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venerdì 31 maggio 2013
Quando gli amici non capiscono il tuo DCA
I rapporti con gli amici sono così carichi di emozioni, che spesso rendono impossibile il riuscire a vedere la persona che si ha di fronte in maniera del tutto oggettiva. E, come molte di noi ben sanno, spesso l’anoressia intorbida ancora di più le acqua dell’amicizia.
C’è una bella differenza tra il rimanere a guardare qualcuno che si auto-distrugge, e il provare a supportare una persona che decide di percorrere la strada del ricovero. Il fatto è che è molto difficile per un sacco di gente comprendere un DCA o la lotta contro di esso, per il semplice fatto che non l’hanno provato sulla propria pelle, e quindi non riescono a percepire fino in fondo le mille e poi mille sfumature correlate a queste malattie. È per questo che, in certi casi, capita che gli amici diano una sorta di ultimatum: o ci decidiamo a stare meglio, preservando così l’amicizia, o continuiamo a stare male, e gli amici se ne andranno per la loro strada. Non perché siano persone cattive o perché non ci vogliano bene, ma per il semplice fatto che si trovano posti di fronte ad una situazione che non conoscono, e quindi ad una situazione difficile da gestire, che li fa sentire incapaci di rimanere nel rapporto.
È impossibile far capire ad un amico cosa significhi veramente avere un DCA, perchè si capiace solo quello che si è provato sulla propria pelle, per il resto si può solo provare ad empatizzare; quindi tutto quello che possiamo fare è cercare di spiegarglielo come meglio riusciamo (se proprio dobbiamo), e sperare che la persona che abbiamo di fronte sia abbastanza empatica da comprendere, e sufficientemente supportiva da poterci stare vicino e darci una mano. Molto spesso è l’anoressia stessa che ci spinge ad allontanare tutti gli amici che avevamo, perciò, prima di assecondarla, e prima di guardare agli amici che non capiscono il DCA come a persone che non ci vengono incontro e che quindi non s’interessano di noi, sarebbe opportuno cercare di metterci nei loro panni: non si allontanano perché non ci vogliono bene o perché non vogliono che abbiamo un DCA, ma perché siamo noi stesse a mettere dei paletti, a erigere dei muri, ad essere scostanti nei loro confronti, a trasmettergli la sensazione che non li vogliamo vicini e che l’anoressia la farà da padrona in eterno. Questo è frustrante per chiunque, anche per gli amici che ci vogliono più bene. Inoltre, anche loro ci stanno male se vedono che noi stiamo male, e poiché, come si suol dire, “non guardare e non soffrirai”, per loro può essere emotivamente più facile prendere le distanze. È un loro diritto.
Questo, ovviamente, non significa giustificare gli amici in tutto quello che fanno: può capitare che gli amici abbiano aspettative non realistiche sul nostro percorso di ricovero proprio perché non conoscono adeguatamente l’anoressia, e che se noi non siamo aderenti si allontanino perché non sono più in grado di gestire la situazione. Questo può far star male, ma ciò non significa necessariamente che voi abbiate fatto qualcosa di sbagliato, né che non vi state impegnando abbastanza nel vostro percorso di ricovero.
Un amico non può chiedervi di promettergli che non avrete più comportamenti alimentari erronei, e che non permetterete più alla malattia di avere la meglio su di voi. È vero, molti aspetti della strada del ricovero sono sotto il vostro controllo, ma non tutte le cose della vita lo sono. Nessuna può fare promesse così grosse, anche perché l’amicizia non può essere basata su obiettivi da raggiungere.
Ad ogni modo, se un amico decide di voltarvi le spalle mentre voi siete alle prese con un DCA, è un suo diritto. Non tutti sono in grado di gestire la difficile relazione d’amicizia che si viene a creare con una persona che ha un DCA. Non è colpa loro. Ma non è neanche interamente colpa vostra.
