Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

domenica 30 novembre 2008

Paura di fallire

Penso sia semplicemente naturale, dopo aver passato l'anoressia, temere di ricaderci… ma la cosa importante è che, se ciò dovesse accedere, adesso sappiamo di avere le armi per combatterla. Quel che è stato parte di noi non cesserà mai completamente di esistere, ma si può essere più forti e riuscire a sopravvivere. Riuscire a conviverci senza che l'anoressia abbia la meglio.

Lo so, a volte pensare di intraprendere un processo di ricovero fa paura. Ma la paura è solo una scusa per non affrontare le cose. Ci vuole molto tempo per liberarsi dei fantasmi del proprio passato, specie se questi ci hanno infestato a lungo. Ma le ricadute sono normali, e bisogna cercare di non scoraggiarsi. È una lotta difficile, lo so, ma possiamo farcela, tutte quante. Ci saranno giorni buoni e giorni cattivi. Bisogna solo non perdere mai di vista il traguardo, ciò che ci vuole veramente dalla vita. Se si riesce a tenere la testa alta, a rialzarsi dopo ogni caduta, siamo già ad un buon punto della strada.

I giorni cattivi sono inevitabili, giorni in cui tutto si tinge di nero e viene voglia di mollare perché sembra che la vita si chiuda e allora si teme di non essere più capaci di affrontare ciò che ci aspetta. La paura che arriva, allora, può far venire voglia di riadottare quei comportamenti sbagliati del passato. Rituffarsi in quelle dinamiche che, per quanto negative e distruttive, davano comunque sicurezza. Bè, anche se è doppiamente difficile, è proprio in momenti come questi che bisogna continuare a combattere.

La paura lega al passato. Al non lasciar la strada vecchia per la nuova. Talvolta andare incontro ad un futuro sconosciuto fa così paura che sembra essere preferibile quello che è stato in passato, per quanto distruttivo potesse essere. Per questo lasciare il passato è così difficile. Perciò bisogna cercare semplicemente di muovere un passo dopo l’altro, piccoli passi, giorno dopo giorno. Ma siamo tutte umane, perciò, si sa, le ricadute ci sono. Il fatto che ci siano non significa che tutto il duro lavoro che si è fatto per arrivare fino a quel punto è stato inutile o è andato distrutto. Non significa che bisogna ricominciare tutto di nuovo da capo, perché quello che è stato fatto, in qualche modo, resta. Può essere usato come “rampa di lancio” per ripartire. Partendo da un’esperienza come l'anoressia è maledettamente difficile raggiungere un traguardo positivo, perciò è naturale avere delle ricadute. Dunque bisogna semplicemente riconoscerle come tali e non demoralizzasi ma cercare di superarle. Se si capisce quel che si è fatto di sbagliato, si potrà evitare di rifarlo in futuro. Ci si potrà rialzare e dire “ricomincio da qui”.

Pensatela un po’ così: se volete andare da Milano a Napoli e, dopo aver percorso 300 Km, la vostra auto ha un guasto e si ferma, non è che dovete ritornare a Milano e ripartire di nuovo da capo per Napoli! Siete e rimanete a 300 Km dal punto di partenza. Ed è da lì che ripartirete non appena la vostra auto sarà stata riparata. Poi, può darsi che durante il viaggio si guasti nuovamente e dobbiate fermarvi ancora, oppure è probabile che abbiate sete o dobbiate andare in bagno e decidiate di fermarvi ad un Autogrill, e più volte vi dovrete fermare, più lungo sarà il viaggio, ma non dovrete mai ricominciarlo da capo! Si tratta solo di risalire in macchina e ripartire. Prima o poi arriverete sicuramente. E lasciate che vi dica una cosa: non c’è niente di male nel fermarsi quante volte lo vogliate.

Credete più in voi stesse che nei fantasmi del vostro passato. E non abbiate paura di fallire ancora. Rialzarsi è sempre possibile, qualora lo vogliate.

venerdì 28 novembre 2008

A voi la parola

Mi piacerebbe iniziare qualcosa di nuovo: A Voi La Parola.

Potrei scegliere uno qualsiasi dei giorni della settimana, e in quel giorno, anziché pubblicare un mio post, potrei pubblicare le vostre parole. Tutto ciò che dovete fare (solo se v’interessa, ovviamente!) è mandarmi una mail all’indirizzo:

veggie.any@alice.it

Cosa scrivere? Raccontate il vostro vissuto con i DCA, scrivete una poesia, un racconto, un pensiero o anche semplicemente uno sfogo. Scrivete una lettera. Scrivete la cosa peggiore o la migliore della settimana. Scrivete di un problema che vi affligge e di cui non riuscite a venire a capo. Scrivete i vostri interrogativi, i vostri dubbi, le vostre angosce. Fatemi qualche domanda. Qualsiasi cosa vogliate. Sono le vostre parole, dopotutto. Chi può dire cosa potete o non potete scrivere?

Non è (e non sarà) assolutamente mia intenzione fare la parte della psicoterapeuta, non è certo quello che voglio!, anche perché so benissimo di non esserne in grado, però mi farebbe piacere leggere e rispondere ad ogni storia, poesia, sfogo, lettera, problema, domanda, etc… Se volete quindi che le vostre parole siano pubblicate su questo blog, al fine di essere lette ed essere d’aiuto anche ad altre ragazze, sentitevi libere di scrivermi qualsiasi cosa vogliate, e a poco a poco, con cadenza... mah, non so, magari bisettimanale, riporterò ciò che mi avrete scritto. Se volete potrete lasciare il vostro nome, altrimenti posso pubblicarvi come “anonime”, se mi scrivete che lo preferite. Se invece vi va di condividere qualcosa con me, ma preferite che ciò non venga pubblicato, va benissimo ugualmente! Sentitevi sempre e comunque libere di scrivermi qualsiasi cosa desideriate, e io vi risponderò privatamente tramite e-mail. Basta che mi specifichiate se volete che le vostre parole appaiano o meno su questo blog (e, nel caso, se in forma anonima o nominativa), oppure se preferite di no.

Penso che questo (A Voi La Parola) possa essere non solo catartico, ma anche veramente molto utile. Con la condivisione dei vostri pensieri potrete aiutare qualcun’altra ad essere più forte, e potrete voi stesse avere dei rinforzi positivi. Al limite, scrivere può rappresentare una valvola di sfogo e un modo per “conoscersi” e sentirsi meno sole in questa battaglia comune.

Allora, che ne dite?
Io non vedo l’ora di leggere le vostre parole!

mercoledì 26 novembre 2008

Notte

Oggi voglio condividere con voi un qualcosa che ho scritto diversi anni fa, in occasione del mio secondo ricovero...

NOTTE

Mi piacciono le cliniche di notte.

Mi piace la rarefatta atmosfera di sospensione, l’attesa incondizionata che le avvolge – l’idea che comunque non debba accadere nulla, senza che ciò debba necessariamente significare qualcosa.

Gli edifici sparsi si perdono in un’indefinita oscurità tesa a proteggere – non a minacciare – mentre i vialetti grigi di luna e immersi nella rugiada dell’erba congiungono i reparti che custodiscono quel modesto campionario di umanità ora assopita.
In clinica o si è pazienti o si è parenti – e il minimo comune denominatore è rappresentato dal discutibile privilegio di potersi considerare esclusi dal mondo – nell’altrove tanto caro a Rimbaud – lasciando agli altri, quelli che sono fuori, il gioco frenetico dei doveri e delle necessità del tempo.

