Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 25 ottobre 2013

Suggerimenti su come parlare a qualcuno che ha un DCA

Questo post è per i genitori/familiari/amici/colleghi/compagni di squadra di chi ha un DCA.

Parlare con chi ha un DCA è spesso e volentieri molto difficile, e non esistono ricette universali per garantire una buona comunicazione, perché ogni persona che ha un DCA è diversa dalle altre; per cui ciò che può rivelarsi funzionale nei confronti di una certa persona, può non esserlo affatto per qualcun altro.

Io non ho competenze psicologiche, e non ne so granché sulle tecniche comunicative. Perciò, credo che la prima cosa che dovrebbero fare i famigliari di una persona che ha un DCA, sarebbe quella di rivolgersi al terapeuta che la segue, al fine di elaborare una strategia comportamentale concertata con una persona professionalmente competente, che dunque è mirata sulla singola paziente, poiché ogni persona è diversa dall’altra, e quindi non per tutte vanno bene le stesse cose.

Però penso che, al di là dell’importantissimo consulto con lo psicoterapeuta, ci siano alcune semplici cose che sia possibile mettere in atto, al fine di permettere a genitori, familiari e amici di stare vicino ad una persona che ha un DCA.

Per cui, ecco quali “consigli comunicativi” darei a chi ha a che fare con una persona affetta da anoressia/bulimia/binge/DCAnas:

1. Prendete il comando. Se conoscete una persona che ha un DCA, se le siete vicino, non abbiate timore a chiederle come sta. Forse questa persona avrà voglia di rispondervi sinceramente e ve ne parlerà, forse non ne avrà voglia e si limiterà ad un sorriso stereotipato e ad un “Va tutto bene” di circostanza. Non importa. Quello che importa è che le avrete fatto capire sia che voi vi interessate a come vanno le cose, sia che nel momento in cui avesse voglia di parlarne, voi ci siete per ascoltarla.

2. Evitate i cliché. Esistono un sacco e una sporta di luoghi comuni sui disturbi alimentari. Bè, sappiate che sono solo e soltanto luoghi comuni: non racchiudono neanche un minimo di verità. Per cui, quando vi avvicinate ad una persona con anoressia/bulimia, spogliate la mente di tutti i preconcetti sui disturbi alimentati che i mass-media vi hanno finora inculcato. Evitate le frasi fatte e fini a se stesse, del tipo: “E’ solo una fase, vedrai che prima o poi passa!”, oppure “Cerca di mangiare normalmente, così vedrai che le cose vanno meglio!”. Ancora peggio, evitate di dire cose che possano suscitare sensi di colpa (“Mi stai avvelenando la vita con tutte le tue stupide fisime”), nonché simil-ricatti (“Mangia, dai, fallo per me”): lasciano assolutamente il tempo che trovano.

3. Fate attenzione al linguaggio del corpo. Non si comunica solo con le parole: a volte uno sguardo, un gesto, un movimento, comunicano più di millemila discorsi. Quando parlate con una persona che ha un DCA cercate di essere rilassati, sereni, di mostrarvi aperti al dialogo, senza dare alcun giudizio, ma semplicemente essendo proni all’ascolto e alla conversazione.

4. Chiedete in che modo potete essere d’aiuto. Ogni persona che ha un DCA è diversa dalle altre, per cui persone diverse possono avere esigenze differenti. Non solo: anche una stessa persona può avere esigenze differenti nei vari momenti del suo percorso di ricovero. Perciò, chiedete alla persona che ha un DCA in quale modo potreste esserle d’aiuto: sarà lei ad indicarvi come preferirebbe vi comportaste, e cosa preferirebbe faceste. E questo può esserle d’aiuto.

5. Non parlate sempre e solo dell’anoressia/bulimia. In quanto genitori/familiari/amici preoccupati, immagino che possa venirvi spontaneo, nel momento in cui vi relazionate ad una persona che ha un DCA, cercare d’incentrare la conversazione sulla patologia, sulle problematiche, su tutto ciò che è inerente il DCA stesso… perché sviscerare la patologia è un qualcosa che vi serve per tenere a bada l’ansia che si scaturisce dal dover vivere vicino ad una persona che sta male. Ma ricordatevi che l’anoressia/la bulimia, rappresenta solo una malattia, e dunque una minuscola parte della persona affetta. Nessuno può essere definito semplicemente dalla propria patologia, perché siamo ben altro e molto di più di una mera malattia, per cui reiterare a parlare sempre del DCA può essere controproducente. Cercate allora piuttosto altri lidi di conversazione, in maniera tale da distrarre la persona dai suoi pensieri fissi del DCA, e da farle vedere che esiste molto altro oltre il disturbo alimentare.

