Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.
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venerdì 14 novembre 2014

R: Cosa si cerca con l'anoressia + varie & eventuali

Il post di oggi prende spunto da un commento che mi ha lasciato ButterflyAnna nel post di Venerdì scorso. Volevo risponderle direttamente nel format dei commenti come generalmente faccio con chiunque scriva su questo blog, ma poi mi sono resa conto che ne sarebbe venuto fuori un mezzo poema, quindi ho deciso di trasformarlo in un post… anche perché tratta la quantomai controversa tematica del peso inteso come parametro di malattia/guarigione dall’anoressia, che è inevitabilmente oggetto di innumerevoli discussioni, per cui colgo la palla al balzo per dire la mia e condividere con voi la mia esperienza.

Nel suo commento, ButterflyAnna scrive: “sfido chiunque di voi a dire che all'inizio di questa malattia non avete pensato che perdere chili su chili e non mangiare fosse la cosa più giusta del mondo […] era solo voler dimagrire e voler restringere a tutti i costi […]Perché il pensiero era quello e i comportamenti erano quelli di una ragazza che voleva diventare sempre più magra a ogni costo […]Poi a quei 36 chili ci sono arrivata e non mi hanno portato felicità solo a quel punto ho capito di essere malata”.

In rigoroso ordine random, partiamo da valle per arrivare a monte.

Io credo che la fisicità non sia un parametro poi così strettamente attendibile per valutare la “malattia”/“guarigione” da un DCA. Anche perché sono dell’idea che ciò che rende una persona affetta da anoressia non è il peso ma i pensieri, cioè il pattern mentale – essendo l’anoressia malattia mentale per psichiatrica definizione. Per cui, come ho già scritto altrove, ritengo che una persona possa essere malata di anoressia anche se pesa 150 Kg, se la sua forma mentis è quella propria dell’anoressia, perché è il quadro mentale che connota l’anoressia, non la fisicità.

È ovvio, e lo capisce anche un bambino, che ci sono certi livelli di sottopeso che per forza non sono compatibili con la salute. Riprendendo l’esperienza raccontata da ButterflyAnna, è palese che una donna che pesa 36 Kg (a meno che non sia alta un metro e un cavolo) non può essere in salute e deve recuperare, su questo credo non ci sia neanche da discutere.

Per il resto, il termine “sottopeso” (come il termine “sovrappeso”, del resto) è molto generico, e pertanto di pressoché impossibile applicazione su vasta scala, data l’estrema soggettività di ognuna di noi. Quello che andrebbe considerato – e che sarebbe in effetti scientificamente corretto considerare, come dimostrano diversi studi recentemente condotti – è il Set-Point di peso corporeo fisiologico, che è un qualcosa di individualizzato per ciascuna di noi, e non risponde propriamente al canonico concetto di “normopeso secondo il B.M.I.” (sebbene sia vero che molte persone hanno un proprio Set-Point che corrisponde ad un valore di B.M.I. compreso nel range del normopeso). Il Set-Point è una sorta di “termostato del peso corporeo” che viene geneticamente determinato, ed è regolato per essere mantenuto intorno ad un punto fisso da complessi meccanismi di feedback (omeostasi). Questi meccanismi di equilibrio tendono a mantenere il valore di peso preimpostato dal Set-Point relativamente costante.
Il peso ovviamente sballa di molto quando, con un DCA, ci alimentiamo in maniera del tutto anomala e pieghiamo l’organismo alterando il metabolismo e dunque perdendo/prendendo peso. Tuttavia, poiché il Set-Point di peso corporeo fisiologico è appunto geneticamente determinato, nel momento in cui si riprende ad alimentarci regolarmente e correttamente, dopo il tempo necessario al metabolismo per riattivarsi e ricominciare a lavorare a regime, il nostro organismo tenderà a riportare il peso ai valori originari.

E questo giusto per chiarire da un punto di vista prettamente medico i discorsi sul sottopeso/sovrappeso.

Per quanto riguarda il concetto di “guarigione”, purtroppo è vero che molte persone che non hanno vissuto un DCA sulla propria pelle si fermano all’esteriorità, che è l’unica cosa che riescono a vedere e quindi a concepire, e pensano che il peso corporeo sia l’unico parametro che possa decretare lo stato di “guarigione” o meno di una persona. Ovviamente chiunque abbia avuto/abbia un DCA credo sappia bene che non è semplicemente così che stanno le cose.

Io penso che si dovrebbe focalizzare un po’ meno l’attenzione sul peso, e concentrarla maggiormente sulla qualità della vita. Quando si parla di “qualità della vita”, infatti, si fa contemporaneamente riferimento sia al campo fisico che a quello psicologico: è indubbio che non si possa avere una buona qualità della vita con un corpo fisicamente non in salute (vuoi per il sottopeso eccessivo in chi è affetta da anoressia, vuoi per i danni prodotti dalle condotte di compensazione in chi è affetta da bulimia, vuoi per le abbuffate in chi soffre di binge, vuoi per l’alimentazione altalenante in chi ha un DCAnas, etc…), e allo stesso tempo è indubbio che non si possa avere una buona qualità della vita con una mentalità pervasa dal DCA... perché tanto più esso è presente nella nostra testa, tanto più si perde in vita sociale, lavoro, studio, sport, e tutte quelle cose che rendono la nostra vita appunto una vita di qualità.

Ergo, secondo me è la qualità della vita che va a valutare quanto una persona sia “guarita” o meno da un DCA, compendiando sia gli aspetti fisici che quelli mentali… ammesso e non concesso che per malattie come i DCA si possa parlare di “guarigione”. Io infatti preferisco il termine “remissione” e sottolineo che, personalmente, non sono “guarita” dall’anoressia nel senso canonico del termine, perché mi capita tuttora di avere talvolta dei pensieri, che però riconosco come malati, e dunque non agisco. So che ci sono, ma li lascio lì, confinati in quell’angolino della mia testa, e non mi condizionano più nè comportamentalmente né mentalmente. È proprio per questo che ormai fortunatamente da diversi anni sto vivendo una remissione della malattia.

Tornando invece a monte, e dunque facendo riferimento alla prima parte del commento di ButterflyAnna, premetto che: quello che sto per scrivere fa parte della mia esperienza personale, ergo non ha alcun valore a carattere generale. Ciò significa che probabilmente alcune di voi si rispecchieranno comunque in ciò che scrivo, ed altre no. In ogni caso, nessuna pretesa di verità assoluta: semplicemente quello che ho vissuto io, e dunque la MIA personale verità, più o meno estendibile agli altri.

Nelle parole di ButterflyAnna, io NON mi ritrovo PER NIENTE.

