Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 26 settembre 2014

On the other side of the fence

On the other side of the fence. 2008 – 2014. Perché gli anni passano, ma le emozioni rimangono. E quelle sì che sono indelebili. Più provi a cancellarle, più ti restano dentro.
È la milionesima volta che provo a scrivere questo post: arrivo più o meno alla terza frase, poi cancello tutto perché mi sembra che non vada bene. Sto scoprendo che nel provare a raccontarvi quello che mi è successo la parte più difficile – una delle parti più difficili, per lo meno – non è tanto riuscire a metterci tutto, quanto mettere tutto al posto giusto.

Uno degli incarichi che i medici del 118 devono ricoprire è quello di fare assistenza medica alle gare sportive di ogni qualsiasi tipo. L’ultimo weekend mi è dunque capitato di essere assegnata come medico per la 7^ edizione del Rally di R. Questo è stato per me un incarico strano ed emozionante allo stesso tempo, dal momento che, prima di passare “dall’altra parte” e di prendere parte a questa gara in qualità di medico d’emergenza, vi avevo preso parte come pilota.

Il potente mezzo – Giugno 2008
(Questa foto è c/o i fotografi di IdeaImmagine (e potete trovarla anche sul loro sito), fotografi ufficiali del Rally di R., che realizzarono questa bellissima foto della “mia”* altrettanto bellissima auto durante la corsa.) 
*[“mia” tra le dovute virgolette, poiché in realtà l’auto era di proprietà del mio navigatore, io ne ero solo la pilota.] 

Il potente mezzo – Settembre 2014
E mi è venuto da pensare che questo mio “stare dall’altra parte” non vale solo per il Rally, ma anche per l’anoressia. Mentre stavo sull’ambulanza a guardare le automobili sfrecciare su strada, dicevo a me stessa: “Quest’anno sto dall’altra parte”, ed immediatamente il pensiero dell’anoressia mi si è piantato in testa. Ognuna di noi si sveglia ogni mattina e ce la mette tutta per affrontare la giornata che la attende e andare avanti, un giorno alla volta, un passo dopo l’altro… e questa successione di giorni si trasforma in una vita. Gli eventi accadono, le interazioni con gli altri si realizzano, si incontrano persone, si fanno esperienze, e il mondo continua a ruotare intorno al proprio asse. Poi un giorno ci si guarda indietro, e si capiscono tutte quelle cose che era impossibile comprendere nel momento in cui sono accadute.

“Adesso gira a sinistra!” 
“Quale delle due sinistre?” 
La bega di fare da navigatore ad una pilota ambidestra. 

Io sono sempre stata una fautrice dell’idea “se potessi tornare indietro cambierei”. Non sono una stoica, e non vedo perché dovrei esserlo. Io ho sempre detto che, se potessi tornare indietro nel tempo mantenendo però le consapevolezze attuali, non risceglierei mai la restrizione alimentare, per come mi ha devastato la vita. C’è chi dice invece che comunque rifarebbe anche l’esperienza del DCA perché, nonostante tutto il dolore arrecatole, se è diventata quella che è, è anche merito del fatto che ha vissuto questo tipo di esperienza, che ha contribuito a farla maturare sotto ogni punto di vista, e a renderla sotto certi aspetti una persona migliore, più empatica. Bene, tutto il rispetto per chi la pensa così, ma io sono sempre appartenuta all’altra fazione, ed ho sempre in fondo creduto che chi la pensava altrimenti volesse solo giustificare (ed autogiustificarsi) un proprio errore. Eppure, quest’esperienza del Rally vissuto sotto 2 differenti punti di vista, mi ha fatto capire che anche nell’altra posizione qualcosa di sottilmente vero c’è.

Rabbia. Tranquillità. Terrore. Coraggio. Dolore. Indifferenza. Vuoto. Ribellione. Felicità. Tristezza. Completezza. Lacerazione. Realtà. Simulazione. Forza. Volitività. Amicizia. Odio. Dietro una porta sbarrata ai ricordi che s’insinuano tra le fessure… si ritrovano tutti i sentimenti. 

