Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 30 agosto 2013

Anoressia: Frasi positive

L’avevo realizzato qualche tempo fa, e salvato in una chiavetta USB che poi non ero più riuscita a ritrovare. Adesso è risbucata fuori, e dunque ecco qua: video per tutte/i voi in arrivo! ^___^ 

So che complessivamente non è un granché (a partire dalla telecamerina utilizzata per registralo, che avrà avuto 3 pixel a dir tanto…), però quello che conta non è la forma ma la sostanza, no?!...

Un abbraccio collettivo…

venerdì 23 agosto 2013

Dire di no alla campagna "Just say no (to anorexia)"

Come tutti/e i/le ragazzi/e nati/e negli anni ’80, ricordo molto bene la campagna “Dire di No alla Droga” che era molto in voga (per lo meno dalle mie parti) quando frequentavo le scuole medie. In seconda media mi ero messa anche a distribuire i volantini che erano stati portati dagli psicologi che tenevano questa campagna di prevenzione alle varie classi. Nell’ingenuità dei miei 12 anni, ero convinta che stavo facendo la cosa giusta, che avrei protetto tutti i miei compagni di classe da quei cattivoni dei pusher che avrebbero avuto la meglio su di loro se solo non si fossero messi a Dire di No alla Droga.

Ero una ragazzina tutto sommato aderente alle regole sociali più basilari. L’idea di fare qualcosa di palesemente illegale (a parte il non rispettare mai i limiti di velocità quando guido la macchina) non era nelle mie corde allora come non lo è adesso. Non mi è mai mancata una certa vena ribelle, soprattutto quando qualcuno mi provocava dicendomi che non ero capace di fare qualcosa – nel qual caso ce la mettevo tutta per dimostrare a chi me l’aveva detto che si sbagliava – ma se mi veniva detto che fare una certa cosa non era permesso, alla fin fine non la facevo. O, tutt’al più, trovavo giustificazioni semi-etiche per aggirare l’ostacolo. Ma la Veggie dodicenne non si rendeva conto che la tossicodipendenza era ben più del semplice essersi rifiutati di “Dire di No alla Droga”.

Dopo tutti questi anni, ne ho viste abbastanza per rendermi conto che le campagne di questo tipo non funzionano. Certo, la decisione di assumere sostanze stupefacenti o di bere alcoolici è una scelta, ma una dipendenza non è più una scelta. È ovvio che le persone che hanno maggiore probabilità di diventare dipendenti sono quelle che decidono di provare ad assumere queste sostanze, ed è su questo che agiscono tutte le molteplici campagne “Dire di No” che vengono proposte a scuola – sullo scoraggiare le persone ad assumere certe sostanze ancor prima che lo facciano. Ma la maggior parte delle persone magari inizialmente assume sostanze stupefacenti a cuor leggero, pensando che lo farà solo una volta, che non gli succederà mai di perdere il controllo e diventare dipendente. È qui che questo tipo di campagne falliscono: perché non riescono a far capire veramente quanto sia facile diventare dipendenti, e soprattutto come sia difficile staccarsene e quanto una tossicodipendenza possa devastare la vita.

Questo è noto da anni, non è cosa nuova. E allora perché, acciperbaccolina, esistono ancora persone nel mondo dei DCA che decidono di dar vita a una campagna “Dire di NO all’Anoressia”?!?

Mi riferisco alla campagna “Just Say No (to anorexia)" che è stata varata da un’importnte agenzia di moda brasiliana. Quest’agenzia di moda ha iniziato questa campagna che sta riscuotendo molto interesse. Accanto allo slogan “You are not a sketch. Just say no to anorexia” (“Non sei un disegno. Di’ di no all’anoressia”), appaiono due immagini: il disegno, il bozzetto disegnato da uno stilista, di una donna estremamente magra, affiancato alla fotografia di una modella, trattata col Photoshop in modo da farla apparire emaciata. A parole non rende bene, quindi vi posto l’immagine per farvi vedere esattamente cosa intendo.


Immagine tratta da: http://www.buzzfeed.com/copyranter/alarming-anorexia-ads-via-brazil

(click sull'immagine per ingrandirla)

(Sulla sinistra: il disegno di una donna magrissima. Sulla destra: una modella dimagrita artificialmente grazie al fotoritocco.)