Se vogliamo considerare il B.M.I. come riferimento, allora è tutta la vita che io sono “sottopeso”. Giusto per dire, se vogliamo considerare il B.M.I. come riferimento, allora tutti i membri della mia famiglia sono “sottopeso” da tutta la vita (eppure nessuno di loro ha un DCA). Sono sempre stata magra (e bassa) credo semplicemente perché, geneticamente, provengo da una famiglia in cui siamo tutti magri (e bassi): se di “sottopeso” vogliamo parlare, è un “sottopeso” del tutto fisiologico, che ci caratterizza tutti quanti. Poi, personalmente, con l’anoressia, ho ovviamente trasceso ogni limite di peso e sono arrivata ad una magrezza assolutamente patologica e del tutto incompatibile con la salute. Tuttavia attualmente, grazie all’aiuto della dietista che tuttora mi segue, ho recuperato il mio Set-Point di peso fisiologico, sto pertanto seguendo un “equilibrio alimentare” mirato proprio al mantenimento di questo peso e naturalmente all’evitamento della riadozione di comportamenti alimentari restrittivi e, salvo i danni permanenti che l’anoressia ha prodotto al mio corpo e che purtroppo mi dovrò portare dietro vita natural durante (mi riferisco a osteopenia e infertilità), sono perfettamente in salute e posso senza alcun problema fare sport, lavorare come istruttrice ed arbitro di karate, lavorare come medico, e se mi avanza un po’ di tempo nelle mie incasinatissime giornate anche prendermi un attimo di pausa per dedicarmi alle cose che mi piacciono come per esempio leggere e disegnare.

Essere perfettamente in salute da un punto di vista prettamente fisico non significa appunto, come dicevo, essere del tutto “guarita” dall’anoressia, perché se così fosse immagino che certi pensieri non mi passerebbero più neanche per l’anticamera del cervello. Ma significa che attualmente ho un corpo in salute e del tutto funzionale che mi permette di vivere a 360°, e che mi ha consentito di tornare ad avere un’ottima qualità della vita.

Io non ho mai avuto dunque il desiderio di essere magra poiché, banalmente, sono sempre stata magra.
Per quanto attiene la mia personale esperienza, il bisogno di controllo è stato il punto focale di tutto il disturbo alimentare. Io volevo avere il controllo assoluto. Su tutto. Su ogni singolo aspetto della mia vita. La cosa è partita da ambiti diversi dall’alimentazione e poi, in un formidabile colpo di coda, anche il versante alimentare è stato tirato dentro questo mio bisogno di programmare – e dunque controllare – ogni singolo secondo delle mie giornate.
Volevo “semplicemente” avere sotto controllo ogni singolo respiro della mia vita, e questo controllo che già mettevo in atto su altre cose, ad un certo punto ha iniziato a passare anche attraverso il canale alimentare. L’obiettivo della mia restrizione, in effetti era proprio questo: elaborare una forma di controllo su quello che mangiavo. Il dimagrimento è stata l’ovvia conseguenza, ma non mi ha mai fatto piacere, anzi, mi metteva a disagio, non avrei voluto (anche perché comprometteva le mie prestazioni sportive, e al tempo facevo agonismo ed ero a buon livello), ma avevo bisogno del controllo, e se “il prezzo da pagare” era quello di perdere chili, allora andava bene tutto, allora accettavo il compromesso, pur di non abbandonare la sensazione di sicurezza e di forza che quel (l’illusorio) controllo mi faceva provare.
Non ho mai avuto, dunque, l’obiettivo di restringere l’alimentazione per dimagrire (difatti non mi sono mai pesata, neanche nella fase più acuta dell’anoressia, proprio perché del peso in sé non me ne poteva fregare di meno, né ho mai contato le calorie o cose del genere), il mio unico pensiero era incentrato sul desiderio di avere il controllo su tutto. Ogni altra cosa era mera conseguenza.
Mai voluto diventare più magra… ma sempre voluto esercitare un controllo sempre più totale.
Salvo poi rendermi conto, ovviamente, che quell’anoressia che credevo di controllare, era proprio ciò che mi controllava in misura spietata.

venerdì 11 luglio 2014

Il vuoto

Per molto tempo la restrizione alimentare ha rappresentato per me una sorta di “ancora di salvezza”. Rappresentava la mia forma di immunità ad ogni qualsiasi problema e difficoltà della vita. Era un po’ come se pensassi: finché riesco a restringere l’alimentazione ho la manifestazione tangibile che ho il controllo, e se ho il controllo su tutto, niente può andare storto. Non importava quanto le cose potessero andare effettivamente storte, quanto la mia vita potesse essere un completo casino, l’idea che sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo, era un mantra, una lampadina costantemente accesa nella mia testa.

Ho perso il treno e arriverò all’Università con un’ora di ritardo, e mi perderò una lezione importante ai fini dell’esame? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Quel colloquio di lavoro non è andato granché bene? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Ho avuto da ridire con quel professore che un domani mi farà l’esame di Cardiologia? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Mi sento la più inetta tra tutti i miei colleghi? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Ho litigato con il mio migliore amico? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Non mi sono classificata prima in quella gara di karate? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

Non ho raggiunto l’obiettivo che mi ero prefissa? sì, ma tanto sto restringendo l’alimentazione quindi ho il controllo 

… e così via.

E poi sono arrivata a constatare un ineluttabile dato di fatto.

In nessun modo la mia restrizione alimentare e la mia sensazione di avere il controllo su tutto potevano attenuare le conseguenze dei miei errori e le cavolate che facevo nella mia vita, essi funzionavano soltanto come una sorta di auto-affermazione – una specie di salvaguardia contro il crollo della mia autostima.

E l’errore che compiamo tutte noi quando ragioniamo in questo modo (perché sono del tutto certa di non essere l’unica a ragionare così) è che attribuiamo la nostra identità e il nostro valore ad una para mentale, anziché concentrarci su quelle che sono le nostre vere abilità, delle quali potremo essere, a ragione, orgogliose, come per esempio la nostra bravura in Matematica, nel lavoro, nello sport, nel cantare, nel disegnare, o in qualsiasi altra cosa.

Ed è proprio in questo che risiede il problema: perdonate il francesismo, ma A NESSUNO FREGA UN CAZZO DEL FATTO CHE RESTRINGIAMO L’ALIMENTAZIONE E QUINDI ABBIAMO IL CONTROLLO.

Il restringere l’alimentazione ergo l’avere la sensazione di essere in controllo non ci rende in alcun modo persone migliori né tantomeno persone speciali o più interessanti. Ciò non arricchisce in alcun modo la nostra vita. In effetti, paradossalmente, il restringere l’alimentazione, pur facendoci sul momento percepire un’illusoria sensazione di controllo, alla lunga dà così tanti problemi che non mi basterebbero i prossimi 50 post per elencarli tutti.

Perché, alla fine della fiera, tutto quello che l’anoressia lascia dentro è il vuoto. Quel senso di vuoto che si pianta in testa e rimane sempre lì, preciso identico.
Perché il vuoto che deriva dall’anoressia è vuoto vero, ed è una cosa tremenda.
Il vuoto vero non è il niente. Il niente è troppo poco.

Per dirvi, ecco due scene.

