Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 22 febbraio 2013

10 cose che le "pro ana/mia" non vi dicono: perplessità & spiegazioni

Alcuni giorni fa, Anna ha lasciato un commento al mio post “10 cose che le pro ana/mia non vi dicono”, esternando le sue perplessità relative a primi 7 punti della lista che avevo riportato in quel post.
In un primo momento, avevo pensato semplicemente di lasciarle una risposta in calce a quanto lei aveva scritto; dopodiché però mi è sovvenuto che le perplessità sollevate da Anna potrebbero essere comuni anche ad altre lettrici, quindi ho pensato che sarebbe stato meglio farne un post in maniera tale da poter approfondire le tematiche che Anna ha affrontato nel suo commento, e chiarire i dubbi sollevati. In questo modo, posso rispondere non solo ad Anna, ma anche a tutte le persone che, leggendo il post succitato, potrebbero avere i suoi stessi dubbi al riguardo, e posso farlo in maniera più estesa ed esaustiva, con le dovute spiegazioni scritte a modino, senza dovermi limitare alla brevità di un commento.

Dunque, stante le medesime premesse che avevo inserito in testa al post in questione (che vi consiglio di leggere o di rileggere, perché sennò non ci capite nulla in quello che segue), passo a riportare il commento di Anna punto per punto, cui seguiranno le mie relative risposte.

Anna ha detto… 
[…] 
1) sono d accordo con l’ultima parte del tuo commento, però è vero che ci sono dei cibi ingrassanti, che non servono al nostro corpo se non a farci ingrassare; ad esempio cioccolata, caramelle e cose di questo genere (me ne vengono in mente alcuni ma non voglio scrivere marche). 
2) accelerare il metabolismo no, ma far sentire pieni, o far andare spesso in bagno si... 
3) il corpo, in realtà, inizia a mangiare se stesso solo a livelli avanzati, ma all’inizio soprattutto è giusto mangiare il meno possibile per perdere peso, sottolineo che il meno possibile non vuol dire digiunare, perché quello ucciderebbe il metabolismo. 
4) a parte che dipende bere cosa... tipo non bere cose gassate o cose alcoliche aiuta molto a dimagrire, per quanto riguarda l’acqua se si beve troppo o troppo in fretta ci si sente gonfi e quindi "pesanti" e si può scambiare per "ingrassamento"... 
5) bè dipende dalle conseguenze. 
6) non aiutano a dimagrire, non in modo giusto, ma è vero che perdendo liquidi ecc si tiene, più o meno, sotto controllo il peso (più o meno). 
7) quando, anni fà, vomitavo anche 8 volte al giorno, mi è capitato di vomitare sangue, non sono mai finita all’ospedale o sono morta per questo, anzi un medico mi disse che poteva dipendere da molte cose... 
[…]” 

E dunque, altrettanto punto per punto, le mie risposte.

1) Per quanto possa sembrare strano, anche cibi come caramelle e cioccolata, se consumati con moderazione (perché è ovvio che se una mangia 10 chili di cioccolata al giorno ingrassa, grazie al cazzo!...), hanno effetti benefici (e non ingrassanti) sul nostro organismo. Giusto per riprendere l’esempio che Anna ha citato, la cioccolata è una delle maggiori fonti di antiossidanti (soprattutto flavonoidi e catechine) di derivazione alimentare per il nostro organismo. Uno studio pubblicato nel 2012 sull’American Journal of Clinical Nutrition dimostra come assumere 28 grammi di cioccolata al giorno, in 7 giorni riduca significativamente i livelli di colesterolo senza far aumentare il peso… alla faccia del cibo ingrassante!...

2) Il fatto che una persona possa sentirsi piena o vada spesso in bagno perché ha bevuto tazze su tazze di thè verde, non smuove comunque d’una virgola il suo metabolismo… anzi, se una persona va spesso in bagno, perde un sacco di liquidi, il che è particolarmente pericoloso per il rischio di disidratazione… e tutto ciò senza che il metabolismo si sia velocizzato nemmeno un pochino.

