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venerdì 28 marzo 2014
Quest'immagine potrebbe essere dannosa per la tua salute
Come ho già scritto più e più volte, NON credo che i mass-media siano responsabili dell’anoressia. NON credo che vedere le immagini di modelle particolarmente magre possa causare un DCA. È pur vero che, se queste cose non sono determinanti nella comparsa dell’anoressia, di certo non sono comunque utili né positive per chi ha un disturbo alimentare (ma anche per che non ce l’ha, se è per questo). E certe immagini non le possiamo evitare, per quanto si tenti: riviste, TV, cartelloni pubblicitari ci stanno sotto gli occhi tutti i giorni. E non è infrequente – soprattutto nelle riviste più modaiole e molto lette per lo più da un pubblico giovane di sesso femminile – trovare fotografie di modelle opportunamente ritoccate con qualche programma di elaborazione digitale.
Personalmente, non ho nulla in contrario ad un moderato uso di Photoshop per cancellare qualche imperfezione cutanea o per far risaltare determinati colori o cose del genere. La fotografia è una forma di arte, dopotutto.
Ma quando questi software vengono utilizzati per ritoccare pesantemente l’immagine delle modelle, quando queste diventano più digitali che umane, quando non c’è alcun modo che certi capi d’abbigliamento presenti in un’immagine possano riflettere ciò che effettivamente succede quando un reale essere umano li indossa, ecco, questo secondo me è scorretto (per non usare una parola più offensiva, che inizia sempre per “S”…). E’ nient’altro che pubblicità ingannevole. E il vedere delle immagini del genere incasina non poco le nostre sinapsi neuronali.
L’immagine di una modella esageratamente magra ci dice, indirettamente, che è possibile arrivare in tranquillità ad avere un peso del genere. Perché il nostro cervello non è programmato per pensare al fotoritocco, ma solo per esaminare le immagini che gli vengono poste di fronte: se vede una ragazza sorridente ad un peso improbabile, il pensiero di fondo sarà quello che è possibile essere felici quando si è estremamente sottopeso. È un’enorme cavolata, ovviamente, ma è così che rudimentalmente funziona la nostra mente. Pochi esseri umani hanno un sottopeso fisiologico, e neanche coloro che sono fisiologicamente magri si avvicinano alla magrezza di certe modelle che si vedono nei giornali o nei cartelloni pubblicitari.
Scrivono la ricercatrice Marika Tiggemann e i suoi colleghi in un articolo sulla rivista “Body Image”:
“[…] Anche sfogliando distrattamente una qualsiasi rivista modaiola, sarà possibile notare una vasta pletora di ragazze giovani, alte, con gambe lunghissime, occhi grandi da cerbiatto, pelle liscia come una pesca, tratti somatici tipicamente caucasici. Queste stesse immagini mostrano modelle estremamente magre. Non sono semplicemente donne naturalmente magre, ma le moderne tecniche di modificazione digitale sono ad oggi utilizzate di routine per allungare le gambe, togliere peso e centimetri dalla vita, dai fianchi, dalle cosce, ed eliminare ogni qualsiasi difetto. (Bennet, 2008). Così presentati, gli standard fisici proposti dai mass-media diventano ancor più irrealistici ed irraggiungibili per la donna media. […]”
(mia traduzione)
È luogo comune diffuso che questi modelli di eccessiva magrezza proposti dai mass-media giochino una parte importante nella genesi dei DCA. Come sapete, io la penso diversamente. Io non credo che cose del genere abbiamo il potere di far nascere un disturbo alimentare in un soggetto che non ha alcun altro fattore predisponente per questo tipo di malattia. Non credo che possano essere una significativa causa nemmeno in chi ha fattori predisponenti. Però credo che senz’altro il vedere immagini di questo tipo non faccia bene a nessuno, non sia in alcun modo d’aiuto, soprattutto per chi sta combattendo contro il proprio DCA.
Alcuni Paesi hanno proposto di varare una legge che imponga a chiunque pubblichi foto di modelle, di segnalare con apposita etichetta quelle che sono state alterate con programmi di fotoritocco. L’idea di base è che, se si è consapevoli che quelle immagini sono fake, se ci viene sbattuto sotto gli occhi il fatto che sono fake, allora verrà ascritta loro meno importanza e credibilità. A naso, ho subito concordato con quest’idea. Ma poi ho scoperto un recentissimo studio scientifico elaborato da Tiggemann e colleghi, che viceversa mostra come etichette di questo genere non sono utili come potrebbe sembrare a istinto. Anzi, non sono utili affatto.
Cos'hanno scoperto i ricercatori:
I ricercatori hanno reclutato per il loro studio 120 studentesse universitarie di età compresa tra i 18 e i 35 anni, facendo vedere loro 15 pagine di una rivista piene di foto di modelle eccessivamente magre. Alcune di queste immagini erano prive di ogni qualsiasi etichetta, alcune erano accompagnate da un’etichetta generica (“Attenzione: Quest’immagine è frutto di fotoritocco”), alcune erano accompagnate da un’etichetta specifica (“Attenzione: Quest’immagine è frutto di fotoritocco utilizzato per rendere la pelle più liscia, i muscoli più tonici, le braccia, le gambe ed i fianchi più magri”). Laddove presenti, le etichette erano piazzate alla destra o alla sinistra dell’immagine della modella, in maniera tale che fossero ben visibili (Font: Calibri, Dimensione carattere: 11). I ricercatori hanno anche organizzato un gruppo di controllo, costituito da donne con le medesime caratteristiche, cui venivano fatte vedere fotografie di accessori, o di automobili, o comunque di oggetti inanimati. Dopo aver visualizzato le immagini, a tutte le donne era richiesto di rispondere ad una serie di domande relative al loro umore e all’insoddisfazione per la propria fisicità, nonché relative alla loro considerazione in generale relativamente al proprio corpo.
Le donne che avevano guardato le foto delle modelle rivelavano un’insoddisfazione per il proprio corpo maggiore rispetto a quelle che avevano visto le foto di oggetti inanimati. Allo stesso tempo, il livello d’insoddisfazione era pressoché identico sia in chi aveva guardato foto non contrassegnate, sia in chi aveva guardato foto accompagnate da etichette. In altre parole, quelle donne provavano insoddisfazione per la propria fisicità anche se erano pienamente consapevoli che le immagini guardate erano fake. Il pensiero sottostante di queste donne immagino sia stato: “Se persino le modelle hanno bisogno di un pesante fotoritocco per apparire in questo modo, immagina di quanto “aiuto” ho bisogno io per sembrare anche solo lontanamente simile a loro”.
Una variabile che appare significativa è un fattore chiamato “comparazione sociale”. Consiste sostanzialmente nella frequenza con cui una persona paragona il proprio corpo a tutte coloro che la circondano (e si sentono sempre inferiori alle altre, e sempre colpevoli per questo). Le donne che hanno questo tipo di problema sono quelle più vulnerabili alla visione di certi tipi d’immagini, nonché – secondo lo studio – quelle la cui insoddisfazione per il proprio corpo era più elevata anche dopo aver visto le immagini contrassegnate da etichette.
I ricercatori hanno ripetuto una seconda volta un esperimento del tutto simile, che ha sostanzialmente confermato i risultati del precedente.
Gli autori dello studio hanno quindi concluso:
“Dai risultati di questo studio si evince che, anziché interrompere o prevenire la comparazione sociale come desiderato, il vedere immagini contenenti etichette d’avvertimento implementa la comparazione sociale stessa. Forse perché dette etichette fanno focalizzare ancor di più l’attenzione sul corpo della modella, anziché guardare l’immagine nel suo insieme. Questo è confermato dal fatto che, soprattutto in quelle donne che hanno problemi di spiccata comparazione sociale, la presenza delle etichette accanto alle immagini accresce la loro insoddisfazione nei confronti della propria fisicità. […]”
(mia traduazione)
Io immagino che questo dipenda dal fatto che la maggior parte di noi, in fondo, sa perfettamente che le foto delle modelle che si vedono sono fotoritoccate. A livello cognitivo, razionale, sappiamo bene che sono fake. Ma è nel gap che intercorre tra visualizzazione di un’immagine e sua interpretazione razionale che si cela l’emotività. E l’emotività non può essere cancellata da nessuna etichetta d’avvertimento. Inoltre, queste etichette fanno sì che la concentrazione si focalizzi molto di più sul corpo della modella, cercando di vedere quali parti non sono “reali”, e scrutando ogni singolo dettaglio per individuare possibili segni d’alterazione e rielaborazione digitale.