Al di là del fatto che una campagna del genere proposta da un’agenzia di moda mi pare largamente ipocrita – per la serie “predico bene e razzolo male” – e di cattivo gusto, poiché non ha senso che le agenzie di moda si mettano a criticare una fisicità che loro stesse contribuiscono a creare, c’è un problema sottostante ben più grosso, a cui forse nessuno pensa abbastanza: è veramente possibile “Dire di No” in maniera fredda e sciente all’anoressia?

Sia attraverso i 5 ricoveri che ho fatto, sia tramite questo blog, ho avuto modo di conoscere molte persone con un DCA. La stragrande maggioranza di queste ragazze sapevano perfettamente, ancor prima di ammalarsi, quanto anoressia e bulimia fossero malattie pericolose, fisicamente e psicologicamente.

Io stessa, anche se fin dall’inizio ero perfettamente consapevole di quanto fosse anomala e insana la mia progressiva restrizione alimentare, pensavo che comunque andasse tutto bene perché comunque non adottavo nessuna condotta di compensazione, come credevo tutte le anoressiche facessero, perché io non volevo questo, volevo solo avere il controllo. Certo, all’epoca le mie conoscenze relative a quanto le persone con anoressia effettivamente mangiassero/vomitassero/facessero attività fisica compulsivamente/assumessero lassativi, erano senz’altro estremamente limitate, ma non è questo il punto. Anche quando ero proprio nel pieno dell’anoressia, non pensavo che una malattia del genere potesse veramente capitare a me. Pensavo che, se l’avessi deciso, avrei potuto smettere di restringere l’alimentazione in ogni qualsiasi momento e far tornare il mio rapporto col cibo spontaneo com’era prima. Pensavo che non ci sarebbero stati danni psicofisici residui. Pensavo di avere sempre e comunque quel controllo che tanto bramavo, e che l’anoressia stessa illusoriamente mi trasmetteva. Pensavo di essere troppo dannatamente intelligente per lasciarmi controllare dall’anoressia.

Questo è poi un po’ quello che mi hanno detto quelle pochissime persone che mi conoscevano che sono venute a conoscenza della mia anoressia nel momento in cui mi è stata diagnosticata: “Ho sempre pensato che tu fossi troppo intelligente per ammalarti di anoressia” (*). Nessuno lo ha detto con l’intenzione di ferirmi, ma il messaggio era chiaro: avrei dovuto saperlo meglio. Avrei dovuto tirarmene fuori prima. Niente di nuovo rispetto a quello che io stessa mi ero ripetuta millemila volte.

Per un po’ di tempo, l’ho pensato spesso: se solo avessi conosciuto veramente tutte le implicazioni mentali dell’anoressia, se solo avessi saputo cosa significasse avere la mente piena di ossessioni, se solo avessi avuto cognizione di quanto avrei danneggiato la mia salute, se solo avessi avuto la consapevolezza di quanto avrei mandato a puttane la mia vita con questo disturbo alimentare, non avrei mai provato a restringere l’alimentazione come se questo fosse il miglior modo per sentire che avevo il controllo su tutto, fame compresa. Tuttavia, adesso ho smesso di pensarla così. Perché? Perché so benissimo che l’avrei fatto ugualmente a prescindere da quante e quali informazioni avessi avuto. Perché nel momento in cui ho iniziato a restringere l’alimentazione avevo comunque bisogno di avere la sensazione di poter controllare ogni singolo aspetto della mia vita. Perché non si sceglie un male sapendolo tale, ma solo se, per sbaglio, lo si vede come un bene rispetto ad un qualcos’altro che viene percepito come un male maggiore. A scuola avevo assistito anche a delle campagne di sensibilizzazione relative ai disturbi alimentari, per cui teoricamente conoscevo i danni fisici e mentali prodotti dall’anoressia. Cionnonostante, non avrei mai pensato che mi sarei ritrovata, a poco più di 16 anni, a subire un ricovero coatto a causa della massiva perdita di peso che avevo realizzato nel giro di 2 anni. Pensavo che sarei riuscita in qualsiasi momento a “Dire di No”.

Il punto è: NON SI PUO’ SEMPRE “DIRE DI NO”.

Penso che sarebbe sciocco creare una campagna “Dire di No” alla schizofrenia o al disturbo bipolare. La canzone “Don’t Worry, Be Happy” non è un grido di battaglia anti-depressione, ed è giusto così.