3) E’ luogo comune che il nostro corpo inizi a “mangiare se stesso” solo a livelli di denutrizione avanzati. Ripeto: è luogo comune. Ma non è assolutamente vero. La verità è che il corpo comincia a mangiare se stesso già dopo 24 ore di digiuno o alimentazione estremamente ridotta, come mostrano degli studi condotti già negli anni ’50. A tal proposito, ecco cosa dice uno dei libri su cui ho studiato quando preparavo l’esame di Patologia Generale:

(click sull'immagine per ingrandirla) 

(il libro in questione è il Walter & Israel per gli “addetti ai lavori…)

Se vi andate a leggere la parte che va sotto il titolo di “Adattamenti metabolici precoci…” vedrete che, in termini più specialistici, spiega esattamente quel che ho appena scritto.
E, a proposito del metabolismo, ciascuna di noi ha un metabolismo settato per mantenere quello che è il proprio peso biologico, il cosiddetto “set-point” di peso. Per cui, ogni qualsiasi alterazione quantitativa dell’alimentazione, ogni qualsiasi riduzione, determina in risposta automatica uno slittamento verso il basso del metabolismo stesso, il cui scopo è quello di mantenere l’omeostasi dell’organismo, ovvero il set-point ponderale.

4) Pardon, qui effettivamente sono stata imprecisa, l’ho dato per scontato, ma in effetti avrei dovuto scrivere “non bere acqua”, perché è all’acqua che mi riferivo quando ho scritto il post. In ogni caso, molto banalmente: anche se salgo sulla bilancia con un mattone in tasca peso di più. Questo non vuol dire che il mattone in tasca mi abbia fatta ingrassare. E’ ovvio che se mi peso, poi bevo 2 litri d’acqua in un minuto, e poi salgo sulla bilancia di nuovo, peserò di più… ma questo non vuol dire che sono ingrassata. Allo stesso modo, il viceversa: se sto una giornata senza bere, mi disidrato quindi peso di meno perché ho perso liquidi. Ma non sono dimagrita. Non confondete la disidratazione col dimagrimento!

5) Infatti. Io stessa ho scritto che certe conseguenze sono reversibili, ed altre no. Purtroppo, quelle irreversibili sono in genere le più gravi.

6) Tutto il contrario. Se una persona perde liquidi, si DISIDRATA. Nient’altro. La “massa grassa” rimane assolutamente invariata. In questo modo il peso non viene tenuto affatto sotto controllo, perché la persona non riesce più a capire se il suo calo è dovuto ad un’effettiva perdita di “massa grassa” conseguente alla restrizione alimentare, o se invece è dovuto semplicemente ad una perdita di liquidi. Ciò si ricollega al discorso che facevo al punto numero 4, a proposito del bere acqua: i lassativi favoriscono l’evacuazione, è l’evacuazione è sempre accompagnata da una significativa perdita di liquidi, per cui il verdetto della bilancia è effettivamente che la persona ha perso peso, ma la bilancia non è in grado di discriminare che cosa si è allontanato dall’organismo, per cui quello che succede in realtà è che la persona pesa di meno perché ha perso liquidi. Ed elettroliti. Il lassativo, al pari del vomito autoindotto, è il modo migliore per perdere elettroliti, tra l’altro, così, per la cronaca. Soprattutto il potassio. La carenza di potassio, oltre a provocare fastidiosi crampi muscolari, rappresenta la prima causa di morte per infarto nei giovani. Così, per la cronaca.

7) Se una persona ha mangiato solo pomodori e poi vomita, è ovvio che il rosso che vedrà sarà quello dei pomodori. Ma dato che è impossibile esserne sicuri al 100% (e se oltre ai pomodori si fosse procurata anche una lesione?) non lo si può dire con certezza. Ergo, una visitina in Pronto Soccorso è l’unico modo per sapere come stanno veramente le cose.
E, tra parentesi, un medico che, quando tu vomiti 8 volte al giorno, si limita a dirti che se vedi rosso nel vomito può dipendere da parecchie cose, anziché indirizzarti su un percorso di ricovero, meriterebbe come minimo di essere radiato dall’albo. (O, nella mia personale versione, pestato a morte – ma dice che non sta bene…)

Okay, spero di essere stata sufficientemente chiara ed esauriente. Ad ogni modo, per ogni qualsiasi altro chiarimento su questi punti, o per qualsiasi altra perplessità, lasciatemi pure un commento!

venerdì 15 febbraio 2013

Una malattia potenzialmente letale

Una domanda che mi sento spesso rivolgere da chi mi scrive via e-mail è: ma un DCA è davvero una malattia così grave? È veramente una patologia potenzialmente letale?