6. Non evitare i vissuti. Se una persona con un DCA viene da voi per parlarne, non tagliate corto perché si tratta di un qualcosa di cui è difficile discutere, e che fa male. Datele la libertà di parlarne, e fatele capire che quando avrà bisogno di voi (per parlare o per qualsiasi cosa), potrà sempre contare sul vostro supporto.

7. Datele tempo. Ci possono volere anni affinché una persona malata di anoressia/bulimia sia in grado di parlare della propria patologia. E c’è chi può preferire scrivervi una lettera, o mandarvi una e-mail, o telefonarvi, piuttosto che parlarvene faccia-a-faccia. Rispettate la sua modalità comunicativa, e rispondetele utilizzando lo stesso mezzo: l’importante è che la persona sappia che siete disposti a starle vicino e a “parlare” con lei anche attraverso altre vie rispetto alla parola verbale. In qualsiasi momento.

8. Non focalizzatevi sul cibo. L’alimentazione è la punta dell’ice-berg di un DCA. I veri problemi sono ben più importanti e profondi, e ben altro rispetto al cibo. Per cui, evitare scaramucce su quanto/cosa mangiare, e cercate di interagire con le vostre figlie/nipoti/sorelle/amiche tentando di andare un po’ più in profondità, rispetto a quelle che potrebbero essere le vere problematiche sottostanti il comportamento alimentare erroneo, al fine di capire anche come potete essere, a tal proposito, di supporto.

Chiunque abbia qualche altro consiglio da aggiungere alla lista, è caldamente pregata di farlo nei commenti.

venerdì 18 ottobre 2013

Il NEDIC l'ha toppata di brutto

Il “National Eating Disorders Information Centre” (“NEDIC”) del Canada, ha recentemente prodotto un poster per la sua nuova campagna nazionale d’informazione sui DCA. Mi riferisco a questo:


Dettaglio di una fotografia tratta da: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10151610273296861&set=a.436431326860.223788.267097966860&type=1&theater 

Hmmmm… c-cosa??

A parte il fatto che quel disegnino col cuore fa sembrare i DCA come una sciocca cottarella tra adolescenti, è semplicemente… Io non… MA CHE DIAMINE STAVANO PENSANDO QUANDO HANNO FATTO UNA COSA DEL GENERE?? 

Il NEDIC afferma che l’obiettivo di questa campagna è far sì che le persone parlino di DCA. Bè, okay… ma a me sembra che il target di questo poster non sia rappresentato dalle persone che già sanno di avere un DCA, e magari stanno pure tentando di combatterlo. Piuttosto, mi sembra che il target di questo poster sia la gente in generale, e coloro che hanno qualche difficoltà con l’alimentazione, ma non un disturbo alimentare vero e proprio.

Dunque, per prima cosa, se vuoi che le persone ne parlino, cerca di fare in modo che parlino delle cose giuste. Che parlino della vera matrice mentale del DCA, non delle solite due cavolatine sull’alimentazione, che ne rappresentano la parte più superficiale, la punta dell’ice-berg, continuando ad ignorare le ben più gravi problematiche che hanno portato allo sviluppo del DCA stesso.

In secondo luogo, per voler essere proprio materialista e terra-terra, le persone con un DCA sono coloro che fanno lavorare il NEDIC. E prenderle in giro con un poster del genere che non rappresenta niente di quello che è veramente un DCA, mi sembra come minimo scorretto. Un’idea tutt’altro che geniale, insomma.