Uno: Vai in gita scolastica, arrivi in una camera d’albergo e apri un cassetto di un armadio per metterci la tua roba. Il cassetto è vuoto, e cominci ad infilarci mutande, magliette, calzini.

Due: Torni a casa tua, nel cassetto più basso dell’armadio tieni tutti i soldi che hai, nascosti in una scatola da scarpe. Ti pieghi, lo apri, il cassetto è vuoto.

Ecco, questi sono due cassetti, e tutti e due sono vuoti.
Ma sono la stessa cosa?
Non penso proprio.

Perché il vuoto vero non è il niente, ma il niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa. Qualcosa di importante, che c’è sempre stato, poi a un certo punto guardi e ti accorgi che quella cosa non c’è più.

Ecco, questo è il vuoto. Non l'assenza, la mancanza.

E questa è l’anoressia.

venerdì 7 febbraio 2014

Dalla parte delle pazienti difficili

Quando ho affrontato il mio primo ricovero in una clinica specializzata per il trattamento di DCA, sono stata una vera bega per tutti: in parole povere, una rompicoglioni. Non lo dico né con vergogna e rimprovero, né con orgoglio. Ero una rompicoglioni, è semplicemente un dato di fatto. Ero ancora minorenne, e il ricovero era stato coatto, per cui io non ero assolutamente consenziente né collaborativa: non rispettavo l’ “equilibrio alimentare” che mi era stato assegnato, rispondevo in maniera maleducata ai terapeuti, facevo scherzi alla “Pranked” alle altre ragazze ricoverate, stavo sempre zitta durante la terapia di gruppo e mostravo palese disinteresse, prendevo per il culo tutti, non rispettavo le regole. Ero arrogante e strafottente. Ero convinta che avrei potuto farcela da sola a tenere testa all’anoressia, pensavo che un’alimentazione corretta fosse solo una secondarietà rispetto al trattamento psicoterapico, ho sempre tenuto un atteggiamento sgradevole e sgarbato, ero noncurante rispetto ai danni fisici dell’anoressia, e mi sentivo una straganza solo perché tra tutte le ragazze ricoverate in quel momento ero l’unica con una diagnosi di “Anoressia nervosa Sottotipo 1”, cioè prettamente restrittiva, senza mai uno sgarro, senza mai un’incrinatura al mio rigido ed egosintonico controllo.

Appunto, ero una rompicoglioni.

Ripensandoci adesso, mi dispiace di essermi comportata così nei confronti del personale della clinica, e delle altre ragazze ricoverate. Non lo meritavano. Ostentavo una gran sicurezza e sembravo la più forte e la più tosta di tutti, solo per celare il fatto che in realtà ero terrorizzata. Ero terrorizzata da tutto quanto. Mi faceva più paura l’idea di poter non avere più l’anoressia, che tutti i danni che mi procurava l’anoressia stessa. Oscillavo tra momenti in cui razionalmente riconoscevo la necessità di combattere contro l’anoressia e la consapevolezza di non poterlo fare da sola, e momenti in cui pensavo che andava bene così e che non avevo bisogno di niente e nessuno. Gli psicoterapeuti, i dietisti, le infermiere, tutto il personale della clinica, e le altre ragazze ricoverate sono rimaste prese in mezzo ad una mia guerra che era prettamente interiore. Un dietista e uno psicologo competenti ed intelligenti non la prendevano sul personale, e cercavano di tener testa alle mie stronzate. Tutti gli altri, invece, o se la sono presa perché non rientravo negli schemi e non ero collaborativa come le altre ragazze, o – suppongo – sono riuscita ad intimidirli così tanto con la mia falsa sicurezza e volitività, che mi hanno lasciata fare quello che volevo. Anoressia: 1, Veggie: 0.

Quel primo ricovero è stato sicuramente l’esperienza peggiore, tuttavia anche in seguito non sono mai stata una paziente facile, e non ho mai preteso di esserlo. Ciò detto, credo che chiunque voglia avere a che fare soltanto con “pazienti facili”, non debba lavorare nel campo dei disturbi alimentari.

Dopo quel primo disastroso ricovero, comunque, ce ne sono stati altri 4, nella medesima struttura ma dilazionati negli anni: a quel punto ero maggiorenne, e sono stata io ogni volta a richiedere il ricovero, quindi ero decisamente più collaborativa. Durante questi 4 ricoveri ho conosciuto un sacco di altre ragazze che potevano tranquillamente essere classificate come “pazienti difficili”. In effetti, conosco ben poche persone affette da un DCA che non siano state “pazienti difficili”.

I nostri modi di scatenare l’inferno, tuttavia, variano notevolmente da persona a persona. Generalizzando, ci sono ragazze apertamente difficili: quelle che si agitano, gridano, imprecano, si rifiutano di seguire le regole, dicono esplicitamente al personale di non rompere, rifiutano il cibo. Possono sembrare solo delle arroganti maleducate ma, come lo sono stata io, sono in realtà delle ragazze spaventate.

Ci sono poi invece ragazze altrettanto difficili, ma in maniera più velata, meno esplicita: quelle che se hanno difficoltà a mangiare qualcosa lo nascondono nel tovagliolo e se lo mettono in tasca, quelle che se non vogliono partecipare alla terapia di gruppo fingono interesse ma in realtà pensano a tutt’altro, quelle che dicono ai terapeuti ciò che si aspettano di sentirsi dire ma poi fanno comunque quello che vogliono.

Queste ragazze danno meno nell’occhio ma alla fine, in ambo i casi, si arriva agli psicoterapeuti che dicono: “Non sappiamo come aiutarti, non sappiamo cos’è che ti fa stare male, perché non ci parli di quelli che sono i tuoi problemi?”. E di fronte a questo interrogativo, entrambe le tipologie di “pazienti difficili” rimangono sedute in silenzio. Fissano lo psicoterapeuta con aria inespressiva, e scuotono le spalle come a volersi scrollare di dosso la domanda.

Con entrambe le tipologie di “pazienti difficili”, dopo un po’ di tempo i terapeuti iniziano a sentirsi frustrati, e alla fine se ne lavano le mani. Pensano che noi, essendo “pazienti difficili”, non ne valiamo la pena. Pensano che non valga la pena di perdere energie e tempo con noi. Sentono che non riescono ad aiutarci, e ne sono imbarazzati, o provano vergogna, o semplicemente non concepiscono il fatto che tutte le loro lauree e dottorati possano non averli comunque resi in grado di entrare nella nostra mentalità e poter essere effettivamente d’aiuto. Non vogliono avere a che fare con pazienti che sembrano accondiscenti ma che poi fanno comunque come vogliono, e men che meno con pazienti che gridano, che li insultano, che fanno le arroganti, salvo poi ricevere una telefonata dal Pronto Soccorso a mezzanotte che li informa dell’ennesima prodezza (dis)alimentare delle loro assistite.