In poche parole, io credo che ci sarebbe bisogno di una maggiore variabilità nelle immagini che ci vengono propinate dai mass-media: sia in termini di taglia, di dimensioni e forme del corpo, sia in termini di etnia, e molti altri fattori di questo tipo. E questo come considerazione generale, rivolta a qualsiasi donna, non necessariamente a chi ha un DCA, perché credo che i disturbi alimentari affondino le loro radici in tutt’altre problematiche ben più profonde e complesse della mera fisicità. Sarebbe bello poter sfogliare una rivista modaiola, ed avere per lo meno l’idea di come un paio di jeans possano vestire su di noi, non su un’immagine ritoccata per essere quanto più vicina possibile ad un appendiabiti…
Personalmente, non ho nulla in contrario ad un moderato uso di Photoshop per cancellare qualche imperfezione cutanea o per far risaltare determinati colori o cose del genere. La fotografia è una forma di arte, dopotutto.
Ma quando questi software vengono utilizzati per ritoccare pesantemente l’immagine delle modelle, quando queste diventano più digitali che umane, quando non c’è alcun modo che certi capi d’abbigliamento presenti in un’immagine possano riflettere ciò che effettivamente succede quando un reale essere umano li indossa, ecco, questo secondo me è scorretto (per non usare una parola più offensiva, che inizia sempre per “S”…). E’ nient’altro che pubblicità ingannevole. E il vedere delle immagini del genere incasina non poco le nostre sinapsi neuronali.
L’immagine di una modella esageratamente magra ci dice, indirettamente, che è possibile arrivare in tranquillità ad avere un peso del genere. Perché il nostro cervello non è programmato per pensare al fotoritocco, ma solo per esaminare le immagini che gli vengono poste di fronte: se vede una ragazza sorridente ad un peso improbabile, il pensiero di fondo sarà quello che è possibile essere felici quando si è estremamente sottopeso. È un’enorme cavolata, ovviamente, ma è così che rudimentalmente funziona la nostra mente. Pochi esseri umani hanno un sottopeso fisiologico, e neanche coloro che sono fisiologicamente magri si avvicinano alla magrezza di certe modelle che si vedono nei giornali o nei cartelloni pubblicitari.
Scrivono la ricercatrice Marika Tiggemann e i suoi colleghi in un articolo sulla rivista “Body Image”:
“[…] Anche sfogliando distrattamente una qualsiasi rivista modaiola, sarà possibile notare una vasta pletora di ragazze giovani, alte, con gambe lunghissime, occhi grandi da cerbiatto, pelle liscia come una pesca, tratti somatici tipicamente caucasici. Queste stesse immagini mostrano modelle estremamente magre. Non sono semplicemente donne naturalmente magre, ma le moderne tecniche di modificazione digitale sono ad oggi utilizzate di routine per allungare le gambe, togliere peso e centimetri dalla vita, dai fianchi, dalle cosce, ed eliminare ogni qualsiasi difetto. (Bennet, 2008). Così presentati, gli standard fisici proposti dai mass-media diventano ancor più irrealistici ed irraggiungibili per la donna media. […]”
(mia traduzione)
È luogo comune diffuso che questi modelli di eccessiva magrezza proposti dai mass-media giochino una parte importante nella genesi dei DCA. Come sapete, io la penso diversamente. Io non credo che cose del genere abbiamo il potere di far nascere un disturbo alimentare in un soggetto che non ha alcun altro fattore predisponente per questo tipo di malattia. Non credo che possano essere una significativa causa nemmeno in chi ha fattori predisponenti. Però credo che senz’altro il vedere immagini di questo tipo non faccia bene a nessuno, non sia in alcun modo d’aiuto, soprattutto per chi sta combattendo contro il proprio DCA.
Alcuni Paesi hanno proposto di varare una legge che imponga a chiunque pubblichi foto di modelle, di segnalare con apposita etichetta quelle che sono state alterate con programmi di fotoritocco. L’idea di base è che, se si è consapevoli che quelle immagini sono fake, se ci viene sbattuto sotto gli occhi il fatto che sono fake, allora verrà ascritta loro meno importanza e credibilità. A naso, ho subito concordato con quest’idea. Ma poi ho scoperto un recentissimo studio scientifico elaborato da Tiggemann e colleghi, che viceversa mostra come etichette di questo genere non sono utili come potrebbe sembrare a istinto. Anzi, non sono utili affatto.
Cos'hanno scoperto i ricercatori:
I ricercatori hanno reclutato per il loro studio 120 studentesse universitarie di età compresa tra i 18 e i 35 anni, facendo vedere loro 15 pagine di una rivista piene di foto di modelle eccessivamente magre. Alcune di queste immagini erano prive di ogni qualsiasi etichetta, alcune erano accompagnate da un’etichetta generica (“Attenzione: Quest’immagine è frutto di fotoritocco”), alcune erano accompagnate da un’etichetta specifica (“Attenzione: Quest’immagine è frutto di fotoritocco utilizzato per rendere la pelle più liscia, i muscoli più tonici, le braccia, le gambe ed i fianchi più magri”). Laddove presenti, le etichette erano piazzate alla destra o alla sinistra dell’immagine della modella, in maniera tale che fossero ben visibili (Font: Calibri, Dimensione carattere: 11). I ricercatori hanno anche organizzato un gruppo di controllo, costituito da donne con le medesime caratteristiche, cui venivano fatte vedere fotografie di accessori, o di automobili, o comunque di oggetti inanimati. Dopo aver visualizzato le immagini, a tutte le donne era richiesto di rispondere ad una serie di domande relative al loro umore e all’insoddisfazione per la propria fisicità, nonché relative alla loro considerazione in generale relativamente al proprio corpo.
Le donne che avevano guardato le foto delle modelle rivelavano un’insoddisfazione per il proprio corpo maggiore rispetto a quelle che avevano visto le foto di oggetti inanimati. Allo stesso tempo, il livello d’insoddisfazione era pressoché identico sia in chi aveva guardato foto non contrassegnate, sia in chi aveva guardato foto accompagnate da etichette. In altre parole, quelle donne provavano insoddisfazione per la propria fisicità anche se erano pienamente consapevoli che le immagini guardate erano fake. Il pensiero sottostante di queste donne immagino sia stato: “Se persino le modelle hanno bisogno di un pesante fotoritocco per apparire in questo modo, immagina di quanto “aiuto” ho bisogno io per sembrare anche solo lontanamente simile a loro”.
Una variabile che appare significativa è un fattore chiamato “comparazione sociale”. Consiste sostanzialmente nella frequenza con cui una persona paragona il proprio corpo a tutte coloro che la circondano (e si sentono sempre inferiori alle altre, e sempre colpevoli per questo). Le donne che hanno questo tipo di problema sono quelle più vulnerabili alla visione di certi tipi d’immagini, nonché – secondo lo studio – quelle la cui insoddisfazione per il proprio corpo era più elevata anche dopo aver visto le immagini contrassegnate da etichette.
I ricercatori hanno ripetuto una seconda volta un esperimento del tutto simile, che ha sostanzialmente confermato i risultati del precedente.