Perché il tempo in questo luogo non esiste – o almeno finge di non esserci. Lo conservano le psichiatre, le dietiste, le inservienti, coloro che comunque sono aggrappate saldamente a ritmi e movimenti che rispecchiano una velocità così estranea a queste ovattate pareti – ma per la malata c’è solo l’ineffabile tempo della biologica guarigione… un tempo interiore, sempre diverso, solitamente intervallato – e ogni giorno scandito – dalle visite e dai discorsi sempre uguali.

Così il popolo della clinica – un popolo di camici bianchi e abiti casalinghi – si muove alternatamene sotto la liquida attenzione di flebo onnipresenti, fino a lasciare i lunghi corridoi ornati di porte al ronzio asettico delle lampade che attendono l’alba.
Qui dentro non si è mai pienamente se stesse – essendo un luogo crepuscolare, al limite dell’alterità e dell’estraniamento si è sempre secondari alla propria qualifica – variabile tra quella dell’assistente e quella dell’assistito – che qui più che altrove perdono lo spessore della differenza.

E’ in questa insolita, insicura veste, che ci siamo ritrovate io e lei in una strana estate della nostra vita – vittime ignare di malattie simili che ci hanno colpito.
Lei è bella, naturalmente.

Bella nei suoi occhi troppo verdi per essere speranza e nel suo volto così pallido che risalta tra le lenzuola immacolate del suo letto. Così dolcemente inquieta mentre si fissa sconsolata allo specchio o si avventura per le stanze con incedere divertito e incerto muovendo passi che sembrano stagliarsi direttamente dalla sua anima. Non la conosco. Non so chi sia.

So solo che il lento pomeriggio passerà di nuovo e arriverà la notte del silenzio. La notte degli incontri dove la nostra comune jeunesse – il nostro voler essere vive anche dove tutto è fermo per esigenza – ci porterà da qualche parte, da sole, a parlare di noi… del nostro essere lì e del nostro essere prima o poi fuori di lì.

Saremo tutto ciò che le nostre parole saranno per noi – esclusivamente – per noi. Il sole svanisce lontano dietro l’ultima ombra della sera sprofondando la clinica nel respiro sommesso che preannuncia la nostra veglia.

Un pretesto – l’aria fresca – e siamo fuori dal mondo, fuori dalla clinica, fuori da noi stesse… Un volo.

Un volo in un giardino interno, un angolo comodo e un cielo estivo, amichevole e complice.

Il cielo è visto scuro e silenzioso sopra quell’albero grande lì, quasi a serbare la presenza dei nostri corpi, ora così vicini in questa nuova e inattesa realtà.
Le parole, dapprima incerte, si liberano presto dalla stretta della nostra reciproca timidezza per conoscerci delicatamente e in profondità attraverso il nostro bisbigliare nella notte.

E sono parole belle, leggere come vento e fresche in quest’aria ferma – quasi note di un pentagramma che ci lega misteriosamente nel nostro incontrarci fortuito.

Immemori di un perché nel nostro essere lì e di un lì che ha i suoi tristi perché, ci dondoliamo casualmente sul filo dei nuovi pensieri – l’una verso l’altra – seguendo d’istinto l’intreccio confuso delle nostre storie e delle nostre età che ci unisce adesso in rari momenti di comprensione. Parlando di noi stesse a noi stesse. Senza bisogno di altro che il nostro essere lì, noi due – solamente noi due – così vicine e allo stesso tempo lontane dalla felicità.

Il nostro passato impreciso si è infine allontanato insieme alle nostre parole e paure lasciandoci in uno strano, indecifrabile silenzio.

E non saprò mai perché non ho sfiorato le sue esili, limpide mani per poi accarezzare quei capelli lisci e fluidi come onde nella notte. Il profumo della sua pelle è rimasto in me come un desiderio stranamente impresso.

Così è arrivata l’alba – troppo presto – lei se n’è andata, e troppo presto è arrivata un’altra notte in questo posto che è di nuovo una clinica.

E io sono ancora qui, sola, a fissare il vuoto, cercando di ricordare le note che la fata di un sogno di mezza estate ha suonato dentro di me.

(Agosto 2003)

lunedì 24 novembre 2008

Dirigere la rabbia

La rabbia non è necessariamente un qualcosa di negativo. Quando vi sentite giù di morale, quando state vivendo una “giornata-NO”, quando state male, quando vi sentite impotenti e frustrate, quando vi sentite sole e con le spalle al muro, o avete avuto un’altra ricaduta – arrabbiatevi. Semplicemente, infuriatevi.

Ma non arrabbiatevi con voi stesse.

Arrabbiatevi con il vostro disturbo alimentare.

Non rendete voi stesse il bersaglio di tutta la vostra negatività e la vostra frustrazione. Lasciate che lo sia il DCA.

Perchè rimproverare voi stesse per la confusione, per gli errori, per non essere state capaci di fare ciò che desideravate?

Il vostro DCA è il problema. Non voi.

Perciò, combattete. Combattete contro il DCA. Non contro voi stesse.

Voi siete il pilastro. Voi siete il buono. Non fatevi del male distruggendovi lentamente.

Non dovete sempre sentirvi in dovere di reprimere quella rabbia, di nascondere le vostre sensazioni, i vostri istinti, le vostre emozioni negative. Dovete semplicemente incanalarle in una direzione differente, che non sia quella del cibo e del corpo. Affrontate l’anoressia, colpitela e continuate a sparare. Usate quella rabbia che avreste rivolto contro voi stesse, invece contro il DCA.

La rabbia non è necessariamente una brutta cosa. Basta che la usiate a vostro vantaggio. E avete tutte la potenzialità di farlo e di riuscirci.

sabato 22 novembre 2008

Tempo per riflettere

Penso che sia importante trovare il tempo per riflettere. Riflettere su dove siamo arrivate, su quello che vogliamo dalla vita in futuro, su come fare per ottenerlo. Perciò non importa quanto potete essere impegnate, quanto caotica può essere la vostra vita, quanta pressione vi sentite addosso… è sempre importante prendersi del tempo per riflettere. Non dev’essere necessariamente un’ora. Non dev’essere necessariamente mezz’ora. Dev’essere semplicemente “del tempo”. Per pensare. Per riflettere su VOI STESSE. Per ricordare. Per capire.

Talvolta fa paura e mette ansia ricordare quello che si preferirebbe dimenticare. A volte fa rabbia. A volte sembra surreale, come se certe cose appartenessero ad una persona diversa da quella che siete oggi. Non importa ciò che la riflessione provoca, visto che non è altro che una proiezione dei vostri sentimenti: lasciateli fluire. Non negateli, per quanto possano essere intensi, e quindi ansiogeni. Se li provate, c’è sicuramente una ragione per cui si sono presentati, ed è quella che dovete cercare di scoprire per analizzarvi, per comprenderne le cause e poterci lavorare sopra in maniera tale da progredire, da crescere, da imparare. Così, a riflessione conclusa, potrete sentirvi un po’ meglio, un po’ più leggere, come se aveste fatto un altro passo avanti.

E più lo farete, più vi risulterà facile. Nascondere il passato, raccontarsi bugie di comodo, sorridere pur avendo voglia di piangere, rimuovere le cose sgradite, non cancellerà i problemi. Tutt’al più, li rimanderà. Ma rimarranno sempre lì. E prima o poi torneranno a presentare il loro conto. Si può pure sbarrare una porta contro il passato, ma i ricordi hanno mani. E bussano. E bussano. E bussano. E quel suono finisce per far impazzire.