Provate ad immaginare questo. Ci sono un ragazzo ed una ragazza che sono sposati da alcuni anni, stanno bene insieme, e non hanno particolari problemi. Ad un certo punto, a poco a poco la ragazza diventa tossicodipendente, e per il ragazzo diventa difficile gestire la situazione. Ad ogni modo, continua a volerle bene e a supportarla nel suo tentativo di fare a meno della droga giorno dopo giorno. Lei magari chiede aiuto ad un Se.R.T., e lui continua a volerle bene e a starle vicino. Forse le cose le vanno bene per un po’, poi ha una ricaduta. Questo diventa ancora più difficile da gestire, per il ragazzo. La cosa si ripercuote anche nella sua vita. Magari la ragazza vuole fare davvero a meno della droga e continua a cercare di combattere, tenta nuovamente d’intraprendere la strada del ricovero, le cose migliorano un’altra volta, ma ha anche le sue giornate-NO. Ogni tanto ha delle ricadute. Si rialza, e poi ricade. Ogni singola ricaduta è sempre più difficile da gestire per il suo ragazzo. Alla fine, dopo anni in cui si trascina questa situazione di alti e bassi, anche se il ragazzo sa che la ragazza sta continuando a cercare di lasciarsi alle spalle la sua tossicodipendenza, non ce la fa più a tenere duro, a resistere. Così vuole che la ragazza gli prometta di non assumere droga nuovamente, o lui se ne andrà una volta per tutte. Lei non riesce a fare questa promessa, perché è terrorizzata dall’idea di poterla infrangere. Tutto quello che può fare è provare a fare del suo meglio giorno dopo giorno e a chiedergli di supportarla ancora. Ma lui non riesce più a stare nella situazione, perché ha anche la sua vita da vivere e non riesce più a gestire i suoi sentimenti, così decide di lasciarla.
Nessuna delle due persone, in questa situazione, è colpevole. Una ha un serio problema, che tenta costantemente di combattere. L’altro può dare affetto e supporto, ma solo fino ad un certo punto, perché poi deve anche pensare a preservare se stesso e la sua vita. La ragazza ha tutto il diritto di dire che tutto ciò che può fare è cercare di fare del suo meglio per percorrere la strada del ricovero giorno dopo giorno, perché non vuole più essere schiava della tossicodipendenza. Il ragazzo ha tutto il diritto di dire che non riesce più a reggere una situazione così difficile, e non ce la fa a starle dietro perché ne va della sua qualità della vita. È un bivio.
Rapportate questa storiella alla vostra relazione con i vostri amici ed amiche. I ruoli sono essenzialmente gli stessi. Arriva un momento in cui l’anoressia porta inevitabilmente un’amicizia alla chiusura. Forse l’amico che oggi vi sbatte la porta in faccia, un domani vedrà i vostri cambiamenti, i vostri progressi, il vostro impegno, e capirà che tutto quello che potete fare è combattere un giorno alla volta, e deciderà di rientrare nella vostra vita. Forse deciderà di staccare per un po’, di prendere le distanze per un po’, per poter tornare da voi con rinnovata speranza, aspettative più ragionevoli, e consapevolezza della necessità di supportarvi nonostante la scostanza che produce l’anoressia.
Combattere contro l’anoressia e, allo stesso tempo, mantenere un’amicizia è un duro lavoro. L’amicizia richiede tempo, emozioni, dedizione, fiducia e comunicazione. Spesso gli strappi che si vengono a creare tra chi ha un DCA e i suoi amici non dipendono dal fatto che una ha un DCA e l’altro no, ma perché entrambi si vogliono bene, ed è difficile gestire l’affetto quando c’è l’anoressia di mezzo.
Ci sono passata, perciò so quanto sia brutto perdere degli amici a causa dell’anoressia, anche perché percorrere la strada del ricovero è già abbastanza difficile anche senza perdere un amico durante il percorso, ma tutto quello che si può fare è prendere ogni giorno come viene, e lavorarci su. In ogni caso, qualsiasi cosa succeda, sappiate che fintanto che sceglierete ogni giorno la strada del ricovero, starete facendo la cosa più importante. Quello che gli amici fanno e pensano, esce dalla sfera delle cose che è possibile controllare. Potete certamente provare a parlare con loro, se sono persone a cui davvero tenete, e provare a spiegare cosa significhi avere un DCA e cosa comporti ma, alla fine, la persona che avrete di fronte farà comunque la sua scelta. Ma percorrere la strada del ricovero da sole è ancora più difficile, perciò… quale che sia la sua scelta, mettetecela tutta per cercare di avere un futuro insieme… perché io davvero credo che l’amicizia (oltre la salute, ovviamente) sia la cosa più bella ed importante della vita.