Non dimenticherò mai la psicoterapeuta che mi scaricò dicendomi: “Tu non sei malata di anoressia, l’anoressia è solo un sintomo, una manifestazione della tua vera malattia: tu sei malata di controllo, ecco qual è il vero problema. Ma se tu per prima non sei disposta a rinunciare a questo controllo, la tua patologia cronicizzerà, ed io non posso fare niente per te.”

Lei ha mollato con me. E anche altri terapeuti, successivamente.

Loro ci rinunciano, con noi “pazienti difficili”, si arrendono. Alzano bandiera bianca.

E così noi alziamo bandiera bianca con noi stesse.

Quello che tali terapeuti non hanno mai fatto è rimanere abbastanza a lungo da capire che quando ci aggrappiamo disperatamente al nostro disturbo alimentare
per paura
o rabbia
o pura testadaggine…
… quando ci aggrappiamo disperatamente ad esso contro ogni logica e razionalità, ecco, quegli psicoterapeuti che si arrendono non sapranno mai che un giorno noi ci aggrapperemo alla strada del ricovero con altrettanta fierezza.

Non fraintendetemi, non voglio dire che bisogna essere sempre entusiaste del tipo oh-percorrere-la-strada-del-ricovero-è-una-meraviglia-assoluta!, perché è ovvio che le cose non stanno così. Spesso e volentieri percorrere la strada del ricovero è tutt’altro che semplice e divertente, ed è ben arduo affrontare la lotta quotidiana contro il DCA. Pensare che una persona possa essere sempre al 100% super-iper-motivata a combattere contro l’anoressia è semplicemente sciocco.

Ma la forza che ci vincola al nostro disturbo alimentare – contro ogni parvenza di una vita normale, anche quando dilania noi stesse e le nostre relazioni con familiari ed amici, anche quando sappiamo che potremmo morire se continuiamo a seguire il DCA – è una risorsa. Perché quella forza noi la possediamo. Dobbiamo solo direzionarla nella giusta direzione: verso la strada del ricovero.

Le caratteristiche della propria personalità, come la capacità di essere una rompicoglioni, sono in genere neutre. Sono quello che sono. È il modo in cui le utilizziamo che fa la differenza. Essere una narcisista manipolatrice non vi aiuterà a farvi un sacco di amici, ma potrebbe rendervi un’ottima politica o un’ottima CEO. La paura di staccarsi da un DCA può essere poco a poco trasformata nella paura di ricadere di nuovo nel DCA. Un rifiuto ostinato a provare qualcosa di nuovo può lasciarvi bloccate nell’anoressia per decenni O può significare che la vostra abitudine di combattere contro il DCA un giorno sarà altrettanto solida.

Fin troppe ragazze vengono tacciate di essere “pazienti difficili” e vengono mollate dai terapeuti, con conseguente chiusura al trattamento, ricaduta, e infognamento ancora peggiore nel DCA a causa del senso di fallimento provato. Non metto in dubbio che possano effettivamente essere delle “pazienti difficili”. Non nego che, per gli psicoterapeuti, lavorare con una paziente malata di anoressia/bulimia/DCAnas possa essere un compito ingrato e molto difficile. Ma quando le persone cominciano a rendersi conto di quali sono le 2 facce della medaglia dell’essere rompicoglioni, possiamo cominciare ad allontanarci dal nostro DCA. Spesso e volentieri non siamo intenzionalmente “difficili” (ehm, okay, ammetto che effettivamente in certe occasioni io ho cercato di fare la difficile…), bensì siamo confuse, e spaventate, e bloccate, e arrabbiate. Chi non sarebbe “difficile” in situazioni del genere? L’essere una “paziente difficile” da trattare non giustifica gli psicoterapeuti che se ne lavano le mani. L’essere una “paziente difficile” non dovrebbe essere una scusa per gli psicoterapeuti per rinunciare. Purtroppo troppo spesso è proprio così.

Sì, io sono stata una “paziente difficile”. Sì, mi è stato detto che ero una malata di controllo, che sarei stata una paziente cronica e al di là di ogni possibile aiuto. Sì, mi sono dovuta fare un culo come un rosone per trovare la psicologa e la dietista che facessero al mio caso, e soprattutto per combattere contro l’anoressia giorno dopo giorno, cosa che sto facendo tuttora. Sì, ci ho impiegato anni, ed anni, ed anni, ed anni. Ma adesso ho davvero una buonissima qualità della vita.

DifficileNON è sinonimo di “Impossibile” né di “Senza speranza” – non lo dimenticate.

venerdì 22 novembre 2013

Lasciar andare l'idea della perfetta guarigione

Se avete mai sentito in qualche programma televisivo qualcuno che ha un DCA parlare di come immagina possa essere una sua futura guarigione, siete perdonate per aver pensato che quel qualcuno stesse cercando di convincervi ad acquistare uno stock di pentole in una telepromozione.

A volte in TV o su Internet capita di vedere video (o di leggere post) di persone che dicono come pensano che sarà la loro vita una volta che saranno guarite dal DCA. Sono persone che dicono cose come: “Si guarisce dall’anoressia quando si riesce ad amare se stesse. Quando si riesce ad amare il proprio corpo e ad accettare tutte le proprie imperfezioni. Quando si arriva a questo, ci si rende conto che la vita è bellissima, è meravigliosa. Si riescono a raggiungere le radici del proprio DCA. E non ci si ricade mai, mai, mai, MAI più. Si guarisce del tutto, e questo è per sempre.”

Ecco, quando sento cose del genere, mi sembra un po’ di stare a sentire una telepromozione che ti vuol vendere qualche cosa. O l’inno di una setta segreta con una parola d’ordine e una divisa contraddistintiva.

Okay, credo che la maggior parte delle persone che hanno vissuto/vivono un DCA, abbiano la consapevolezza che non esiste una guarigione perfetta. Ma stando a quello che dicono alcune persone quando parlano di come immaginano la loro vita post-DCA, a me sembra che tendano a dipingere la cosiddetta guarigione come una forma idealizzata di Come-La-Vita-Sarà-Da-Ora-In-Poi-Sempre-Nel-Persempre-Amen. Non è in questo che consiste la strada del ricovero, secondo me. Se decidete d’iniziare a combattere contro il vostro DCA, e vi rendete conto che la dura realtà consta nel doversi opporre all’anoressia giorno dopo giorno, con fatica, con difficoltà, i discorsi sull’utopica perfetta guarigione non cominciano a sembravi un pochino fake?

Certo, a chi non piace pensare che dall’anoressia si possa guarire in toto, senza alcun residuato psicofisico, e che la vita senza il DCA possa essere perfetta? Ritrovare un’alimentazione completamente spontanea, amare il cibo, amare la propria fisicità. E poi svegliarsi ogni mattina, alzarsi da letto, guardarsi allo specchio e vedere quant’è sexy il riflesso che rimanda. Niente più giornatacce passate in preda a manie di controllo, niente più ansie. Soltanto autonomia, sicurezza di sé, e felicità. Penso che chiunque di noi possa aver immaginato, anche solo per un momento, qualcosa del genere pensando ad un futuro senza più anoressia.