Ehi, ovvio, con questo non voglio dire che una deve sguazzare nel passato! Voglio solo dire che non dovete coprirlo come se le cose che sono accadute non fossero mai successe. È un po’ come se vi fosse morto un figlio: soffrireste, certo, ma non vorreste che quel bambino non fosse mai esistito solo per sentirvi meglio. Anzi, dovrete ricordarlo, rielaborare la brutta esperienza, e ricominciare a vivere di nuovo il più serenamente possibile. Anche perchè, pure nell’ipotesi che riusciste a convincervi che quel bambino non è mai esistito, sarebbe solo una soluzione temporanea, poiché inevitabilmente qualcosa, ad un certo punto, vi ricorderebbe quello che è successo veramente.

Perciò, c'è da lavorare sull’ansia che certe memorie possono provocare. È un po’ come lavorare un duro pezzo d’argilla. Dovete impastare, plasmare, ed avere tanta pazienza. Ma potrete ricavarne un capolavoro.

È un lungo sentiero disseminato di sassi aguzzi e di buche, ma conduce all’autostrada.

Anche se non è affatto facile, spesso provo a riflettere sul mio passato. E mi sono accorta di una cosa: se non l’avessi fatto, non sarei mai potuta arrivare dove sto adesso. Se tuttora non lo facessi, non potrei mai andare avanti. Prendersi il tempo adeguato per riflettere è necessario come continuare a stringere i denti anche quando è difficile…

giovedì 20 novembre 2008

Quando i problemi attaccano

Dove c’è grande comprensione, può esserci altrettanto grande dolore. Un po’ come se il papà di una vostra amica muore… e voi potete capirla meglio di chiunque altro, perché magari anche vostro papà è morto da un po’. In questo modo, avete un legame con il vissuto della vostra amica ma, allo stesso tempo, vi trovate catapultate nel vostro proprio vissuto, nei vostri tristi ricordi, e questi ricordi possono veramente buttarvi giù.

Trovo che vivere con un disturbo alimentare possa essere un qualcosa di molto simile.
Quando vi trovate in un momento di vulnerabilità, potreste pensare che la cosa più semplice da fare sia rimuovere quei pensieri che vi fanno stare male, al fine di non ricadere nuovamente nel meccanismo della restrizione o dell’abbuffata-vomito. Okay, adesso vi chiedo di ripensarci. Talvolta essere vulnerabile e giù di morale è necessario per poter andare avanti. Deve succedere perché è anche questo parte del lungo processo di ricovero che potrà portarci ovunque vogliamo arrivare.

Certo, le soluzioni rapide possono pure sembrare le più rassicuranti, ma sono tutte a breve termine. Non risolveranno mai il problema di base. Perché l’unico modo per risolvere un problema è, in effetti, quello di affrontarlo.

Rimuovere il problema può, a primo acchito, sembrare possibile, benefico e pure necessario. E così, forzandoci a dimenticare il problema, andare avanti può apparire più facile. Ma, ripeto, questa è una soluzione a breve termine. Sforzarci per dimenticare qualcosa, non cancella quella cosa. Semplicemente, la nasconde, ci sbarra una porta contro. Ma, dietro quella porta, il problema rimane. E bussa. E, prima o poi, quel suono finisce per farci impazzire. Perciò, quando i problemi si presentano, dovremmo cercare di trovare il coraggio di affrontarli – perché, in fin dei conti, l’intermo mondo al di fuori di noi è un problema. E questo non cambierà mai… a meno che noi non impariamo a far fronte a questi problemi nel momento in cui ci si presentano davanti, senza negarli, ma semplicemente cercando di trovare la forza per affrontarli.

Mi ricordo che, durante il mio secondo ricovero, mi riusciva veramente difficile non empatizzare con le alter ragazze e rimanere positive quando mi sentivo circondata da tanta negatività. Ma tutte quante abbiamo continuato a farci forza a vicenda e siamo andate avanti, e a poco a poco siamo diventate sempre più legate e capaci di scavare in profondità dentro le altre… e dentro noi stesse. Così, affondandoli insieme, e da sole, i problemi hanno cominciato a poco a poco a farsi meno evidenti. Siamo diventate di grado di lavorarci su e di andare avanti, senza rimanere impantanate nel problema, né adottare strategie di coping disfunzionali e riecheggianti l’anoressia.

La possibilità che gli altri, con le loro parole, le loro osservazioni, i loro racconti, le loro difficoltà, ci influenzino creandoci nuovi problemi, data la nostra spiccata tendenza ad empatizzare, è in effetti elevata. È facile incorrere in pensieri intrusivi riguardanti il cibo o il corpo, sentirci più insicure, compararci alle altre. È ovvio ed è normale che succeda. E tenete conto che, quando succederà, sarete spinte a tentare di negare il problema e ad arginarlo con i comportamenti tipici dei DCA. Fate attenzione. Tenetelo a mente. Non fatevi fregare. Siate preparate. Se di fronte a un problema reagite restringendo o abbuffandovi-vomitando, non solo non risolverete il problema in questione, ma ve ne creerete pure un altro. Pensate a questo. Così sarete meno propense a distruggervi, e più propense ad affrontare il problema originario a testa alta.

Concludendo, voglio dirvi soltanto un cosa: non abbiate paura di avere ed affrontare i problemi. Perché questo succederà. Inevitabilmente. Prima o poi, più o meno frequentemente, ma capiterà. La vita consiste nel cercare di capire quello che si desidera, e nel lottare contro ciò che c’impedisce di realizzarlo. Certo, ci vuole tempo per affrontare un problema. Ma l’importante è decidersi ad affrontarlo. Perché solo se lo affronterete potrete risolverlo e lasciarvelo davvero alle spalle.

martedì 18 novembre 2008

Tenere a bada

Forse una delle cose più difficili da fare è proprio tenere a bada i disturbi alimentari. Anche quando non state adottando comportamenti disfunzionali, sembra sempre che i DCA stiano in agguato, non è vero?! È come se stessero aspettando… guardando… chiedendosi quando commetterete il primo passo falso, in maniera tale da poter di nuovo avere la meglio su di voi. E non è affatto facile continuare a perseguire la strada del ricovero quando si ha la sensazione che anche una sola mossa sbagliata potrebbe far ricominciare tutto da capo. Non aiuta affatto. Il problema è che le cose stanno davvero così.

Ma ciò non significa che poiché le cose adesso sono così, allora dovranno esserlo per sempre. Voi potete cambiarle. Voi potete tenere a bada i DCA. Certo, non è una cosa immediata. Occorrerà un po’ di tempo – forse un sacco di tempo – ma potrete farcela.
La prima cosa che dovete ricordare è che (per quanto possa sembrarvi vero o meno) voi avete il controllo. Voi. Non i DCA. Voi.

Certo, i disturbi alimentari sono un qualcosa di estremamente potente. Richiede una marea di forza di volontà rompere il circolo vizioso. Ma una volta che l’avrete fatto, sarà tutto nelle vostre mani. E potrete schiacciarlo.

Ricordate che, quando eravate bambine, coglievate i soffioni, li avvicinavate alle labbra, e soffiavate? Tutti i “pelini” bianchi fluttuavano via nella brezza. E tutto quello che rimaneva nelle vostre mani non era che lo stelo.














Bene, adesso immaginate il vostro disturbo alimentare come se fosse un soffione. Grande, complesso, intricato, ricco di migliaia di “pelini” bianchi. Voi lo tenete in mano. Voi avete la forza di volontà. Voi avete il controllo. Potete soffiare. Soffiate più forte che potete. E guardate come i “pelini” bianchi si disperdono nel vento. Il passato è andato. Quel che è rimasto è il futuro. E uno stelo. Uno stelo – ciò che ha originato il disturbo alimentare – che rimarrà sempre, perché nessuna può fuggire da se stessa, ma che potrà essere a questo punto utilizzato come memoria, per ricordarci di ciò che è stato e che non dovrà essere nuovamente.