Ho imparato a guidare quando avevo poco più di 15 anni. Sono andata avanti, a 18 anni ho preso ufficialmente la patente, ed ho scoperto la possibilità di fare la pilota nei rally. Non me la sono mai cavata male, ma non sono neanche mai salita sul gradino più alto del podio. Però mi piaceva quello che facevo, era bello correre. Neanche tanto arrivare: era proprio bello il correre in sé. Poi gli impegni col karate e con l’Università mi hanno portato a smettere di partecipare ai rally, ed io mi sono sentita come un uccellino cui avevano tarpato le ali. Eppure sono andata avanti.

Ho fatto per la prima volta il medico in una gara sportiva per un piccolo campionato di ciclismo locale. È stata la prima di tutta una serie di gare sportive di diverso tipo. Adesso ogni tanto vengo chiamata quando ce n’è bisogno, come al Rally di R. E guardo da spettatrice quelle corse cui avevo preso parte. Magari un po’ di rammarico c’è, a fronte di quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Eppure, sto andando avanti.

Quando avevo circa 14 – 15 anni, ho sviluppato un disturbo alimentare che i medici hanno definito come “Anoressia Nervosa – Sottotipo 1”. Sono andata avanti, sono passati anni, ho vissuto diversi ricoveri in clinica, ho perso anni di scuola, mi sono alimentata seguendo un “equilibrio alimentare”, ho fatto tanta psicoterapia, a tratti sono stata meglio e poi ho avuto delle ricadute e poi mi sono rialzata, e adesso sono arrivata fin qua. In remissione da circa 6 anni, tengo un blog di lotta contro l’anoressia, realizzo video su YouTube, scrivo frasi positive su Twitter, mi sono laureata, lavoro come arbitro ed istruttrice di karate nonché come medico, e cerco nel mio piccolo di supportare chiunque stia lottando contro il proprio DCA. Insomma, sono passata da una parte all’altra. E sto andando avanti.

“Tutti quelli che corrono in macchina sotto sotto cercano quella cosa lì.” 
“Quale cosa lì?” 
“Morire.” 
“Se pensassi al peggio dovrei smettere di correre.” 
(Eppure ho sempre corso come se non ci dovesse essere un domani.) 

Se tento di comprendere la mia vita a ritroso, non posso che sorridere di fronte alle realizzazioni che si sono presentate. Se penso ai momenti difficili, a quelli dolosi, a tutti i disagi, mi rendo conto che stavo percorrendo una strada che mi ha portata dritta fino ad oggi. Adesso riesco a vedere le opportunità che brillavano attraverso le avversità.

Se non avessi imparato a guidare in anticipo sui tempi, forse una volta 18enne non sarei mai stata capace di fare la pilota. Se non avessi studiato Medicina, forse non averi avuto la possibilità di lavorare per il 118. Se non mi fossi ammalata di anoressia – con tutto che mi ha devastato la vita, e che desidererei non ci fosse mai stata, e che se per assurdo potessi tornare indietro nel tempo la cancellerei dalla mia vita – forse il mio carattere non si sarebbe forgiato come ha fatto. Sono sempre andata avanti… e adesso, a ritroso, mi accorgo di ciò che sul momento mi era impossibile vedere.

Forse tutto quello che mi è successo, nel bene e nel male, ha il suo senso. E io devo solo viverlo per scoprirlo ed attribuirgli il mio significato. Forse c’è qualcosa che deve ancora succedere. Un giorno. In qualche modo. Dopo anni trascorsi da pilota, adesso ho un futuro da medico. Dopo anni di anoressia, adesso ho un futuro di remissione. Perché è possibile fondere passato e futuro. Dunque, magari arriverà ancora qualcosa di positivo. Suppongo che lo saprò solo vivendo.
P.S.= Chiedo scusa a tutti i miei amici, quelli attuali e quelli che avevo quando ero pilota: in un modo o nell’altro, vuoi correndo vuoi come medico, ho sottratto alle nostre vite un sacco di weekend per colpa dei rally. Ma ho sempre pensato di vincerlo insieme a voi, ragazzi, il rally della vita.

venerdì 12 settembre 2014

Sfuggire al cibo: Migliorare la qualità della vita nell'anoressia

Qualche tempo fa ho letto un articolo relativo ad uno studio mirato a valutare come evitare che le persone affette da anoressia da molti anni abbandonassero il proprio precorso terapeutico. In effetti questo è un problema spinoso nel campo dei DCA, perché l’abbandono della terapia è un grosso problema, tanto nella ricerca scientifica quanto nella pratica clinica. Che le persone affette da anoressia abbiano paura di chiedere aiuto, che pensino di non averne bisogno, od entrambe le cose, è sempre e comunque difficile convincere qualcuno a presentarsi presso l'ufficio di un terapeuta, settimana dopo settimana, apportare modifiche come mangiare di più e aumentare di peso, per non parlare dell’introspezione che è necessario fare e di quanto si può essere restie ad abbandonare comportamenti e convinzioni che, seppur patologiche, costituivano a loro modo un’efficace strategia di coping.

