Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 29 giugno 2012

Definendo la "comorbidità"

Mercoledì mi è capitato sottomano un articolo in Inglese inerente i DCA, del quale voglio riportarvi, traducendola, una parte.

“[…] Una cosa di cui molto spesso si discute nel momento in cui ad una persona viene diagnosticato un DCA, è l’eventuale presenza di comorbidità. In effetti, diverse persone anoressiche, bulimiche o con un altro DCA hanno allo stesso tempo problemi di depressione, ansia, autolesionismo, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo di personalità borderline, bipolarismo, etc. Io sono d’accordo con questo, perché numerosi studi supportano quest’ipotesi. Ma adesso le più recenti ricerche stanno dimostrando che i disordini alimentari, e fattori come la bassa autostima e l’estrema sensibilità possono avere anche radici biologiche. In altre parole, possiamo essere pre-disposti a sviluppare un DCA, ed essere predisposti ad avere quei fattori che comunemente causano lo sviluppo di un DCA (sebbene ci siano molti altri fattori strettamente individuali). C’è tuttavia una cosa su cui sono in disaccordo, ed è il fatto che i medici specializzati nel trattamento del DCA separano il vissuto del disturbo alimentare da quello di depressione, ansia, autolesionismo, DOC, etc… Da qui il termine “comorbidità”. Vorrei lanciare l’ipotesi che l’anoressia e la bulimia possano insorgere nel contesto di altre psicopatologie già presenti, in un soggetto che non è naturalmente predisposto alle stesse. Un DCA può addirittura esasperare la patologia di base, in individui che sono predisposti a sviluppare patologie mentali. Penso che le varie malattie mentali possano essere strettamente interconnesse, e che quest’ipotesi possa essere ulteriormente acclarata quando si scopriranno le basi biologiche di queste malattie. […]” 

Basilarmente, sono d’accordo.

Ci sono parecchie ricerche che correlano la personalità individuale ai DCA, e i loro risultati sembrano indicare che molti degli affetti da malattie psichiatriche hanno diversi tratti di personalità che li predispongono a sviluppare un DCA. I principali cluster di personalità che ben correlano con la comparsa di un disturbo alimentare sono le personalità iper-controllanti, ossessive, e perfezioniste per quanto riguarda l’anoressia e, dall’altra parte, impulsive, ansiose, e con scarsa autostima per quel che riguarda la bulimia. Nessuna sorpresa che queste tipologie di personalità siano anche predisponenti allo sviluppo di patologie quali depressione, autolesionismo, DOC, etc…

Io stessa sono prova del fatto che esistono persone che hanno questo tipo di comorbidità. Ho problemi di autolesionismo, e una personalità basilarmente iper-controllante. E questo al di là dell’anoressia. Ma l’anoressia ha sicuramente esasperato anche queste altre 2 condizioni, la mia ossessività, le mie manie di controllo, e non in un modo positivo. Allo stesso modo, penso che una corretta alimentazione possa aiutare non solo a migliorare sul versante del DCA, ma anche a ridurre le altre patologie, proprio per quella che è la loro stretta correlazione.

La verità è che ancora non sappiamo se affezioni come i DOC o la depressione o il disturbo bipolare siano parte di un DCA come causa o come conseguenza, o se le cose siano completamente scisse. Un esempio sciocco ma che rende l’idea: capelli castani e occhi marroni. Anche se molto spesso questi 2 tratti appaiono insieme, ci sono un sacco di persone coi capelli marroni che hanno gli occhi azzurri, o verdi, o grigi. E ci sono persone con gli occhi marroni che sono bionde, o more, o rosse.

Allo stesso modo, non si sa con esattezza quando questi tratti di personalità diventano patologici, a che punto cessano di essere semplicemente dei comportamenti un po’ spinti, e diventano comportamenti per i quali è necessario un trattamento medico. Nessuno ancora lo sa veramente.

È un qualcosa cui mi piacerebbe che più psicoterapeuti e ricercatori dedicassero tempo per studiarla e scoprirla.


