
Questa è la storia di un incontro che non dura una vita, ma la cambia per sempre. Questa è la storia del 17 Maggio 2008. Questa è la storia del primo giorno del resto della mia vita.
C’è un momento nella vita in cui si aprono gli occhi. Si aprono gli occhi e si vede la luce. È il momento in cui si dice basta. È il momento in cui si sceglie di cominciare a combattere. A combattere per noi stesse, e non più contro noi stesse. Il momento in cui si decide di dire addio all’anoressia, si fa inversione a U, e s’inizia a mettere piede, per la prima volta sul serio, sulla strada del ricovero. Il mio momento è stato esattamente un anno fa. Il 17 Maggio 2008. Sì, il primo giorno del resto della mia vita.
Reduce da un periodo d’anoressia veramente brutto, da una ricaduta di quelle pese, in questo giorno, l’anno scorso, sono andata a San Bonifacio, dove le t.A.T.u., le mie cantanti preferite, si sarebbero esibite in un live nel locale Club Skylight. Avevo esitato tanto prima di prendere questa decisione, ma alla fine avevo deciso di andarci. Con i sentimenti contrastanti, i pensieri contrastanti, ma ci sono andata. Mio papà scherzava, diceva “E’ il richiamo del fan, ti ci vuole questo per scollarti di casa!”, ma io penso sul serio che ci sia stato del vero in questo. Ma non era solo questo. Era di più. Non semplicemente il richiamo del fan, bensì il richiamo di qualcosa di più profondo, forse di nuovo la ricerca di un appiglio per non sprofondare, per provare a tenersi a galla anche solo per una sera. Per ritrovare qualcosa che è stato salvato da tutto, e che è rimasto nonostante tutto. Pensandoci, mi sono accorta che non mi veniva in mente nient’altro di cui potessi dire la stessa cosa. Perciò alla fine ci sono andata.
E mi sono detta che ci dovevo andare come si deve, con la camicia bianca e la cravatta a quadretti scozzesi, com’era stato quando avevo sentito per la prima volta una loro canzone, com’era stato quando volevo andarle a vedere al Festivalbar, com’era stato quando avevo 14 anni e cantavo le loro canzoni e m’immedesimavo in loro ed avrei voluto essere come loro ed avrei voluto essere con loro e mi ero comprata pure la minigonna a pieghe come la loro. Così mi sono messa la camicia bianca e la cravatta a quadretti scozzesi, e sono andata al Club Skylight, e quando sono arrivata lì era quasi la mezzanotte.
Sono scesa e mi sono diretta verso l’ingresso del locale con le nocche che mi erano sbiancate da quanto stringevo forte il biglietto. Solo che all’ingresso c’era una marea di gente che faceva la fila per entrare, fila per modo di dire visto che più che altro era una calca assiepata all’ingresso con la gente che cercava d’introdursi per prima, ma che fretta avranno avuto, mi chiedevo io, che avevo solo voglia di venire via da lì. E ho cominciato a domandarmi: ma che cavolo sono venuta a fare. Perché io non ce la faccio, però sono sempre in tempo a tornare indietro. E in prima battuta l’ho fatto. Girato il culo e tornata alla macchina. Il mio riflesso sul finestrino della macchina mi guarda beffardo come a chiedermi: già finito? E io a rispondergli: ho dimenticato il documento, non ti lasciano passare se non dimostri che sei maggiorenne. Il documento ce l’avevo in tasca, però. Perciò ho preso la borsa, ho tirato fuori il post-it, e me lo sono infilato in tasca velocissimamente. Tanto per mentire anche di fronte a me stessa. Divertiti, mi dico mentre richiudo lo sportello della macchina. E con questo mi frego da sola perché non posso più tornare indietro col pretesto che ho dimenticato qualcosa. Cosa, poi? Il biglietto? La penna per farmi fare l’autografo? Il coraggio? Va bene, porca puttana, ritorno all’ingresso. Calca uguale a prima. Medito uno svenimento tattico (ma anche fisiologico, considerate le mie precarie condizioni fisiche), poi opto per una fessura laterale in cui riesco a scorrere più o meno senza problemi. Data la shilouette. Ah, ah, ah. Mi ritirano il biglietto, e così sono entrata.