Il trucco per tenere a bada i disturbi alimentari – oltre ovviamente a ricordare che VOI e solo voi avete il controllo – consiste anche nel cercare qualcuno che possa aiutarvi a combattere. Nessuno ha mai vinto una guerra da solo. Può trattarsi di un terapeuta, di un genitore, di un’amica… chiunque. Un punto di riferimento, una spalla su cui piangere. Perché davvero non c’è niente di male nel farlo. Non è debole chi chiede aiuto, perché non c’è niente che richieda più coraggio del domandare aiuto. Per ammettere di essere in difficoltà ed accettare una mano, ci vuole tanto, tanto coraggio. E anche per combattere l’idea che ci trattiene dal domandare aiuto, ovvero: e se chiedo e mi viene detto di no? – perché abbiamo in realtà l’implicita convinzione di non meritare questo supporto, che a nessuno interessi abbastanza o comunque abbastanza a lungo di noi per darci veramente una mano. Ma non è vero. Qualcuno c’è. Perciò, se avete bisogno d’aiuto, chiedete sempre. Potreste trovarlo.

E, oltre a trovare qualcuno, può essere importante anche trovare qualcosa. Pensate a una cosa che vi piace. Una cosa che vi piace veramente e profondamente, voglio dire, di qualsiasi genere essa sia. Potrebbe essere disegnare. Andare in bici. Suonare il pianoforte. Fare un giro in auto con lo stereo a tutto volume. Di qualsiasi cosa si tratti, usatela come un’arma in vostro favore. Usatela come se fosse una parte di voi. E quando sentite che la vita si fa difficile, che state per cedere, concedetevi quella cosa.

Non succederà niente di male.

Presto starete meglio.

E più volte lo farete, più facile sarà combattere il vostro disturbo alimentare. Può sembrare un obiettivo distante e irraggiungibile… ma se cominciate a camminare, la meta sarà più vicina ad ogni passo. Certo, dovete volerlo veramente. E metterci tutte voi stesse, quando le cose vanno bene e soprattutto quando le cose vanno male. È l’unico modo per sopraffare i disturbi alimentari. È l’unico modo per sopravvivere.

Avete già tutte le armi che vi sono necessarie. Usatele.

domenica 16 novembre 2008

Siamo tutte speciali

Lo so che può sembrare una frase tratta da un libro di favole per bambini, ma è assolutamente vero. Perciò, ascoltatemi un attimo.

Molto spesso all’anoressia è associata la sensazione di “essere speciale”. Potrei scriverci un libro, credo. Quando si restringe ci si sente “speciali”. E questa è una delle principali ragioni per cui scegliere di ricoverarsi fa così tanta paura. Anch’io ho avuto a lungo questo timore. Anche se mi rendevo conto che, alla fin fine, l’anoressia non mi avrebbe portata da nessuna parte, restringere continuava a farmi stare bene sul momento, mi faceva sentire forte, in controllo, soddisfatta, più sicura di me stessa… sì, mi faceva sentire “speciale”. Perciò avevo paura di perdere questo mio sentirmi “speciale”, questo qualcosa che mi faceva sentire di essere davvero qualcuno, questo sentimento di onnipotenza così profondamente radicato in me.

Il punto è, ragazze, che siamo tutte speciali. Siamo sempre speciali. Siamo speciali comunque. Il nostro essere “speciali” non muore insieme al DCA, deve solo essere riapplicato, riassegnato a qualcosa che vale veramente questo sentimento.

Perchè le ossa che sporgono sono speciali? Perché la restrizione è speciale? Perché l’attività fisica compulsava è speciale? Perché sentirsi in controllo e privarci del cibo giorno dopo giorno è speciale? Perché l’auto-sabotaggio è speciale? Ma davvero distruggere noi stesse, farci del male, odiarci così, ci rende speciali?? È un inganno. Credetemi. Lo è.

Depressione. Morte. Stanchezza. Dolore. Disperazione. Confusione. Ansia. Senso di colpa. Vuoto. Tutti i tipici sentimenti legati ai DCA. Da quando queste cose sono diventate speciali? Intendo, davvero speciali? Davvero sono queste le cose che vi fanno sentire speciali?

La vostra missione, se scegliete di accettarla (così come la mia, del resto, visto che sono qui che giorno dopo giorno combatto insieme a voi) è: SCOPRIRE quello che REALMENTE ci rende speciali. Provate a scrivere, magari cominciando proprio dal commento che, se vi va, potete lasciare a questo post: “Sono speciale perché…” … e guardate cosa ne viene fuori.

Perchè, ve lo assicuro – ci sono mille e mille cose per cui potete a ragione considerarvi speciali. Ma, ragazze, non siamo speciali perchè abbiamo un disturbo alimentare.

venerdì 14 novembre 2008

Riempire gli spazi

Penso che, nel momento in cui s’inizia un percorso di ricovero e si cerca di fare a meno dell’anoressia, chiedersi come riempire gli spazi vuoti nella propria vita dopo che questi erano stati in precedenza riempiti dall’anoressia, da un DCA, da un qualcosa di così totalizzante, sia molto comune.

Ma ricordate: solo voi potete rispondere alla domanda su cosa poter fare dopo.
E ci sono un sacco di cose che vi stanno aspettando. Ci sono un milione di possibilità a portata delle vostre mani, a partire dalle semplici piccole cose che ogni giorno possono essere fatte.

Dovete solo chiedervi una cosa: che cosa voglio davvero per me stessa?
È una domanda aperta, con milioni di possibili risposte… ed è proprio questo il bello. Cosa c’è nella tua testa e nel tuo cuore? Quali sono le tue passioni? Cos’è che ti fa stare bene? Vuoi fare nuove amicizie? Vuoi tornare a studiare? Vuoi avventurarti nel mondo del lavoro? Vuoi cambiare lavoro? Vuoi seguire un sogno che hai sempre avuto in un angolino della tua testa? Vuoi avere una famiglia? Vuoi viaggiare, vedere posti nuovi?

Ed ecco che arriva la conclusione: noi abbiamo tutto il potere di fare quel che vogliamo fare.

Certo, però, molto spesso di fronte a tutto ciò tendiamo a porci delle scusanti, perchè in fin dei conti l'idea di poter veramente fare cose del genere ci fa paura, ci paralizza,e così ecco che tiriamo fuori ancora delle scuse: è economicamente troppo dispendioso, non ho abbastanza tempo, devo fare qualcos’altro… Tante ragioni possono fornirci ottime scuse per impedirci di fare quello che vorremmo. E la cosa peggiore è che non rinunceremmo per paura di fallire. In realtà, rinuceremmo per paura di avere succeso.

PERO' – ed è un grande PERO' – se volete veramente qualcosa, allora non c’è scusa che tenga: datevi da fare e prendetevela. Dipende solo da voi.

Chiaro, i soldi non crescono sugli alberi, il tempo è tiranno per tutti e compagnia bella. Ma se volete veramente qualcosa, avete tutte le potenzialità per ottenerla. E non lasciate che niente vi fermi dal farlo.

Più importante, pensate alle cose che possono farvi felici. Iniziate magari anche solo con una, due, tre cose. Poi cercate di trovare un modo per realizzarle.