Cose del genere mi fanno veramente storcere il naso. Esattamente come, a suo tempo, mi fece storcere il naso il poster realizzato dal fotografo Olivero Toscani con la collaborazione della modella – purtroppo attualmente deceduta – Isabelle Caro. Immagino lo conosciate tutte, comunque mi riferisco a questo:


Immagine tratta dal sito: www.giornalettismo.com 

Ora, la domanda che mi (vi) faccio è: cosa suscita nell’osservatore la visione di questo poster? Se provo a mettermi nei panni di una persona qualsiasi che non ha mai avuto un DCA e che si trova posta di fronte a quest’immagine, io credo che le prime impressioni suscitate siano pena, ribrezzo ed indifferenza.

Questo poster, a suo modo, realizza quello che io definisco l’ “Effetto Biafra”.
Pensate alle fotografie sui volantini per la richiesta di offerte per le popolazioni africane povere: mostrano quasi sempre un bambinetto/a pelle e ossa, che regge l’anima con i denti, con gli zigomi sporgenti e gli occhi enormi, e lo sguardo perso nel vuoto e colmo di tristezza.
Quali emozioni risveglia una fotografia di questo tipo?
Pena, ribrezzo ed indifferenza, a mio avviso.
Le persone più sensibili che si commuovono facilmente di fronte alle disgrazie, provando pena per quei poveri bambini decidono pure di spedire qualche euro al conto corrente indicato. Chi invece si limita al ribrezzo e/o all’indifferenza, straccerà il volantino e lo getterà nella raccolta differenziata della carta.

Okay, ammetto che nel caso di questo poster la situazione è un po’ diversa. Però, data l’immagine, io credo che la prima reazione dell’ “italiano medio”, che non ha mai avuto a che fare con i DCA, e che non sia neanche una persona particolarmente sensibile ed empatica, sia quella di pensare: “Ecco un’altra ragazzetta viziata con la fissa della dieta perché vuole somigliare alle modelle! Beata lei che ha tutto dalla vita e può concedersi di sprecarla dietro queste stupidaggini, si vede che a differenza di me non ha mai avuto problemi di cassa integrazione!”

E dunque ecco che si rimane nella più mera superficialità. Lo stereotipo (falso!!) dell'anoressia per antonomasia.

Quando questo poster di Oliviero Toscani venne alla ribalta, per un certo periodo di tempo ne è stato parlato tantissimo, sia in TV, che sui giornali, che su Internet. È stato un qualcosa che ha suscitato un discreto clamore mediatico, un argomento su cui un sacco di gente voleva esporre la propria opinione.

Ma, guarda caso, la maggior parte di questa gente era rappresentata da persone che non avevano mai vissuto un DCA, che neanche conoscevano persone con un DCA, e che quindi parlavano giusto per sentito dire alla lontana. Tante discussioni, insomma, ma giusto per discutere, fini a se stesse, buone solo ad alzare un bel polverone. Scommetto che se avesse voluto parlare una ragazza effettivamente affetta da un disturbo alimentare, l’avrebbero subito tacitata o esaurita in pochi minuti, perché la realtà della malattia implica meccanismi mentali complessi, che se narrati a parole non colpiscono in maniera immediata come un’immagine, e che quindi non fanno audience perché non attirano l’attenzione degli ebeti di turno.

A dimostrazione di ciò che sto scrivendo, pensate al fatto che le rare volte che in TV si parla di disturbi alimentari, viene spesso fuori l’anoressia, e molto più raramente la bulimia. Perché succede questo? Perché le televisioni mostrano immagini di ragazze con l’anoressia ma non quelle di persone con la bulimia? Ragazze, qui secondo me è perché si torna all’ “Effetto Biafra”. Il corpo di una ragazza con bulimia, per quel che ho potuto vedere conoscendo persone con questa patologia, è tutto sommato un corpo normopeso, che non colpisce. Viceversa, vedere l’immagine di una ragazza nel periodo peggiore dell’anoressia, quando è estremamente emaciata, genera un grosso impatto che incolla la gente al televisore. Ed è questo che ai mass-media importa, non la malattia in sé.

Allora, non raccontatemi cavolate sul fatto che poster come quello del NEDIC o quello di Oliviero Toscani hanno come finalità solo quella di far discutere dei DCA, perché mi sembra un po’ una presa per i fondelli.