C’è una bella differenza tra il rimanere a guardare qualcuno che si auto-distrugge, e il provare a supportare una persona che decide di percorrere la strada del ricovero. Il fatto è che è molto difficile per un sacco di gente comprendere un DCA o la lotta contro di esso, per il semplice fatto che non l’hanno provato sulla propria pelle, e quindi non riescono a percepire fino in fondo le mille e poi mille sfumature correlate a queste malattie. È per questo che, in certi casi, capita che gli amici diano una sorta di ultimatum: o ci decidiamo a stare meglio, preservando così l’amicizia, o continuiamo a stare male, e gli amici se ne andranno per la loro strada. Non perché siano persone cattive o perché non ci vogliano bene, ma per il semplice fatto che si trovano posti di fronte ad una situazione che non conoscono, e quindi ad una situazione difficile da gestire, che li fa sentire incapaci di rimanere nel rapporto.
È impossibile far capire ad un amico cosa significhi veramente avere un DCA, perchè si capiace solo quello che si è provato sulla propria pelle, per il resto si può solo provare ad empatizzare; quindi tutto quello che possiamo fare è cercare di spiegarglielo come meglio riusciamo (se proprio dobbiamo), e sperare che la persona che abbiamo di fronte sia abbastanza empatica da comprendere, e sufficientemente supportiva da poterci stare vicino e darci una mano. Molto spesso è l’anoressia stessa che ci spinge ad allontanare tutti gli amici che avevamo, perciò, prima di assecondarla, e prima di guardare agli amici che non capiscono il DCA come a persone che non ci vengono incontro e che quindi non s’interessano di noi, sarebbe opportuno cercare di metterci nei loro panni: non si allontanano perché non ci vogliono bene o perché non vogliono che abbiamo un DCA, ma perché siamo noi stesse a mettere dei paletti, a erigere dei muri, ad essere scostanti nei loro confronti, a trasmettergli la sensazione che non li vogliamo vicini e che l’anoressia la farà da padrona in eterno. Questo è frustrante per chiunque, anche per gli amici che ci vogliono più bene. Inoltre, anche loro ci stanno male se vedono che noi stiamo male, e poiché, come si suol dire, “non guardare e non soffrirai”, per loro può essere emotivamente più facile prendere le distanze. È un loro diritto.
Questo, ovviamente, non significa giustificare gli amici in tutto quello che fanno: può capitare che gli amici abbiano aspettative non realistiche sul nostro percorso di ricovero proprio perché non conoscono adeguatamente l’anoressia, e che se noi non siamo aderenti si allontanino perché non sono più in grado di gestire la situazione. Questo può far star male, ma ciò non significa necessariamente che voi abbiate fatto qualcosa di sbagliato, né che non vi state impegnando abbastanza nel vostro percorso di ricovero.
Un amico non può chiedervi di promettergli che non avrete più comportamenti alimentari erronei, e che non permetterete più alla malattia di avere la meglio su di voi. È vero, molti aspetti della strada del ricovero sono sotto il vostro controllo, ma non tutte le cose della vita lo sono. Nessuna può fare promesse così grosse, anche perché l’amicizia non può essere basata su obiettivi da raggiungere.
Ad ogni modo, se un amico decide di voltarvi le spalle mentre voi siete alle prese con un DCA, è un suo diritto. Non tutti sono in grado di gestire la difficile relazione d’amicizia che si viene a creare con una persona che ha un DCA. Non è colpa loro. Ma non è neanche interamente colpa vostra.