Premessa: mia prima volta in un locale. Scenario: una bolgia di persone che sta stipata in una misera pista da ballo con luci stroboscopiche, caldo, odore di chiuso, di sudore e musica tunz-tunz a tutto volume. Ho resistito per circa 7 secondi e 36 decimi. Dopodichè ho mandato a fanculo le t.A.T.u. (che prima delle 2 non sarebbero arrivate) e mi son detta che l’unica cosa che dovevo fare era cercare una via d’uscita. Ero assolutamente certa che se fossi rimasta lì anche solo 2 secondi in più mi sarei messa a gridare. La cosa positiva, nella fattispecie, era che anche se l’avessi fatto, causa musica, non mi avrebbe sentito nessuno.
Insomma, sono riuscita più o meno a strisciare fino al cesso. C’erano 3 toilette, quindi non rischiavo di fare l’occupazione a oltranza: mi sono infilata in una e mi sono chiusa dentro. Lì ho ricominciato a respirare. Mi sono detta che sarei uscita solo quando il locale si fosse svuotato. E a fanculo tutto il resto. Da una parte pure mi dispiaceva essere arrivata fin lì per poi non vedere niente, però stavo davvero troppo male a stare nel mezzo agli altri, e quel cesso era così tranquillo rispetto a tutto il resto, lì davvero non mi vedeva nessuno, potevo respirare. Allora mi sono appallottolata sul pavimento, testa tra le ginocchia e braccia intorno, e mi sono messa a raccontarmi la trama dell’ultimo libro che avevo letto, ma con calma, tanto per impegnare il tempo. E non lo so per quanto tempo sono rimasta così, ma riuscivo solo così a respirare, quindi ci sono rimasta.
E poi ho sentito il DJ che annunciava l’esibizione delle t.A.T.u. e nell’aria hanno risuonato le note della prima canzone che hanno cantato: Loves me not. E io ho sentito che erano loro, che erano lì, che c’erano veramente, e che forse c’era anche un altro posto dove poter respirare, anche solo per un attimo. Nei loro occhi. Ho pensato con tutta la gente che c’è però non riuscirò a vederle neanche da lontano. Ma è il richiamo del fan. O è qualcosa di più profondo, non so. È quel qualcosa che ti dice ogni lasciata è persa, che se vuoi qualcosa nella vita devi darti da fare e prendertela, che non si può tornare indietro ma che c’è qualcosa che si salva e che se è l’unica cosa che si salva nella tua vita che è andata completamente a puttane allora merita di essere salvata. Se è l’unica cosa che può farti essere qualcosa. Forse te stessa.
Sono uscita dal cesso, e il palco era lì, non lontano ma a poco più di 5 metri, con loro, le t.A.T.u., che erano lì sopra e cantavano, e quelle parole anche se non le avevo più cantate le ricordavo, le ricordavo tutte, dalla prima all’ultima, e mi sono messa ad intonarle insieme a loro. Insieme a loro e a una miriade di altri fan, si capisce. E in prima battuta mi ha fatto strano, perché finora le loro canzoni le avevo sempre ascoltate nell’intimità della mia stanza, ed era stato sempre un po’ come se le cantassero solo per me, invece adesso le t.A.T.u. stavano cantando per tutti e non lo sapevano neppure che io c’ero. Ma io c’ero. Forse è stato proprio quello il punto. Io c’ero e ho sentito che c’ero. Ho sentito che c’ero mentre cantavo, mentre le guardavo, mentre mi veniva involontariamente da sorridere, mentre tornavo quattordicenne anche solo per il tempo di qualche canzone. C’erano anche gli altri, ma gli altri sono spariti e siamo rimaste solo io e le t.A.T.u., io e loro, io spezzata, frantumata, lacerata, rotta dentro, loro bellissime, splendenti, sorridenti, semplicemente "perfette" come la loro musica… eppure una cosa sola. Loro cantavano, io cantavo e mi sono dimenticata di tutto, compresa l’anoressia.