Per quel che mi riguarda, percorrendo la strada del ricovero mi sono accorta che le cose non stavano così. E quindi, ho regolato il tiro. Ma non abbassandolo. Non mi sono detta: “No, non è così che andranno le cose, non ci sperare neanche”, bensì mi sono detta: “Non guardare al risultato, focalizzati sul processo.”. Se infatti mi fossi concentrata su un’utopica prospettiva di perfetta guarigione, e poi mi fossi accorta che la necessità di controllo permaneva, e che la vita presentava comunque tutte le sue difficoltà, mi sarei buttata giù ed avrei mollato, perché mi sarei sentita incapace di raggiungere quell’obiettivo, e dunque una fallita. Invece, concentrandomi su quello che potevo fare concretamente, giorno dopo giorno, per migliorare la qualità della mia vita, mi sono accorta che potevo muovere dei piccoli passi avanti per cercare di fare in modo che pian piano la mia situazione fosse migliore rispetto a prima. Tuttora, se guardo oggettivamente al punto in cui mi trovo (da qualche parte lungo la strada del ricovero), mi rendo conto che la mia vita non è rose e fiori, e non somiglia a quella che dicono di voler avere le persone che immaginano una completa guarigione dal proprio DCA, però sono comunque riuscita a ripristinare una elevata qualità della mia vita e continuerò ad impegnarmi per ottenere ulteriori miglioramenti in futuro.

Anche leggendo su Internet narrazioni di ragazze che raccontano la propria vita con il DCA, mi rendo conto che queste storie si ripartiscono per la maggior parte in 2 grani filoni: quelle che concludono “Penso che il DCA rimarrà comunque un vissuto che mi segnerà e mi condizionerà per il resto della mia vita, sia nel mio rapporto nei confronti del cibo, che di me stessa, che degli altri”, e quelle che concludono con le telepromozioni succitate. Il problema è che, a mio avviso, ambo le mentalità conducono al fallimento. Nel primo caso, perché una persona si abitua al DCA a tal punto da rassegnarsi ad una sorta di convivenza più o meno passiva, e perde così la reattività che serve per riconquistare giorno dopo giorno una vita migliore; nel secondo caso, perché viene idealizzata a tal punto l’idea della guarigione, che non potrà mai concretizzarsi con quelle modalità, che la delusione che ne consegue porterà inevitabilmente ad avere delle ricadute.

Spesso ricevo e-mail da parte di ragazze che mi chiedono cosa mi ha fatto decidere di combattere contro l’anoressia, qual è stato il mio punto di svolta, cosa mi ha convinto a cercare di stare meglio e tornare a mangiare normalmente. Mi dispiace sempre rispondere loro che non è così che per me sono andate le cose. È vero, c’è stato un live delle t.A.T.u. che mi ha dato una bella spinta nella giusta direzione, ma questo è stato un input: sarebbe rimasto passivo e fine a se stesso se io non lo avessi agito. Non c’è stato nella mia vita un epocale cambiamento, una qualche epifania, un qualche evento che dall’oggi al domani mi ha fatto cambiare completamente idea e combattere fervidamente contro l’anoressia. Il mio è stato un percorso lento, costellato di ricadute. Però mi sono rialzata ogni volta, ho stretto i denti, ho tenuto duro, ho ricominciato a combattere. È possibile che ci siano persone alle quali succede una qualche cosa, un qualche epico evento, e da lì in poi sfrecciano sulla strada del ricovero senza mai deragliare… ma questo non è l’unico modo, secondo me, per percorrere questa strada.

E, tra l’altro, percorrere la strada del ricovero non è una passeggiata. Talvolta su certi Tumblr leggo frasi come: “The worst day in recovery is still better than the best day in relapse(“Il giorno peggiore mentre percorri la strada del ricovero è comunque meglio del giorno migliore di una ricaduta”). Onestamente? Se mi è concesso di dirlo, talvolta non è così. Talvolta la vita quotidiana è così difficile da affrontare, con tutti i suoi millemila imprevisti e difficoltà, che la sensazione di controllo che fa (illusoriamente) provare l’anoressia ti fa sentire molto meglio che il combattere l’anoressia stessa. Non è nel mio interesse né nei miei progetti un’ulteriore ricaduta nell’anoressia, ma sono consapevole che essendo stata l’anoressia una strategia di coping estremamente funzionale, è possibile che in futuro le difficoltà della vita mi porteranno ad un punto tale da mettermi nella necessità di riadottarla. Del resto, non ho scelto la restrizione alimentare perché volevo essere magra. Ho scelto la restrizione alimentare perché mi permetteva di provare quella sensazione di controllo che tanto anelavo poiché la vita – incontrollabile per antonomasia – mi sembrava così più facile da gestire.

Le difficoltà non cessano all’istante quando s’intraprende la strada del ricovero. I problemi che prima nascondevamo dietro al DCA restano, e ci si trova di fronte al difficile compito di affrontarli. E spesso sono schiaccianti. È dura. È veramente dura. Bisogna lavorarci su con la psicoterapia, perchè affrontare quei problemi è pure l’unico modo che abbiamo a disposizione per andare avanti.

Niente arcobaleni ed unicorni, qui. La strada del ricovero che sto percorrendo non è l’utopia della perfetta guarigione. Ma è un qualcosa che lentamente e gradualmente mi permette di stare meglio, e ce la metterò tutta per mantenere la rotta. Sì, ci sono state ricadute in passato, e non posso escludere l’eventualità che ce ne saranno in futuro. Sì, dovrò lavorare ancora tanto sulla mia necessità di controllo. Sì, molto probabilmente rimarrò vulnerabile all’anoressia per il resto della mia vita. Ma sapete cosa? Mi va bene così. Perchè potrò comunque arrivare ad avere un’ottima qualità della vita, anche se la vocina dell’anoressia rimarrà da qualche parte. Ma posso non agirla. E così le cose andranno meglio.

In conclusione: io non credo che si possa “guarire” dall’anoressia nel senso proprio del termine, e credo che qualcosa del DCA nella nostra mente rimarrà sempre. Ma credo anche che possa rimanerci in maniera passiva, senza più influenzare i nostri comportamenti, in maniera tale da permetterci di avere un’ottima qualità della vita. Credo fermamente infatti che sia possibile avere una remissione dell’anoressia, e che questa remissione possa protrarsi vita natural durante. Un po’ come l’acoolista, che avrà sempre la tentazione di bere, ma che razionalmente riuscirà sempre ad impedirsi di farlo, e nonostante la vocina nella sua testa riuscirà dunque comunque a vivere una vita di qualità elevata. Ecco, credo che lo stesso valga per l’anoressia.