Personalmente, non ho avuto granché problemi da un punto di vista strettamente alimentare (visto, gente? Sto facendo qualcosa per contrastare l’anoressia!), ma per molto tempo non volevo avere niente a che fare con l’introspezione. Andavo in terapia, ma era una sorta di pro-forma: non avevo nessuna intenzione di abbandonare il controllo in ogni ambito della mia vita. E questo mi conduceva a frequenti ricadute nell’anoressia stessa.

Dunque, nonostante i colloqui psicoterapeutici, e le relative spese, la mia anoressia rimaneva radicata e io stagnavo nell’impasse. La mia qualità della vita non era un granché. Sì, studiavo e lavoravo, e questo era già qualcosa… ma mi fermavo lì. Facevo comunque una fatica bestiale con lo studio e con il lavoro, lo sport era limitato a quel poco che potevo permettermi, ero completamente isolata dagli altri, e la mia salute era comunque precaria. Tuttavia, ero determinata a lavorare su me stessa: ero convinta che se avessi risolto i miei veri problemi, sarei stata anche più motivata a combattere contro l’anoressia, perché sarebbe venuto meno il vero substrato che l’alimentava.

La psicologa che mi seguiva in quel periodo era basilarmente d’accordo con questa mia linea di pensiero, e la supportava. In particolare mi spronava ad allargare le mie conoscenze sia in ambito universitario che lavorativo, a stringere nuove amicizie, a frequentare nuovi ambienti. Frequentare nuove persone avrebbe potuto permettermi di rompere un po’ il mio rigido controllo, cosa che ovviamente non successe.

Tentai più volte di agire in maniera analoga, con risultati pressoché equivalenti. Quel genio di terapeuta allora mi disse che ero io che non ne volevo proprio sapere di abbandonare il controllo e di ammorbidirmi un po’ lasciandomi un po’ andare, e quindi non c’era nulla da fare.

Migliorare la propria qualità della vita credo sia l’obiettivo più grande e più importante da raggiungere per chiunque abbia un DCA, ma come riuscirci è materia di ampio dibattito, soprattutto per quel che concerne le persone che hanno un DCA da molti anni. Sebbene le persone abbiano lentamente accettato l’idea che ridurre i sintomi propri del DCA sia in effetti la prima linea di trattamento, non c’è altrettanta chiarezza per quanto riguarda i DCA di lunga durata. Spesso i terapeuti non sono granché ottimisti in merito alle donne che hanno un DCA da tanti anni, e allo stesso modo l’idea che queste donne possano migliorare la propria qualità della vita è vista come una sorta di utopia.  

Mettere il carro davanti ai buoi?

Nello studio di cui vi parlavo ad inizio post, i ricercatori specificavano che l’obiettivo non era quello di focalizzarsi sul peso guadagnato, ma piuttosto sulla qualità della vita. Ed in effetti, tramite questo loro studio hanno dimostrato alcuni piccoli miglioramenti della qualità della vita, e alcuni piccoli miglioramenti nei pensieri e nei comportamenti tipici del DCA. La domanda cui non hanno risposto, tuttavia, è: i miglioramenti della qualità della vita hanno portato a miglioramenti nei pensieri e nei comportamenti tipici del DCA? O viceversa? (La versione DCA di “è nato prima l’uovo o la gallina?”, insomma…)

Un nuovo studio pubblicato sull’ “International Journal of Eating Disorders” risponde proprio a questa domanda. Sebbene le pazienti implicate nello studio (ed affette da DCA da molti anni) non fossero particolarmente focalizzate sul cibo o sui cambiamenti comportamentali, quanto piuttosto sul miglioramento della qualità della vita, è emerso che miglioramenti nelle abitudini alimentari e recupero del proprio set-point di peso corporeo erano in effetti gli unici predittori di miglioramento della qualità della vita.