Inoltre, le campagne come questa “Just Say No (to anorexia)" spostano il carico dell’anoressia totalmente sulle spalle di chi ne soffre. Come tutti hanno sempre pensato, il mio problema è stato che non sono stata capace di dire di no all’anoressia. Il problema, dunque, è la malata, non la malattia. Il problema, come ho già scritto più e più volte, non ha niente a che vedere con i cosiddetti “ideali di magrezza” proposti dai mass media, che possono dunque facilmente affrancarsi da ogni qualsiasi contributo gli possa essere ascritto in merito alla patogenesi dei DCA. Il problema è che, se le stesse agenzie di moda elaborano campagne anti-anoressia sul modello di quella di cui ho parlato in questo post, sottolineano il fatto (erroneo!) che l’anoressia sia tutta colpa delle malate che sono state troppo dementi non riuscendo a “Dire di No”.

Ma non è così che funziona un DCA. Perciò, e non sto facendo dell'ironia, se qualcuno riesce a capire l’utilità di campagne come questa “Just Say No(to anorexia)", allora gentilmente me la spieghi, perché io proprio non ci arrivo.


(*) Giusto per mettere i puntini sulle “i”, vorrei chiarire cosa credo pensassero le persone che mi hanno detto una cosa del genere. Io immagino che queste persone volessero dire che loro pensavano che, dal momento che io ero consapevole di quanto fosse pericolosa l’anoressia, avrei dovuto prevenirla e non ammalarmene. E che per loro era frustrante il vedere quanto fossi malata, consapevole di esserlo, e allo stesso tempo incapace di uscirne fuori. Per chi non abbia vissuto l’anoressia sulla propria pelle, sembra ovvio che se restringere l’alimentazione comprometteva la mia salute fisica e mentale, io avrei dovuto smettere di farlo, punto e basta. Ma un DCA non è matematica. Mentre parlavamo utilizzando frasi del genere, non credo che né io né gli altri avessimo smesso di pensare all’anoressia come ad una scelta totalmente sciente.

venerdì 16 agosto 2013

“Può una persona che ha attraversato un DCA, e ne porterà i segni, approcciarsi alla professione di psicoterapeuta con successo?”

Come promesso nel post precedente, lo spazio di oggi è dedicato alle vostre risposte alla domanda di LookingForM, ovvero: “Può una persona che ha attraversato un DCA , e ne porterà i segni, approcciarsi alla professione di psicoterapeuta con successo?”

La domanda si apre ad un’estrema soggettività d’interpretazione e di risposta, ed infatti le vostre opinioni che mi sono pervenute (ringrazio tutte coloro che hanno risposto: siete state gentilissime, GRAZIE!!), sono inevitabilmente molto eterogenee. 

In effetti, credo che sia una tematica sulla quale è impossibile dare una risposta unitaria ed oggettiva.

Se mi venisse chiesto: “Veggie, pensi che tu potresti approcciarti alla professione di psicoterapeuta con successo?” La, mia risposta sarebbe: “No.” Ma questa è una risposta che vale solo e soltanto per me. Personalmente (ripeto: personalmente) non credo proprio che potrei mai lavorare come psicoterapeuta nel campo dei DCA, e questo proprio perché ho vissuto/sto vivendo in prima persona l’anoressia. Mi spiego: da quando mi sono laureata ed ho iniziato a fare tirocinio per almeno 8 ore al giorno, mi sono resa conto che, per l’efficacia terapeutica, una certa tipologia di rapporto medico-paziente è fondamentale. La compliance terapeutica è tanto maggiore quanto più il paziente riconosce la competenza del medico, ergo si fida di lui/lei. Il riconoscere un medico come “competente”, presuppone che, più o meno inconsciamente, il paziente si ponga su un livello diverso rispetto a quello del medico stesso (diverso, NON inferiore!!). Il che, a sua volta, presuppone che il medico comprenda il vissuto del paziente, ma non lo capisca, sia presente insomma un distacco emotivo – non inteso nel senso che il medico dev’essere un cubetto di ghiaccio alla Dottor House, anzi, a mio avviso un buon medico dev’essere sempre gentile, disponibile, pronto a spiegare sempre le cose al paziente, e comprensivo… ma non si deve spingere oltre un certo limite di “socievolezza”, ci dev'essere un certo distacco emotivo, che permette al medico di ragionare ed agire con lucidità ed in maniera mirata. [Il che spiega, banalmente, come mai i propri famigliari/parenti/amici, spesso e volentieri non sono effettivamente i migliori/medici psicoterapeuti per una persona.] Viceversa se io, che ho vissuto/vivo l’anoressia, mi mettessi in relazione con una paziente che ha il mio stesso background di malattia, il rapporto che c’instaurerei, per come sono fatta, sarebbe più un rapporto “amicale” perché ci riconosceremmo come “simili”, data la grande entità di quello che ci accomuna, e questo farebbe sì che la relazione terapeutica ne risentirebbe negativamente. Per questo affermo con convinzione che io non sarei una buona psicoterapeuta per chi ha un DCA. Però ovviamente questo vale solo e soltanto per me stessa. 