A cosa diamine serve attirare l’attenzione sempre e solo sulla fisicità, sull’apparenza? Soltanto a confermare il falso luogo comune che i disturbi alimentari siano effettivamente malattie centrate unicamente sull’erroneo rapporto col cibo e col peso, e dunque che basti riacquisire un peso decente per essere guarite definitivamente. Ma tutta questa gente che si concentra solo sull’esteriorità, ha mai provato a permeare un po’ più sotto alla superficie? Oppure si ferma ad osservare un corpo emaciato, scavato, con un senso di fascino dell’orrido pari a quello che durante un incidente per strada ti fa fermare per vedere se qualcuno c’è rimasto secco?!

Nell’anoressia l’esteriorità è così peculiare che la stragrande maggioranza della gente si ferma lì. Guarda le ossa, le forme che spariscono, il volto tirato… che è esattamente quello che si guarda nella fotografia di Isabelle Caro. E, così facendo, non si va oltre.

Purtroppo è parte della natura umana il vedere qualcosa di palesemente anomalo, rimanere lì per qualche minuto a fissarlo con aria shockata, dopodiché voltare le spalle e continuare a pensare agli affari propri.

Con poster come quello di Oliviero Toscani e quello del NEDIC, a mio avviso, non si aiutano affatto le persone malate, ma si fanno soldi sfruttando la curiosità morbosa ma superficiale propria della natura umana e, alla fine, più che parlare della malattia si fa parlare di coloro che hanno realizzato simili poster.
Quest’impostazione, io la trovo completamente sbagliata. E mi stupisce il fatto che persino un ente come il NEDIC, che dovrebbe conoscere benissimo la problematica, si fermi a fare un poster del genere che ti fa solo cascare le p…braccia.

Voi cosa ne pensate del poster del NEDIC? Fatemelo sapere nei commenti, se vi va.

venerdì 11 ottobre 2013

Perchè non amo il mio corpo, e non penso sia importante il farlo

Amare il proprio corpo rappresenta una sorta di Sacro Graal per chi ha un DCA. Messaggi sull’importanza dell’imparare ad amare il proprio corpo bombardano le persone che hanno un disturbo alimentare da ogni dove. Amare il proprio corpo e la propria fisicità è visto sia come la chiave per prevenire l’insorgenza dei DCA, sia come un obiettivo di cruciale importanza da raggiungere per poter “guarire” dall’anoressia.

Adesso vi svelerò un segreto: Io sto percorrendo la strada del ricovero, e non amo il mio corpo.

Ecco. L’ho detto. Non amo il mio corpo e non mi piace la mia fisicità, ma ho comunque fatto grandi passi avanti sulla strada del ricovero, e ora come ora le cose mi stanno andando bene, grazie mille.

Io non ho mai avuto il desiderio di essere magra perché, banalmente, io sono sempre stata magra. La mia principale spinta verso l’anoressia è stata il bisogno di avere tutto sotto controllo. Io volevo avere il controllo assoluto. Su tutto. Su ogni singolo aspetto della mia vita. La cosa è partita da ambiti diversi dall’alimentazione e poi, in un formidabile colpo di coda, anche il versante alimentare è stato tirato dentro questo mio bisogno di programmare – e dunque controllare – ogni singolo secondo delle mie giornate.
Volevo “semplicemente” avere sotto controllo ogni singolo respiro della mia vita, e questo controllo ad un certo punto ha iniziato a passare anche attraverso il canale alimentare. L’obiettivo della mia restrizione, in effetti era proprio questo: elaborare una forma di controllo su quello che mangiavo. Il dimagrimento è stata l’ovvia conseguenza, ma non mi ha mai fatto particolarmente piacere, anzi, mi metteva a disagio, non avrei voluto (anche perché comprometteva le mie prestazioni sportive, e al tempo ero a buon livello), ma avevo bisogno del controllo, e se “il prezzo da pagare” era quello di perdere chili, allora andava bene tutto, allora accettavo il compromesso, pur di non abbandonare la sensazione di sicurezza e di forza che quel(l’illusorio) controllo mi faceva provare.

Ho sempre avuto quest’abnorme bisogno di sentire che avevo tutto sotto controllo. Per quanto, vista dall’esterno, la cosa possa sembrare (ed essere a tutti gli effetti) patologica, sul momento io me ne fregavo, perché non mi rendevo conto di quanto il mio bisogno di controllo fosse eccessivo. Non mi ponevo il problema, perché per me non era un problema.