P.S.= Vorrei girarvi un’idea che mi ha proposto tramite e-mail una lettrice di questo blog, Good (ricordate la ragazza del giorno 22 nel nostro calendario del 2011?... Sì, proprio lei!). L’idea consiste nel suggerirci a vicenda delle letture, dei libri, che trattino dell’argomento DCA. Perciò, se qualcuna di voi ha letto un qualche libro inerente questa tematica, e lo ha trovato particolarmente utile per il suo percorso di ricovero, fatemelo sapere nei commenti o tramite e-mail (veggie.any@gmail.com): man mano che mi arriveranno i vostri titoli, li riunirò in una lista sulla colonnina di destra del blog!

venerdì 22 giugno 2012

Proprio di fronte a me

Dato che all’inizio di Settembre 2011 mi sono trasferita in un nuovo appartamento, ho una nuova cameretta le cui pareti sono state a lungo completamente bianche. Così ho deciso di decorarla appendendoci dei poster. La mia brillante idea era quella mettere sulle pareti i poster delle t.A.T.u. (le mie cantanti preferite) che nel corso degli anni ho acquistato, fermandoli agli angoli con dello scotch colorato.

 Così sono andata in una cartoleria ad acquistare lo scotch colorato e il nastro biadesivo, in modo che i poster potessero aderire per bene e non si sciupassero. Fatto tutto ciò, si è presentato un problemuccio: non riuscivo a trovare i poster.

Sapevo di averli messi all’interno di una qualche cartellina, perchè tengo sempre nelle cartelline tutto il mio materiale cartaceo, dalle dispense per l’università ai miei disegni, e sapevo di non aver gettato quei poster… oh, insomma, speravo di non averli gettati via nel trasloco. Non ne avevo idea. Una cosa che mi faceva uscire scema. Ho cercato dappertutto, anche in posti dove mai sarebbe stato possibile mettere dei poster, e non ho trovato nulla.
Quei poster non volevano essere proprio trovati.

Ma ieri, mentre stavo rimettendo a posto appunti, slides e dispense di Ortopedia (esame che ho da poco dato), mi è scivolato lo sguardo su una cartellina rossa. Piazzata proprio su una mensola della mia camera. Sopra la scrivania. Proprio di fronte a me. Precisamente all’altezza dei miei occhi.

Ho aperto la cartellina
sfogliato alcune pagine
ed ecco che ho tirato fuori
i miei poster delle t.A.T.u.



Ero talmente convinta che quei poster fossero rintanati in qualche pertugio inesplorabile – in fin dei conti, li avevo cercati così a lungo – che non potevano trovarsi in un posto così ovvio. Avrebbero dovuto essere in una scatola, in un qualche contenitore, potevo averli usati quando avevo finito la carta igienica… e invece, erano piazzati in una cartellina ben evidente su una mensola.

Ecco vale lo stesso anche quando si percorre la strada del ricovero dall’anoressia. Si cercano e si ricercano informazioni, insights, si scandagliano backgrounds, e non riusciamo a trovarli. Si cercano strategie per rendere la strada del ricovero un po’ meno pesante e faticosa da percorrere. E, paradossalmente, molto spesso è proprio nel momento in cui smettiamo di rimuginare su tutto questo che troviamo la soluzione che per tanto tempo avevamo inutilmente cercato. Che capiamo quali sono le cose veramente importanti: le più semplici. Mangiare tutti i pasti principali e gli spuntini – e mangiare tutto. Essere sincere con gli psicoterapeuti e con i dietisti. Sfogarci non più su noi stesse, ma riversando all’esterno il nostro malessere. Rialzarci dopo ogni ricaduta e ricominciare a combattere. Spesso si tende a pensare che tutte queste “rivelazioni” siano nascoste sotto cumuli di vissuto, ma spesso quel che stiamo cercando è proprio dritto di fronte a noi.