Provate ad immaginare questo. Ci sono un ragazzo ed una ragazza che sono sposati da alcuni anni, stanno bene insieme, e non hanno particolari problemi. Ad un certo punto, a poco a poco la ragazza diventa tossicodipendente, e per il ragazzo diventa difficile gestire la situazione. Ad ogni modo, continua a volerle bene e a supportarla nel suo tentativo di fare a meno della droga giorno dopo giorno. Lei magari chiede aiuto ad un Se.R.T., e lui continua a volerle bene e a starle vicino. Forse le cose le vanno bene per un po’, poi ha una ricaduta. Questo diventa ancora più difficile da gestire, per il ragazzo. La cosa si ripercuote anche nella sua vita. Magari la ragazza vuole fare davvero a meno della droga e continua a cercare di combattere, tenta nuovamente d’intraprendere la strada del ricovero, le cose migliorano un’altra volta, ma ha anche le sue giornate-NO. Ogni tanto ha delle ricadute. Si rialza, e poi ricade. Ogni singola ricaduta è sempre più difficile da gestire per il suo ragazzo. Alla fine, dopo anni in cui si trascina questa situazione di alti e bassi, anche se il ragazzo sa che la ragazza sta continuando a cercare di lasciarsi alle spalle la sua tossicodipendenza, non ce la fa più a tenere duro, a resistere. Così vuole che la ragazza gli prometta di non assumere droga nuovamente, o lui se ne andrà una volta per tutte. Lei non riesce a fare questa promessa, perché è terrorizzata dall’idea di poterla infrangere. Tutto quello che può fare è provare a fare del suo meglio giorno dopo giorno e a chiedergli di supportarla ancora. Ma lui non riesce più a stare nella situazione, perché ha anche la sua vita da vivere e non riesce più a gestire i suoi sentimenti, così decide di lasciarla.
Nessuna delle due persone, in questa situazione, è colpevole. Una ha un serio problema, che tenta costantemente di combattere. L’altro può dare affetto e supporto, ma solo fino ad un certo punto, perché poi deve anche pensare a preservare se stesso e la sua vita. La ragazza ha tutto il diritto di dire che tutto ciò che può fare è cercare di fare del suo meglio per percorrere la strada del ricovero giorno dopo giorno, perché non vuole più essere schiava della tossicodipendenza. Il ragazzo ha tutto il diritto di dire che non riesce più a reggere una situazione così difficile, e non ce la fa a starle dietro perché ne va della sua qualità della vita. È un bivio.
Rapportate questa storiella alla vostra relazione con i vostri amici ed amiche. I ruoli sono essenzialmente gli stessi. Arriva un momento in cui l’anoressia porta inevitabilmente un’amicizia alla chiusura. Forse l’amico che oggi vi sbatte la porta in faccia, un domani vedrà i vostri cambiamenti, i vostri progressi, il vostro impegno, e capirà che tutto quello che potete fare è combattere un giorno alla volta, e deciderà di rientrare nella vostra vita. Forse deciderà di staccare per un po’, di prendere le distanze per un po’, per poter tornare da voi con rinnovata speranza, aspettative più ragionevoli, e consapevolezza della necessità di supportarvi nonostante la scostanza che produce l’anoressia.
Combattere contro l’anoressia e, allo stesso tempo, mantenere un’amicizia è un duro lavoro. L’amicizia richiede tempo, emozioni, dedizione, fiducia e comunicazione. Spesso gli strappi che si vengono a creare tra chi ha un DCA e i suoi amici non dipendono dal fatto che una ha un DCA e l’altro no, ma perché entrambi si vogliono bene, ed è difficile gestire l’affetto quando c’è l’anoressia di mezzo.
Ci sono passata, perciò so quanto sia brutto perdere degli amici a causa dell’anoressia, anche perché percorrere la strada del ricovero è già abbastanza difficile anche senza perdere un amico durante il percorso, ma tutto quello che si può fare è prendere ogni giorno come viene, e lavorarci su. In ogni caso, qualsiasi cosa succeda, sappiate che fintanto che sceglierete ogni giorno la strada del ricovero, starete facendo la cosa più importante. Quello che gli amici fanno e pensano, esce dalla sfera delle cose che è possibile controllare. Potete certamente provare a parlare con loro, se sono persone a cui davvero tenete, e provare a spiegare cosa significhi avere un DCA e cosa comporti ma, alla fine, la persona che avrete di fronte farà comunque la sua scelta. Ma percorrere la strada del ricovero da sole è ancora più difficile, perciò… quale che sia la sua scelta, mettetecela tutta per cercare di avere un futuro insieme… perché io davvero credo che l’amicizia (oltre la salute, ovviamente) sia la cosa più bella ed importante della vita.