Sebbene la parvenza di controllo che mi pareva di esercitare con l’anoressia mi abbia probabilmente aiutata a sedare delle ansie sottostanti, non mi sono mai curata particolarmente della mia fisicità. Sapevo di essere una ragazza magra, ma era una constatazione fine a se stessa. E anche quando sono entrata nell’anoressia, ero consapevole che stavo perdendo peso, ma anche questa era una considerazione fine a se stessa. Il mio cervello non registrava veramente la perdita di peso: io volevo sentire che avevo il controllo, non m’importava quale fosse il mio peso (difatti non mi sono mai pesata). Io mi sentivo in controllo, quindi non riuscivo a capire come mai le persone che mi circondavano fossero così preoccupate per me.

Mi arrivavano barlumi di consapevolezza sul fatto che avessi un problema (sebbene, certo, razionalmente sapessi benissimo che mi stavo alimentando in maniera insufficiente) quando per qualche motivo succedevano cose che sfuggivano alle mie pretese di controllo. Quando succedeva qualcosa che non avevo programmato, andavo veramente ai pazzi. E restringevo l’alimentazione come se, per contrappasso, questo tipo di controllo potesse andare a compensare quelle aree della mia vita (la vasta gamma dei cosiddetti “imprevisti”) in cui invece non potevo avere per definizione alcun controllo.

Quando sono stata ricoverata in una clinica per la prima volta (ero minorenne, ed è stato un ricovero coatto) ho veramente sclerato. Io non ero assolutamente pronta né consenziente, quindi ovviamente quel ricovero è stato un completo insuccesso. Mi sentivo dilaniata dal fatto che la mia routine fosse scandita dagli impegni organizzati dalla clinica, e che la mia alimentazione fosse gestita da un dietista: in questo modo non avevo più alcun controllo, e questo per me era intollerabile. Non potevo più controllare niente, e non potevo neanche alleviare l’ansia e la rabbia che da ciò mi derivavano restringendo l’alimentazione. È in questo periodo che è nato l’altro mio problema, quello dell’autolesionismo, che ho iniziato ad adottare come nuova strategia di coping, non potendo più ricorrere alla restrizione alimentare. Il mio corpo cambiava, e io non potevo sopportarlo, non per il peso in sé per sé, di quello me ne fregava poco e niente, come del resto sempre poco e niente me n’era fregato, bensì perché quei cambiamenti del mio corpo non li stavo decidendo io, non li stavo controllando io. Il riprendere peso lo vivevo come sinonimo del non avere più controllo, ed era questo che non riuscivo a sopportare: il fatto che qualcuno mi avesse strappato via il mio “amato” controllo. Non m’importava del peso in sé, ma mi spezzava la sensazione di non poter più controllare niente. Il mio corpo non mi piaceva semplicemente perché era la materiale dimostrazione del fatto che non esercitavo più il controllo.

Inutile aggiungere che quando ho terminato questo ricovero ho avuto immediatamente una ricaduta, eh?! Comunque il tempo è passato, io ho fatto altri ricoveri, stavolta per mia scelta, e a poco a poco, molto lentamente, le cose hanno iniziato a migliorare (anche se ho comunque avuto delle ulteriori ricadute). Nel momento in cui ho ricominciato ad alimentarmi regolarmente senza più restringere, a poco a poco la mia testa ha cominciato a funzionare meglio, e quindi anche quest’assoluta necessità di controllo (che era comunque rinforzata dalla restrizione alimentare in uno dei quei famosi serpenti che si mordono la coda) si è lentamente attenuata sempre di più.

Ma non se n’è mai andata. Non del tutto.

Eccomi qua, oggi, per lo più priva dei comportamenti alimentari tipici dell’anoressia (okay, ogni tanto mi capita ancora di fare la cresta a qualche pasto, lo ammetto, ma è un evento veramente occasionale), con un residuo e persistente certo bisogno di controllo, e tuttora non amo la mia fisicità. E con ciò?