Bisogna cercare di riempire gli spazi. Riempi gli spazi. Non c’è carico per questo tipo di riempimento.

In bocca al lupo… Io faccio il tifo per voi!

martedì 11 novembre 2008

Combattere, affrontare e infine abbracciare il cibo

Lasciatemi lo spazio di questo post per parlare di cibo. Sì, avete capito bene: di cibo.

Poiché anoressiche e/o bulimiche, c’è ovviamente stato un momento nel passato di ciascuna di noi in cui ci è sembrato che controllando l’alimentazione avessimo potuto controllare ogni aspetto della nostra vita. Un momento in cui l’alimentazione ci ha fatto sentire da dio o uno schifo. C’è chi, come me, ha ristretto. C’è chi si è abbuffata. C’è chi ha digiunato. C’è chi ha vomitato. C’è chi ha usato lassativi. Ma perché ci siamo focalizzate sul cibo? Perché è questo il punto, non è vero? Perché proprio sul cibo? Perché, in fin dei conti, il cibo è come una qualsiasi altra cosa: c’è chi usa l’alcol, chi la droga, chi il gioco d’azzardo.

Dipendenza. Vizi. Abitudini. Modi per scaricare l’ansia. Qualsiasi cosa siano – comunque vogliate chiamarli – possono diventare distruttivi. Perciò ci vuole tempo, pazienza, forza, coraggio e volontà… ma possiamo imparare a convivere con i disturbi alimentari, senza lasciare che questi abbiano la meglio su di noi come per un certo periodo di tempo più o meno lungo ci è sicuramente successo.

Parlo per esperienza. Scaglio la prima pietra e sono dunque la prima ad ammettere che ho ristretto, che ci sono stati mesi in cui mangiavo pochissimo. Ed esercitare questo controllo sull’alimentazione, vedere che riuscivo dove molte altre ragazze fallivano, abbandonando le loro diete dopo pochi giorni o poche settimane, riuscire a restringere senza cedere mai neanche una volta, mi faceva sentire forte, soddisfatta, sicura. Restringere era una cosa in cui riuscivo straordinariamente bene, quindi una cosa che mi faceva sentire diversa dagli altri, che mi faceva sentire speciale che, in un certo senso, mi faceva sentire migliore. Perché, in fin dei conti, tutta l’essenza della restrizione è il controllo. Se senti di avere il controllo, ti senti onnipotente. E non ti accorgi che in realtà non sei tu che stai controllando l’alimentazione, ma il cibo che sta controllando te, perché hai la sensazione di avere il mondo nelle tue mani, di sapere esattamente quello che stai facendo e perché lo stai facendo. Io mi sentivo esattamente così. Nel mio piccolo mondo, nel mio simulacro di perfezione, celavo tutte le mie debolezze e le mie insicurezze dietro un controllo apparente per costruirmi una favola che era inevitabilmente destinata a fallire. Posso dire di non essermi mai sentita bene come in quel periodo, è vero, ma stavo guidando contromano in una strada senza uscita. Fino a che c’era terreno continuavo ad andare a tavoletta ed era tutto ciò che mi faceva sentire viva. Però tutto quello che mi aspettava era un muro.
Ovviamente, dunque, anche se in quel momento non me ne rendevo conto, non stavo controllando né l’alimentazione né il mio peso. Tant’è che, alla fine, la mia magrezza si è fatta così evidente che sono stata mandata da una dietista e poi da una psichiatra che ha deciso di ricoverarmi. È stato il mio primo ricovero, e non ero consenziente. Vi lascio immaginare. Mi era stato assegnato un “equilibrio alimentare”, una dieta in cui c’erano scritte le quantità di tutti i vari cibi che dovevo mangiare, e che naturalmente mi riguardavo bene di rispettare. Decisamente, avevo un pessimo rapporto con l’alimentazione in quel momento: vedevo ogni cibo come mio nemico, come un qualcosa che cercava di togliermi ogni possibilità di esercitare il mio controllo, di sentirmi forte, di sentirmi bene. Così ho continuato a restringere ed ho perso altro peso. Ma c’era già qualcosa che si era incastrato. Così mi sono guardata intorno e mi sono accorta che la vetta che credevo di aver raggiunto era in realtà il fondo di un abisso.
E così mi sono resa conto che c’erano tre cose che avrei potuto fare. Morire, il che a quel punto sarebbe stato veramente il minore dei mali, continuare a restringere e vedere quale sarebbe stato il limite minimo che mi avrebbe portato direttamente in ospedale perdendo veramente ogni possibilità di controllo, oppure scegliere volontariamente di ricoverarmi di nuovo nel centro specializzato per DCA in cui ero stata.

Dunque, mi trovavo come di fronte ad un incrocio. Non volevo che tutto mi sfuggisse dalle mani. Ma non volevo neanche mangiare e perdere la mia illusione di onnipotenza. Non volevo ricoverarmi. Ma volevo stare meglio. Non volevo far soffrire gli altri. Ma non volevo neanche essere io a soffrire. Non volevo essere prigioniera dell’anoressia. Ma non volevo neanche lasciarla perché era l’unica cosa che conoscevo, per quanto fosse distruttiva era l’unica cosa che mi aveva fatto sentire veramente bene, l’unica cosa che mi aveva dato un senso. Capivo che non era “normale”, che ci sarebbe stato molto altro che la vita sarebbe stata in grado di darmi se mi fossi distaccata dal sintomo, che quella che stavo vivendo non era una vera vita, ma non riuscivo a rinunciare al senso di controllo, di sicurezza, di forza che la restrizione mi dava. Non riuscivo a rinunciare al modo in cui mi faceva sentire speciale.

E sono stata ferma di fronte a questo incrocio per più di 5 anni. Non andavo avanti né tornavo indietro, ero bloccata lì in mezzo. 5 anni di ricoveri, un continuo dentro-fuori dettato dal fatto che continuavo a preferire la parola alla destra del trattino e dalla mia non completa convinzione a volermi distaccare dall’anoressia. Passavo qualche mese in clinica, e mi sembrava di stare meglio, di essere più motivata, ma come uscivo, nel giro di poche settimane riprendevo a fare gli stessi errori. Non era veramente cambiato niente, perché io non ero veramente convinta di volere che le cose cambiassero. Non riuscivo a vedere l’anoressia come un qualcosa di negativo, dati tutti i sentimenti positivi che, bene o male, era riuscita a farmi provare. A volte ci penso ancora. Ma ad un certo punto mi sono guardata allo specchio e mi sono accorta che non ero più l’adolescente alla ricerca della vera se stessa o di quello che potevo mai stare cercando. Che dovevo smetterla di far finta che la mia vita non fosse ancora cominciata. La verità era che ne avevo già consumata almeno il 25%. Mi ero già bevuta la panna.

Inoltre, mi sono accorta di un’altra cosa estremamente importante. Che non avrei potuto fare niente di tutto quello che mi ero prefissa se prima non mi fossi distaccata dalla restrizione. Che non avrei potuto guarire nessuno se non ero in grado di curare neanche me stessa. Che sarei stata veramente disonesta e presuntuosa nel cercare di guarire persone quando ero io la prima a stare male e a rifiutare ostinatamente ogni cura. È come quando un fumatore dice ad un altro di smettere di fumare: che credito si può dare a una persona che dice che fumare fa male e bisogna smettere di farlo, quando lei per prima si brucia un pacchetto al giorno? Non solo la credibilità di questa persona è meno che zero, ma essa diventa anche incredibilmente patetica. Dunque, io mi trovavo nella stessa situazione. Come potevo pretendere d’indossare un camice bianco e di dire agli altri cosa fare per guarire stando io per prima orgogliosamente seduta su un lettino d’ospedale?