Perciò, siate contente della grinta con cui ogni giorno riuscite ad affrontare la strada del ricovero, anche se non va tutto alla perfezione, anche se avete ancora l’impulso di restringere l’alimentazione, anche se avete ancora voglia di controllare tutto. I giorni di merda ci saranno comunque, ci saranno periodi che potranno comunque andare da schifo, perché così è la vita. Ma al di là di tutto questo, di tutte le follie, di tutti i casini, se continuiamo a combattere contro il DCA potremo trovare altre strategie di coping che non passino per la distruzione fisica e mentale, e potremo tornare ad avere una qualità della vita veramente elevata.

Ma questo succederà solo quando lasceremo andare l’idea della perfetta guarigione, la telepromozione della vita perfetta senza anoressia, e cominceremo a concentrarci sui nostri piccoli-grandi progressi quotidiani, cominciando ad abbracciare le piccole-grandi conquiste per le quali abbiamo lavorato così duramente.

venerdì 15 novembre 2013

Sottotipi di anoressia basati sulla personalità

Come, ne sono certa, la maggior parte di voi che mi leggete saprà, il DSM distingue 2 sottotipi di anoressia. Citando detto manuale:

Sottotipo 1: con restrizioni (restricting type). Nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto non ha presentato regolarmente episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o clisteri) 
Sottotipo 2: con abbuffate/condotte di eliminazione (binge eating/purging type). Nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o clisteri).

Per abbreviare, il sottotipo 1 viene indicato come AN-R (Anorexia Nervosa – Restricting) e il sottotipo 2 come AN-BP (Anorexia Nervosa – Binge/Purging) – dato che gli psichiatri sembrano amare gli acronimi tanto quanto amano chiedervi del vostro rapporto con la vostra mamma. Da un punto di vista comportamentale, questa sottoclassificazione pare scontata. Ma in realtà lo è meno di quanto sembri.

Nuove ricerche, infatti, stanno mostrando che questi 2 sottotipi comportamentali non sono il miglior modo per distinguere tra le varie tipologie di anoressia. Difatti un numero sempre maggiore di psicoterapeuti stanno facendo notare come le differenze caratteriali, di personalità, tra le persone affette da anoressia siano ad oggi più significative rispetto alla dicotomia AN-R e AN-BP, come è stato notato in uno studio condotto da Wildes et, al nel 2011.

 Alcuni studi longitudinali hanno dimostrato infatti che ci sono delle differenze tra AN-R e AN-BP sia riguardo all’efficacia delle varie tecniche terapeutiche, sia riguardo al tempo necessario per fare passi avanti sulla strada del ricovero, sia rispetto alla frequenza delle ricadute, sia in merito alla mortalità. Inoltre è stato osservato come una certa percentuale di soggetti AN-R, tenda a sviluppare dopo un lasso di tempo più o meno lungo AN-BP, mentre la restante percentuale rimane fissa sull’AN-R.

Volendo riassumere lo studio di cui vi parlavo: i ricercatori hanno studiato i profili di personalità di numerose persone affette da DCA, ed utilizzando queste differenti caratteristiche caratteriali, hanno diviso le persone affette da anoressia e da bulimia in 3 principali gruppi.

Tratti di personalità nei 3 gruppi: 

Supercontrollatrici (termine originario: Overcontrolled): Le supercontrollatrici estendono la loro necessità di controllo ben al di là del meno cibo, cercando di riuscire virtualmente a controllare ogni qualsiasi ambito della loro vita. Tendono ad essere rigide, affidabili, ottime leader, ma non hanno in realtà idea di cosa vorrebbero veramente per se stesse e dalla loro vita.
Sottocontrollatrici (termine originario: Undercontrolled – perdonate le pessime traduzioni, ma non credo esistano parole equivalenti in italiano): Le sottocontrollatrici hanno frequenti perdite di controllo che riguardano non solo l’ambito alimentare. Le persone appartenenti a questo gruppo sono spesso impulsive, emotive, molto sensibili, fortemente empatiche e dotate di una brillante intelligenza, ma tendono a soffocare la propria rabbia nei confronti degli altri rivolgendola su se stesse.
Perfezioniste (termine originario: Perfectionistic): Al di là dell’ovvio perfezionismo connesso al nome stesso della categoria, le appartenenti al gruppo delle perfezioniste sono persone molto precise, corrette, puntuali, propositive, gentili ed educate, ma con una certa tendenza alla depressione.
 (Suddivisione tratta da Westen & Harnden-Fischer, 2011) 

In questo studio iniziale lo scopo non era semplicemente quello di valutare le differenze di personalità nei DCA, ma anche quello di capire come questi tratti caratteriali potessero influenzare e quindi predire l’efficacia del trattamento. Credo che non vi sorprenderà il sapere che le persone che miglioravano più rapidamente dopo l’inizio di psicoterapia + riabilitazione nutrizionale erano le perfezioniste, seguite dalle supercontrollatrici, ed infine le sottocontrollatrici. In ogni caso, questo è semplicemente un esempio, e lo studio in questione peraltro era uno studio retrospettivo.

Viceversa, i ricercatori erano interessati ad uno studio prospettivo, per cercare di capire come questi tratti caratteriali influenzassero il percorso di ricovero, e come si modificassero nel corso dello stesso.

Alcune settimane fa, dei ricercatori hanno pubblicato il loro studio su “Behaviour Research and Therapy”. Questo studio si è basato su 116 donne affette da anoressia (alcune con AN-R, altre con AN-BP) che seguivano una psicoterapia e una riabilitazione nutrizionale di tipo ambulatoriale, per valutare la relazione tra la loro personalità e i sintomi clinici presentati (Lavender et al., 2013) Per prima cosa, i ricercatori hanno somministrato a queste donne una batteria di test di personalità e di questionari sui DCA. Dopo 2 settimane di terapia, hanno chiesto a queste donne come si sentissero in quel momento, e quali fossero stati gli eventuali cambiamenti nei comportamenti tipici del loro DCA, in 6 diversi momenti del giorno. Le partecipanti allo studio, in base alla loro personalità, erano state divise in supercontrollatrici (14,7%), sottocontrollatrici (47,4%) e perfezioniste (37,9%).

Le componenti dei 3 sottogruppi di personalità non differivano in termini di età, B.M.I., epoca della diagnosi di DCA. Le persone affette da AN-BP non differivano neanche per numero delle abbuffate, induzione del vomito, iperattività fisica giornaliera. Non sorprendentemente, le ragazze appartenenti al gruppo delle perfezioniste avevano quasi tutte comorbidità quali disturbi d’ansia, DOC o depressione, le persone con AN-BP appartenevano quasi tutte al gruppo delle sottocontrollatrici, le persone con AN-R quasi tutte al gruppo delle supercontrollatrici.

Gli autori hanno concluso:

“[…] Questi risultati suggeriscono che possa essere utile sottosuddividere le persone con un DCA ina base alla loro personalità per poter tipizzare il trattamento, e che le differenze di personalità possono rappresentare una valida strategia di classificazione delle persone affette da disturbi alimentari.” 
(mia traduzione) 

In soldoni: la propria personalità, il proprio carattere, ha molto a che fare con il modo in cui una persona si comporta, ben più dell’attuale sottotipizzazione diagnostica basata esclusivamente sui sintomi. D’altro canto, la tipologia di personalità non permette di distinguere i vari pattern di DCA in maniera tanto schematica da permettere una diagnosi secondo i dettami del DSM. L’importanza di questa suddivisione basata sulla personalità sta nel fatto che varia la risposta ai diversi approcci terapeutici, e quindi è possibile scegliere delle terapie più mirate sulla base del carattere del singolo.