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venerdì 12 ottobre 2012
L'anoressia vista dall'esterno
(ovvero: perchè scrivo sempre che chi non ha vissuto l'anoressia sulla propria pelle non la può capire.)
L’altro giorno ho letto un articolo che ho trovato su Inernet, a proposito degli studi svolti da V.S. Ramachandran e, nella fattispecie, si parlava della teoria della mente. Quel che vi ho trovato scritto mi ha fatto pensare a come le persone che non hanno l’anoressia/la bulimia (e, anche quelle che ce l’hanno, ovviamente) provano a comprendere l’affezione di un’altra persona.
Teoria della mente è il termine neurologico per indicare come si può provare a capire che cosa qualcun altro sta pensando. O, per dirla citando Wikipedia:
"La teoria della mente è l’abilità di attribuire stati mentali – credenze, intenti, desideri,ragionamenti, conoscienze, etc – a se stessi e agli altri, e capire che gli altri hanno credenze, desideri e intenzioni che sono differenti dalle proprie."
Se vedete qualcuno che sta cercando un bicchiere d’acqua, sicuramente penserete che quella persona ha sete. Dopotutto, è questa la principale motivazione per cui anche voi cerchereste un bicchiere d’acqua: perché siete assetate. Il bicchiere è un contenitore, l’acqua è un qualcosa da bere che disseta… Ta-dah! E non c’è bisogno che voi in quel momento abbiate sete per comprendere che qualcun altro può averla.
Cruciale per capire le motivazioni di qualcun altro, è il comprendere le proprie. Noi sappiamo cos’è la sete, sappiamo che l’acqua la fa passare, sappiamo che per ottenere questo risultato è necessario portare il bicchiere alle labbra e deglutirne il contenuto.
Dunque, vi starete chiedendo, ma tutto questo cos’ha a che fare con l’anoressia? Ebbene, la maggior parte delle ricerche che correlano i DCA con la teoria della mente sono relative ad eventuali deficit che le persone affette da anoressia o bulimia potrebbero avere in merito alle aree cerebrali che si occupano della comprensione. Uno studio condotto nel 2010, per esempio, ha evidenziato che le donne affette da anoressia avevano difficoltà a comprendere le emozioni altrui, il che è un aspetto della teoria della mente. Le donne affette da bulimia, invece, si mettevano più facilmente in sintonia con le emozioni altrui… ma solo se si trattava di emozioni negative.
Tutto ciò è certamente interessante, ma ancora non ci dice in che modo chi non ha mai vissuto un DCA possa comprendere cosa significhi averne uno. Non so se è mai stata fatta una ricerca mirata a tal riguardo, o come si potrebbe peraltro anche solo provare a misurare il grado di empatia di una persona comune nei confronti di una affetta da anoressia o bulimia. Ma fondamentale per comprendere le esperienze di chiunque, di qualsiasi cosa, è la teoria della mente.
Immaginate questo: qualcuna delle vostre colleghe di lavoro (o delle vostre compagne di classe) ha smesso di mangiare a pranzo un panino, e lo ha sostituito con un’insalata. Questa persona dice di voler perdere qualche chilo. Per una persona che non ha un DCA, questo significa semplicemente che la sua collega (o compagna di classe) si è messa a dieta per un po’. Come un sacco di gente a questo mondo, la vostra collega vuole essere più magra. Tuttavia, può accadere che, a differenza di quello che fanno la maggior parte delle persone, la “dieta” della vostra collega non s’interrompe quando lei perde qualche chilo. Va avanti e avanti, e lei continua a mangiare solo insalate anche quando è in evidente sottopeso. Così la persona che non ha un DCA immagina che la sua collega possa essere anoressica.