Così ho deciso di provare seriamente a migliorare la mia relazione con il cibo. A mettere veramente in discussione tutte le illusioni che con la restrizione mi ero creata. Ho cominciato a seguire davvero le dosi prescritte dall’ “equilibrio alimentare”. Certo, all’inizio è stato maledettamente difficile. Continuavo a ripetermi che dovevo pensare al cibo come a una medicina, un qualcosa la cui assunzione è sgradevole ma che poi farà stare meglio. E, a poco a poco, ho imparato a mettere a punto strategie su cui lavorare per non cedere di nuovo alle lusinghe della restrizione. Ho imparato a prendere le distanze dal cibo senza considerarlo più il mio peggior nemico. Ho imparato a chiudere gli occhi e a mandare giù. Può sembrare semplice, ma richiede tanto lavoro e tanta forza di volontà. Non è un percorso che si può iniziare essendo “mah, abbastanza convinta” – come lo ero io dopo i miei svariati ricoveri – ma bisogna volerlo al 200%. E fa male mettersi davanti al piatto e dire: “Okay, adesso devo magiare tutto ciò che c’è qua sopra”, ve lo posso assicurare. Ma nel momento in cui siete riuscite a mangiare tutto e sapete di aver fatto la cosa giusta, nel momento in cui non avete ceduto all’impulso della restrizione dicendo “NO” forte e chiaro ad ogni tentazione anoressica, allora vi potrete sentire forti. Forti davvero. Molto più forti di quanto vi sentivate restringendo.

E poi, una valvola di sfogo. Sì, una valvola di sfogo che non sia il cibo. Ognuna trova la propria. Per me sono state la scrittura, il disegno e il karate. Che mi hanno aiutata, mi hanno salvata, mi hanno incanalata nella giusta direzione e mi ci hanno mantenuta. Mi hanno aiutato a non restringere ancora. Beninteso, non sono perfetta, qualche strappo alla regola l’ho fatto e tuttora può capitarmi, ma cerco di fare del mio meglio. Ho provato a smettere di considerare il cibo come mio nemico, mi sono messa ad affrontarlo, ed ho tentato di abbracciarlo. Sto ancora tentando di farlo. Ed è difficile. Mi fa paura. Non mi piace.

Però, andando avanti, mi sono accorta di una cosa: che più la terapia prosegue, più mi dimentico del cibo. Mi focalizzo piuttosto su tutti quegli aspetti dell’anoressia che non sono strettamente collegati al cibo. Perché il problema alimentare non è che la punta dell’ice-berg. I miei veri problemi vanno molto oltre il cibo. Che non può, quindi, distruggermi. E che, dunque, non ha il potere di distruggere nessuna di voi.

Leggendomi dentro con oggettività ed onestà, sono riuscita a capire molto cose di me stessa. E così ho iniziato a sentirmi meglio. Ho smesso automaticamente di focalizzarmi sul cibo, senza neanche rendermene contro, perché la mia testa era impegnata a fronteggiare altri problemi ben più seri ed importanti. Ho cercato di smettere di fare checking. E all’inizio è stato estremamente difficile perché sentivo di avere bisogno di fare checking. Ma poi mi sono accorta che, dicendomi “NO!” ogni volta che mi veniva voglia di farlo, e quindi non facendolo, ho iniziato a pensarci sempre meno e la tentazione se n’è andata da sola. Niente di che, ma un primo passo. Mi va bene così. Non mi sveglio cantando, però mi sveglio. È un inizio.

E sono assolutamente sicura che tutte voi possiate riuscire a fare quello che ho fatto io – a fare persino molto meglio di me! – ma dovete lavorarci su. Dovete cercare di essere forti e di non permettervi di cedere. E, col passare del tempo, vedrete che sarà sempre più facile e che le cose andranno a posto spontaneamente. Non sarete sempre schiave dei disturbi alimentari, se non lo volete. E lasciate che ve lo dica: senza le mani o una bilancia che vi dicano come sentirvi, potrete veramente iniziare ad ascoltare voi stesse. E vi conoscerete come non vi siete mai conosciute prima. E vi sentirete bene. E vi sentirete libere. E vi accorgerete che è una felicità diversa da quella che vi dava la restrizione, ma che è comunque una bella felicità. E vi sentirete vive.

Adesso io mangio seguendo il mio “equilibrio alimentare”. E cerco di non pensarci troppo. Non è divertente, ma è necessario. Non è poi così terribile se non ci penso troppo. Certo, ci sono momenti in cui provo tanta ansia, preoccupazione, panico, momenti di stress e momenti in cui mi sento a disagio col mio corpo, ma tiro avanti. Forse io e il cibo non siamo ancora amici. Ma non siamo neanche acerrimi nemici.
Cammino a fatica, ho paura di ricadere, di poter rifare gli stessi errori, eppure anche se guadagno peso mi accorgo che non è così terribile come mi sembrava fosse nei primi tempi. Il mio riflesso allo specchio si normalizza, non è più così terrificante. Non posso dire che mi piaccio, ma posso dire che non mi detesto. È un corpo diverso da quello che avevo TOT chili in meno fa, ma è comunque il mio corpo. Perciò devo cercare di sfruttarlo nel miglior modo possibile. Mi sento come una persona diversa, ma non in negativo. E ne sono contenta.

Cerco di non concentrarmi troppo su ciò che gli altri potrebbero dire e pensare di me, e lo trovo difficile ma ci sto provando. Forse, per quello che è il mio carattere, non riuscirò mai a fregarmene del tutto di ciò che gli altri possono pensare di me, ma posso provare a pensare che, in realtà, si tratta per lo più di mie costruzioni mentali, di pensieri che sono io ad attribuire agli altri, perché in realtà loro pensano a me molto meno di quello che credo. Anzi, in realtà non ci pensano quasi mai, questa è la verità. Forse perché sono troppo concentrati su quello che io potrei pensare di loro.

Sto facendo un passo dopo l’altro. Sto cercando di abbracciare il cibo. Di mangiarlo non perché devo, ma perché voglio. Per nutrirmi. Per essere in salute.

Perciò anche voi potete avere una relazione positiva coll’alimentazione. Come? Ve l’ho appena scritto. Ma le parole non sono fatti, e i fatti sono molto più complicati e duri delle parole. Dovete solo volerlo veramente. E ricordate che non è un qualcosa che succede dall’oggi al domani, ma che per vincere un disturbo alimentare ci vogliono anni ed anni. Forse tutta la vita. Ma l’importante è continuare a lottare.

Dovete combattere per voi stesse… quando vi sentirete pronte a farlo… Io posso dirvi solo una cosa: ne vale la pena.

domenica 9 novembre 2008

Titti e Silvestro

Riguardando vecchie fotografie, oggi mi sono capitate tra le mani anche quelle scattate durante il mio terzo ricovero. Così ho notato che sulla faccia interna della porta della mia camera della clinica in cui stavo, c’era appeso un poster. Un poster di Titti e Silvestro, il canarino giallo e il gatto che progetta sempre di mangiarlo senza riuscirci mai, avete presente?! Sul momento non gli dedicai molta attenzione, ma riguardando quelle fotografie adesso, mi fa un po’ strano quel poster allegro e variopinto che raffigura gatto ed uccellino in quella stanza spenta. Non era un poster che avevo appeso io. L’avevo trovato quando ero arrivata, e l’avevo lasciato lì. Era un periodo in cui ero abbastanza indifferente a ciò che mi circondava. Eppure, oggi, mi sono sorpresa a ritornare più volte con lo sguardo sulla foto di quel poster. Quel poster raffigura Titti che, dentro la sua gabbietta dorata, si dondola sulla sua piccola altalena e ride di Silvestro che, accucciato sul pavimento e con aria arrabbiata, non riesce evidentemente a raggiungere la voliera. I colori sono sgargianti, è l’unica cosa che dà un tocco di vita alla stanza, e sebbene stoni, all’improvviso mi rendo conto del perché oggi quella fotografia abbia attirato tanto la mia attenzione.