Quindi, ecco qui la mia risposta affinchè tutte possiate leggerla.

No, non tutte le persone che hanno un disturbo alimentare sono immediatamente a rischio di morire per le complicanze fisiche determinate da anoressia e bulimia, o per suicidio. Allo stesso modo, non tutte le persone con un DCA vanno incontro alla morte come diretto risultato del DCA. Eppure, statistiche alla mano, un’adolescente affetta da anoressia ha una probabilità di morire 12 volte maggiore rispetto alla sua compagna di banco che non ha un DCA. Questa stessa adolescente ha anche una probabilità 60 volte maggiore della compagna di banco di tentare il suicidio.

In termini prettamente medici, si utilizza la parola “life-threatening”. Tra le varie traduzioni letterali potrei metterci “che può uccidere”, “che minaccia la vita”, “potenzialmente mortale”, “molto grave, pericolosa, critica”. Si tratta, in buona sostanza, di una parola che viene associata a tutte quelle diagnosi, sindromi o condizioni patologiche in cui il rischio di mortalità è considerato elevato – soprattutto se, quando la patologia in questione non viene trattata, c’è un altissimo rischio che il paziente muoia. Non bisogna fare confusione con i cosiddetti ALTEs – apparent life threatening events (eventi che mettono apparentemente in rischio di vita). Questo temine si usa infatti per indicare quelle situazioni in cui c’è un improvviso arresto respiratorio, o un’ostruzione delle vie aeree, o anomalie a livello della funzionalità cardiaca e neurologica. Una delle cose che permette di classificare un DCA come una malattia “life-threatening” è rappresentata dal fatto che chi segue attivamente comportamenti tipici del disturbo alimentare (restrizione alimentare, vomito auto-indotto, abuso di lassativi, etc…) è sostanzialmente a rischio per un ALTEs.

E c’è da ricordare che uno dei veri problemi con un DCA e che noi (noi affette da un DCA, tanto quanto i medici, tanto quanto i genitori) non possiamo dire quando un evento ALTEs sta per accadere. Il modo in cui il nostro corpo reagisce alle modificazioni indotte dai comportamenti tipici di un DCA consiste nel cercare di mantenere l’omeostasi delle funzioni vitali quanto più a lungo possibile, prendendo le risorse necessarie dalle funzioni non vitali (ecco perché quando si scende sotto un certo peso in genere compare l’amenorrea). E continua a farlo fino a che tutte le riserve biologiche non si sono esaurite. Il che spesso non si nota, fino al momento in cui compare l’emergenza, l’ALTEs.

Gli squilibri elettrolitici acuti che fanno seguito ad un episodio di vomito auto-indotto e che possono provocare eventi sincopali o cardiopatie sono un esempio di rischio. E anche se un paziente venisse monitorato 24 ore su 24, non sempre questi eventi sono comunque prevedibili.

La potenziale letalità di un DCA è, ovviamente, relativa e soggettiva. Però, se si considera che la mortalità annua nella popolazione di affette da anoressia/bulimia è circa dell’1%, quando nella popolazione di pari ma senza un DCA è sull’ordine dello 0.012%/anno, si capisce bene che stiamo parlando di un GROSSO incremento del rischio di morte. E se infine si considera che la sopravvivenza a 15 anni dall’esordio di un DCA è inferiore rispetto a quella della maggior parte delle leucemie infantili, direi che i DCA sono decisamente malattie potenzialmente letali, “life-threatening”, appunto.

Il fatto che le persone non reagiscano ad un DCA nello stesso modo in cui reagiscono ad un tumore, rappresenta un problema non indifferente.

E’ per questo che, anche in post precedenti, ho scritto che l’anoressia e la bulimia sono patologie potenzialmente letali. Chi è “esterno” a un DCA tende a vedere alla malattia come alla scelta del singolo di non mangiare, e non si rende conto invece che i DCA sono malattie mortalmente serie.

Detto questo, vorrei fare un’ulteriore riflessione. Dire che un DCA è una malattia potenzialmente letale non rende l’enorme mole di sofferenza che il DCA provoca a chi ne soffre.

Molte persone con disturbi alimentari hanno dei sintomi che non le mettono immediatamente in pericolo di vita. Questi sintomi, a lunga gittata, possono portare a osteoporosi, disfunzioni epatiche, renali e digestive, problemi cardiaci… che sono quelle che poi mettono effettivamente a rischio di vita. Ma, per lo più, si tende ad ignorare queste cose.