 Per vederlo, occorre solo decidere di aprire gli occhi.

venerdì 15 giugno 2012

Anoressica VS avere l'anoressia

Proprio ieri ho letto il post di una ragazza che scrive "Io non sono bipolare, ho un disturbo bipolare". E già questa frase verissima di per sè si commenta da sola: noi non siamo una malattia, perchè la malattia è solo un aspetto della nostra vita.

Questa ragazza scrive:

"Per quelle di noi che hanno una malattia mentale cronica che ci accompagnerà per tutta la vita, io credo sia necessario prendere delle decisioni in qualità di individui, di persone, e non in qualità di bipolari, o depressi, o borderline. Bisogna sempre tenere a mente la diagnosi, ovviamente, per quelle che saranno le nostre relazioni e le nostre esperienze future; e questo perchè bisogna circondarci di persone in grado di supportarci e di aiutarci nel nostro opporci alla malattia, ma non bisogna focalizzarci unicamente sulla definizione clinica". 

E questo io credo che sia uno degli aspetti - focalizzarsi sulla definizione clinica, intendo - che è più difficile da gestire. Le etichette, in fin dei conti, sotto certi aspetti, sono così rassicuranti... Ci dicono quello che siamo, e chi ha un DCA può trovarlo confortante, per certi versi: almeno ha una definizione, "anoressica", “bulimica”, invece di essere disorientata senza sapere chi è nè cosa vuole dalla sua vita. Però arriva un momento in cui l'etichetta inizia ad andare troppo stretta. Un momento in cui ci si stanca dell'ossessione su cibo-corpo-peso, ci si stanca di sentirci costrette a fare una certa quantità di attività fisica quotidianamente, ci si stanca di non poter andare da nessuna parte senza portarci dietro il cibo prescritto dall' "equilibrio alimentare". Si vuole dimenticare tutto questo. Ma bisogna anche rimanere concentrate sul fatto che si ha un DCA, che si è da poco iniziato a percorrere la strada del ricovero, e che ad andare su un binario così stretto è facile deragliare.

Il fatto che si debba seguire un "equilibrio alimentare", però, non significa che tutto quello che noi siamo è una definizione clinica e una serie di regole da seguire. Noi siamo molto più di un'etichetta, tutto un mondo interiore che dobbiamo trovare il coraggio di tirare fuori. Noi ABBIAMO un DCA, ma NON SIAMO un DCA. Io ho l'anoressia, ma non sono un'anoressica. L'etichetta può servire ai medici per sapere come relazionarsi con me, quale iter terapeutico intraprendere, ma non dice niente di me come persona. Io sono la Veggie che ha l'anoressia, ma sono anche un'istruttrice ed arbitro di karate, una studentessa universitaria, una a cui piace disegnare, e così via.

La cosa che spesso si avverte è che in molti casi l'avere un DCA è visto come un qualcosa che costituisce la propria identità. Cioè spesse volte la persona affetta da anoressia dice: "Io sono anoressica". Si descrive usando la malattia. Cosa che, se ci pensate, non è comunissima. Quante persone affette da reflusso gastro-esofageo dicono: "Io sono un reflussore"? Quante persone affette da enfisema dicono: "Io sono un enfisematoso"? Non succede. La spiegazione che ne do io è che nelle malattie fisiche si avverte la dissociazione del corpo dal proprio "io"; nelle malattie psichiche no.

Mi spiego meglio: quando va tutto bene, e il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere delle braccia, delle gambe, uno stomaco. Ci sentiamo un tutt'uno, il corpo aderisce perfettamente a noi stesse - ed è noi stesse.

Quando abbiamo una malattia organica, per esmpio ci facciamo male a un braccio, all'improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice spesso: "Mi fa male un braccio", più che "sento male al braccio", come a sottolineare questa cosa. Nelle malattie psichiatriche invece è il cervello che è "malato", per cui non avviene questa dissociazione - è come se la malattia facesse parte di noi. Ed ecco che diventa un'identità.