Brevemente, le partecipanti a questo studio erano donne di età compresa tra i 20 e i 62 anni, tutte affette da anoressia da almeno 7 anni. La maggior parte di queste donne non avevano figli, ed erano marcatamente sottopeso. Le partecipanti sono state valutate all’inizio del trattamento terapeutico, alla fine del trattamento, e 1 anno dopo la fine del trattamento. Sono state prese in considerazione le variazioni dei pensieri e dei comportamenti tipici del DCA, le ripercussioni fisiche ed emotive che il DCA aveva sulla loro vita, l’eventuale presenza di comorbidità, e la loro complessiva qualità della vita legata al DCA.

I ricercatori hanno scoperto che il peso influenzava significativamente la qualità della vita delle donne affette da anoressia: quelle che erano più vicine al proprio set-point avevano una qualità della vita migliore rispetto a quelle che ne erano più lontane. Sebbene le variazioni di peso non siano state particolarmente prese in considerazione in questo studio (come secondo me è giusto che sia, perché i DCA sono malattie mentali), esse sono comunque ovviamente avvenute nel corso del percorso terapeutico. Nel momento in cui i ricercatori sono andati a valutare quali fattori fossero implicati nel miglioramento della qualità della vita, ne hanno immediatamente riscontrati 2: ritorno del peso al proprio set-point e regressione dei pensieri e dei comportamenti tipici del DCA.

Gli autori concludono:  

“Queste scoperte ci suggeriscono che i miglioramenti [nella qualità della vita] sono associate – e forse interdipendenti – alla riduzione dei pensieri e dei comportamenti tipici del DCA, e al ripristino del corretto peso corporeo. […] I risultati di questo studio ci suggeriscono inoltre che dovrebbe essere posta più enfasi nel miglioramento della qualità della vita, soprattutto quando si parla di persone che soffrono di anoressia da molti anni, piuttosto che concentrarsi meramente sul peso o sui sintomi: poiché un miglioramento della qualità della vita può indirettamente determinare un miglioramento del peso e una riduzione di pensieri e comportamenti tipici dell’anoressia. Ovviamente dovranno essere condotti altri trials clinici per confermare questi risultati, ma se questi venissero effettivamente confermati, allora avremmo la certezza che il miglioramento della qualità della vita è strettamente correlato al ritorno al proprio set-point di peso corporeo, e all’allontanamento di pensieri e comportamenti tipici del DCA, e che dunque non si può avere un effettivo miglioramento della qualità della vita se si mantiene un peso lontano dal proprio set-point, e se non si fanno entrare nella vita altre cose che allontano i pensieri tipici dell’anoressia.”
(mia traduzione) 

Cosa significa tutto questo in merito al trattamento dei DCA? Convincere qualcuno che ha un DCA, soprattutto se è malato da molti anni, che deve cambiare la propria alimentazione e i propri comportamenti è dura*. Convincere qualcuno che ha un DCA, anche se da molti anni, che può comunque significativamente migliorare la propria qualità della vita è un po’ più semplice. In effetti, l’idea che avrei potuto, alla lunga, migliorare la mia qualità della vita, è proprio quello che mi ha spinto a non mollare nella mia lotta contro l’anoressia. Per chi ha un DCA da tanti anni, pertanto, potrebbe essere più semplice pensare di poter migliorare a piccoli passi la propria qualità della vita, piuttosto che stravolgere da un punto di vista strettamente comportamentale la propria routine (non me ne vogliano i fans della terapia cognitivo-comportamentale, ma per il trattamento dei DCA la trovo veramente inefficace).

Far sì che una persona si mantenga costante nel proprio percorso di ricovero è una vittoria. Perché quella contro l’anoressia è una lotta che dura una vita. Ma man mano che la qualità della vita migliora, tener testa all’anoressia diventa sempre meno faticoso. E così l’avere una migliore qualità della vita diventa l’obiettivo – e la vittoria – di chiunque abbia un DCA. Certo, siamo tutte persone diverse, perciò è normale che ognuna di noi possa aver bisogno di strade differenti su cui procedere per raggiungere il miglioramento della propria qualità della vita. Però, a prescindere dalle modalità, credo sia importante pensare a come la terapia di un DCA possa essere più efficace a fare sì che questo accada. Pur essendo ognuna fatta a proprio modo, la ricerca ci dimostra che indubbiamente per migliorare la qualità della vita bisogna spezzare l’isolamento in cui l’anoressia ci vincola, provare a conoscere persone e a fare cose, e focalizzarsi su quello che di bello può esserci nella nostra vita, piuttosto che limitarsi meramente a mangiare di più o a cercare meramente da un punto di vista comportamentale di abolire gli atteggiamenti ed i pensieri tipici dell’anoressia.  