Non riesco a descrivere come mi sono sentita… diversa eppure me stessa, autentica. Lì, in tanti, in mezzo ad un entusiasmo indescrivibile al quale partecipavo anch’io. Non c’era più distinzione tra dove finivo io e dove cominciavano gli altri. Eravamo solo io e loro, come se fossi stata sul palco a cantare con loro, come se stessero cantando di nuovo solo per me. E sono stata bene. Non ho sentito più niente e sono stata bene. La musica mi è entrata dentro e mi ha fatta vibrare. Ho continuato a cantare, e tutto era in perfetta sintonia, una sorta di oceano umano di cui io non ero che una goccia in un grande mare in cui eravamo tutti confusi. I bisogni annullati, i pensieri cancellati. Niente più paura né solitudine, solo una meravigliosa sensazione di essere lì insieme a loro 2, di calore e di assenza di desideri: tutto si stava già realizzando. Hanno cantato 10 canzoni ed io con loro, persino la mia preferita, Not gonna get us, ed è stato semplicemente meraviglioso. Solo quando loro hanno salutato ed i riflettori sono calati sono stata assalita da un’ondata di panico, la consapevolezza che adesso era finito tutto e che ricominciavo a precipitare, che la gente era tornata tutt’intorno e non potevo più respirare ma solo soffocare.
E allora, senza neanche pensarci, ho fatto la cosa, l’unica che in quel momento avrei potuto fare, l’unica che sentivo possibile, l’unica ancora di salvezza: nel momento in cui loro sono sparite dietro le quinte mi sono lanciata all’inseguimento. Ho sgomitato come una forsennata tra la calca, a testa bassa come quando bisogna prendere il primo tram o si perde il treno, alla faccia di tutto e di tutti. Se vuoi qualcosa nella vita, ragazza mia, se vuoi qualcosa nella vita, lascia che te lo dica, datti da fare e prenditela, cazzo.
Semplicemente non ci ho pensato, ma quando sono arrivata loro si stavano già dirigendo verso i camerini, con tanto di bodyguards a corona. Ho continuato a non pensare. O forse sì, ma solo per o la va o la spacca. E io sono andata. Di corsa. Ho afferrato Lena per il retro dell’impermeabile ancor prima che qualcuno – io stessa – potesse accorgersi di quello che stava succedendo. Lei si è voltata e altrettanto hanno fatto i 3 bodyguards, lanciandomi le occhiate di chi riconosce l’assassino di John Lennon. Oddio cosa sto facendo. Adesso mi pestano. Scappo. E invece no. Invece sono rimasta lì, immobile, più perché a quel punto ero terrorizzata che non per coraggio. Se mi avessero conficcato un’accetta in testa prendendo la rincorsa, probabilmente sarei rimasta lì a beccarla in pieno. Ma poi Lena ha detto “No, it’s okay”, mi ha sorriso mi ha preso la mano e siamo entrate in un privée. Io semplicemente non credevo che stava succedendo davvero, e avrei voluto dire un milione di cose ma ero come paralizzata e non mi usciva niente.
Mi hanno fatto gli autografi su una locandina, Yulia mi ha preso dalle mani la macchina fotografica e l’ha data a un bodyguard che ha scattato. E io pensavo a un miliardo di cose, e io non pensavo a niente, e io volevo dire tante tantissime cose ma le parole si erano bloccate da qualche parte e non volevano saperne di uscire… Tutte le volte che, in passato, avevo immaginato di parlare con loro, tutti i discorsi che mi ero costruita con cura in inglese e in russo, tutto quello che mi passava per la testa era fermo lì, non arrivata alla lingua. E poi un bodyguard mi ha rimesso in mano la macchina fotografica e mi ha allontanata in maniera spiccia, fine di tutto, tutte le parole bloccate dentro, e non sono riuscita a dire niente, e ho continuato a guardarle mentre mi allontanavo sospinta, e loro sorridevano, e io penso che quel loro sorriso me lo ricorderò per sempre, quel loro sorriso che per un attimo mi ha fatto dimenticare tutto e mi ha fatto sentire “normale” io me lo ricorderò per sempre. E poi gliel’ho detto: “Cпасибо”. Grazie. Ma ero troppo lontana e sicuramente non mi hanno sentita. Ma non importa. Sono riuscita a dirglielo. E spero che i miei occhi gli abbiano detto quello che la voce ha taciuto. I loro sì.

Certo, poi sono tornata alla mia vita ordinaria. Ma per un attimo, c’era stato qualcosa. Non m’importa se era stata solo un’ora a cantare le loro canzoni, o pochi secondi di pazzo inseguimento, o l’istante di uno scatto fotografico. C’era stato. E io ho sentito che poteva esserci ancora. Ho sentito che potevo ricominciare. Ho sentito che quello poteva essere il primo giorno del resto della mia vita. Perché, per un attimo c’era stato qualcosa. Quell’attimo, sì, quell’attimo. Qualsiasi cosa succeda, sarà dentro di me. Per sempre. Навсегда.