La cosa più difficile è trovare un equilibrio tra il non etichettare coi stesse come "anoressiche" e, al contempo, non dimenticare le limitazioni che la diagnosi c'impone. Di solito, si flippa da un estremo all'altro, perchè del resto la dicotomia è un aspetto tipico dell'anoressia: è tutto bianco o tutto nero. Invece, come nella stragrande maggioranza delle cose della vita, bisogna a poco a poco prendere consapevolezza del fatto che il giusto equilibrio sta nel punto di mezzo: accettare la diagnosi, ma non lasciare che un'etichetta ci definisca, perchè noi siamo molto più di una definizione da manuale.

venerdì 8 giugno 2012

Ingiusto?

Oh, la giustizia è una gran bella cosa. Le persone buone dovrebbero ottenere cose belle, e le persone cattive dovrebbero finire in tutta la merda che meritano. Ma così non va la vita. La vita non guarda in faccia nessuno, se ne frega di che tipo di persona sei, e la maggior parte delle cose belle che accadono nella vita sono per lo più il mero risultato di una botta di culo. Detto questo, ognuna è libera di fare quel che vuole, ma è estremamente difficile che succedano cose belle semplicemente perchè sei stata buona.

Magari è un po’ infantile, ma non è forse vero che si ha la sensazione che molti aspetti del nostro percorso di ricovero siano ingiusti??! Per esempio: non è irritante dover prendere qualche altro chilo, quando all’apice dell’anoressia pesavamo molto meno rispetto a quanto pesiamo adesso? Sembra ingiusto che possiamo mantenere il peso soltanto quando raggiungiamo un BMI (IMC) di 18, quando ci sono persone che, senza avere un DCA, hanno comunque fisiologicamente un BMI inferiore a 18, e nessuno gli dice nulla.

Okay, questo è un pensiero tipicamente indotto dall’anoressia, ma c’è del vero alla base dello stesso.

Ed ecco quel che ho trovato al proposito leggendo un libro di Judith Beck, una psicoterapeuta, che scrive:  

"[…] Pensieri sabotanti? “E’ così ingiusto che io non possa essere magra come vorrei!”. Questo pensiero rattrista molto chiunque soffra di un DCA. Inoltre spesso chi ha un DCA è gravata da un forte senso d’ingiustizia. Invece di essere soddisfatte della loro capacità di perdere peso e mantenere il loro sottopeso, sentono di vivere una grande ingiustizia: “Mi sono impegnata così tanto, eppure devo continuare a lavorare per mantenere questo peso, che è per me comunque insoddisfacente”. Ed è triste vedere tutta questa loro negatività, quando perdere peso è una tale soddisfazione. 

Spesso dico loro: “Sì, hai ragione. È ingiusto, ma a me sembra che, in realtà, per te la più grande ingiustizia sia continuare a soffrire giorno dopo giorno schiacciata dall’idea che devi dimagrire ancora – un’idea che ti ossessiona, che non ti fa sentire a tuo agio con te stessa, che ti apporta negatività, che non ti fa sentire in pace con te stessa”. 

Spesso propongo loro la seguente analogia: è come se una persona che è brava a correre si dicesse: “Io devo per forza partecipare alle Olimpiadi”. Così comincerà ad ossessionarsi con la corsa, non sarà felice dei suoi risultati non all’altezza degli elevatissimi standard che si è auto-imposta, non avrà più la sua pace mentale, e così via. Forse è una brava persona e non meriterebbe questa sofferenza, ma sta male perché ha realisticamente l’aspettativa di poter diventare tanto brava nella corsa da poter partecipare alle Olimpiadi. E quel che è peggio, anziché accettare il fatto che, per quanto brava possa essere nella corsa, non possiede comunque quella capacità tale da essere al livello di un’Olimpiade, si sentirà appressa dall’idea che questo sia ingiusto, il che la farà sentire ancora peggio, amareggiata, e apporterà negatività al suo modo di guardare alla vita. 