Detto questo, le vostre risposte (nell’ordine in cui mi sono pervenute). 

Sarah995 
Io credo che, chiunque abbia attraversato un DCA, possa poi dedicarsi alla professione di psicoterapeuta con successo e che, anzi, forse riuscirebbe ad avere più empatia con i propri pazienti dato che sarà passato anche lui dalle stesse situazioni prima di uscire dall'anoressia. Inoltre, credo eviterebbe di fare qualche domanda scomoda o avere qualche comportamento che prima risultava a lui fastidioso. In pratica, a mio parere, uno psicoterapeuta che ce l'ha fatta a lottare contro l'anoressia sarebbe in grado di comprendere maggiormente chi sta aiutando. 

Hellie 
Sì, si può. Freud diceva che l'analista procede con la terapia fin dove non incontra le proprie resistenze. Ciascuno di noi, dca o meno, è sensibile ad alcune tematiche, ma ciò non vuol dire non poter riuscire a coronare i nostri sogni. Il primo lavoro da fare è su di noi, per superare i nostri limiti, i nostri punti oscuri. L'unica cosa che ci impedisce di riuscire è la paura.  

Lauretta 
La mia risposta alla domanda è "lo spero" dato che sto studiando per diventare psicologa, e ho attualmente un dca non meglio identificato…  

MughettoV 
A mio parere, sì, è possibile. Ci sono tante persone che si avviano alla carriera sociale o comunque sanitaria proprio perché hanno vissuto in prima persona tali problematiche. Piena comprensione, pieno supporto. Specie per questo tipo di problema, si sente subito la differenza da una persona che l'ha vissuta con una che non l'ha vissuta. Lo psicologo deve poter capire A FONDO il malessere del paziente, e quindi non basta studiare su qualche libro. Ci vogliono doti umane, quali l'empatia. Beh, ragazze mie... chi più di noi ha empatia? 

Wolfie 
Di fronte a questa domanda, mi viene spontaneamente da rispondere con un’altra domanda: perché mai una persona che ha vissuto sulla propria pelle l’inferno di un dca dovrebbe aver voglia di continuare a stare immersa in quella sofferenza? Credo che già da questo sia intuibile come la penso sull’argomento. Penso che sia molto, molto difficile che una persona che ha avuto un dca possa poi essere una buona psicoterapeuta. Perché certe cose le abbiamo vissute su di noi, e ci hanno fatto male. Poi, se per lavoro dobbiamo avere quotidianamente a che fare con persone che portano su di sé quello stesso dolore, e cerchiamo di farcene carico, ci arriva addosso una “bomba emotiva”. Quindi io m’immagino che, se una persona che ha vissuto un dolore grande come quello di un dca si immerge per lavoro tra persone che hanno quello stesso dolore, nel giro di poco tempo avrà bisogno lei stessa di una psicoterapia, perché è sottoposta ad un carico emotivo troppo grande. Di certo una persona che ha avuto un dca avrà una grande capacità di capire ciò che provano le sue pazienti, e questo sarebbe anche positivo, però poi secondo me questa grande capacità le si ritorce contro, facendola soffrire non solo per sé, ma anche per tutte le ragazze di cui si deve far carico, che stanno soffrendo, perché vedere sugli altri le stesse sofferenze che abbiamo vissuto noi è micidialmente doloroso. 