L’unico modo che ha a disposizione una persona che non ha vissuto un DCA per capire l’anoressia è fare riferimento alla propria esperienza. Molte persone, nel corso della propria vita, hanno seguito per un po’ delle diete. Si sono sottoposte spesso a controlli ponderali, si sono guardate e riguardate alle specchio, hanno provato vestiti di taglie diverse. L’anoressia è certamente molto più mentale, meno basata sulla fisicità, e sicuramente molto più estrema, ma la maggior parte della gente non ha mai trovato un piatto di spaghetti più ansiogeno di un piatto di serpenti vivi. Per cui, chi non ha vissuto un DCA conosce solo il classico “fare la dieta per un po’”, e questo è il loro unico punto di riferimento.
Questo, purtroppo, può essere “pericoloso” nel momento in cui una persona che non ha un DCA va a relazionarsi con una persona che invece ce l’ha. “Pericoloso” sotto più punti di vista: 1) Le persone credono di sapere cosa voglia dire avere un DCA solo perché hanno fatto qualche dieta e 2) l’anoressia viene percepita dagli altri semplicemente come il desiderio di dimagrire che viene portato troppo all’estremo. Certo, esistono persone che cadono in un DCA perché sono effettivamente sovrappeso, e il seguire una dieta gli prende troppo la mano, ma queste persone sono la minoranza. Per lo più, le persone che sviluppano un DCA non hanno, originariamente, problemi di peso, e la perdita di peso non è veramente il fattore motivante. Ciò che sottende un DCA è infatti il bisogno di controllo, la necessità di trovare una strategia di coping per tenere a bada l’ansia, il crearsi una “coperta di Linus” che possa momentaneamente celare tutti gli altri problemi della vita, il bisogno di sentirsi forti nell’autocontrollo più completo.
Provate a spiegare ad una persona che non ha mai avuto un DCA cosa sia la vostra anoressia. Provate a spiegargli quello che vi passa per la mente. Tutti capiranno il bisogno di dimagrire, perché è un qualcosa che in molti hanno provato sulla propria pelle. Anche se la motivazione che spinge a dimagrire è nei due casi differente, la sensazione provata è la stessa. Ma nessuno che non l’abbia vissuto può capire i sentimenti. E nessuno che l’ha vissuto può mettere in parole, esattamente, quelli che sono i propri sentimenti, e spiegare come la soppressione dell’ansia e la necessità di controllo siano il leit-motive dell’anoressia. Perché a un certo punto l’empatia non basta: si capisce veramente solo quello che si è vissuto.
In ogni caso… cosa ne pensate? Le persone che vi stanno intorno hanno difficoltà a comprendere il vostro DCA? Vi è capitato di provare a spiegarlo a qualcuno? Vi è sembrato che quelle persone dopo le vostre spiegazioni avessero un’idea più realistica, rispetto al solito stereotipo proposto dai media, di quella che è l’anoressia?
L’altro giorno ho letto un articolo che ho trovato su Inernet, a proposito degli studi svolti da V.S. Ramachandran e, nella fattispecie, si parlava della teoria della mente. Quel che vi ho trovato scritto mi ha fatto pensare a come le persone che non hanno l’anoressia/la bulimia (e, anche quelle che ce l’hanno, ovviamente) provano a comprendere l’affezione di un’altra persona.
Teoria della mente è il termine neurologico per indicare come si può provare a capire che cosa qualcun altro sta pensando. O, per dirla citando Wikipedia:
"La teoria della mente è l’abilità di attribuire stati mentali – credenze, intenti, desideri,ragionamenti, conoscienze, etc – a se stessi e agli altri, e capire che gli altri hanno credenze, desideri e intenzioni che sono differenti dalle proprie."
Se vedete qualcuno che sta cercando un bicchiere d’acqua, sicuramente penserete che quella persona ha sete. Dopotutto, è questa la principale motivazione per cui anche voi cerchereste un bicchiere d’acqua: perché siete assetate. Il bicchiere è un contenitore, l’acqua è un qualcosa da bere che disseta… Ta-dah! E non c’è bisogno che voi in quel momento abbiate sete per comprendere che qualcun altro può averla.
Cruciale per capire le motivazioni di qualcun altro, è il comprendere le proprie. Noi sappiamo cos’è la sete, sappiamo che l’acqua la fa passare, sappiamo che per ottenere questo risultato è necessario portare il bicchiere alle labbra e deglutirne il contenuto.