*ove per “è dura” intendo “eufemismo del secolo”.  

P.S. = Vi ricordo il “P.S.” del post che ho scritto 2 settimane fa!... Aspetto le vostre infographics, non c’è nessuna fretta!  

P.P.S. = Venerdì 19 non potrò aggiornare il blog, per cui il prossimo post lo pubblicherò Venerdì 26 Settembre. Ci rileggiamo tra 2 settimane! Stay tuned, gals!

venerdì 5 settembre 2014

L'anoressia NON è una questione di peso

Sebbene il termine “anoressia nervosa” stereotipatamente rievochi immagini di adolescenti emaciate, DCA caratterizzati da restrizione alimentare o perdita di peso possono verificarsi – e di fatto si verificano – a qualsiasi peso. Tuttavia, proprio perché l’anoressia è stereotipatamente associata al sottopeso, i medici sono meno propensi a diagnosticarla in ragazze che sono normopeso o sovrappeso, anche se queste hanno tutti gli altri sintomi dell’anoressia.

Ovviamente, ciò crea un problema.

Innanzitutto, non vi è alcuna evidenza clinica che i DCAnas (DCA Non Altrimenti Specificati) – diagnosi che viene ascritta a coloro che non rispondono pienamente a tutti i criteri diagnostici per anoressia e bulimia – siano meno gravi o meno pericolosi della vera e propria anoressia. Come ho scritto in alcuni post precedenti, le persone malate di DCAnas hanno tassi di mortalità comparabili e analoghi livelli di psicopatologia di chi ha l’anoressia o la bulimia.

In uno studio del 2010, Rebecca Peebles ed i suoi colleghi hanno scoperto che “le adolescenti che perdono più del 25% del loro [precedente] peso, ma che sono comunque al di sopra del 90% del peso medio per la loro età, hanno perso una percentuale maggiore del peso corporeo e ad una velocità maggiore, se comparate ad adolescenti affette da anoressia nervosa che hanno un B.M.I. corrispondente ad una condizione di sottopeso”. Inoltre, molto importante, questo studio rivela che le adolescenti in questione sono molto più medicalmente compromesse delle pazienti che di partenza avevano un peso corporeo inferiore.

Analogamente, tra le donne adulte, è il delta della variazione di peso (cioè la differenza tra peso attuale e peso più elevato raggiunto) che “corrisponde ai sintomi più severi di anoressia nervosa, e ad una maggiore incidenza di comorbidità con binge, bulimia, depressione, ansia e anomalie mestruali” (Berner et al., 2013).

Da notare che, poiché i DCA in persone normopeso vengono diagnosticati meno frequentemente, o comunque considerati meno gravi, queste persone ne soffrono per un lasso di tempo maggiore prima di ricevere cure appropriate. Questo è particolarmente preoccupante perché la diagnosi precoce e una breve durata della fase acuta del DCA sono i migliori predittori di successo terapeutico e remissioni stabili e durature.

Partendo da queste considerazioni, Jocelyn Lebow e i suoi colleghi (Lebow et al., 2014) hanno deciso di esaminare la prevalenza di normopeso e sovrappeso in adolescenti e donne che hanno chiesto aiuto per un DCA di tipo restrittivo.

Per poterlo fare, hanno esaminato i dati clinici forniti da una clinica specializzata nel trattamento di DCA, ed inerenti tutte le pazienti che vi erano transitate nel giro di 6 anni. Hanno ovviamente escluso dalla ricerca le persone che erano state ricoverate per bulimia o binge (tutte colore che non avevano un regime alimentare prettamente restrittivo, insomma).

Escludendo quindi queste persone, i ricercatori hanno lavorato su 179 pazienti di età compresa tra i 10 e i 20 anni. E dunque, cos’è saltato fuori?