Jonny 
È indubbio che una persona che abbia vissuto un disturbo alimentare possieda capacità di empatia proprie di chi ha un determinato vissuto sulle spalle, un’empatia che deriva dall’esperienza vissuta, e non da una mera lettura di testi universitari, che permette di permeare realmente a fondo il sentire delle proprie pazienti. Tuttavia, mi chiedo quanto questo mestiere possa giovare alla persona stessa che lo svolge. Mi pare che per una persona che ha avuto un disturbo alimentare, scegliersi un lavoro in quel campo sia un modo per rimanere comunque vincolata alla malattia. Quando la propria vita ruota per tanto tempo intorno all’anoressia, quando l’anoressia – seppure in maniera patologica – diviene il centro della propria vita per tanti anni, diventa veramente difficile il riuscire a concepire un futuro senza il dannato disturbo alimentare. Per cui, una persona che ha avuto problemi alimentari, e che poi vuol fare la psicoterapeuta, mi fa pensare a una persona che vuole rimanere in qualche modo attaccata all’anoressia, pur magari non restringendo più l’alimentazione. Insomma, una sorta di scusa per continuare una vita coll’anoressia, ma in maniera apparentemente più “sana”, una auto-giustificazione, una auto-presa-per-il-culo ben congegnata per restare comunque, in un certo qual modo, entro il problema. Peraltro, mi sembra pure un po’ presuntuoso da parte di una persona che “si porta ancora addosso i segni di un DCA”, decidere di “curare” per professione gli altri, pur non essendo neanche stata pienamente in grado di curare se stessa. Infine, lavorare come psicoterapeuta significa far girare gran parte della propria vita attorno alla malattia, interagire costantemente con persone malate, reiterare più e più volte nell’ascolto dei soliti discorsi patologici, e non penso proprio che questo giovi a chi in passato ha già avuto problemi d’anoressia, anzi, mi pare un trigger di portata non indifferente per favorire le ricadute. Poi, cazzo, questa è solo la mia opinione, e ognuno sceglie per la propria vita, ci mancherebbe altro, solo che l’idea di fare la psicoterapeuta non mi sembra proprio la più brillante che una persona con problemi d’anoressia o di bulimia potrebbe avere. 

Connie 
Per rispondere a questa domanda spiegando come la penso, inizio citando un’autrice giapponese che mi piace tantissimo: “Sai, si dice che gli essere umani siano divisi in sunshine, le persone solari, e moonshine, quelle lunari. I sunshine emettono luce propria, e riescono persino ad illuminare le altre persone. I moonshine riescono a splendere per la prima volta solo grazie alla presenza dei sunshine. Sia io, sia lei, siamo come la luna. Io posso capire i suoi sentimenti ma non ho la forza per cambiarla. Penso che invece tu, dicendo "così non va bene" abbia la forza necessaria per trascinarla.” Io credo che questo discorso, completamente decontestualizzato, valga anche per i DCA. Ed è per questo che credo che una persona che ha avuto un DCA difficilmente potrà essere una psicoterapeuta veramente valida. Di certo chi ha vissuto queste malattie avrà una sensibilità ed un’empatia estremamente spiccate, ma quello che veramente conta secondo me in una psicoterapia, non è quanto la terapeuta mi capisce, ma quanto riesce ad aiutarmi a trovare soluzioni che mi permettano per lo meno di raggiungere un equilibrio. Se io vado da una terapeuta e le riferisco un mio vissuto, non m’importa sentirmi dire un “Ti capisco, perché ci sono passata anch’io”. Se voglio sentirmi dire una cosa del genere, vengo su questo blog (o su altri simili) poiché è fondamentalmente improntato alla condivisione, senza alcuna pretesa terapeutica. Ma se vado in terapia, è perché voglio sentirmi dire “Okay, su questo problema possiamo provare a lavorarci così e cosà”, voglio qualcuno che sappia darmi un aiuto concreto. Qualcuno mi dirà che le due cose, comprensione e aiuto concreto, possono coesistere, ma io non credo che sia così scontato. Con le persone anoressiche o bulimiche che ho avuto modo di conoscere durante un ricovero, mi sento profondamente affine, ma ho sempre tracciato una linea di confine nel mio relazionarmi a loro. “Più avanti di così non vado”: ecco cosa penso. A relazionarsi con persone che hanno vissuto questa malattia, anche se poi magari hanno studiato per poter legittimamente diventare psicoterapeute, si finisce comunque per rimestare nella malattia. La psicoterapeuta che mi segue attualmente non ha mai avuto un DCA. So che, perciò, non può capire veramente e fino in fondo quello che le dico quando le parlo dell’anoressia. Ma proprio perché si tratta di una persona che non è in grado di identificarsi in questa malattia, forse è in grado di scovare quelle risposte che una terapeuta “interna” alla malattia, che guarda nella mia stessa direzione, con i miei stessi occhi, non potrebbe mai riuscire a trovare. 