Col tempo, ho imparato a far prevalere la razionalità sull’illogico bisogno di controllo, e sui suoi riflessi sulla mia fisicità. Sono più consapevole del fatto che è impossibile che io riesca a controllare ogni singolo aspetto della mia vita. So che quando mi trovo in difficoltà tendo sempre ad utilizzare la restrizione alimentare come surrogato di controllo, e so che questo non ha un senso logico. So anche che il mio peso o la mia fisicità non rispecchiano in alcun modo il controllo che riesco ad avere o meno sulla mia vita. E so che adesso che ho sostanzialmente raggiunto il mio set-point di peso corporeo, rimarrò più o meno qui, salvo un paio di chili in più o in meno come margine d’oscillazione. Evidentemente, il mio bisogno di controllo non ha niente a che fare con il mio corpo.

Inoltre, ho imparato a separare il mio bisogno di controllo sia dalla mia fisicità che dalla mia autostima. Come dicevo prima, al di là dell’anoressia, non ho mai prestato particolare interesse alla mia fisicità. Non mi sono mai giudicata per la mia apparenza esteriore. Mi sono sempre giudicata molto, molto di più per le mie capacità scolastiche e sportive, e cose di questo genere. Certo, l’anoressia ha cambiato qualcosa, nel senso che ho utilizzato la mia fisicità come marker della presenza o meno del controllo: fintanto che restringevo l’alimentazione, ero in controllo. Ma sono adesso consapevole che questo in realtà non esprime in alcun modo niente della persona che sono.

Da un punto di vista prettamente fisico, quello che cerco di fare è lavorare sull’accettazione del mio corpo. Non mi piace la mia fisicità, e non credo che debba necessariamente piacermi. Ma è necessario che io abbia un certo peso per riuscire a tener dietro a tutte le mie attività della vita quotidiana, e per riuscire ad avere una buona qualità della vita.

Ho parlato con la psicologa che mi segue relativamente a questa presunta necessità di amare il proprio corpo, e mi veniva da ridere al pensiero di dovermi mettere davanti ad uno specchio ripetendo mantra quali “Sono davvero sexy” e “Amo il mio corpo”. Non fa per me, inutile mentire a me stessa. Così, anziché lavorare sull’imparare ad amare il mio corpo, abbiamo iniziato a lavorare sull’accettazione. Sulla consapevolezza che non mi piace la mia fisicità, e probabilmente non mi piacerà mai, ma che devo imparare ad accettare un certo standard corporeo, anche se non rispecchia la mia idea di “dimostrazione di controllo”, perché è quello che mi permettere di vivere una vita degna, concentrandomi invece sulle cose che veramente rappresentano i miei punti di forza, e valorizzandoli.

E questo, pian piano, sta facendo la differenza. Il mio corpo non mi piace, e il bisogno di controllo è sempre lì, ma faccio quello che c’è bisogno di fare (mangio seguendo l’ “equilibrio alimentare” che mi ha prescritto la dietista, e non cedo all’impulso di restringere) e questo mi consente di dedicarmi a quelle cose (sport, lavoro, tirocinio post-laurea, amicizie…) che nella vita mi piacciono e m’interessano realmente. Anziché pensare che se non restringo l’alimentazione allora non ho il controllo della mia vita, penso che grazie al non essere così ossessiva nell’espletare il mio controllo e al non restringere l’alimentazione, posso reggere tranquillamente un turno di 12 ore (la notte, 20 – 8) in Pronto Soccorso senza rischiare di svenire da un momento all’altro. E il turno di notte in Pronto Soccorso è una vera meraviglia, ve lo assicuro.

Ho raggiunto una condizione ideale? Non lo so. Ma ho trovato un equilibrio. E da qui andrò avanti, in quest'equilibrio. Mi viene da dirlo in Inglese, con una frase rubata ad una canzone, ma che rende moltissimo: it works for me. Non ho bisogno di amare il mio corpo. Non ho bisogno di trovare gradevole la mia fisicità. È un’inezia, a fronte della persona che sono. Piuttosto che prendermela perché una parte del mio corpo non è come la vorrei, mi preoccupo per la mia capacità di essere un medico capace, una buona istruttrice ed arbitro imparziale di karate, una buona amica, una persona corretta, una persona in grado di realizzare i propri obiettivi nella vita.