Quando scrivo “si tende” mi riferisco ovviamente a chi ha un DCA, che generalmente non si sente mai malata abbastanza da giustificare una diagnosi e tanto meno la consapevolezza che il loro disturbo le sta lentamente uccidendo; ma mi riferisco anche alla comunità medica, che dimette una paziente anoressica dall’ospedale non appena i valori di Potassio rientrano nel range della normalità, o che non ricovera una persona fino a che non è oggettivamente a rischio di morte nelle successive 48 ore. Il “si tende” include inoltre anche i familiari benintenzionati che pensano che stai bene perché la tua testa non è perennemente infilata in una tazza del cesso o perché hai ripreso qualche chilo.

Volendo fare un esempio, supponiamo che una persona soffra di attacchi di panico. Quando gli attacchi di panico si sono già verificati una, due, dieci, venti volte, la persona comincia a saperli gestire con (relativa) calma. Più gli attacchi di panico si verificano, più la persona vi fa assuefazione. Ci si abitua. Ci si adatta. Sa cosa succederà, per cui questi attacchi non sono più un enorme problema come lo erano le prime volte che si presentavano. (Per lo meno, questo mi ha detto una persona che conosco e che soffre di questa problematica…) Non si può vivere in perenne allarme, quindi ci si adatta. Ecco, io penso che nel caso dei DCA accada un po’ la stessa cosa. Ci sono stati momenti, in passato, in cui mi dicevo che non potevo essere così malata per pesavo comunque X chili in più rispetto al minimo peso che avessi raggiunto. Non consideravo il fatto che la mia alimentazione aveva comunque ancora un trait restrittivo, e che il mio corpo non avrebbe potuto sopportare a lungo una situazione del genere. Dopo tanti anni di restrizione alimentare, per me la restrizione era diventata “normale”, e quando qualcuno mi faceva notare che non lo era, m’infastidivo. In fin dei conti stavo continuando a studiare, facevo sport, dunque dovevo necessariamente stare bene.

Ovviamente ci sono stati periodi in cui la restrizione alimentare era meno pressante, e non mi metteva immediatamente in pericolo di vita, fisica o psicologica. Ma la sofferenza, anche se non la vedevo, era comunque presente. La sofferenza è sempre presente. È quel tipo di sofferenza che lentamente logora il corpo e la mente. Quel tipo di quieta sofferenza attorno alla quale arriviamo ad organizzare tutta la nostra vita. Tutto comincia a ruotare attorno all’anoressia o alla bulimia: niente più amicizie, hobby, studio, lavoro… niente. Solo noi stesse e il DCA, avviluppate in un abbraccio soffocante. Quei momenti in cui il nostro peso non è così lontano dalla norma, in cui per lo più abbiamo pure il ciclo, e in cui nessuno fa più commenti circa la nostra eccessiva magrezza, ma in cui onestamente non ce ne frega un tubo: continuiamo comunque ad odiare noi stesse e la nostra vita. In cui non capiamo come fanno le persone a starci vicino senza scappare via urlando disgustate di fronte alle persone orribili che siamo.

Perciò, come si può misurare questo tipo di sofferenza? Ma si può davvero misurare?

Si possono valutare le statistiche inerenti la qualità della vita, sono chiare, semplici, è facile analizzarle. Ma sono solo numeri. Non tengono conto della soggiacente sofferenza. Si può dire che un DCA ha un impatto negativo sulla qualità della vita, ed è importante dirlo. Ma questo non è che il punto di partenza.

Citando Stalin: “Una morte è una tragedia. Un milione di morti sono una statistica”. 

Io sono una sorta di nerd della statistica. Mi piacciono le schematizzazioni e la matematica. Ma è anche facile sorvolare su ciò che significano realmente queste statistiche. Si può parlare di quante persone muoiono a causa di un disturbo alimentare, ma questo dato non si avvicina neanche lontanamente a quantificare le sofferenze causate dalla malattia. E’ un dato che non tiene conto delle amicizie infrante, delle famiglie lacerate, e più in generale di quell’inferno fisico e mentale che l’anoressia genera.