Volendo stilare una conclusione, direi che non esiste risposta oggettiva per la domanda di LookingForM

Cara LookingForM, la risposta alla tua domanda, dunque, potrai svelarla soltanto tu stessa, un domani. Non si può sapere a priori se una persona che ha vissuto un DCA possa essere o mano una buona psicoterapeuta… se è però questo il mestiere che pensa le piacerebbe svolgere, dovrebbe comunque provarci. Poi sarà la vita, passo per passo, a svelare se quella scelta professionale si è rivelata buona o meno. E, in tutti i casi, esiste sempre e comunque la possibilità di proseguire per la strada che si è intrapreso – se si vede che è proprio ciò che calza a pennello – o di cambiare spostandosi su qualcos’altro. Non penso che esistano delle “Certezze” per antonomasia… penso solo che bisogna andare avanti facendo quello che riteniamo migliore per noi stesse… e sarà un domani la vita a stabilire quello che di certo il futuro potrà riservarci.

venerdì 9 agosto 2013

Una lettera per chi sta combattendo

Mie care guerriere della luce che state combattendo contro l’anoressia/la bulimia/il binge/un DCAnas,

forse in questo momento state male. Vi sembra che il vostro DCA sia più forte di voi. Non sapete da che parte sbattere la testa. Lo leggo spesso nei vostri blog, sento spesso questa sensazione d’impotenza nei confronti del disturbo alimentare. Ma penso che, se nonostante tutto siete qui a leggermi, vuol dire che state cercando di tenere duro. Che la vostra scintilla non si è spenta. Sono preoccupata per voi? Sì. Ma credo che ce la possiate fare? SI. Sempre. Perché? Perché so che siete forti abbastanza. E so che lo siete perché continuate a combattere, perché non vi arrendete. So che quello che si sceglie è il sintomo, ma nessuno sceglie il disturbo alimentare in sé, con tutte le devastanti conseguenze che esso ha nella vita quotidiana… però tutte possiamo scegliere la strada del ricovero. Siate coraggiose, siate forti, fatelo per voi stesse: fate questa scelta. Il mondo ha bisogno di voi – delle vere voi stesse, quelle bellissime e meravigliose, non quelle malate e compromesse.

Sono assolutamente certa che ciascuna di voi sia ben più forte del suo DCA. So che siete delle guerriere. Ve lo siete dimenticato?

 Non posso lasciarvelo dimenticare. Non ve lo lascerò dimenticare. Non dovete permettere a qualche ricaduta di affossare tutti i progressi che nel frattempo avete fatto. Voi meritate il meglio, e combattere contro l’anoressia è l’unico “meglio” possibile. Credetemi. So quant’è difficile – so che a volte si vorrebbe mandare tutti e tutto a fanculo, e ricominciare a restringere l’alimentazione perché così tutto sembra più facile. Ma voi non siete delle perdenti. E l’anoressia può anche sussurrarvi che restringere l’alimentazione è l’unico mezzo che avete a disposizione per controllare tutto della vostra vita, ma è nient’altro che una delle tante bugie che essa racconta. È tutta fuffa.

So quali traguardi potete raggiungere – anche se ci vorrà un sacco di tempo e un sacco di fatica. So che potete fare tanto grazie alla vostra volontà, grazie all’aiuto professionale di psicologi, psichiatri e dietisti, e grazie al supporto delle persone che vi vogliono bene. Perché intorno a voi ci sono veramente persone che vi vogliono bene… ma non per la vostra fisicità, il vostro peso, quanto (non) mangiate, o quanta attività fisica fate; ma persone che vi vogliono bene per la vostra determinazione, il vostro coraggio, la vostra bellezza interiore, la vostra intelligenza, la vostra simpatia, la vostra realtività e la vostra ironia.

E la sapete una cosa? Se continuate a combattere, poco a poco le cose andranno meglio. C’è una parte di voi che magari continua a pensare che starà meglio solo se continuerà con la restrizione alimentare e con tutti i pensieri tipici del DCA… ma è sbagliato. Semplicemente. E non voglio che pensiate che possa essere così, perché se lo pensate allora è l’anoressia che vi fa ragionare in questo modo, non siete voi.