Gli autori dello studio hanno quindi concluso:
“Dai risultati di questo studio si evince che, anziché interrompere o prevenire la comparazione sociale come desiderato, il vedere immagini contenenti etichette d’avvertimento implementa la comparazione sociale stessa. Forse perché dette etichette fanno focalizzare ancor di più l’attenzione sul corpo della modella, anziché guardare l’immagine nel suo insieme. Questo è confermato dal fatto che, soprattutto in quelle donne che hanno problemi di spiccata comparazione sociale, la presenza delle etichette accanto alle immagini accresce la loro insoddisfazione nei confronti della propria fisicità. […]”
(mia traduazione)
Io immagino che questo dipenda dal fatto che la maggior parte di noi, in fondo, sa perfettamente che le foto delle modelle che si vedono sono fotoritoccate. A livello cognitivo, razionale, sappiamo bene che sono fake. Ma è nel gap che intercorre tra visualizzazione di un’immagine e sua interpretazione razionale che si cela l’emotività. E l’emotività non può essere cancellata da nessuna etichetta d’avvertimento. Inoltre, queste etichette fanno sì che la concentrazione si focalizzi molto di più sul corpo della modella, cercando di vedere quali parti non sono “reali”, e scrutando ogni singolo dettaglio per individuare possibili segni d’alterazione e rielaborazione digitale.
In poche parole, io credo che ci sarebbe bisogno di una maggiore variabilità nelle immagini che ci vengono propinate dai mass-media: sia in termini di taglia, di dimensioni e forme del corpo, sia in termini di etnia, e molti altri fattori di questo tipo. E questo come considerazione generale, rivolta a qualsiasi donna, non necessariamente a chi ha un DCA, perché credo che i disturbi alimentari affondino le loro radici in tutt’altre problematiche ben più profonde e complesse della mera fisicità. Sarebbe bello poter sfogliare una rivista modaiola, ed avere per lo meno l’idea di come un paio di jeans possano vestire su di noi, non su un’immagine ritoccata per essere quanto più vicina possibile ad un appendiabiti…
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venerdì 28 febbraio 2014
"Essere anoressica" VS "Avere l'anoressia"
Il post di oggi trae spunto dal commento che Kay mi ha lasciato nel post precedente. Mi riferisco a:
“Questo post è molto divertente, ma perché quando gli altri ti fanno le domande e usano la parola “anoressica” tu rispondi sempre con “avere l’anoressia”? (Non è solo questo post, ti leggo da un po’ di tempo e ho notato che scrivi sempre “avere l’anoressia”, ma non dici mai “anoressica”).”
Il commento è breve e semplice, eppure solleva una questione che reputo molto interessante, e che mi sembra corretto approfondire.
Partiamo da un dato di fatto: è vero, non utilizzo il termine “anoressica”, ma dico sempre “avere l’anoressia”; in questo Kay si rivela attenta lettrice. Non è una casualità o un vizio di forma, è una mia deliberata scelta, perché non ritengo che i due termini siano sinonimi e perciò utilizzo l’unico che ritengo essere corretto.
Perché noi non siamo anoressiche, noi ABBIAMO l’anoressia.
Io sono, io ho. Una parola di differenza, un abisso in mezzo.
Allora ho fatto un giretto tra i blog, e mi sono accorta che, effettivamente, più volte vengono utilizzate le espressioni “sono anoressica”/”sono bulimica”, come se chi scrive percepisse l’anoressia/la bulimia come modo di essere, e dunque come identità.
E’ vero anche nei commenti che lasciate in questo blog, dove a volte leggo “io sono anoressica”/”io sono bulimica”, e più ci penso, più mi rendo conto che generalmente non funziona così.
Stando in un Pronto Soccorso, la raccolta dell’anamnesi prevede il chiedere ai pazienti un resoconto delle loro pregresse patologie. Ma quante persone affette, per esempio, da reflusso gastro-esofageo dicono: “Io sono un reflussore”?. Quante persone affette da enfisema polmonare dicono “Io sono enfisematoso”? Nessuna. Alla domanda: “Ha malattie di rilevo?” che pongo routinariamente ogni qualvolta raccolgo un’anamnesi, le risposte sono tassativamente: “Ho il reflusso”, “Ho l’enfisema polmonare”.
Il punto forse è che nelle malattie che affliggono prettamente il corpo, la persona avverte spontaneamente la dissociazione del soma dall’ “io”, cosa che nelle malattie psichiatriche non succede di default. In fin dei conti, quando va tutto bene, quando il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere dei polmoni, un fegato, dei reni. Ci si sente tutt’uno: il corpo aderisce perfettamente a noi stesse – ed è noi stesse. Se si ha una malattia organica, che so, se fa male un braccio, all’improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice infatti “Mi fa male un braccio”, piuttosto che “Sento male al braccio”, come a sottolineare questa distanza.
Eppure, nel campo dei DCA, è frequente sentire persone che dicono “sono anoressica”/”sono bulimica”. Come se la base di una malattia mentale quale un DCA non permettesse la realizzazione di questa dissociazione – come se la malattia facesse parte del sé. Ed ecco che la malattia cessa di essere tale e assurge ad identità.
Dunque perché quando si parla di malattie fisiche si utilizza sempre il verbo avere (“ho mal di testa”, “ho mal di stomaco”, “ho il raffreddore”, etc…) e quando si parla di disturbi alimentari si cede spesso spontaneamente il passo al verbo essere? Quand’è che la malattia-DCA può non essere più percepito come tale, cioè come malattia vera e propria?
Io credo che la distorsione possa verificarsi poiché il cervello parla a se stesso, e parlando a se stesso muta le proprie percezioni.
Supponiamo che nel cervello ci siano due interpreti che comunicano tra loro. E supponiamo che il primo interprete sia un corrispondente dall’estero che dà notizie sul mondo – ove per mondo intendo tutto quello che c’è fuori e dentro al corpo. Il secondo interprete è invece un commentatore che scrive editoriali. Leggono l’uno il lavoro dell’altro. A uno servono i dati, all’altro una sintesi; s’influenzano a vicenda.
Fanno conversazioni del tipo:
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro al tallone.
Secondo Interprete: Credo sia la scarpa troppo stretta.
Primo Interprete: Controllato. Tolta la scarpa. Il piede fa ancora male.
Secondo Interprete: L’hai guardato?
Primo Interprete: Fatto. È arrossato.
Secondo Interprete: Sangue?
Primo Interprete: No.
Secondo Interprete: Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Però un minuto dopo c’è un altro rapporto.
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro il tallone.
Secondo Interprete: Lo so già.
Primo Interprete: Fa ancora male. S’è pure gonfiato.
Secondo Interprete: E’ solo una vescica. Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Cinque minuti dopo…
Secondo Interprete: Non stuzzicarla.
Primo Interprete: Se la faccio scoppiare starò meglio!
Secondo Interprete: Questo lo pensi tu. Lasciala stare.
Primo Interprete: Okay. Ma fa ancora male.
Quel che succede invece nei disturbi alimentari è che ci sono dei problemi di comunicazione tra il primo e il secondo interprete. Per cui succedono cose del tipo:
Primo Interprete: C’è un pinguino nella mia camera.
Secondo Interprete: Non è un pinguino… è un letto.
Primo Interprete: E’ un pinguino! È un pinguino!
Secondo Interprete: Mi sembra una cosa ridicola… Andiamo a vedere.
Allora, dendriti, neuroni, serotonina e interpreti si radunano tutti e trotterellano verso la camera. Se uno non ha una malattia che coinvolge la psiche, l’asserzione del secondo interprete, che quello è un letto, verrà accettata dal primo. Altresì, viceversa. Il problema, nella malattia che coinvolge la psiche è che il primo interprete vede davvero un pinguino. I messaggi che trasmettono i neuroni sono in qualche modo errati. Solo che, quello che succede di norma, è che il secondo interprete s’interroga: cosa sta succedendo? Lui dice che c’è un pinguino, ma io non ne sono convinto; forse c’è qualcosa che non va in me. C’è abbastanza dubbio da fornire un appiglio, da comprendere il gap esistente tra l’essere e l’avere, e il rendersi conto dunque di essere affette da una patologia che sarà opportuno affrontare con l’aiuto della psicoterapia e della riabilitazione nutrizionale. Identificarsi nella malattia invece è deleterio, perché se tutti i neuroni dicono che c’è un pinguino, il dubbio viene meno. Non c’è più un vero e proprio spazio per l’analisi, perché la malattia non è neanche più malattia, è un’identità, e subentra la quantomai falsa ma illudente considerazione che non si può guarire da noi stesse, e quindi tanto vale non buttare tempo ed energie in una psicoterapia. E questo può rallentare e/o fallare enormemente un percorso di ricovero.
