si considera che la sopravvivenza a 15 anni dall’esordio di un DCA è inferiore rispetto a quella della maggior parte delle leucemie infantili, direi che i DCA sono decisamente malattie potenzialmente letali, “life-threatening”, appunto.

Il fatto che le persone non reagiscano ad un DCA nello stesso modo in cui reagiscono ad un tumore, rappresenta un problema non indifferente.

E’ per questo che, anche in post precedenti, ho scritto che l’anoressia e la bulimia sono patologie potenzialmente letali. Chi è “esterno” a un DCA tende a vedere alla malattia come alla scelta del singolo di non mangiare, e non si rende conto invece che i DCA sono malattie mortalmente serie.

Detto questo, vorrei fare un’ulteriore riflessione. Dire che un DCA è una malattia potenzialmente letale non rende l’enorme mole di sofferenza che il DCA provoca a chi ne soffre.

Molte persone con disturbi alimentari hanno dei sintomi che non le mettono immediatamente in pericolo di vita. Questi sintomi, a lunga gittata, possono portare a osteoporosi, disfunzioni epatiche, renali e digestive, problemi cardiaci… che sono quelle che poi mettono effettivamente a rischio di vita. Ma, per lo più, si tende ad ignorare queste cose.

Quando scrivo “si tende” mi riferisco ovviamente a chi ha un DCA, che generalmente non si sente mai malata abbastanza da giustificare una diagnosi e tanto meno la consapevolezza che il loro disturbo le sta lentamente uccidendo; ma mi riferisco anche alla comunità medica, che dimette una paziente anoressica dall’ospedale non appena i valori di Potassio rientrano nel range della normalità, o che non ricovera una persona fino a che non è oggettivamente a rischio di morte nelle successive 48 ore. Il “si tende” include inoltre anche i familiari benintenzionati che pensano che stai bene perché la tua testa non è perennemente infilata in una tazza del cesso o perché hai ripreso qualche chilo.

Volendo fare un esempio, supponiamo che una persona soffra di attacchi di panico. Quando gli attacchi di panico si sono già verificati una, due, dieci, venti volte, la persona comincia a saperli gestire con (relativa) calma. Più gli attacchi di panico si verificano, più la persona vi fa assuefazione. Ci si abitua. Ci si adatta. Sa cosa succederà, per cui questi attacchi non sono più un enorme problema come lo erano le prime volte che si presentavano. (Per lo meno, questo mi ha detto una persona che conosco e che soffre di questa problematica…) Non si può vivere in perenne allarme, quindi ci si adatta. Ecco, io penso che nel caso dei DCA accada un po’ la stessa cosa. Ci sono stati momenti, in passato, in cui mi dicevo che non potevo essere così malata per pesavo comunque X chili in più rispetto al minimo peso che avessi raggiunto. Non consideravo il fatto che la mia alimentazione aveva comunque ancora un trait restrittivo, e che il mio corpo non avrebbe potuto sopportare a lungo una situazione del genere. Dopo tanti anni di restrizione alimentare, per me la restrizione era diventata “normale”, e quando qualcuno mi faceva notare che non lo era, m’infastidivo. In fin dei conti stavo continuando a studiare, facevo sport, dunque dovevo necessariamente stare bene.

Ovviamente ci sono stati periodi in cui la restrizione alimentare era meno pressante, e non mi metteva immediatamente in pericolo di vita, fisica o psicologica. Ma la sofferenza, anche se non la vedevo, era comunque presente. La sofferenza è sempre presente. È quel tipo di sofferenza che lentamente logora il corpo e la mente. Quel tipo di quieta sofferenza attorno alla quale arriviamo ad organizzare tutta la nostra vita. Tutto comincia a ruotare attorno all’anoressia o alla bulimia: niente più amicizie, hobby, studio, lavoro… niente. Solo noi stesse e il DCA, avviluppate in un abbraccio soffocante. Quei momenti in cui il nostro peso non è così lontano dalla norma, in cui per lo più abbiamo pure il ciclo, e in cui nessuno fa più commenti circa la nostra eccessiva magrezza, ma in cui onestamente non ce ne frega un tubo: continuiamo comunque ad odiare noi stesse e la nostra vita. In cui non capiamo come fanno le persone a starci vicino senza scappare via urlando disgustate di fronte alle persone orribili che siamo.

Perciò, come si può misurare questo tipo di sofferenza? Ma si può davvero misurare?

Si possono valutare le statistiche inerenti la qualità della vita, sono chiare, semplici, è facile analizzarle. Ma sono solo numeri. Non tengono conto della soggiacente sofferenza. Si può dire che un DCA ha un impatto negativo sulla qualità della vita, ed è importante dirlo. Ma questo non è che il punto di partenza.

Citando Stalin: “Una morte è una tragedia. Un milione di morti sono una statistica”. 

Io sono una sorta di nerd della statistica. Mi piacciono le schematizzazioni e la matematica. Ma è anche facile sorvolare su ciò che significano realmente queste statistiche. Si può parlare di quante persone muoiono a causa di un disturbo alimentare, ma questo dato non si avvicina neanche lontanamente a quantificare le sofferenze causate dalla malattia. E’ un dato che non tiene conto delle amicizie infrante, delle famiglie lacerate, e più in generale di quell’inferno fisico e mentale che l’anoressia genera.

E’ un pensiero che fa riflettere, davvero.
 
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