So che a volte tutto sembra essere troppo. So che a volte percorrere la strada del ricovero sembra una cosa troppo dura, troppo difficile, troppo faticosa, troppo invasiva, troppo opprimente. E so che vorreste gridare: “Non è quello che voglio! Io voglio continuare a restringere l’alimentazione! Voglio avere il controllo!” – ma è l’anoressia che vi fa parlare così. E ogni volta che credete che l’anoressia vi stia dicendo la verità, ogni volta che cedete alla malattia, state perdendo una parte di voi stesse.

E io non voglio che vi danniate per una malattia. Non voglio che vi perdiate per l’anoressia.

Per questo continuerò a ripetervi di tenere duro e di mandare a fanculo l’anoressia, di farle mangiare merda. E continuerò a credere in voi anche quando avrete delle ricadute – perché credo che abbiate tutta la forza e la volontà per rialzarvi. E sappiate che, se avete voglia di sfogarvi, di piangere, di gridare, di arrabbiarvi, di sclerare, le mie spalle sono grandi abbastanza per tutte voi. Qualsiasi cosa, purchè non vi facciate fregare dalle bugie che racconta l’anoressia. D’accordo?

So che è dura. So che è dannatamente dura. So che a volte è un inferno. Ma il giorno giusto per combattere è “oggi”. E voi ce la potete fare.

No, ce la potete fare.

No, CE LA POTETE FARE. 

Okay?

Vi voglio bene. Continuiamo a combattere.

Tutto il mio amore,

Veggie 

P.S.= Ho ricevuto tramite e-mail un’interessantissima domanda da parte di LookingForM, che chiede: “Può una persona che ha attraversato un DCA , e ne porterà i segni, approcciarsi alla professione di psicoterapeuta con successo?”. Poiché penso che la risposta a questa domanda sia soggettiva, la giro a voi: che ne pensate?
Se vi va, mi farebbe molto piacere se mi rispondeste tramite mail all’indirizzo: veggie.any@gmail.com
Nel post di Venerdì prossimo riunirò e pubblicherò tutte le vostre risposte!
Grazie in anticipo a chi risponderà!!

venerdì 2 agosto 2013

Le cose che possono rimpiazzare l'anoressia

Scoprendo l’acqua calda, una delle cose che credo possa aiutare di più nella lotta quotidiana contro l’anoressia, è il trovare qualcosa che sia per noi interessante e coinvolgente come lo è stata a lungo l’anoressia stessa. Nel momento in cui si decide di combattere contro l’anoressia, infatti, c’è bisogno di avere per lo meno una ragione che mantenga la nostra motivazione. È relativamente facile rimanere “recovery-oriented” fino a che siamo ricoverate in una clinica, non lo è altrettanto quando ci troviamo, al momento della dimissione, a re-immergerci nella nostra vita quotidiana. Una delle cose che rende più difficile il mantenere la motivazione nel momento in cui si viene dimesse è l’improvviso venire meno del supporto fornito sia da tutti i medici che lavorano nella clinica, sia dalle altre ragazze ricoverate. L’altra cosa che manca, spesso, è un qualcosa di concreto per cui poter dire che vale la pena combattere contro l’anoressia. Ed è questo qualcosa che sarebbe importante riuscissimo a trovare.

In parole povere: occorre cercare di dare più importanza ad altre cose, quali che siano, e cercare poco a poco di costruirsi una vita autonoma al di là dell'anoressia, poiché nel momento in cui si arriva ad avere una vita che compendia numerosi interessi “sani” e positivi, ci si rende conto che l’anoressia non ci serve più poi così tanto.

Non fraintendetemi, non penso che questa sia la cura tout-court per l’anoressia. Anzi, credo che pur trovando interessi che non hanno niente a che vedere col DCA, si abbiano comunque ricadute più o meno pesanti (per lo meno, questa è stata la mia esperienza). Trovare cose da fare che derogano completamente dall’anoressia non è la bacchetta magica della guarigione né la panacea, ma penso che possano aiutare ad allontanare la testa da certi pensieri ossessivi, nonché a scoprire un angolo di mondo che ci offre opportunità positive che ci possano far sentire che allora vale veramente la pena il cercare di distaccarsi quanto più possibile dal DCA per poterci dedicare ad altro. Trovare un qualcosa che ci faccia sentire che, ributtandoci del tutto nell’anoressia, avremmo qualcosa da perdere. Trovare qualcosa che ci stia veramente a cuore. Perché questo può fare una significativa differenza.