Ma io sono del tutto convinta che noi non siamo delle malattie. Per questo utilizzo sempre il verbo avere. Non è un gap italiano, il mio, è una scelta intenzionale. E credo che concretizzare il fatto di avere una malattia, ma non esserlo, sia il primo passo concreto per potervi combattere.
Perciò, ragazze, vi dico semplicemente che non dovete assolutamente accettare la frase “sono anoressica/bulimica”, perchè così facendo vincolate voi stesse ad una malattia, e vi permettete una quantomeno parziale identificazione nella malattia, cosa che, a mio parere, è solo deleteria. Non dovete accettare questa frase, dovete RIBELLARVI a questa frase… questo è il vero passo avanti. Certo, occorre essere consapevoli di AVERE una malattia, sennò non si può neanche decidere d’iniziare a combatterla, ma esserne consapevoli non credo sia necessariamente sinonimo del fatto che il DCA debba essere parte di noi… non lo è, infatti, come del resto non lo è nessuna malattia.
Noi NON SIAMO la nostra malattia. Noi ABBIAMO una malattia. Perchè noi, noi come persone, siamo molto, molto, molto, MOLTO di più di una malattia.
“Questo post è molto divertente, ma perché quando gli altri ti fanno le domande e usano la parola “anoressica” tu rispondi sempre con “avere l’anoressia”? (Non è solo questo post, ti leggo da un po’ di tempo e ho notato che scrivi sempre “avere l’anoressia”, ma non dici mai “anoressica”).”
Il commento è breve e semplice, eppure solleva una questione che reputo molto interessante, e che mi sembra corretto approfondire.
Partiamo da un dato di fatto: è vero, non utilizzo il termine “anoressica”, ma dico sempre “avere l’anoressia”; in questo Kay si rivela attenta lettrice. Non è una casualità o un vizio di forma, è una mia deliberata scelta, perché non ritengo che i due termini siano sinonimi e perciò utilizzo l’unico che ritengo essere corretto.
Perché noi non siamo anoressiche, noi ABBIAMO l’anoressia.
Io sono, io ho. Una parola di differenza, un abisso in mezzo.
Allora ho fatto un giretto tra i blog, e mi sono accorta che, effettivamente, più volte vengono utilizzate le espressioni “sono anoressica”/”sono bulimica”, come se chi scrive percepisse l’anoressia/la bulimia come modo di essere, e dunque come identità.
E’ vero anche nei commenti che lasciate in questo blog, dove a volte leggo “io sono anoressica”/”io sono bulimica”, e più ci penso, più mi rendo conto che generalmente non funziona così.
Stando in un Pronto Soccorso, la raccolta dell’anamnesi prevede il chiedere ai pazienti un resoconto delle loro pregresse patologie. Ma quante persone affette, per esempio, da reflusso gastro-esofageo dicono: “Io sono un reflussore”?. Quante persone affette da enfisema polmonare dicono “Io sono enfisematoso”? Nessuna. Alla domanda: “Ha malattie di rilevo?” che pongo routinariamente ogni qualvolta raccolgo un’anamnesi, le risposte sono tassativamente: “Ho il reflusso”, “Ho l’enfisema polmonare”.
Il punto forse è che nelle malattie che affliggono prettamente il corpo, la persona avverte spontaneamente la dissociazione del soma dall’ “io”, cosa che nelle malattie psichiatriche non succede di default. In fin dei conti, quando va tutto bene, quando il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere dei polmoni, un fegato, dei reni. Ci si sente tutt’uno: il corpo aderisce perfettamente a noi stesse – ed è noi stesse. Se si ha una malattia organica, che so, se fa male un braccio, all’improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice infatti “Mi fa male un braccio”, piuttosto che “Sento male al braccio”, come a sottolineare questa distanza.
Eppure, nel campo dei DCA, è frequente sentire persone che dicono “sono anoressica”/”sono bulimica”. Come se la base di una malattia mentale quale un DCA non permettesse la realizzazione di questa dissociazione – come se la malattia facesse parte del sé. Ed ecco che la malattia cessa di essere tale e assurge ad identità.
Dunque perché quando si parla di malattie fisiche si utilizza sempre il verbo avere (“ho mal di testa”, “ho mal di stomaco”, “ho il raffreddore”, etc…) e quando si parla di disturbi alimentari si cede spesso spontaneamente il passo al verbo essere? Quand’è che la malattia-DCA può non essere più percepito come tale, cioè come malattia vera e propria?
Io credo che la distorsione possa verificarsi poiché il cervello parla a se stesso, e parlando a se stesso muta le proprie percezioni.
Supponiamo che nel cervello ci siano due interpreti che comunicano tra loro. E supponiamo che il primo interprete sia un corrispondente dall’estero che dà notizie sul mondo – ove per mondo intendo tutto quello che c’è fuori e dentro al corpo. Il secondo interprete è invece un commentatore che scrive editoriali. Leggono l’uno il lavoro dell’altro. A uno servono i dati, all’altro una sintesi; s’influenzano a vicenda.
Fanno conversazioni del tipo:
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro al tallone.
Secondo Interprete: Credo sia la scarpa troppo stretta.
Primo Interprete: Controllato. Tolta la scarpa. Il piede fa ancora male.
Secondo Interprete: L’hai guardato?
Primo Interprete: Fatto. È arrossato.
Secondo Interprete: Sangue?
Primo Interprete: No.
Secondo Interprete: Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Però un minuto dopo c’è un altro rapporto.
Primo Interprete: Dolore al piede sinistro, dietro il tallone.
Secondo Interprete: Lo so già.
Primo Interprete: Fa ancora male. S’è pure gonfiato.
Secondo Interprete: E’ solo una vescica. Lascia perdere.
Primo Interprete: Okay.
Cinque minuti dopo…
Secondo Interprete: Non stuzzicarla.
Primo Interprete: Se la faccio scoppiare starò meglio!
Secondo Interprete: Questo lo pensi tu. Lasciala stare.
Primo Interprete: Okay. Ma fa ancora male.
Quel che succede invece nei disturbi alimentari è che ci sono dei problemi di comunicazione tra il primo e il secondo interprete. Per cui succedono cose del tipo:
Primo Interprete: C’è un pinguino nella mia camera.
Secondo Interprete: Non è un pinguino… è un letto.
Primo Interprete: E’ un pinguino! È un pinguino!
Secondo Interprete: Mi sembra una cosa ridicola… Andiamo a vedere.
Allora, dendriti, neuroni, serotonina e interpreti si radunano tutti e trotterellano verso la camera. Se uno non ha una malattia che coinvolge la psiche, l’asserzione del secondo interprete, che quello è un letto, verrà accettata dal primo. Altresì, viceversa. Il problema, nella malattia che coinvolge la psiche è che il primo interprete vede davvero un pinguino. I messaggi che trasmettono i neuroni sono in qualche modo errati. Solo che, quello che succede di norma, è che il secondo interprete s’interroga: cosa sta succedendo? Lui dice che c’è un pinguino, ma io non ne sono convinto; forse c’è qualcosa che non va in me. C’è abbastanza dubbio da fornire un appiglio, da comprendere il gap esistente tra l’essere e l’avere, e il rendersi conto dunque di essere affette da una patologia che sarà opportuno affrontare con l’aiuto della psicoterapia e della riabilitazione nutrizionale. Identificarsi nella malattia invece è deleterio, perché se tutti i neuroni dicono che c’è un pinguino, il dubbio viene meno. Non c’è più un vero e proprio spazio per l’analisi, perché la malattia non è neanche più malattia, è un’identità, e subentra la quantomai falsa ma illudente considerazione che non si può guarire da noi stesse, e quindi tanto vale non buttare tempo ed energie in una psicoterapia. E questo può rallentare e/o fallare enormemente un percorso di ricovero.