Fortunatamente, questa ricerca è stata ripetuta su 154 ragazze ricoverate in una clinica per DCA (lo studio di Wildes cui avevo accennato). In questo caso i ricercatori hanno valutato tramite opportuni test la personalità delle ragazze al momento dell’ammissione in clinica. L’età media delle partecipanti allo studio era di 25 anni, e l’età media della durata di malattia era di 8 anni.

Anche in questo caso, i ricercatori hanno suddiviso le pazienti nei 3 gruppi di personalità: supercontrollatrici (20,8%), sottocontrollatrici (42,9%) e perfezioniste (36,4%). Di nuovo, anche in questo caso le partecipanti allo studio erano simili tra loro per età, B.M.I., anni di durata della malattia, ad indicare che i tratti della personalità non sono predittivi rispetto alla severità o alla durata di un DCA.

Tuttavia, i 3 gruppi hanno avuto, dopo il ricovero, risultati significativamente differenti. Le perfezioniste sono quelle che se la sono cavata meglio, le sottocontrollatrici quelle che hanno avuto i risultati peggiori: esito sfavorevole alla dimissione, dimissione contro il parere medico, più frequenti ricadute durante i successivi 3 mesi di follow-up. Nella fattispecie, il gruppo delle sottocontrollatrici aveva una probabilità di esito sfavorevole della terapia 3,56 volte maggiore rispetto alle supercontrollatrici, e addirittura 11,23 volte maggiore rispetto alle perfezioniste.

Quando i ricercatori hanno invece analizzato i risultati basandosi sulla suddivisione proposta dal DSM tra persone AN-R e persone AN-BP, è risultato soltanto che al momento della dimissione le ragazze con AN-BP avevano raggiunto risultati peggiori rispetto a quelle con AN-R, ma non c’erano differenze al termine dei 3 mesi di follow-up. Non proprio la stessa cosa, no?!

Dunque, cosa significa tutto questo per noi che abbiamo un DCA? 

Per prima cosa, c’è da considerare che questa suddivisione in 3 gruppi è basata su cluster di personalità. Sebbene alcune persone abbiano tratti caratteriali che le fanno rientrare perfettamente in uno di questi 3 sottogruppi, altre possono avere tratti di personalità comuni a 2 o addirittura a tutti e 3 i sottogruppi. I ricercatori hanno diviso le ragazze sulla base di quale gruppo rispecchiasse maggiormente il loro carattere, ma ovviamente non c’era un’aderenza assolutamente perfetta. Un altro aspetto da considerare è che i questionari schematizzano la personalità di una persona, ma non la rappresentano in toto, e soprattutto fotografano la personalità di una ragazza nel preciso momento in cui essa si sottopone al test. Non tengono conto del fatto che la personalità di quella ragazza possa essere stata ampiamente modificata dal DCA. Sebbene certamente alcuni aspetti basilari del nostro carattere rimangano invariati per tutta la nostra vita, ci sono tratti caratteriali che sono più malleabili, per cui non solo cambiano con l’arrivo del DCA, ma cambiano anche in funzione della nostra crescita e delle nostre esperienze di vita.

Inoltre, c’è da considerare anche il fatto che la risposta immediata ad un ricovero in clinica non è direttamente proporzionale all’entità della remissione dall’anoressia che il singolo può conseguire nel corso della propria vita. Infatti Wildes scrive:

“[…] una possibile spiegazione è che quei fattori che permettono di predire, inizialmente, la risposta alla terapia, differiscono da quelli associate ai risultati a lungo termine. Per esempio, una personalità supercontrollatrice consente di tollerare meglio l’ambiente della clinica rispetto ad una sottocontrollatrice, che avrà più difficoltà a far fronte ai propri impulsi. Tuttavia, nel lungo termine, una personalità supercontrollatrice mal tollera il controllo esercitato dall’esterno, e quindi è più facile che abbia delle ricadute per la sua spasmodica necessità di riacquisire quello che percepisce come il proprio controllo. […]” 
(mia traduzione) 

Il che ricalca perfettamente la mia esperienza personale. Il gruppo delle supercontrollatrici mi calza a pennello, in quanto a personalità (e, non a caso, il mio disturbo alimentare è AN-R). Tralasciando il mio primo ricovero, coatto perchè ero minorenne e quindi totalmente improduttivo, durante gli altri 4 ricoveri sono riuscita ad avere buoni risultati nell’immediato, riuscendo a seguire senza particolare fatica od ansia lo schema alimentare che mi veniva somministrato, e riuscendo a limitare le mie manie di controllo su tutto. Ma questi progressi si esaurivano rapidamente dopo la dimissione. È per questo che ho avuto una montagna di ricadute. Percepivo il controllo su tutto come talmente necessario che riuscire a ridurlo è stata un’impresa che mi ha richiesto un sacco di tempo e di fatica, e su cui comunque sto ancora lavorando.

Ma io credo che la nostra personalità non sia frutto del destino. Scegliere un’Università che mi piaceva e trovare un lavoro che ho fin da subito adorato, sebbene non abbia arrestato le ricadute, mi è stato comunque estremamente d’aiuto per smorzare certi sintomi. Grazie alla psicoterapia, inoltre, sto cercando di lavorare sulla mia personalità, e credo che questa possa essere una cosa utile a chiunque abbia un DCA: cercare di lavorare su se stesse, per cambiare quegli aspetti di noi che perpetrano il disturbo alimentare. Okay, ho sempre una spiccata tendenza a voler controllare le cose, e probabilmente questo tratto di personalità mi accompagnerà sempre, ma ci sto lavorando su per fare in modo che non sia questo controllo a finire per controllarmi la vita.

venerdì 11 ottobre 2013

Perchè non amo il mio corpo, e non penso sia importante il farlo

Amare il proprio corpo rappresenta una sorta di Sacro Graal per chi ha un DCA. Messaggi sull’importanza dell’imparare ad amare il proprio corpo bombardano le persone che hanno un disturbo alimentare da ogni dove. Amare il proprio corpo e la propria fisicità è visto sia come la chiave per prevenire l’insorgenza dei DCA, sia come un obiettivo di cruciale importanza da raggiungere per poter “guarire” dall’anoressia.

Adesso vi svelerò un segreto: Io sto percorrendo la strada del ricovero, e non amo il mio corpo.

Ecco. L’ho detto. Non amo il mio corpo e non mi piace la mia fisicità, ma ho comunque fatto grandi passi avanti sulla strada del ricovero, e ora come ora le cose mi stanno andando bene, grazie mille.