Risultati principali 

• Circa il 36% delle ragazze che erano state ricoverate per un comportamento alimentare di tipo prettamente restrittivo erano originariamente sovrappeso. [Mia considerazione collaterale: da notare che dunque circa BEN il 63% delle ragazze ricoverate in conseguenza della restrizione alimentare erano originariamente già normopeso o sottopeso!!]
• Circa la metà delle ragazze originariamente sovrappeso rispondeva completamente ai criteri diagnostici per l’anoressia, l’altra metà era ancora normopeso.
• Non c’erano differenze significative in termini di presenza di amenorrea (assenza di mestruazioni) tra le ragazze in oggetto di studio.

In media, se comparate con la media delle ragazze originariamente già normopeso o sottopeso, le pazienti originariamente sovrappeso:

• Avevano una più lunga storia di malattia prima di chiedere aiuto (20 mesi VS 11 mesi!)
• Avevano perso in valore assoluto più peso rispetto alle altre (un delta di di B.M.I. di 5,4 VS un delta di B.M.I. di 3,6!)
• Avevano la medesima quantità di sintomi fisici
• Avevano la medesima tipologia di sintomi psicologici

E’ importante osservare che, dal momento che questo studio è stato basato su cartelle cliniche di pazienti ricoverate, i dati ottenuti sottostimano la reale incidenza di DCA restrittivi, poiché non considerano tutte quelle persone che vengono seguite ambulatorialmente, e non fanno mai un ricovero in clinica. Inoltre, poiché alle pazienti veniva chiesto di riferire a proposito del peso più alto che avessero mai raggiunto e dei sintomi presentati, non si può avere le certezza che le risposte siano state del tutto e sempre sincere.

In breve, da questo studio si evince che di tutte le persone che chiedono aiuto per un DCA caratterizzato da comportamento alimentare restrittivo, solo circa il 36% era effettivamente sovrappeso originariamente. Anche se queste persone originariamente sovrappeso, al momento della richiesta di aiuto, avevano raggiunto il normopeso, ed erano quindi all’apparenza fisicamente “normali”, presentavano comunque sintomi fisici (per esempio: astenia, intolleranza al freddo, problemi dentali, stipsi, osteoporosi, bradicardia, capelli fragili, lanugo, etc…) e psichici analoghi a quelli delle ragazze sottopeso rispetto al range del B.M.I. o palesemente emaciate.

Implicazioni cliniche 

Come gli autori affermano:

Queste scoperte sottolineano il pericolo di fare una diagnosi di anoressia nervosa basandola principalmente sul peso corporeo, e l’importanza di considerare invece i sintomi fisici e psichici, piuttosto che il peso, come indicatori dello stato di salute di una persona. […] I medici dovrebbero essere capaci di riconoscere una persona affetta da anoressia nervosa a prescindere dal suo B.M.I. […] Eliminando il falso luogo comune che il sovrappeso o il normopeso non possono essere associati ad un DCA prettamente restrittivo come l’anoressia, i medici potrebbero cominciare ad incrementare le diagnosi precoci di DCA nelle pazienti di qualsiasi peso corporeo, senza commettere l’errore di minimizzare il sostanziale impatto negativo sotto ogni punto di vista di questi DCA in pazienti che hanno un peso che pare essere salutare.
(mia traduzione) 

Fortunatamente, pare che nell’ultima edizione del DSM-V sia stato eliminato il criterio del peso in termini assoluti, considerando invece il delta, ovvero l’entità complessiva della perdita di peso. In ogni caso, solo il tempo potrà dirci se queste variazioni potranno permettere di riconoscere meglio DCA restrittivi in pazienti che non risultano essere sottopeso secondo il B.M.I.

Non è peraltro chiaro (almeno, per me non lo è) come i medici potranno applicare queste nuove linee guida (e, peraltro, quanti di loro ne conoscono l’esistenza?). Io credo che un miglioramento della capacità di riconoscere l’anoressia anche in persone non sottopeso non dipenda semplicemente da un aggiornamento delle linee-guida sui DCA, ma soprattutto dalla capacità dei medici di ampliare la loro comprensione di queste malattie e delle persone affette da queste malattie… nonché dal cambiamento della percezione da parte della gente in generale dell’anoressia, cancellando lo stereotipo della falsa equazione che magrezza = anoressia. L’anoressia è una malattia mentale: ergo, se la matrice psicologica è presente, la malattia è tale a qualsiasi peso corporeo.

P.S. = Vi ricordo il "P.S." del post precedente, e ne approfitto per ringraziare le ragazze che hanno già contribuito!... Grazie mille!
 
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