Ma io sono del tutto convinta che noi non siamo delle malattie. Per questo utilizzo sempre il verbo avere. Non è un gap italiano, il mio, è una scelta intenzionale. E credo che concretizzare il fatto di avere una malattia, ma non esserlo, sia il primo passo concreto per potervi combattere.
Perciò, ragazze, vi dico semplicemente che non dovete assolutamente accettare la frase “sono anoressica/bulimica”, perchè così facendo vincolate voi stesse ad una malattia, e vi permettete una quantomeno parziale identificazione nella malattia, cosa che, a mio parere, è solo deleteria. Non dovete accettare questa frase, dovete RIBELLARVI a questa frase… questo è il vero passo avanti. Certo, occorre essere consapevoli di AVERE una malattia, sennò non si può neanche decidere d’iniziare a combatterla, ma esserne consapevoli non credo sia necessariamente sinonimo del fatto che il DCA debba essere parte di noi… non lo è, infatti, come del resto non lo è nessuna malattia.
Noi NON SIAMO la nostra malattia. Noi ABBIAMO una malattia. Perchè noi, noi come persone, siamo molto, molto, molto, MOLTO di più di una malattia.
venerdì 15 giugno 2012
Anoressica VS avere l'anoressia
Proprio ieri ho letto il post di una ragazza che scrive "Io non sono bipolare, ho un disturbo bipolare". E già questa frase verissima di per sè si commenta da sola: noi non siamo una malattia, perchè la malattia è solo un aspetto della nostra vita.
Questa ragazza scrive:
"Per quelle di noi che hanno una malattia mentale cronica che ci accompagnerà per tutta la vita, io credo sia necessario prendere delle decisioni in qualità di individui, di persone, e non in qualità di bipolari, o depressi, o borderline. Bisogna sempre tenere a mente la diagnosi, ovviamente, per quelle che saranno le nostre relazioni e le nostre esperienze future; e questo perchè bisogna circondarci di persone in grado di supportarci e di aiutarci nel nostro opporci alla malattia, ma non bisogna focalizzarci unicamente sulla definizione clinica".
E questo io credo che sia uno degli aspetti - focalizzarsi sulla definizione clinica, intendo - che è più difficile da gestire. Le etichette, in fin dei conti, sotto certi aspetti, sono così rassicuranti... Ci dicono quello che siamo, e chi ha un DCA può trovarlo confortante, per certi versi: almeno ha una definizione, "anoressica", “bulimica”, invece di essere disorientata senza sapere chi è nè cosa vuole dalla sua vita. Però arriva un momento in cui l'etichetta inizia ad andare troppo stretta. Un momento in cui ci si stanca dell'ossessione su cibo-corpo-peso, ci si stanca di sentirci costrette a fare una certa quantità di attività fisica quotidianamente, ci si stanca di non poter andare da nessuna parte senza portarci dietro il cibo prescritto dall' "equilibrio alimentare". Si vuole dimenticare tutto questo. Ma bisogna anche rimanere concentrate sul fatto che si ha un DCA, che si è da poco iniziato a percorrere la strada del ricovero, e che ad andare su un binario così stretto è facile deragliare.
Il fatto che si debba seguire un "equilibrio alimentare", però, non significa che tutto quello che noi siamo è una definizione clinica e una serie di regole da seguire. Noi siamo molto più di un'etichetta, tutto un mondo interiore che dobbiamo trovare il coraggio di tirare fuori. Noi ABBIAMO un DCA, ma NON SIAMO un DCA. Io ho l'anoressia, ma non sono un'anoressica. L'etichetta può servire ai medici per sapere come relazionarsi con me, quale iter terapeutico intraprendere, ma non dice niente di me come persona. Io sono la Veggie che ha l'anoressia, ma sono anche un'istruttrice ed arbitro di karate, una studentessa universitaria, una a cui piace disegnare, e così via.
La cosa che spesso si avverte è che in molti casi l'avere un DCA è visto come un qualcosa che costituisce la propria identità. Cioè spesse volte la persona affetta da anoressia dice: "Io sono anoressica". Si descrive usando la malattia. Cosa che, se ci pensate, non è comunissima. Quante persone affette da reflusso gastro-esofageo dicono: "Io sono un reflussore"? Quante persone affette da enfisema dicono: "Io sono un enfisematoso"? Non succede. La spiegazione che ne do io è che nelle malattie fisiche si avverte la dissociazione del corpo dal proprio "io"; nelle malattie psichiche no.
Mi spiego meglio: quando va tutto bene, e il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere delle braccia, delle gambe, uno stomaco. Ci sentiamo un tutt'uno, il corpo aderisce perfettamente a noi stesse - ed è noi stesse.
Quando abbiamo una malattia organica, per esmpio ci facciamo male a un braccio, all'improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice spesso: "Mi fa male un braccio", più che "sento male al braccio", come a sottolineare questa cosa. Nelle malattie psichiatriche invece è il cervello che è "malato", per cui non avviene questa dissociazione - è come se la malattia facesse parte di noi. Ed ecco che diventa un'identità.
La cosa più difficile è trovare un equilibrio tra il non etichettare coi stesse come "anoressiche" e, al contempo, non dimenticare le limitazioni che la diagnosi c'impone. Di solito, si flippa da un estremo all'altro, perchè del resto la dicotomia è un aspetto tipico dell'anoressia: è tutto bianco o tutto nero. Invece, come nella stragrande maggioranza delle cose della vita, bisogna a poco a poco prendere consapevolezza del fatto che il giusto equilibrio sta nel punto di mezzo: accettare la diagnosi, ma non lasciare che un'etichetta ci definisca, perchè noi siamo molto più di una definizione da manuale.
Questa ragazza scrive:
"Per quelle di noi che hanno una malattia mentale cronica che ci accompagnerà per tutta la vita, io credo sia necessario prendere delle decisioni in qualità di individui, di persone, e non in qualità di bipolari, o depressi, o borderline. Bisogna sempre tenere a mente la diagnosi, ovviamente, per quelle che saranno le nostre relazioni e le nostre esperienze future; e questo perchè bisogna circondarci di persone in grado di supportarci e di aiutarci nel nostro opporci alla malattia, ma non bisogna focalizzarci unicamente sulla definizione clinica".
E questo io credo che sia uno degli aspetti - focalizzarsi sulla definizione clinica, intendo - che è più difficile da gestire. Le etichette, in fin dei conti, sotto certi aspetti, sono così rassicuranti... Ci dicono quello che siamo, e chi ha un DCA può trovarlo confortante, per certi versi: almeno ha una definizione, "anoressica", “bulimica”, invece di essere disorientata senza sapere chi è nè cosa vuole dalla sua vita. Però arriva un momento in cui l'etichetta inizia ad andare troppo stretta. Un momento in cui ci si stanca dell'ossessione su cibo-corpo-peso, ci si stanca di sentirci costrette a fare una certa quantità di attività fisica quotidianamente, ci si stanca di non poter andare da nessuna parte senza portarci dietro il cibo prescritto dall' "equilibrio alimentare". Si vuole dimenticare tutto questo. Ma bisogna anche rimanere concentrate sul fatto che si ha un DCA, che si è da poco iniziato a percorrere la strada del ricovero, e che ad andare su un binario così stretto è facile deragliare.
Il fatto che si debba seguire un "equilibrio alimentare", però, non significa che tutto quello che noi siamo è una definizione clinica e una serie di regole da seguire. Noi siamo molto più di un'etichetta, tutto un mondo interiore che dobbiamo trovare il coraggio di tirare fuori. Noi ABBIAMO un DCA, ma NON SIAMO un DCA. Io ho l'anoressia, ma non sono un'anoressica. L'etichetta può servire ai medici per sapere come relazionarsi con me, quale iter terapeutico intraprendere, ma non dice niente di me come persona. Io sono la Veggie che ha l'anoressia, ma sono anche un'istruttrice ed arbitro di karate, una studentessa universitaria, una a cui piace disegnare, e così via.