Dunque, vi starete chiedendo, ma tutto questo cos’ha a che fare con l’anoressia? Ebbene, la maggior parte delle ricerche che correlano i DCA con la teoria della mente sono relative ad eventuali deficit che le persone affette da anoressia o bulimia potrebbero avere in merito alle aree cerebrali che si occupano della comprensione. Uno studio condotto nel 2010, per esempio, ha evidenziato che le donne affette da anoressia avevano difficoltà a comprendere le emozioni altrui, il che è un aspetto della teoria della mente. Le donne affette da bulimia, invece, si mettevano più facilmente in sintonia con le emozioni altrui… ma solo se si trattava di emozioni negative.
Tutto ciò è certamente interessante, ma ancora non ci dice in che modo chi non ha mai vissuto un DCA possa comprendere cosa significhi averne uno. Non so se è mai stata fatta una ricerca mirata a tal riguardo, o come si potrebbe peraltro anche solo provare a misurare il grado di empatia di una persona comune nei confronti di una affetta da anoressia o bulimia. Ma fondamentale per comprendere le esperienze di chiunque, di qualsiasi cosa, è la teoria della mente.
Immaginate questo: qualcuna delle vostre colleghe di lavoro (o delle vostre compagne di classe) ha smesso di mangiare a pranzo un panino, e lo ha sostituito con un’insalata. Questa persona dice di voler perdere qualche chilo. Per una persona che non ha un DCA, questo significa semplicemente che la sua collega (o compagna di classe) si è messa a dieta per un po’. Come un sacco di gente a questo mondo, la vostra collega vuole essere più magra. Tuttavia, può accadere che, a differenza di quello che fanno la maggior parte delle persone, la “dieta” della vostra collega non s’interrompe quando lei perde qualche chilo. Va avanti e avanti, e lei continua a mangiare solo insalate anche quando è in evidente sottopeso. Così la persona che non ha un DCA immagina che la sua collega possa essere anoressica.
L’unico modo che ha a disposizione una persona che non ha vissuto un DCA per capire l’anoressia è fare riferimento alla propria esperienza. Molte persone, nel corso della propria vita, hanno seguito per un po’ delle diete. Si sono sottoposte spesso a controlli ponderali, si sono guardate e riguardate alle specchio, hanno provato vestiti di taglie diverse. L’anoressia è certamente molto più mentale, meno basata sulla fisicità, e sicuramente molto più estrema, ma la maggior parte della gente non ha mai trovato un piatto di spaghetti più ansiogeno di un piatto di serpenti vivi. Per cui, chi non ha vissuto un DCA conosce solo il classico “fare la dieta per un po’”, e questo è il loro unico punto di riferimento.
Questo, purtroppo, può essere “pericoloso” nel momento in cui una persona che non ha un DCA va a relazionarsi con una persona che invece ce l’ha. “Pericoloso” sotto più punti di vista: 1) Le persone credono di sapere cosa voglia dire avere un DCA solo perché hanno fatto qualche dieta e 2) l’anoressia viene percepita dagli altri semplicemente come il desiderio di dimagrire che viene portato troppo all’estremo. Certo, esistono persone che cadono in un DCA perché sono effettivamente sovrappeso, e il seguire una dieta gli prende troppo la mano, ma queste persone sono la minoranza. Per lo più, le persone che sviluppano un DCA non hanno, originariamente, problemi di peso, e la perdita di peso non è veramente il fattore motivante. Ciò che sottende un DCA è infatti il bisogno di controllo, la necessità di trovare una strategia di coping per tenere a bada l’ansia, il crearsi una “coperta di Linus” che possa momentaneamente celare tutti gli altri problemi della vita, il bisogno di sentirsi forti nell’autocontrollo più completo.
Provate a spiegare ad una persona che non ha mai avuto un DCA cosa sia la vostra anoressia. Provate a spiegargli quello che vi passa per la mente. Tutti capiranno il bisogno di dimagrire, perché è un qualcosa che in molti hanno provato sulla propria pelle. Anche se la motivazione che spinge a dimagrire è nei due casi differente, la sensazione provata è la stessa. Ma nessuno che non l’abbia vissuto può capire i sentimenti. E nessuno che l’ha vissuto può mettere in parole, esattamente, quelli che sono i propri sentimenti, e spiegare come la soppressione dell’ansia e la necessità di controllo siano il leit-motive dell’anoressia. Perché a un certo punto l’empatia non basta: si capisce veramente solo quello che si è vissuto.