E’ un pensiero che fa riflettere, davvero.

venerdì 8 febbraio 2013

Modi infallibili per farmi incazzare

Come ormai saprete, andare a spulciare articoli e studi pubblicati in merito alla tematica dei DCA è un qualcosa che trovo molto interessante. Essi rappresentano l’apogeo e il perigeo di quello che ho modo di leggere in merito all’argomento “disturbi alimentari”. Alcune recenti ricerche scientifiche che sono state fatte relativamente alle valutazioni patogenetiche e terapeutiche dei DCA rappresentano sicuramente un apogeo di tutto ciò che leggo. Il perigeo? Cose come questo articolo, intitolato "Modi infallibili per far ammalare le vostre figlie di DCA".

I “suggerimenti” dati ai genitori per far ammalare di anoressia la propria figlia, redatti dall’autrice del blog in questione, Michelle Lewis, sono cose come:

• Siate sempre critici e disapprovate ogni iniziativa personale delle vostre figlie
• Abusate di loro
• Richiedete sempre la perfezione, e mostratevi delusi se le vostre figlie sono da meno
• Non lottate contro il vostro proprio DCA
• Siate distaccati e anaffettivi, evitando il dialogo, e non ascoltando mai le vostre figlie se vogliono parlarvi di qualcosa o di qualche problema 
• Usate il cibo come ricompensa o punizione
• Etc…

Al contrario, ecco cosa dice la letteratura scientifica in merito ai “modi infallibili” per far ammalare vostra figlia di anoressia/bulimia:











Esatto: NIENTE. Cercate pure quanti più studi scientifici volete: tutti quanti vi diranno che non esiste una sola causa precisa e definita che è responsabile della comparsa di un DCA. Certo, certe dritte comportamentali possono aiutare a ridurre il rischio che una ragazza si ammali di anoressia… ma non lo elimineranno. Questo è vero anche per altre malattie come per esempio i tumori. Se fumate un pacchetto di sigarette al giorno per anni ed anni, certamente il vostro rischio di sviluppare un microcitoma polmonare aumenterà considerevolmente (così come l’eccessiva esposizione ai raggi solari e alle lampade abbronzanti correla positivamente con l’incremento della possibilità di sviluppo di alcuni tumori cutanei), ma comunque fumare 20 sigarette al giorno non è un “modo infallibile” per beccarsi un cancro al polmone. Un sacco di gente fuma anche per 50 anni della sua vita, e non si prende comunque un tumore… altresì, i microcitomi polmonari possono colpire anche soggetti non-fumatori.

In sua difesa, in risposta ad un commento che viene lasciato a questo suo post, Michelle Lewis dice che, in effetti, intendeva elencare atteggiamenti genitoriali che promuovono insoddisfazione relativa alla propria fisicità e alimentazione disordinata, non disordini alimentari. Ora, un’affermazione del genere è ciò che non manca mai di farmi incazzare, questa fusione tra insoddisfazione per la propria immagine corporea e DCA. La stragrande maggioranza delle persone che conosco sono insoddisfatte di qualcosa relativamente al proprio aspetto fisico (e, del resto, vi sfido a trovare qualcuno che sia pienamente soddisfatto in tutto e per tutto del proprio corpo!!), ma finchè quest’insoddisfazione non interferisce con la propria qualità della vita, non c’è ragione di considerarla patologica. Sarebbe fantastico se chiunque, guardandosi allo specchio, fosse soddisfatto in toto di ciò che vi vede riflesso, ma specchiarsi e vedere che non ci si piace non fa sì automaticamente che quella persona abbia un DCA.

Altra cosa che mi irrita a proposito di questo post scritto da Michelle Lewis è il fatto che l’autrice dà per assunto che i genitori giochino un ruolo predominante e fondamentale nel successivo sviluppo o meno di un DCA da parte della propria figlia. Cioè, se leggete il suo post che vi ho linkato, quello che si evince è che: se una ragazza ha un disturbo alimentare, allora, ipso facto, ha avuto dei “cattivi” genitori, o comunque dei genitori disfunzionali. Ora, io non voglio screditare la terapia familiare, perché credo che ci siano certe situazioni in cui lavorare su tutta la famiglia possa essere benefico per chi ha un DCA, ma attraverso la terapia familiare ci sono passata personalmente e, per quel che può valere il parere del singolo, nel mio caso di specie è stata una perdita di tempo, salute e soldi.