La cosa che spesso si avverte è che in molti casi l'avere un DCA è visto come un qualcosa che costituisce la propria identità. Cioè spesse volte la persona affetta da anoressia dice: "Io sono anoressica". Si descrive usando la malattia. Cosa che, se ci pensate, non è comunissima. Quante persone affette da reflusso gastro-esofageo dicono: "Io sono un reflussore"? Quante persone affette da enfisema dicono: "Io sono un enfisematoso"? Non succede. La spiegazione che ne do io è che nelle malattie fisiche si avverte la dissociazione del corpo dal proprio "io"; nelle malattie psichiche no.
Mi spiego meglio: quando va tutto bene, e il corpo sta bene, non ci accorgiamo che esiste. Non ci accorgiamo di avere delle braccia, delle gambe, uno stomaco. Ci sentiamo un tutt'uno, il corpo aderisce perfettamente a noi stesse - ed è noi stesse.
Quando abbiamo una malattia organica, per esmpio ci facciamo male a un braccio, all'improvviso la parte dolorante non fa più parte di noi: ci dissociamo da lei. Si dice spesso: "Mi fa male un braccio", più che "sento male al braccio", come a sottolineare questa cosa. Nelle malattie psichiatriche invece è il cervello che è "malato", per cui non avviene questa dissociazione - è come se la malattia facesse parte di noi. Ed ecco che diventa un'identità.
La cosa più difficile è trovare un equilibrio tra il non etichettare coi stesse come "anoressiche" e, al contempo, non dimenticare le limitazioni che la diagnosi c'impone. Di solito, si flippa da un estremo all'altro, perchè del resto la dicotomia è un aspetto tipico dell'anoressia: è tutto bianco o tutto nero. Invece, come nella stragrande maggioranza delle cose della vita, bisogna a poco a poco prendere consapevolezza del fatto che il giusto equilibrio sta nel punto di mezzo: accettare la diagnosi, ma non lasciare che un'etichetta ci definisca, perchè noi siamo molto più di una definizione da manuale.
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giovedì 14 gennaio 2010
Restituiamo il morso
Dei DCA si sente dire di tutto e di più, dai manuali psichiatrici che cercano di definirli, ai blog "pro-ana/mia" che addirittura in un certo qual modo li esaltano. Bè, certo se state combattendo contro un DCA, concorderete con me che, passata la fase “luna di miele” iniziale, poi non c’è proprio nulla di esaltante... Comunque, se vogliamo cercare di spezzare la catena, se vogliamo cercare di rompere questo circolo vizioso, se vogliamo provare ad introdurre un cambiamento, almeno una volta nella nostra vita, bisogna cercare di imparare ad accettarsi per quello che siamo. Che è una delle cose più difficili che dovremmo mai fare in tutta la nostra vita.
La strada del ricovero è una strada in salita. Non è facile. Non è divertente. Ma è l’unica cosa che ci resta da fare, se non vogliamo che l’anoressia abbia la meglio su di noi.
In realtà, staccarsi dall’anoressia è così difficile anche perché, più passa il tempo, più questa ci definisce. E nel momento in cui ci troviamo a doverci togliere quell’etichetta, non sappiamo più come considerare noi stesse. E questo fa paura.
Ma noi non siamo l’anoressia. Noi non siamo un’etichetta. Noi siamo molto di più. La strada del ricovero ci è sempre aperta davanti, e sta solo a noi decidere d’iniziare e di continuare a percorrerla. E qui possiamo darci una mano a vicenda. Cerchiamo di aiutarci tutte insieme, tenendoci per mano mentre si percorre questa strada così impervia. Perché noi possiamo farcela, tutte quante, e siamo più forti se combattiamo insieme.
L’anoressia per tanto tempo ci ha mangiate, ci ha divorate, in ogni senso della parola, paradossalmente eppure ineluttabilmente. Ma adesso è arrivato il momento di restituire il morso. Restituiamo il morso, ragazze!
Per l’anoressia è finita. Per noi, il ricovero: una vita.
La strada del ricovero è una strada in salita. Non è facile. Non è divertente. Ma è l’unica cosa che ci resta da fare, se non vogliamo che l’anoressia abbia la meglio su di noi.
In realtà, staccarsi dall’anoressia è così difficile anche perché, più passa il tempo, più questa ci definisce. E nel momento in cui ci troviamo a doverci togliere quell’etichetta, non sappiamo più come considerare noi stesse. E questo fa paura.
Ma noi non siamo l’anoressia. Noi non siamo un’etichetta. Noi siamo molto di più. La strada del ricovero ci è sempre aperta davanti, e sta solo a noi decidere d’iniziare e di continuare a percorrerla. E qui possiamo darci una mano a vicenda. Cerchiamo di aiutarci tutte insieme, tenendoci per mano mentre si percorre questa strada così impervia. Perché noi possiamo farcela, tutte quante, e siamo più forti se combattiamo insieme.
L’anoressia per tanto tempo ci ha mangiate, ci ha divorate, in ogni senso della parola, paradossalmente eppure ineluttabilmente. Ma adesso è arrivato il momento di restituire il morso. Restituiamo il morso, ragazze!
Per l’anoressia è finita. Per noi, il ricovero: una vita.
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lunedì 1 giugno 2009
Il ricovero vale sempre la pena
Talvolta percorrere la strada del ricovero dall’anoressia può essere così duro che s’inizia a chiederci se ne vale davvero la pena.
Quando un pensiero del genere ci entra in testa, dobbiamo allora sempre tenere a mente che l’anoressia ci ha rubato: tempo, spazio, amicizie, hobby, studio, lavoro, sorriso, libertà, un corpo sano, energia… in una parola, ci ha rubato la vita.
Ci siamo passate tutte quante, e lo sappiamo. Perciò, non lasciamo che l’unica cosa che ci definisce sia un’etichetta con su scritto “anoressica” o “bulimica”. E non lasciamo che il DCA si prenda ancora qualcos’altro da noi, perché tutto quello che ci prende non lo potremo più riavere indietro.
Perciò, combattiamo sempre contro quelli che sono i tipici pensieri ossessivi che l’anoressia ci mette in testa. Perché noi siamo in grado di compiere una scelta che può cambiare tutta la nostra vita: la scelta d’intraprendere la strada del ricovero.
La strada del ricovero è dura ma, alla fine, è l’unica che vale veramente la pena di percorrere.
Nel momento in cui si rimane invischiate nella melma di un DCA, saremo sempre condannate a vivere un inferno fatto di terrore nei confronti del cibo, che poi non è altro che una forma somatizzata del terrore che proviamo nei confronti delle altre persone e dei nostri stessi sentimenti.
Nel momento in cui invece si sceglie il ricovero, s’intraprende un lavoro su noi stesse che potrà portarci davvero molto lontano, verso quello che desideriamo veramente dalla vita.
Continuate a combattere, ragazze. Non siete sole. Io sto combattendo con voi.
Questo post lo dedico a tutte voi, ma in particolare a MARY, che tra pochi giorni avrà un colloquio in un centro specializzato per DCA, per poter iniziare il suo percorso di ricovero affiancata da persone esperte.
Mary, sono orgogliosa di te!! Inizia a combattere e non smettere mai… Perchè le discese sono facili da seguire, però portano verso il basso. E' solo la durezza della salita che alla fine ti porta ad ammirare la bellezza del panorama! Ti abbraccio forte… Ti voglio bene…
Veggie
Quando un pensiero del genere ci entra in testa, dobbiamo allora sempre tenere a mente che l’anoressia ci ha rubato: tempo, spazio, amicizie, hobby, studio, lavoro, sorriso, libertà, un corpo sano, energia… in una parola, ci ha rubato la vita.
Ci siamo passate tutte quante, e lo sappiamo. Perciò, non lasciamo che l’unica cosa che ci definisce sia un’etichetta con su scritto “anoressica” o “bulimica”. E non lasciamo che il DCA si prenda ancora qualcos’altro da noi, perché tutto quello che ci prende non lo potremo più riavere indietro.
Perciò, combattiamo sempre contro quelli che sono i tipici pensieri ossessivi che l’anoressia ci mette in testa. Perché noi siamo in grado di compiere una scelta che può cambiare tutta la nostra vita: la scelta d’intraprendere la strada del ricovero.