In ogni caso… cosa ne pensate? Le persone che vi stanno intorno hanno difficoltà a comprendere il vostro DCA? Vi è capitato di provare a spiegarlo a qualcuno? Vi è sembrato che quelle persone dopo le vostre spiegazioni avessero un’idea più realistica, rispetto al solito stereotipo proposto dai media, di quella che è l’anoressia?
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domenica 13 febbraio 2011
Aprite bene le orecchie
Ieri sera stavo leggendo le dispense inerenti un esame che dovrò dare nella sessione estiva. Il professore ci ha fornito parte del materiale in Italiano e parte in Inglese, con il che attualmente sono impegnata in una certosina opera di traduzione delle pagine in lingua straniera.
Durante la lettura preliminare che ho dato ieri sera, tuttavia, ho letto una frase che vorrei chiunque avesse sentito almeno una volta nella sua vita. Sulle dispense, infatti, ad un certo punto c’era scritto:
Mental illness is the same as physical illenss, except a mental illness causes psychological symptoms.
Ecco, questo è ciò che vorrei un maggior numero di persone riuscisse a comprendere: che l’anoressia è una malattia psichica che si riverbera solo in un secondo momento sul corpo, e che comunque, pur essendo una malattia mentale, è estremamente reale, come reale è la sofferenza che ne scaturisce.
Non è un capriccio infantile, non è una mancanza di forza di volontà, non è un modo per attirare l’attenzione, non è perché si vuole fare le modelle o le ballerine, non è perché si pensa di raggiungere un ideale di bellezza o di “perfezione”.
E’ una risposta forte ad una condizione che ci troviamo a dover subire e che non riusciamo passivamente ad accettare, è una sfida con noi stesse fino al limite estremo, una ricerca del modo per stare a nostro agio con noi stesse, una pletora di sensazioni tanto illusorie quanto meravigliose che ci troviamo in un certo momento a provare. Credetemi. Ci sono passata. Ci sto passando.
L’esistenza di un maggior numero di persone che capiscono questo certo non cambierà la sofferenza, le difficoltà e la durezza di quello che dobbiamo affrontare quotidianamente nella nostra lotta contro l’anoressia, ma renderebbe secondo me più facile l’andare avanti e il sentirsi un po’ meglio.
Durante la lettura preliminare che ho dato ieri sera, tuttavia, ho letto una frase che vorrei chiunque avesse sentito almeno una volta nella sua vita. Sulle dispense, infatti, ad un certo punto c’era scritto:
Mental illness is the same as physical illenss, except a mental illness causes psychological symptoms.
Ecco, questo è ciò che vorrei un maggior numero di persone riuscisse a comprendere: che l’anoressia è una malattia psichica che si riverbera solo in un secondo momento sul corpo, e che comunque, pur essendo una malattia mentale, è estremamente reale, come reale è la sofferenza che ne scaturisce.
Non è un capriccio infantile, non è una mancanza di forza di volontà, non è un modo per attirare l’attenzione, non è perché si vuole fare le modelle o le ballerine, non è perché si pensa di raggiungere un ideale di bellezza o di “perfezione”.
E’ una risposta forte ad una condizione che ci troviamo a dover subire e che non riusciamo passivamente ad accettare, è una sfida con noi stesse fino al limite estremo, una ricerca del modo per stare a nostro agio con noi stesse, una pletora di sensazioni tanto illusorie quanto meravigliose che ci troviamo in un certo momento a provare. Credetemi. Ci sono passata. Ci sto passando.
L’esistenza di un maggior numero di persone che capiscono questo certo non cambierà la sofferenza, le difficoltà e la durezza di quello che dobbiamo affrontare quotidianamente nella nostra lotta contro l’anoressia, ma renderebbe secondo me più facile l’andare avanti e il sentirsi un po’ meglio.
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