La verità: Fare i genitori è il mestiere più difficile del mondo.
La verità: Alcune ragazze che sviluppano un DCA hanno alle spalle famiglie disfunzionali.
La verità: Alcune ragazze che sviluppano un DCA hanno alle spalle famiglie veramente in gamba.
La verità: Il fatto che una ragazza sia affetta da un DCA non dice niente relativamente alla qualità della famiglia da cui essa proviene.

E’ un nonsense, è un totale nonsense dare per assunto che i genitori siano la singola o tantomeno la maggiore causa di DCA nei propri figli. Peraltro, la dottoressa Julie O’Toole, in una delle sue pubblicazioni, parla proprio del trattamento di bambine denutrite provenienti da famiglie disfunzionali (sì, genitori che trattavano le figlie proprio come dice Michelle Lewis). Nel momento in cui queste bambine venivano ospedalizzate, riprendevano a mangiare normalmente (bè, è quello che normalmente ci si aspetterebbe da bambine denutrite…). Queste bambine non avevano l’anoressia… nonostante fossero stata trattate come pezze da piedi dai loro genitori.

Post come quello di Michelle Lewis non mi piacciono affatto, insomma… e non mi piace pensare al fatto che alcuni genitori, leggendolo, possano pensare di essere loro la causa maggiore od unica del DCA delle proprie figlie. Tutt’al più, una delle millemila concause, ma non certo l’unica causa, e men che meno la causa dominante (nella stragrande maggioranza dei casi, per lo meno, non voglio fare di tutta l’erba un fascio!).

venerdì 1 febbraio 2013

Comorbidità

L’idea di questo post nasce da un commento che mi ha lasciato Marcella al post “Cosa dire/non dire a una persona che ha un DCA”. Potete andare a leggere il commento e la risposta estemporanea che le ho dato, se vi va, ma oggi vorrei centrarmi su un punto in particolare, ovvero la comorbidità legata ai DCA.

Nel suo commento, Marcella parla di correlazione tra DCA e bipolarismo, accennando ad alcuni studi che sono stati condotti al riguardo. Incuriosita, mi sono armata dei miei preziosissimi Google Scholar e PubMed, e ho svolto qualche ricerca in merito.

È stato così che ho scoperto che, in realtà, ben pochi studi sono stati condotti in merito alla coesione tra DCA e altri disturbi psichiatrici, e l’unica correlazione che parrebbe essere dimostrata in termini scientifici, è la correlazione tra DCA e DOC (Disturbo Ossessivo-Compulsivo). Questi pochissimi studi che ho trovato e spulciato affermano che l’avere un DOC rende più grave il DCA, più difficile il trattamento, e più lungo il tempo necessario per avere una remissione. Un paio studi più recenti mostrano chiaramente la presenza di un significativo overlap tra DCA e DOC, e teorizzano lo sviluppo in un futuro ormai prossimo di specifici trattamenti per le persone che presentano questa comorbidità.

Entrando un po’ più nello specifico di quel poco che sono riuscita a reperire, c’è uno studio del 2004 condotto da Walter Kaye e dai suoi colleghi e pubblicato nell’ American Journal of Psychiatry, che stima quanto spesso i disturbi d’ansia (il DOC è un sottotipo di disturbo d’ansia) sono presenti in persone affette da anoressia e bulimia. Questo studio mostra che a circa il 70% delle persone con un DCA viene diagnosticato prima o poi anche un disturbo d’ansia. Molto spesso, peraltro, il disturbo d’ansia viene datato come d’esordio antecedente a quello del DCA stesso. Per inciso, tra le persone con un disturbo d’ansia il 41% è affetto da DOC, e il 20% da fobia sociale (disturbo d’ansia sociale). Date le cifre, dunque, il problema è ben rilevante. (Viene da chiedersi come mai, allora, gli studi condotti in merito siano così scarsi…)

Il gold standard nel trattamento del DOC è una forma di terapia cognitivo-comportamentale conosciuta come “Esposizione con Prevenzione della Risposta” (E/PR). L’idea è relativamente lineare: il soggetto deve creare una gerarchia delle cose che gli creano ansia e che normalmente gl’innescano una compulsione. Per esempio, per qualcuno che è ossessionato dall’idea che ci siano germi dappertutto, uno dei punti più bassi della lista potrebbe essere un qualcosa come: “Toccare un paio di guanti sterili da chirurgo non ancora stati utilizzati”. Uno dei punti più in alto, invece, potrebbe essere: “Toccare la maniglia della porta dell’ambulatorio di un medico”, oppure: “Avere accanto una persona che tossisce”. Insieme allo psicoterapeuta, la persona inizia in maniera estremamente graduale ad esporsi a questi stimoli che percepisce come ansiogeni, provando a non innescare alcuna compulsione in risposta (nell’esempio che ho fatto, correre subito a lavarsi le mani) per lenire l’ansia. Il punto è che poco a poco, così facendo, la persona impara a tollerare l’ansia e a rendersi conto che non morirà se anche viene a contatto con qualche germe.