La strada del ricovero è dura ma, alla fine, è l’unica che vale veramente la pena di percorrere.
Nel momento in cui si rimane invischiate nella melma di un DCA, saremo sempre condannate a vivere un inferno fatto di terrore nei confronti del cibo, che poi non è altro che una forma somatizzata del terrore che proviamo nei confronti delle altre persone e dei nostri stessi sentimenti.
Nel momento in cui invece si sceglie il ricovero, s’intraprende un lavoro su noi stesse che potrà portarci davvero molto lontano, verso quello che desideriamo veramente dalla vita.
Continuate a combattere, ragazze. Non siete sole. Io sto combattendo con voi.
Questo post lo dedico a tutte voi, ma in particolare a MARY, che tra pochi giorni avrà un colloquio in un centro specializzato per DCA, per poter iniziare il suo percorso di ricovero affiancata da persone esperte.
Mary, sono orgogliosa di te!! Inizia a combattere e non smettere mai… Perchè le discese sono facili da seguire, però portano verso il basso. E' solo la durezza della salita che alla fine ti porta ad ammirare la bellezza del panorama! Ti abbraccio forte… Ti voglio bene…
Veggie
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venerdì 19 settembre 2008
Una taglia in meno non è un premio
Shopping: lo ami e lo detesti. Può essere meraviglioso o ansiogeno, divertente o triste, bello o disastroso.
Molte di queste emozioni contraddittorie provengono dal dualismo tra il voler trovare l’abito perfetto e il provare paia su paia di jeans, nessuno dei quali in grado di vestire come si vorrebbe.
Spesso, sembra proprio che siano i negozi a dirci che il nostro corpo, in un modo o nell’altro, non è “giusto”. Siamo troppo magre, troppo grasse, abbiamo i fianchi troppo larghi, il sedere troppo cascante, le cosce troppo tornite, e così via… Così finiamo inevitabilmente per cercare di rendere i nostri corpi a misura di vestiti, anziché i vestiti a misura dei nostri corpi. Inutile dirlo, è estremamente frustrante. Fa diventare lo shopping un qualcosa di veramente odioso. E fa nascere pensieri negativi sul proprio corpo. Reitera una volta di più che i nostri corpi non sono come dovrebbero essere.
Poi, ci sono i numeri. Tanti numeri, come i numeri che stanno scritti sulla bilancia, i numeri che dettano l’umore: le taglie dei vestiti.
Innanzitutto, pare che le taglie siano variabili di negozio in negozio, non è vero?! Entrate in un negozio e vestite una 42, poi andate in un altro e scoprite che la 42 è troppo piccola. Così dovete necessariamente provare una taglia superiore, e vi sentite uno schifo. Bene, perché? Se quel paio di jeans vi sta bene, perché vi sentite uno schifo? Perché date importanza ai numeri. Perché avete attribuito ai numeri un significato particolare. Se salgono significa che siete troppo grasse, se scendono che state dimagrendo e che quindi va tutto bene.
E questo è il primo errore. Perché voi state dando a questi numeri – a queste taglie, cazzo – un’importanza enorme, un potere enorme. E invece non significano niente! Quel che conta è come voi vi sentite in un determinato vestito, se quel vestito ve lo sentite bene addosso o meno! Se il paio di jeans che volete comprare ha una taglia 42, e vi piace il modo in cui vi vestono – vi piacerebbe comunque anche se sull’etichetta ci fosse scritto 46! Sono solo i disturbi alimentari che stanno cercando di fregarvi, di farvi pensare diversamente, che stanno cercando di farvi sentire brutte, grasse e inadeguate!
Il mio suggerimento – se vi sentite forti abbastanza – è di tagliare le etichette dai vestiti che comprate. Certo, in negozio le etichette sono necessarie, ma non lasciate che continuino a condizionarvi anche a casa. Perciò, tagliate e buttate quelle dannate etichette! Non lasciate che siano quei numeri ad etichettarvi. Non avete bisogno di etichette che vi dicano come sentirvi quando indossate quei jeans. Guardate ai vestiti per quello che sono – se vi piacciono o meno – e non alla loro taglia.
Se siete come me, probabilmente gli indumenti nel vostro armadio sono di taglie differenti. Normale, dato che li ho acquistati in negozi diversi e che sono fatti con materiali differenti. La taglia dei miei jeans non corrisponde a quella dei pantaloni della tuta. Perciò, tagliate quelle etichette. Che ce le tenete a fare? Scommetto che mai nessuno, guardandovi un paio di pantaloni che stavate indossando, la prima cosa che vi ha chiesto è stata: “Oh, di che taglia sono?”. Se qualcuno ha commentato i vostri jeans, molto più probabilmente avrà detto qualcosa del tipo: “Carini i tuoi pantaloni!”, oppure: “Dove li hai comprati?”.
Pensateci.
E quando vorrete o avrete bisogno di andare a fare shopping nuovamente, valutate quelli che sono gli abiti che davvero vi vestono bene, senza tener conto di qual è la loro taglia, se una 40 o una 48. Valutate ad occhio se un paio di pantaloni che vi piacciono possono starvi o meno, e provateveli. Se non sono giusti, sceglietene un paio che, sempre a colpo d’occhio, vi sembrano più grandi o più piccoli. Se avete tolto le etichette dei vostri vestiti a casa, provate ad immaginare di aver fatto la stessa cosa anche con gli abiti del negozio. Così non sarà tanto terribile se un paio di jeans non vi veste. Trovate vestiti a misura dei vostri corpi, non abiti di taglie che avete già scelto nella vostra testa decidendo che è quella che vi deve vestire.
So che tagliare le etichette dei vestiti può sembrare un gesto abbastanza estremo. E forse lo è. Ma qualche volta arrivare all’estremo è necessario per cambiare il nostro modo di pensare e ritrovare la giusta rotta. In fin dei conti, non è forse estremo digiunare per entrare in una particolare taglia? Non è forse estremo chiudersi in camera a piangere quando una taglia – un numero che non significa niente – è maggiore di quello che avremmo voluto? E allora, se quella taglia proprio non va, provate quella superiore. E se a questo punto i jeans vi cadono bene, comprateli. Non permettete ad un etichetta di avere la meglio su di voi. Poi andate a casa e tagliate tutte le etichette fintanto che la vostra testa non sia in grado di pensare razionalmente.
Lo so, è una cosa difficile da fare – usare le forbici sugli abiti e tagliare quel che costituisce il problema. Potrebbe sembrare facile, ma non lo è. Però, lo sapete: una volta che l’avete fatto, non potete tornare indietro. I numeri non torneranno indietro. E forse respirare sarà più semplice… e inizierete a guardare ai vostri vestiti per quello che sono – parte del vostro stile.
Tagliare le etichette dei vestiti è un po’ come andare dalla dietista e farsi pesare volgendo le spalle alla sbarra del peso. Se sapete che conoscere il numero che indica il vostro peso sulla bilancia condiziona i vostri comportamenti, vi mantiene ancorate al disturbo alimentare, significa che state dando a quel numero sin troppo potere. Perciò, pesatevi girate. Senza vedere il peso. Può sembrare strano, può sembrare ansiogeno, ma vi assicuro che è molto, molto, molto utile. Io lo faccio sempre. Non lasciate che un numero condizioni il vostro umore e vi dica cosa dovete fare, cosa dovete pensare, e come vi dovete sentire.
Ma capisco che è difficile farlo. Difficile essere forte abbastanza da salire su una bilancia, voltarsi, farsi pesare, e poi scendere senza sapere quale numero ha segnato. All’inizio, e ve lo dico per esperienza, sareste pronte ad uccidere pur di conoscere il vostro peso. Ma, successivamente, vi accorgerete che quello del peso è solo un numero che non ha nessuna importanza. Perché l’importante è come vi sentite col vostro corpo, qualsiasi sia il vostro peso. Poiché ci si può sentire a disagio a 80 Kg come a 30 Kg. E, ad equivalenti pesi, sentirsi bene.