Io, in quel momento, ero come Titti. Forse è proprio per questo che, durante quel ricovero, non ho tolto quel poster dalla porta: perché, a suo modo, parlava di me. E, ragazze, pensateci un momento: non è forse vero che, in fin dei conti, quel poster parla di tutte noi? Noi siamo come Titti che, inseguita da Silvestro, si rinchiude velocemente nella sua gabbietta dorata per cercare il rifugio e la protezione che non saprebbe trovare altrove. Da lassù ride e guarda con sufficienza ciò che dal basso la minaccia. Da lassù è sicura di avere un controllo totale, a trecentosessanta gradi del mondo sottostante. Però, nonostante Titti se la rida, sta dentro una gabbia. Una gabbia dorata, ma pur sempre una gabbia. E non può uscirne, ovviamente, perché questo potrebbe esserle fatale, dato Silvestro in agguato. Infatti, se uscisse dovrebbe proprio fare i conti con ciò da cui si era messa al riparo. Ecco, forse è così anche per noi. Forse è così anche per l’anoressia: rifugiarsi in questa malattia può consentire di sfuggire ai pericoli, alle minacce, ai dolori che rendono intollerabile la vita, in nome di un ideale di distacco e di autonomia assoluta. Forse noi ci siamo rinchiuse nelle nostre gabbie dorate illudendoci di essere al sicuro dalle difficoltà che non riuscivamo ad affrontare, ma siamo costrette a guardare dalle sbarre – come quelle che c’erano alla finestra della clinica – il mondo circostante, la vita che continua a scorrere, un mondo e una vita da cui ci siamo escluse per non soccombere. E forse non è un caso neanche se il nemico di Titti è Silvestro. Se il nemico di Titti è qualcuno che vuole mangiarla.

Ma, ragazze, quella gabbietta non è la vita. È solo un simulacro di vita. Lì dentro possiamo sopravvivere, ma non vivere davvero. Quello di cui non ci rendiamo conto è che, come Titti, noi abbiamo delle ali. E che, perciò, aprire la porta di quella gabbietta non significa necessariamente precipitare nelle fauci spalancate di Silvestro: significa anche spiegare le ali e volare via da quello che oggi ci fa paura. Ciò non significa che dobbiamo immediatamente aprire la porta e slanciarci nel vuoto: bisogna prima avere la ragionevole sicurezza che le ali ci sorreggano. Perciò, ragazze, prendiamoci pure tutto il tempo necessario per guarire le nostre ferite e calmare le nostre paure. Non è un processo immediato ed uguale per tutte. Ma poi apriamo quella porta e voliamo.

Volare è possibile. Lo è per tutte voi. Se soltanto lo volete, le vostre ali possono diventare forti abbastanza per farlo.

Volevo solo che lo sapeste…

venerdì 7 novembre 2008

Emozioni contraddittorie

“Ma quanto stai bene! Adesso sì che sei carina!”.

Se, come me, siete state anoressiche restrittive, se siete arrivate a sfiorare XX Kg e poi avete iniziato a risalire grazie al vostro percorso di ricovero, scommetto che almeno una volta qualcuno vi ha detto una cosa del genere. E scommetto anche che, ancora una volta come me, avete odiato profondamente questa persona per le sue parole. E avete sentito la mancanza di quando vi diceva come sembravate sciupate, malate e terribilmente magre. Così, di fronte a questo dualismo incomprensibile da un punto di vista prettamente razionale, vi siete sentite confuse. Avete provato emozioni contraddittorie. Vi siete chieste come mai, nonostante sapeste oggettivamente di stare meglio e di essere effettivamente più carine, avete provato quel moto di rabbia di fronte a quelle parole, e avete desiderato ricevere ancora i commenti che vi venivano riservati quando il vostro peso era estremamente basso.

Okay, proviamo a rispondere a questa domanda.

Innanzitutto, pensate che è normale, soprattutto in una prima fase di recupero del peso, essere circondate da persone che fanno commenti di questo tipo. Il problema è che queste frasi risvegliano nella parte ancora anoressica della nostra mente un solo pensiero: siamo grasse! Il punto è che, in realtà, non lo siamo davvero. È solo l’anoressia che ci ha fatto credere a lungo che avere un peso nella norma fosse sinonimo di essere grasse. E si sa quanto questi pensieri così profondamente radicati possano essere duri a morire. Il fatto è che, a prescindere da quello che è il contenuto del commento che riceviamo, l’anoressia ci porta a darne una traduzione estremamente parziale. Quando qualcuno, infatti, ci dice: “Sei troppo magra!”, magari sorridiamo e diciamo che non è vero, persino con aria un po’ imbarazzata, ma dentro di noi sentimenti contrastanti iniziano a stridere: da una parte, ci sentiamo soddisfatte perché siamo riuscite a raggiungere l’obiettivo della magrezza palesemente riconosciuta, e dall’altra, sappiamo comunque di non stare bene, di essere sottopeso, che la gente che ci sta guardando lo fa perché è preoccupata, e non perché ammira la nostra silhouette… perché quando si arriva a pesare XX Kg non si possiede una silhouette! Siamo malate, siamo fragili e deboli, ed è questo che le persone vedono quando ci guardano. Vedono la morte, e ne rimangono scioccati. E come potrebbero non esserlo? È come se la morte stesse camminando tra di loro. Perciò, se adesso qualcuno vi dice: “Ma quanto stai bene! Adesso sì che sei carina!”… bè, credeteci o meno, ma questo E’ un complimento. Perché adesso guardandovi queste persone provano genuino affetto e (sebbene quando siamo nel bel mezzo del DCA non ci pensiamo) sollievo. Loro si sentono sollevati nel vedere che stiamo meglio, che il nostro corpo comincia a trasformarsi in un qualcosa che può essere guardato con ammirazione e non con preoccupazione. Questo solleva la loro mente e il loro cuore. Questo li fa sentire più tranquilli… perché adesso non hanno più paura di perdervi. Non hanno più paura di perdere una persona che amano. Perciò, quando la prossima volta vi sentite ripetere una frase del genere, provate a vedere la cosa dal loro punto di vista. Lo so che è difficile, credetemi, lo so. Sono stata male per tanto tempo di fronte a commenti di questo tipo. Ma, ragazze, ricoveratevi che loro vogliono semplicemente che voi viviate… e vivere non include rimanere chiuse nella prigione dei DCA.

Adesso, ne sono sicura, state pensando che queste non sono le parole che avreste voluto leggere. Ma, per favore, ricordate una cosa: con i DCA noi lottiamo contro tutto quello che desideriamo… amore, attenzione, comprensione, accettazione, rassicurazione, sentirci a nostro agio con noi stesse… Desideriamo tutto questo, eppure ci combattiamo contro. E ci sentiamo diverse da tutti colore che riescono semplicemente a concedersele. Ma, ragazze, noi non siamo veramente differenti dalle altre. Noi non siamo errori. Noi non siamo la mela marcia. Noi non siamo immeritevoli di tutto ciò. Noi siamo adorabili. Talentuose, spiritose… siamo persone meravigliose. Esattamente come ogni qualsiasi altra persona.

