Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.
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venerdì 27 settembre 2013

Il trauma di avere un DCA

Pochi giorni fa, una lettrice di questo blog (che preferisce rimanere anonima) che mi ha dato il permesso di scrivere questo post utilizzando una parte di una e-mail che mi ha scritto, mi ha raccontato di un incubo ricorrente che la perseguita da alcune settimane. Riprendendo dunque quel che mi ha scritto:  

“[…] in sostanza sogno di essere ritornata al punto di partenza. Non succedono chissà quali disgrazie, chissà quali tragedie, ma provo una fortissima ansia poichè in questo sogno ci sono io che sono ricoverata nel reparto di psichiatria dell’ospedale della mia città, laddove ho svolto il mio primo ricovero. Ho toccato il fondo di nuovo. Ho avuto una ricaduta, anche se non saprei dire come o perché. So solo che mi sogno di nuovo in quella camera d’ospedale, con il personale che mi dice cosa, quando e quanto mangiare, che mi segue se vado in bagno, che si accerta costantemente che non faccia movimento, che dice a me, donna ventiseienne, quando andare a letto. Sempre lo stesso incubo, notte dopo notte. Mi sento intrappolata in quell’ospedale, completamente priva di speranza, e poi mi sveglio in preda all’ansia. Mi dovrei preoccupare? […]”

Un disturbo alimentare generalmente non viene considerato un Trauma-con-la-T-maiuscola. Perché è comunque in qualcosa cui possiamo opporci, contro cui possiamo combattere, che possiamo allontanare sempre un po’ di più dalle nostre vite, in funzione della nostra volontà, con adeguato supporto terapeutico. Dunque un DCA non rappresenta un trauma nel senso canonico del termine. Eppure, a suo modo, io credo che lo sia. No, non genera un disturbo post-traumatico da stress (DPTS), questo è vero, ma ciò non significa che una persona con un DCA non stia vivendo comunque un’esperienza traumatica.

Se cercate su Internet qualsiasi cosa metta in relazione l’anoressia/la bulimia con i traumatismi, vedrete che tutta la letteratura si concentra sul DPTS e sugli eventi traumatici che possono aver rappresentato la matrice di un DCA. Questa correlazione può essere assolutamente vera, e vale la pena che vengano condotti studi al riguardo, ma tutto ciò non risponde ad una domanda: quanto i DCA stessi possono essere considerati un evento traumatico?

Una persona che viene ricoverata o seguita ambulatorialmente deve mangiare quando non vorrebbe farlo, e mangiare alimenti che non vorrebbe assumere. Viene violato il suo bisogno di controllo assoluto. Ci sono medici pronti a pesarla, valutarla, rivoltarla come un calzino. Ci sono i ricoveri in ospedali o cliniche, ci sono i millemila commenti da parte di genitori, parenti, amici, colleghi, e completi estranei. C’è la perdita di anni di scuola o di lavoro, la perdita della possibilità di fare sport. La perdita di amicizie. E così via. Per alcune persone tutto questo rappresenta un Trauma-con-la-T-maiuscola, che conseguentemente genera un DPTS. Per altre persone, questo è soltanto un trauma-con-la-t-minuscola. Si trovano in difficoltà sul momento, ma non ne risentono particolarmente a lungo termine.

E questo non vale solo per chi vive l’esperienza dell’anoressia/bulimia, ma anche per i familiari: mi è capitato di parlare con i genitori di ragazze con un DCA, ed è venuto fuori che diversi di loro presentavano un DPTS in conseguenza del timore che avevano avuto di perdere le loro figlie, delle lotte quotidiane contro il loro rifiuto di alimentarsi adeguatamente, delle difficoltà della psicoterapia familiare.

Uno psichiatra, Mark Epstein, ha pubblicato un articolo sul “New York Times”relativo al “Trauma del sopravvissuto”.  

“Mentre noi siamo avvezzi a pensare ai traumatismi come inevitabile conseguenza di grandi sconvolgimenti,” scrive lo psichiatra “la vita quotidiana è piena di infiniti piccoli traumi. Le cose si rompono. Le persone possono ferire. Le zecche provocano la malattia di Lyme. Gli animali domestici scappano. Gli amici si ammalano, e talora possono anche morire.

Un trauma non è semplicemente il risultato di una serie di tragedie e disastri. Non colpisce solo una ristretta gamma di persone. Una corrente sotterranea di piccoli traumi è presente nella vita di tutti i giorni, e questi colpiscono in maniera subdola ma s’impregnano a fondo nelle persone. Mi piace dire che se non stiamo tutti soffrendo di un disturbo da stress post-traumatico, allora stiamo soffrendo di un disturbo da stress pre-traumatico. È impossibile vivere senza avere la consapevolezza di tutti i potenziali disastri. In un modo o nell’altro, la morte (o i suoi parenti: l’anzianità, la malattia, gli incidenti, le perdite, le separazioni…) incombe su tutti noi. Nessuno ne è immune. Il nostro mondo è instabile e imprevedibile, e funziona – in larga misura e nonostante l’incredibile progresso scientifico – senza che noi abbiamo alcuna possibilità di controllarlo.”
(mia traduzione) 

Capire che un DCA in sè per sè può essere un trauma, è un qualcosa che può richiedere anni. Perché non sembra un qualcosa di così grosso da poter essere definito, ipso fasto, traumatico. Certo, avere un DCA può essere apparentemente meno terribile rispetto ad altre esperienze (come per esempio la perdita di una persona cara), ma questo non significa che non lasci cicatrici.