Quindi, cercate di combattere l’impulso di conoscere il vostro peso. Non pesatevi affatto. Lo so, ci vuole un sacco di forza. Un sacco di volontà. Un sacco di determinazione. A non conoscere il proprio peso. A pesarsi a spalle voltate. A tagliare le etichette degli abiti. A fare in modo che i numeri NON siano un problema.
Ma voi potete farcela. Avete questo potere. E siete le sole che possono farcela. E quando starete bene con voi stesse, vi accorgerete che quei numeri davvero non contano niente. E potrete guardarli di nuovo senza che scalfiscano il vostro umore. Perché voi avete davvero questo potere.
Il vostro potere è un premio.
Non una taglia in meno.
Molte di queste emozioni contraddittorie provengono dal dualismo tra il voler trovare l’abito perfetto e il provare paia su paia di jeans, nessuno dei quali in grado di vestire come si vorrebbe.
Spesso, sembra proprio che siano i negozi a dirci che il nostro corpo, in un modo o nell’altro, non è “giusto”. Siamo troppo magre, troppo grasse, abbiamo i fianchi troppo larghi, il sedere troppo cascante, le cosce troppo tornite, e così via… Così finiamo inevitabilmente per cercare di rendere i nostri corpi a misura di vestiti, anziché i vestiti a misura dei nostri corpi. Inutile dirlo, è estremamente frustrante. Fa diventare lo shopping un qualcosa di veramente odioso. E fa nascere pensieri negativi sul proprio corpo. Reitera una volta di più che i nostri corpi non sono come dovrebbero essere.
Poi, ci sono i numeri. Tanti numeri, come i numeri che stanno scritti sulla bilancia, i numeri che dettano l’umore: le taglie dei vestiti.
Innanzitutto, pare che le taglie siano variabili di negozio in negozio, non è vero?! Entrate in un negozio e vestite una 42, poi andate in un altro e scoprite che la 42 è troppo piccola. Così dovete necessariamente provare una taglia superiore, e vi sentite uno schifo. Bene, perché? Se quel paio di jeans vi sta bene, perché vi sentite uno schifo? Perché date importanza ai numeri. Perché avete attribuito ai numeri un significato particolare. Se salgono significa che siete troppo grasse, se scendono che state dimagrendo e che quindi va tutto bene.
E questo è il primo errore. Perché voi state dando a questi numeri – a queste taglie, cazzo – un’importanza enorme, un potere enorme. E invece non significano niente! Quel che conta è come voi vi sentite in un determinato vestito, se quel vestito ve lo sentite bene addosso o meno! Se il paio di jeans che volete comprare ha una taglia 42, e vi piace il modo in cui vi vestono – vi piacerebbe comunque anche se sull’etichetta ci fosse scritto 46! Sono solo i disturbi alimentari che stanno cercando di fregarvi, di farvi pensare diversamente, che stanno cercando di farvi sentire brutte, grasse e inadeguate!
Il mio suggerimento – se vi sentite forti abbastanza – è di tagliare le etichette dai vestiti che comprate. Certo, in negozio le etichette sono necessarie, ma non lasciate che continuino a condizionarvi anche a casa. Perciò, tagliate e buttate quelle dannate etichette! Non lasciate che siano quei numeri ad etichettarvi. Non avete bisogno di etichette che vi dicano come sentirvi quando indossate quei jeans. Guardate ai vestiti per quello che sono – se vi piacciono o meno – e non alla loro taglia.
Se siete come me, probabilmente gli indumenti nel vostro armadio sono di taglie differenti. Normale, dato che li ho acquistati in negozi diversi e che sono fatti con materiali differenti. La taglia dei miei jeans non corrisponde a quella dei pantaloni della tuta. Perciò, tagliate quelle etichette. Che ce le tenete a fare? Scommetto che mai nessuno, guardandovi un paio di pantaloni che stavate indossando, la prima cosa che vi ha chiesto è stata: “Oh, di che taglia sono?”. Se qualcuno ha commentato i vostri jeans, molto più probabilmente avrà detto qualcosa del tipo: “Carini i tuoi pantaloni!”, oppure: “Dove li hai comprati?”.
Pensateci.
E quando vorrete o avrete bisogno di andare a fare shopping nuovamente, valutate quelli che sono gli abiti che davvero vi vestono bene, senza tener conto di qual è la loro taglia, se una 40 o una 48. Valutate ad occhio se un paio di pantaloni che vi piacciono possono starvi o meno, e provateveli. Se non sono giusti, sceglietene un paio che, sempre a colpo d’occhio, vi sembrano più grandi o più piccoli. Se avete tolto le etichette dei vostri vestiti a casa, provate ad immaginare di aver fatto la stessa cosa anche con gli abiti del negozio. Così non sarà tanto terribile se un paio di jeans non vi veste. Trovate vestiti a misura dei vostri corpi, non abiti di taglie che avete già scelto nella vostra testa decidendo che è quella che vi deve vestire.
So che tagliare le etichette dei vestiti può sembrare un gesto abbastanza estremo. E forse lo è. Ma qualche volta arrivare all’estremo è necessario per cambiare il nostro modo di pensare e ritrovare la giusta rotta. In fin dei conti, non è forse estremo digiunare per entrare in una particolare taglia? Non è forse estremo chiudersi in camera a piangere quando una taglia – un numero che non significa niente – è maggiore di quello che avremmo voluto? E allora, se quella taglia proprio non va, provate quella superiore. E se a questo punto i jeans vi cadono bene, comprateli. Non permettete ad un etichetta di avere la meglio su di voi. Poi andate a casa e tagliate tutte le etichette fintanto che la vostra testa non sia in grado di pensare razionalmente.
Lo so, è una cosa difficile da fare – usare le forbici sugli abiti e tagliare quel che costituisce il problema. Potrebbe sembrare facile, ma non lo è. Però, lo sapete: una volta che l’avete fatto, non potete tornare indietro. I numeri non torneranno indietro. E forse respirare sarà più semplice… e inizierete a guardare ai vostri vestiti per quello che sono – parte del vostro stile.
Tagliare le etichette dei vestiti è un po’ come andare dalla dietista e farsi pesare volgendo le spalle alla sbarra del peso. Se sapete che conoscere il numero che indica il vostro peso sulla bilancia condiziona i vostri comportamenti, vi mantiene ancorate al disturbo alimentare, significa che state dando a quel numero sin troppo potere. Perciò, pesatevi girate. Senza vedere il peso. Può sembrare strano, può sembrare ansiogeno, ma vi assicuro che è molto, molto, molto utile. Io lo faccio sempre. Non lasciate che un numero condizioni il vostro umore e vi dica cosa dovete fare, cosa dovete pensare, e come vi dovete sentire.
Ma capisco che è difficile farlo. Difficile essere forte abbastanza da salire su una bilancia, voltarsi, farsi pesare, e poi scendere senza sapere quale numero ha segnato. All’inizio, e ve lo dico per esperienza, sareste pronte ad uccidere pur di conoscere il vostro peso. Ma, successivamente, vi accorgerete che quello del peso è solo un numero che non ha nessuna importanza. Perché l’importante è come vi sentite col vostro corpo, qualsiasi sia il vostro peso. Poiché ci si può sentire a disagio a 80 Kg come a 30 Kg. E, ad equivalenti pesi, sentirsi bene.
Quindi, cercate di combattere l’impulso di conoscere il vostro peso. Non pesatevi affatto. Lo so, ci vuole un sacco di forza. Un sacco di volontà. Un sacco di determinazione. A non conoscere il proprio peso. A pesarsi a spalle voltate. A tagliare le etichette degli abiti. A fare in modo che i numeri NON siano un problema.
Ma voi potete farcela. Avete questo potere. E siete le sole che possono farcela. E quando starete bene con voi stesse, vi accorgerete che quei numeri davvero non contano niente. E potrete guardarli di nuovo senza che scalfiscano il vostro umore. Perché voi avete davvero questo potere.
Il vostro potere è un premio.
Non una taglia in meno.
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