Alcuni ricercatori hanno allora tentato di utilizzare alcune component dell’E/PR per trattare l’ansia provata nei confronti dell’alimentazione da parte dei soggetti affetti da DCA. In uno studio del 2011 pubblicato nell’ International Journal of Eating Disorders, i ricercatori dell’Università della Columbia per la prima volta hanno delineato un modello comportamentale di anoressia e bulimia guidato da ansia e ossessività.
(Date un’occhiata alla figura qui sotto, cui ho aggiunto una didascalia copiata – e poi da me tradotta – dallo studio originale.)


Figura 1. Modello dell’Anoressia Nervosa. Un trait di ansia basale elevata e ossessività interagisce con molteplici fattori ambientali, cosicché le pazienti sviluppano comportamenti maladattativi, tra cui l’evitamento di alcuni cibi, e rigidi schemi di restrizione alimentare, e sperimentano elevati livelli di ansia nella loro interazione col cibo. Questi comportamenti interconnessi alla restrizione alimentare conducono ad un incremento dell’ansia relativa all’alimentazione, e viceversa. Questi comportamenti compaiono in chiunque si sottoponga ad una dieta povera di lipidi (a bassa densità energetica), e poco variata. Questo, ovviamente, promuove la perdita di peso. Il basso peso si ripercuote sulle caratteristiche di base e porta a un aumento dei livelli di ansia e ossessività. 

L’ansia correlata al dover incrementare le razioni alimentari giornaliere e al progressivo recupero del peso, interferisce costantemente con il recupero di peso stesso in persone affette da anoressia, e con le difficoltà ad interrompere il circolo vizioso abbuffata/vomito delle persone affette da bulimia. Da qui la conclusione che non si possano fare passi avanti nella strada del ricovero fino a che questi timori non vengono affrontati. In un articolo del 2012 pubblicato in European Eating Disorders Review, alcuni psicoterapeuti ipotizzano che una delle ragioni per cui la terapia che coinvolge anche i familiari sia efficace per molte adolescenti, sia perché essa comporta l’affrontare direttamente questi timori. Fino a che le pazienti non possono (teoricamente) scegliere autonomamente cosa mangiare perché vivono in famiglia e quindi devono “sottostare” a ciò che cucina la madre, non possono scegliere di evitare cibi “ansiogeni”. Ai genitori, ovviamente, allo stesso tempo, viene insegnato come poter gradualmente agire per limitare i vari rituali connessi all’alimentazione delle proprie figlie.

Quello che mi ha colpito di più, però, è uno studio che è stato pubblicato proprio poche settimane fa, e che affronta la tematica del trattamento di DOC e DCA, questa volta proprio valutando delle ragazze ricoverate in una clinica specializzata per il trattamento dei disturbi alimentari. Pubblicato su Cognitive Behaviour Therapy, in questo studio i ricercatori trattano 56 ragazze affette da anoressia, bulimia o DCAnas, seguendo uno specifico programma elaborato per persone affette contemporaneamente anche da DOC. Di queste 56 pazienti, al 41% era stata diagnosticata anoressia, al 25% bulimia, al 34% DCAnas. I tassi e i livelli di disturbo ossessivo compulsivo erano invariati a prescindere dalla diagnosi di differente DCA. Dopo il trattamento, i ricercatori hanno trovato un miglioramento significativo sui punteggi negli specifici test relativi a DOC e disturbi alimentari, come valutato da una serie di indagini e di auto-report. Peraltro, quasi tutte le pazienti con bulimia erano riuscite a spezzare il circolo vizioso abbuffata/vomito, ed alcune pazienti con anoressia erano riuscite ad aumentare il loro peso corporeo.

A questo punto, però, considerato il contenuto di quest’ultimo studio, che ad una prima lettura farebbe pensare a chiunque che effettivamente esista una comorbidità tra DCA e DOC e dunque una possibile univocità di trattamento, non posso fare a meno di esprimere la mia opinione in merito.