Perciò, quando qualcuno la prossima volta vi dirà qualcosa su come siete diventate carine e su come state bene, provate, soltanto PROVATE a vedere la cosa nella loro prospettiva. E sicuramente guadagnerete qualcosa di positivo da questo. D’altronde, pensateci: noi direste forse voi la stessa cosa ad un’amica di cui vi preoccupate e a cui volete bene? Per un’amica del genere, desiderate solo il meglio, desiderate solo che abbia la miglior vita possibile, vero?! E la miglior vita possibile non contempla i disturbi alimentari.

I sentimenti negativi che adesso provate quando qualcuno commenta positivamente il vostro aspetto fisico, col tempo si diluiranno. Ve lo assicuro. Anch’io ho odiato questi commenti e ho desiderato rimanere magrissima. A volte mi capita tuttora. Ci vuole tempo per imparare a gestirli, tempo che dovete darvi. Perciò, quando qualcuno vi dice una cosa del genere, non ricominciate a restringere, non vomitate, non vi ammazzate di palestra, non prendete lassativi… cercate semplicemente di fare qualcos’altro per distrarvi e per non concentrare la vostra attenzione ossessivamente su quelle parole. Andate a fare una passeggiata, ascoltate musica, guardate un DVD, giocate al game boy, studiate, disegnate, telefonate ad un’amica, leggete questo blog… scrivetemi. Tutto il tempo che impiegherete per fare una di queste cose sarà tempo che sottrarrete al DCA. Fossero anche solo 10 minuti, ma saranno 10 minuti pieni di vita. Di quella vera, intendo.

Okay, forse tutto questo non è esattamente quello che avreste voluto leggere… ma una cosa è sicura: questa è la verità. Io non vi dico bugie. Non riguardo la vita e il modo in cui meritate di viverla. Ricordate: mentire è il lavoro dei DCA. Non il mio.

Continuate a lottare e scrivetemi quando volete, se avete bisogno. Io sono sempre qui per voi.

mercoledì 5 novembre 2008

La corda

C’è una corda cui vi state aggrappando. Ce l’avete arrotolata intorno alla vita. Siete ai piedi di un monte, e dovete iniziare la scalata. Se guardate verso l’alto, vedete che c’è un lunghissimo pezzo di corda che vi separa dalla vetta. Cosa potrete trovare raggiungendo la cima? Speranza, Ricovero, Salute e Felicità. Queste quattro cose sono fuse assieme per formare la vostra Nuova Vita. Il picco.

Così, voi vi trovate all’estremo di una corda, e la Nuova Vita è all’altro estremo. Ma la strada da percorrere è molto lunga e molto ripida. E voi vi trovate molto, molto in basso. Come potete risalire?

Bè, la prima cosa da tenere a mente è che se iniziate ad arrampicarvi per raggiungere la Nuova Vita e ad un certo punto mollate la corda, o ve la lasciate scivolare tra le mani, non arriverete da nessuna parte. Non cadrete, perché la corda sarà sempre arrotolata intorno alla vostra vita, stretta a cingervi i fianchi, la vostra cintura di sicurezza. Perciò non succederà niente di male. Potrete riprendere fiato e ricominciare la vostra ascesa. Ma la Nuova Vita è un grande obiettivo. È una vetta che voi volete raggiungere. Perciò non vi preoccupate di quante volte potrete scivolare e di quanto difficile la scalata possa diventare in certi momenti. La Nuova Vita è un obiettivo troppo importante per rinunciare.

Perciò, continuate ad andare avanti. A scalare.

Usate la vostra forza. La vostra volontà. La vostra determinazione. Il vostro desiderio. Continuate a guardare verso l’alto, senza mai perdere di vista la Nuova Vita, con la sicurezza che c’è e che voi potete raggiungerla. Credeteci.

E ricordate che siete sempre legate alla corda. Perciò non cadrete mai al suolo finché sarete convinte di voler raggiungere la cima. L’unico modo che avete per ripiombare con i piedi a terra è prendere un paio di forbici e tagliare la corda sopra di voi. O scogliere il nodo che vi tiene ad essa legate.

Ma non è ciò che volete, vero?!

Perciò, non tagliatela. Non sciogliete il nodo. Ma…

Potete lasciare la corda. Potete scivolare. Potete cadere. Datevi la possibilità di cadere. Datevi il diritto di poter fallire una presa senza pretendere la perfezione sempre e ad ogni costo. Datevi la possibilità di ricominciare ad arrampicarvi. Datevi il TEMPO di arrampicarvi. E arriverete alla cima. La raggiungerete.

Non sarà facile. È una battaglia. È una strada in salita… anzi, una scalata a 90°. Ci saranno le cadute. Ma ci saranno anche i momenti di risalita.

Pensate a questo mentre vi arrampicate. Pensate a quest’analogia e sentitevi sicure.

E, un'altra cosa. Tenete duro. Vedrete che quando sarete arrivate sulla cima, dove Speranza, Ricovero, Salute e Felicità si fondono insieme per originare la Nuova Vita, ci saranno un sacco di persone che aspettano solo voi. Vi aspettano a braccia aperte.

Ed io, che ora mi sto arrampicando insieme a voi, sarò una di quelle.

lunedì 3 novembre 2008

Sola

Questa l’ho scritta prima del mio ultimo ricovero… prima di capire che non ero sola.

Crazy little voices
Tricky little words
Something in my corners
That looks to me absurd
I travel in a triumph
I whither in the rain
Cold white bone beneath
The tightening skin and pain
The somethings all around
Blare up like heinous horns
I hold my ears in horror
While my little sore heart mourns
The trees are standing watch—yes
The eyes are all on me
And are they coming closer
To see what they can see?
My face looks like a child’s
My mind feels like a stone
My body is a battlefield
And here I stand alone.

[Pazze piccole voci/Ingannevoli piccole parole veloci/Qualcosa nella mia testa/Mi fa sentire assurda/Viaggio in un trionfo/La pioggia non mi turba/Fredde ossa in trasparenza/Pelle tirata e dolore/Tutto ciò che mi sta intorno/Non voglio il loro amore/Mi sono tappate le orecchie/Non voglio sentire neanche il battito del mio cuore/I loro occhi sono puntati su di me – sì/E vi leggo incomprensione ed orrore/E si stanno avvicinando/Per vedere quel che possono vedere?/La mia faccia è quella di una bambina/La mia mente è di ghiaccio ora/Il mio corpo è un campo di battaglia/E qui io sono sola]

Penso che talvolta la cosa peggiore sia il sentirsi intrappolate e completamente sole. Ma la verità è che la via d’uscita esiste, c’è solo bisogno di prendersi tutto il tempo necessario per trovarla. E ci sono un sacco di persone che sanno cosa significa questo dolore, questa rabbia, questa voglia di piangere e di gridare, queste ossessioni, questa felicità effimera, questa vita… perché tutte noi lo sappiamo… e possiamo aiutarci l’un’l’altra. Dovete semplicemente cercare di usare quello che avete dentro, quello contro cui lottate da tanto tempo e contro cui continuate a lottare giorno dopo giorno, e tentare di utilizzarlo come un’arma che gioca per voi, non contro di voi. Non lasciatevi mettere sotto, tutto ciò che vi serve è già in voi. Siete meravigliose esattamente per come siete, semplicemente perché siete voi stesse. Dateci dentro.
Un abbraccio forte forte a tutte quante…
 
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