Ovviamente, ci sarebbe molto altro da dire riguardo a ciò che può essere giusto/ingiusto. (Tanto per fare un esempio in tema, molte persone che per dimagrire si rivolgono fin da subito ad una dietista, hanno una vita che sembra essere, per chi ha un DCA da molti anni, ingiustamente positiva). Ma questa discussione iniziale, che implica che chi ha un DCA ha un certo controllo sulla propria sofferenza, in funzione della sua impostazione mentale, è un importante punto di partenza. […]” 

Ora, se devo essere del tutto sincera, io personalmente non sono una grande fan di Judith Beck. La premessa del suo ultimo libro (che ti insegna a “pensare come una persona magra”) mi sembra semplicemente ridicola, tant’è che ho abbandonato la lettura dopo le prime pagine. Non credo proprio che le persone magre pensino diversamente dalle persone sovrappeso. A parte questo, tuttavia, penso che dalle sue parole (estratte da un altro suo libro) che ho riportato in questo post, si possa trarre un qualche insegnamento.

Dover percorrere la strada del ricovero può sembrare profondamente ingiusto. E questo è il punto: non dovrebbe esserlo. Talvolta mi viene pure da pensare che sia ingiusto il fatto che sia sopravvissuta abbastanza a lungo da dover iniziare ad intraprendere un percorso di ricovero. Ma ci sono un sacco di cose ingiuste nella vita, e perciò quando si pensa che dover abbandonare l’anoressia e doverci lavorare su per farlo sia ingiusto, pensiamo anche a questo sia ancora più ingiusto farci rovinare la vita dall’anoressia stessa.

Questo ovviamente non significa che si faccia magicamente pace con il nostro corpo, il nostro peso e le nostre ossessioni. Non è così. Ma si può cominciare a provare a fare pace con la consapevolezza di quello che è giusto che sia per la nostra salute fisica e mentale.

venerdì 1 giugno 2012

"Come se non avessi altre alternative"

Mi sono imbattuta in questa storia leggendo su Internet un articolo tratto dall’ “UK’s Daily Mail”, quando ho notato un pezzo intitolato: “Ashley’s mother told her she wasn’t welcome at home while she was anorexic” (“La madre di Ashley le ha detto che non sarebbe stata la benvenuta a casa fintanto che fosse rimasta anoressica”), e questo mi ha dato veramente di che pensare. Il nocciolo dell’articolo è che la madre di Ashley le dice che la sua anoressia non accettata nella sua casa. La madre di Ashley dice che non ne può più, e che le ha provate tutte e non sa più che fare con la figlia. La maggior parte dei commenti lasciati da altri lettori in merito a quest’articolo sono per lo più accuse nei confronti di questa madre che viene etichettata come un “mostro”, come una che non si cura del fatto che sia figlia abbia una malattia mentale, e così via. Ma non è questo che personalmente m’interessa. Quello che mi ha colpita è stata sopratto la risposta di Ashley all’ultimatum postole dalla madre.

Sebbene con le parole della madre che le rimbombavano in testa, sebbene circondata da amici preoccupati per la sua eccessiva magrezza, e sebbene abbia deciso di ricoverarsi in una clinica specializzata in DCA, Ashley afferma comunque:

“Non riesco a capire come sia possibile vivere altrimenti, senza l’anoressia. Mi sento come se non avessi altre alternative”. 