Avere l’anoressia/la bulimia e vivere un ricovero, e dover combattere giorno dopo giorno è, a suo modo, profondamente traumatizzante, e non c’è poi granché altro da aggiungere. Non è un trauma come quelli che ci sono stati inculcati essere tali (stupro, violenza, abuso, perdita…), per cui tendiamo a non configurarlo come tale. Ma resta il fatto che, come l’e-mail che ho ricevuto da parte di questa ragazza conferma, alcune persone che pure sono ad un buon punto nella loro strada del ricovero dall’anoressia/bulimia, hanno comunque delle memorie traumatiche. È un qualcosa di reale, e le persone che lo vivono necessitano di aiuto esattamente come chi ha vissuto ogni qualsiasi altro tipo di traumatismo.

venerdì 16 dicembre 2011

Trauma e ricovero

Vorrei condividere con voi un discorso che ho letto in un mio libro universitario e che penso racchiuda grandi verità:

“Dopo un trauma, il corpo raggiunge la sua massima vulnerabilità. La tempestività dell’intervento è fondamentale: occorre immediatamente l’operato di medici, infermieri, specialisti, tecnici. L’intervento chirurgico è uno sport di squadra, tutti corrono per tagliare il medesimo traguardo, per guarire il paziente. Ma lo stesso intervento chirurgico è, di per sé, un trauma; e soltanto quando è terminato inizia realmente il processo di guarigione. È quel che viene propriamente definito ricovero”.

Leggendo questa frase, ecco ciò che ho pensato:
Il ricovero dall’anoressia non è uno sport di squadra. È una solitaria corsa di fondo. È lunga, maledettamente faticosa, estenuante, ed estremamente solitaria.

La lunghezza della strada del ricovero è determinata dall’estensione delle nostre ferrite interiori, e non si conclude sempre in un successo. Non conta quanto duramente possiamo lavorarci su, ci sono delle ferite che non si rimargineranno mai completamente. Dobbiamo perciò abituarci a un nuovo modo di vivere: è questo il percorrere la strada del ricovero. E man mano che si va avanti, ci si accorge che si cambia così radicalmente da non poter più tornare al punto di partenza. Talvolta, confrontando quello che siamo con quello che eravamo, si può arrivare persino a non riconoscersi. Perché un processo di ricovero ci cambia. E si diventa delle persone completamente nuove… con la possibilità di costruirci una vita totalmente nuova.

Ecco, io credo sia così.
Molto spesso si sente parlare del legame tra un trauma subìto durante la vita (prese in giro, divorzio dei genitori, morte di una persona cara, violenze, rapporti sbagliati coi genitori, etc…) e lo sviluppo di un DCA, più raro (ma secondo me più realistico ed importante) è il sentir parlare del DCA in qualità di trauma stesso. Certo, non sarà traumatico nello stesso modo in cui può esserlo uno stupro, ma è comunque estremamente traumatico. Un DCA distrugge l’autostima, le sicurezze, la fiducia, gli interessi, gli affetti… distrugge la vita. Il ricovero obbliga ad affrontare le proprie ferite. E questa è la cosa più terrorizzante. E non è un qualcosa da cui si può uscire senza essere cambiate interiormente.

Certamente ognuna di noi ha un background che non può essere cancellato né cambiato, per quanto possiamo provarci. Ma abbiamo comunque la possibilità e la capacità di guardare a quello che è stato in maniera costruttiva, per rimetterci in piedi ed andare avanti costruendo qualcosa di nuovo e di diverso. È difficile trovare un equilibrio tra la nostra naturale tendenza a rimpiangere quello che è stato quando eravamo nel pieno dell’anoressia, e l’impiegare le nostre energie per trovare quanto di positivo può esserci al di là dell’anoressia stessa; anche perché si ha paura che quello che ci aspetta al termine della strada del ricovero sia uguale a ciò da cui avevamo cercato di fuggire scegliendo l’anoressia, e che quindi, alla fine, la nostra vita si riveli solo e soltanto un colossale disastro… ma, allo stesso tempo, bisogna avere la consapevolezza che, per quanto duro, dopo un trauma è sempre necessario un ricovero per ricominciare a vivere.


P.S.= Venerdì prossimo pubblicherò un post con un po' di consigli su come soprav/vivere i/a-l Natale... Stay tuned, gals!
 
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