Personalmente, il mio lavoro come istruttrice ed arbitro di karate, e i miei studi e tirocini universitari, si sono col tempo rivelati cose in grado di prendere il posto dell’anoressia. Vuoi perché mi hanno dato qualcosa da pensare al di là del DCA, vuoi perché sono attività che mi hanno veramente interessata e presa molto. In poche parole, sono cose che mi piace tantissimo fare, e che mi danno soddisfazione.

Penso che questa possa essere universalmente considerata una buona cosa.

Tuttavia.

(c'è sempre un "tuttavia" in tutto ciò che faccio... ^__^")

Fin da piccola ho sempre avuto un carattere molto “quadrato”, analitico e tendente al controllo, ben prima dell’anoressia. E ho avuto un carattere “quadrato”, analitico e tendente al controllo durante il periodo peggiore dell’anoressia. Per cui, penso che nessuno si sorprenderà se dico che sono ancora oggi fatta così.

La differenza sta nel fatto che prima concentravo tutti questi miei aspetti caratteriali solo ed esclusivamente sull’anoressia, rinfocolando continuamente la malattia, adesso ho la possibilità di spaziare su cose decisamente più sane.

La principale difficoltà del trovare interessi che non abbiano niente a che vedere con l’anoressia sta nel fatto che siamo noi a dover decidere tutto, come se fossimo delle lavoratrici freelance: siamo noi a dover ripartire i nostri impegni durante la giornata. Certo, se una persona studia ci sono delle date in cui si svolge la sessione di esami (o il compito in classe, o l’interrogazione), e se una persona lavora ci sono delle scadenze da rispettare, ma in generale si è libere di scegliere come ripartirci quel che c’è da fare quotidianamente. E qui può nascere un problema, ovvero il non aver abbastanza da fare. Perché non si lavora/studia/fa sport 24 ore su 24, e quindi rimangono dei tempi morti in cui il DCA torna all’attacco.

L’anoressia non muore, non svanisce come per magia, bisogna tenerle testa.

Ed è proprio quando l’anoressia ci suggerisce di restringere l'alimentazione, che essa si sta mangiando noi, la nostra vita, la nostra libertà. E in quei momenti in cui non si ha niente da fare, perciò, tornano i soliti pensieri, il timore che non saremo mai abbastanza, che prima o poi manderemo tutto a puttane e ricadremo in pieno nel DCA, che lo studio finirà e non sapremo più come riempire il tempo. Perciò, dobbiamo acquisire la consapevolezza che questi sono solo pensieri indotti dal disturbo alimentare: capire che non siamo destinate a niente, ma siamo noi che ci costruiamo il nostro futuro giorno dopo giorno. Capire che quegli spazi ancora vuoti possiamo riempirli con qualcos’altro, perché l’unica cosa veramente vuota è l’anoressia stessa.

L’unica cosa cui bisogna stare attente è che il lavoro/lo studio/lo sport non prenda il posto dell’anoressia anche per quello che concerne gli aspetti negativi: perché se l’ansia che prima riversavamo sull’anoressia finiamo per riversarla sull’attività che la sostituisce, il lavoro/lo studio/lo sport diventerà un inferno e non sarà di alcun aiuto. Bisogna approcciarci ad altre attività/hobby NON con la smania di dedicarsi ad esse come delle ossesse, e di ottenere solo i risultati migliori possibili, perché sennò non se ne scaturiranno altro che frustrazioni; occorrerebbe piuttosto scegliere cose che ci interessano e che svolgiamo con piacere, cercando di non fissarci sui risultati.

Non voglio dire che questo sia facile, anzi, tutt’altro: io per trovare cose che veramente m’interessassero e potessero fornirmi una valida alternativa all’anoressia ci ho impiegato anni ed anni, con un bel po’ di ricadute in mezzo. Però alla fine sono riuscita a trovare delle cose che quotidianamente mi motivano a non mollare la presa, e a continuare a combattere contro l’anoressia, perché se mi arrendessi ora avrei veramente tanto da perdere. Per cui quel che dico, semplicemente, è che non è facile, ma ne vale la pena. 

È lontanissimo dall’avere una bacchetta magica, ma io credo che impegnarci per ricercare cose che c’interessano e dedicarci ad esse, è una cosa che TUTTE possiamo fare, nessuna esclusa. Non cambia la vita, non fa sparire l’anoressia dall’oggi al domani, ma sicuramente è una cosa che aiuta: provato & confermato.
 
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