Ed è stata proprio quell’ultima frase, “Mi sento come se non avessi altre alternative”, che mi ha particolarmente colpita. Questo perché penso che sentirsi alle strette, avere la sensazione di non avere altre alternative all’anoressia, sia proprio ciò che spinge ad intraprendere un percorso di ricovero: io ho iniziato a combattere seriamente solo quando mi sono accorta che non avevo più nulla da perdere, proprio perché si era presa tutto l’anoressia. Studio, lavoro, sport, hobby… tutto risucchiato nel vortice dell’ossessione. L’anoressia non aveva mantenuto le sue promesse: non mi aveva dato tutto quello che cercavo e che mi sembrava con lei avrei potuto ottenere. Soprattutto, sapevo che veramente non c’era più niente da perdere, ma proprio più niente. Negli anni precedenti, fintanto che mi sembrava di avere comunque qualcosa, fintanto che m’illudevo che l’anoressia mi fornisse ancora uno spiraglio per respirare, non riuscivo a combattere davvero. In certi momenti riuscivo più o meno a seguire l’ “equilibrio alimentare”, ma dopo poco avevo inevitabili ricadute verso la restrizione alimentare, e conseguenti perdite di peso. Sono stata ricoverata, ho fatto day-hospital, psicoterapia su psicoterapia, incontri con la dietista ogni settimana, strategie di auto-aiuto reperite sui libri o su Internet… ma niente era duraturo. Prima o poi finivo sempre per ricadere nell’anoressia. Perché pensavo comunque, dentro di me, di averci qualcosa da guadagnare. Ci sono stati momenti in cui ero stufa di tutto il tran-tran medico, momenti in cui mi sono chiesta se non fosse meglio abbracciare l’anoressia e mandare a puttane tutto il resto, momenti in cui l’ho fatto. Ma alla fine, la realizzazione che ha fermato la mia rovinosa caduta e che mi ha permesso di virare verso la strada del ricovero è stato il fatto che mi sono resa conto che non potevo avere sia la vita che avrei voluto, sia l’anoressia. Che non avevo più nulla da perdere. Che ormai l’anoressia l’avevo vissuta fino in fondo, e che non mi avrebbe mai dato la vita che avrei voluto.

Nel Maggio del 2008, le mie possibilità erano veramente limitate: continuare la strada dell’anoressia fino a morirne, o intraprendere seriamente la strada del ricovero e provare a metterci una pezza.

Il coraggio di fare una scelta. Il coraggio di scegliere fra le alternative.
Mi ricordo che inizialmente il mio “equilibrio alimentare” prevedeva, per lo spuntino di metà mattina, succo di frutta alla pera, all'albicocca o alla pesca. Potevo scegliere. Se non facevo nessuna scelta, dovevo chiudere gli occhi, afferrarne a caso uno dal frigorifero e berlo, qualsiasi fosse stato il suo gusto. Così, ho cominciato a fare delle scelte. Il mio percorso di ricovero è stato, ed è tuttora, in un certo senso, estremamente simile: una scelta tra le alternative. Cosa mi era rimasto? Niente. Perchè l’anoressia si era già portata via tutto. Non era rimasto niente, tranne la possibilità di rialzarmi e riprendere in mano la mia vita. Non era rimasto niente, tranne il coraggio di fare una scelta. Per me stessa, e non più contro me stessa.

Questa non è stata la lampadina che si accende, la rivelazione, l’epifania, il momento “Eureka!”. In effetti, non me ne sono resa conto per molto tempo. Dopo la spinta iniziale, ho comunque dovuto affrontare momenti difficili durante il mio percorso di ricovero, e a tutt’oggi parte delle difficoltà permangono. Ci sono stati periodi in cui mi sentivo scoraggiata e demoralizzata: mi sembrava di aver fallito su entrambi i fronti, tanto quello della vita quanto quello dell’anoressia. Non ero stata capace di morire, ma adesso non ero nemmeno capace di vivere. Eppure, la sensazione di non avere più niente da perdere è quella che mi ha sempre spinto a fare un passo in avanti.

La cosa ironica è che la scarsità di alternative cui sono stata posta a fronte, mi ha successivamente aperto tante nuove alternative. Ho deciso di aprire questo blog, ho deciso di mettere video su YouTube, di condividere pensieri positivi su Twitter, di tornare a studiare, a lavorare, a fare sport, a coltivare i miei hobby ed i miei interessi. E, soprattutto, mi ha permesso di vedere che è possibile vivere anche senza la costante presenza dell’anoressia. Anzi, è possibile vivere SOLO senza la costante presenza dell’anoressia.
 
Clicky Web Analytics Licenza Creative Commons
Anoressia: after dark by Veggie is licensed under a Creative Commons Attribution-NoDerivs 3.0 Unported License.