Questo è indubbiamente un buon risultato, ma il problema è che in questo studio (nè in altri di cui io sia a conoscenza o sia riuscita a trovare) il gruppo trattato non viene comparato a null’altro. Anche gli altri studi che ho menzionato hanno mostrato che trattare il DCA migliora anche il quadro di DOC che eventualmente è concomitantemente presente. Ma questo significa che il miglioramento evidenziato in questo studio nella fattispecie è stato determinato esclusivamente grazie ad un’alimentazione più regolare e all’assenza di comportamenti di compenso? E che ruolo ha svolto il fatto che questo studio fosse stato specificatamente condotto su un peculiare gruppo, ovvero su ragazze ricoverate in una clinica specializzata per il trattamento di DCA? Il risultato sul trattamento del DCA sarebbe stato differente se le ragazze non avessero ricevuto in contempo un trattamento per il DOC? E cosa sarebbe successo se avessero seguito una terapia specificatamente mirata sul trattamento del DOC, e non avessero invece trattato il DCA? Certo, mi rendo conto che non sarebbe etico dividere le ragazze in 3 gruppi e trattare il primo gruppo solo per il DCA, il secondo solo per il DOC, e il terzo per entrambi, e vedere quali sarebbero le differenze… ma penso che renderebbe lo studio più attendibile.

Un altro fattore di cui i ricercatori non hanno tenuto conto in questo studio è l’uso di psicofarmaci, che viene solo menzionato ma di fatto non considerato ai fini dei risultati stilati. Come avrete letto dal relativo link, l’89% delle 56 pazienti esaminate assumevano psicofarmaci al momento in cui lo studio è stato realizzato. Gli sperimentatori giustificano la mancata tenuta in considerazione di questo fatto precisando che solo il 7% delle ragazze aveva iniziato a prendere psicofarmaci durante quel ricovero. Ma non viene detto niente a proposito del trattamento delle altre pazienti, che già prendevano psicofarmaci prima di essere ricoverate: in seguito al ricovero queste ragazze hanno aumentato o diminuito le dosi dei farmaci che già prendevano? O hanno cambiato tipo di farmaco assunto? Questi interrogativi cui lo studio non risponde, secondo me invece sono importanti, in quanto la variazione di dose o di tipo di farmaco influenzano significativamente la sintomatologia del DOC.
(Sebbene un altro recente studio che ho letto indichi che nessuno psicofarmaco è in realtà effettivamente efficace nel trattamento dell’anoressia.)

Peraltro, se ci avete fatto caso leggendo l'articolo al link, uno dei ricercatori che ha elaborato questo studio è il direttore sanitario della clinica dove lo studio è stato condotto. Questo mi rende un po’ scettica in merito ai risultati ottenuti, penso sia naturale.

I ricercatori concludono che (mia traduzione): “Il trattamento simultaneo di DOC e disturbi alimentari condotto utilizzando un approccio multimodale che utilizza la tecnica dell’E/PR per l’approccio ad entrambe le patologie, può rappresentare un’efficace strategia terapeutica per le persone che presentano questa comorbidità”. Ma quanto efficace? Migliore di ogni qualsiasi altra modalità di trattamento? Quanto migliore? Per quanto tempo durano i risultati? È un miglioramento effettivo e duraturo, permanente, o dopo una prima fase di miglioramento le 56 ragazze esaminate sono tornate al punto di partenza o sono comunque ri-peggiorate? Su nessuna di queste pazienti è stato condotto un follow-up a distanza di tempo. Migliorare durante un ricovero in una clinica è una cosa certamente positiva… ma il vero e proprio rodaggio alla vita esterna non avviene fino al momento della dimissione.

In ogni caso, penso che questo studio possa essere un punto di partenza. Se effettivamente c’è una comorbidità tra DCA e DOC, trattare persone che presentano entrambe le patologie può essere veramente difficile, ma questo non significa che queste persone, col tempo, non possano arrivare comunque a condurre una vita più sana e produttiva.

Penso che ci sia disperatamente bisogno che vengano condotti molteplici nuovi studi in questa direzione, e che, contemporaneamente, nel compiere questi studi sia necessario prendere in esame quante più variabili possibile (per quanto, mi rendo conto, sia difficile) per poter successivamente sviluppare il trattamento migliore, quanto più efficace possibile.
 
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