Dunque no, non amo il mio corpo. E allora?

venerdì 4 ottobre 2013

Combattere contro l'anoressia: tips & tricks

Oggi ecco a voi uno dei grandi classici di questo blog, ovvero: consigli di auto-aiuto per combattere quotidianamente contro l’anoressia.

Sono piccole cose, ma possono essere utili. Assolutamente NON sostitutive alla psicoterapia, che è di fondamentale importanza nel trattamento dei DCA, ritengo possano comunque rappresentare una buona integrazione – nel loro piccolo – della stessa nel quotidiano.

Voglio proporvi soltanto delle idee estremamente semplici e d’immediata applicazione. E se poi avete qualche altro suggerimento da aggiungere alla lista, siete caldamente incoraggiate ad aggiungerlo nei commenti.  

Distogliete l’attenzione dal cibo/peso. Quando vi accorgete che state pensando al cibo/peso, fate virare immediatamente i vostri pensieri su altri lidi. Pensate a qualsiasi altra cosa, anche a quella apparentemente più sciocca, purché vi allontani dal pensiero originario.

Mangiate sempre seguendo l’ “equilibrio alimentare” che vi ha prescritto la vostra dietista. Al di là di quello che l’anoressia può farvi pensare, razionalizzate il fatto che il vostro schema alimentare è l’unica cosa giusta per gestire adeguatamente la vostra alimentazione.  

Evitate come la peste riviste o siti Internet che parlano di diete.  

Mettete per iscritto quali sono i traguardi che vi piacerebbe raggiungere mentre percorrete la strada del ricovero… ed immaginate come potreste fare a conseguirli.  

Quando vi trovate di fronte ad una difficoltà nell’alimentarvi, cercate di fare introspezione e di capire qual è in realtà il problema sottostante che vi spinge ad avere un comportamento alimentare errato. E una volta che avrete centrato il vero problema, elaborate possibili strategie per affrontarlo.

Quando sentire che il DCA sta prendendo il sopravvento, prendetevi il tempo di respirare a fondo e calmarvi. E poi fare la cosa giusta per non riadottare i comportamenti tipici del DCA stesso.

Trascorrete più tempo insieme ai vostri amici. Nelle ore in cui non sapete cosa fare, e che probabilmente verrebbero riempiti dai soliti pensieri dell’anoressia, uscite con i vostri amici.  

Provate a mangiare in compagnia dei vostri familiari o dei vostri amici: questo può sia aiutarvi ad essere più aderenti al vostro “equilibrio alimentare”, sia permettervi di distrarvi durante il pasto e non farlo pesare troppo.  

Circondatevi di persone che hanno una relazione sana con il cibo e con la fisicità. Evitate chi parla continuamente di diete, chi fa confronti fisici, chi vi spinge alla competizione.  

Quando vi viene qualche pensiero in testa, chiedetevi sempre: “Questo è un mio pensiero, o è un pensiero dell’anoressia?”. Se la risposta è che si tratta di un pensiero indotto dall’anoressia, contraddicetelo o ignoratelo. Non vale più la pena perdere tempo ad ascoltare quello che suggerisce il DCA. Non identificatevi nella malattia e nei suoi pensieri, perché voi non siete il vostro disturbo alimentare. Perché un DCA è un qualcosa che si HA, non un qualcosa che si E’.

Non isolatevi. La solitudine è il miglior terreno affinché l’anoressia possa attecchire.

Leggete e/o scrivete su dei Post-It che poi attaccherete alla pin-board della vostra cameretta, delle frasi positive e propositive. Più e più volte.

Ogni giorno fate almeno un gesto gentile nei confronti di voi stesse.

Cercate di capire quello che per voi può rappresentare un trigger perché vi tira verso il DCA, e tentate sempre di evitarlo.

Quando sentite che state attraversando un momento di particolare difficoltà e non ce la fate da sole, alzate il telefono e chiedete aiuto. Chiamate il vostro psicoterapeuta, un vostro familiare, un vostro amico… chiunque vi possa ascoltare, aiutare, supportare. Parlatene con qualcuno. Perché il sintomo più letale dell’anoressia è il silenzio.  

Avete qualche altro consiglio per combattere contro l’anoressia che vorreste aggiungere alla lista? Cosa vi è utile nella vostra battaglia quotidiana?
 
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