Io non ho mai avuto il desiderio di essere magra perché, banalmente, io sono sempre stata magra. La mia principale spinta verso l’anoressia è stata il bisogno di avere tutto sotto controllo. Io volevo avere il controllo assoluto. Su tutto. Su ogni singolo aspetto della mia vita. La cosa è partita da ambiti diversi dall’alimentazione e poi, in un formidabile colpo di coda, anche il versante alimentare è stato tirato dentro questo mio bisogno di programmare – e dunque controllare – ogni singolo secondo delle mie giornate.
Volevo “semplicemente” avere sotto controllo ogni singolo respiro della mia vita, e questo controllo ad un certo punto ha iniziato a passare anche attraverso il canale alimentare. L’obiettivo della mia restrizione, in effetti era proprio questo: elaborare una forma di controllo su quello che mangiavo. Il dimagrimento è stata l’ovvia conseguenza, ma non mi ha mai fatto particolarmente piacere, anzi, mi metteva a disagio, non avrei voluto (anche perché comprometteva le mie prestazioni sportive, e al tempo ero a buon livello), ma avevo bisogno del controllo, e se “il prezzo da pagare” era quello di perdere chili, allora andava bene tutto, allora accettavo il compromesso, pur di non abbandonare la sensazione di sicurezza e di forza che quel(l’illusorio) controllo mi faceva provare.

Ho sempre avuto quest’abnorme bisogno di sentire che avevo tutto sotto controllo. Per quanto, vista dall’esterno, la cosa possa sembrare (ed essere a tutti gli effetti) patologica, sul momento io me ne fregavo, perché non mi rendevo conto di quanto il mio bisogno di controllo fosse eccessivo. Non mi ponevo il problema, perché per me non era un problema.

Sebbene la parvenza di controllo che mi pareva di esercitare con l’anoressia mi abbia probabilmente aiutata a sedare delle ansie sottostanti, non mi sono mai curata particolarmente della mia fisicità. Sapevo di essere una ragazza magra, ma era una constatazione fine a se stessa. E anche quando sono entrata nell’anoressia, ero consapevole che stavo perdendo peso, ma anche questa era una considerazione fine a se stessa. Il mio cervello non registrava veramente la perdita di peso: io volevo sentire che avevo il controllo, non m’importava quale fosse il mio peso (difatti non mi sono mai pesata). Io mi sentivo in controllo, quindi non riuscivo a capire come mai le persone che mi circondavano fossero così preoccupate per me.

Mi arrivavano barlumi di consapevolezza sul fatto che avessi un problema (sebbene, certo, razionalmente sapessi benissimo che mi stavo alimentando in maniera insufficiente) quando per qualche motivo succedevano cose che sfuggivano alle mie pretese di controllo. Quando succedeva qualcosa che non avevo programmato, andavo veramente ai pazzi. E restringevo l’alimentazione come se, per contrappasso, questo tipo di controllo potesse andare a compensare quelle aree della mia vita (la vasta gamma dei cosiddetti “imprevisti”) in cui invece non potevo avere per definizione alcun controllo.

Quando sono stata ricoverata in una clinica per la prima volta (ero minorenne, ed è stato un ricovero coatto) ho veramente sclerato. Io non ero assolutamente pronta né consenziente, quindi ovviamente quel ricovero è stato un completo insuccesso. Mi sentivo dilaniata dal fatto che la mia routine fosse scandita dagli impegni organizzati dalla clinica, e che la mia alimentazione fosse gestita da un dietista: in questo modo non avevo più alcun controllo, e questo per me era intollerabile. Non potevo più controllare niente, e non potevo neanche alleviare l’ansia e la rabbia che da ciò mi derivavano restringendo l’alimentazione. È in questo periodo che è nato l’altro mio problema, quello dell’autolesionismo, che ho iniziato ad adottare come nuova strategia di coping, non potendo più ricorrere alla restrizione alimentare. Il mio corpo cambiava, e io non potevo sopportarlo, non per il peso in sé per sé, di quello me ne fregava poco e niente, come del resto sempre poco e niente me n’era fregato, bensì perché quei cambiamenti del mio corpo non li stavo decidendo io, non li stavo controllando io. Il riprendere peso lo vivevo come sinonimo del non avere più controllo, ed era questo che non riuscivo a sopportare: il fatto che qualcuno mi avesse strappato via il mio “amato” controllo. Non m’importava del peso in sé, ma mi spezzava la sensazione di non poter più controllare niente. Il mio corpo non mi piaceva semplicemente perché era la materiale dimostrazione del fatto che non esercitavo più il controllo.

Inutile aggiungere che quando ho terminato questo ricovero ho avuto immediatamente una ricaduta, eh?! Comunque il tempo è passato, io ho fatto altri ricoveri, stavolta per mia scelta, e a poco a poco, molto lentamente, le cose hanno iniziato a migliorare (anche se ho comunque avuto delle ulteriori ricadute). Nel momento in cui ho ricominciato ad alimentarmi regolarmente senza più restringere, a poco a poco la mia testa ha cominciato a funzionare meglio, e quindi anche quest’assoluta necessità di controllo (che era comunque rinforzata dalla restrizione alimentare in uno dei quei famosi serpenti che si mordono la coda) si è lentamente attenuata sempre di più.

Ma non se n’è mai andata. Non del tutto.

Eccomi qua, oggi, per lo più priva dei comportamenti alimentari tipici dell’anoressia (okay, ogni tanto mi capita ancora di fare la cresta a qualche pasto, lo ammetto, ma è un evento veramente occasionale), con un residuo e persistente certo bisogno di controllo, e tuttora non amo la mia fisicità. E con ciò?

Col tempo, ho imparato a far prevalere la razionalità sull’illogico bisogno di controllo, e sui suoi riflessi sulla mia fisicità. Sono più consapevole del fatto che è impossibile che io riesca a controllare ogni singolo aspetto della mia vita. So che quando mi trovo in difficoltà tendo sempre ad utilizzare la restrizione alimentare come surrogato di controllo, e so che questo non ha un senso logico. So anche che il mio peso o la mia fisicità non rispecchiano in alcun modo il controllo che riesco ad avere o meno sulla mia vita. E so che adesso che ho sostanzialmente raggiunto il mio set-point di peso corporeo, rimarrò più o meno qui, salvo un paio di chili in più o in meno come margine d’oscillazione. Evidentemente, il mio bisogno di controllo non ha niente a che fare con il mio corpo.

Inoltre, ho imparato a separare il mio bisogno di controllo sia dalla mia fisicità che dalla mia autostima. Come dicevo prima, al di là dell’anoressia, non ho mai prestato particolare interesse alla mia fisicità. Non mi sono mai giudicata per la mia apparenza esteriore. Mi sono sempre giudicata molto, molto di più per le mie capacità scolastiche e sportive, e cose di questo genere. Certo, l’anoressia ha cambiato qualcosa, nel senso che ho utilizzato la mia fisicità come marker della presenza o meno del controllo: fintanto che restringevo l’alimentazione, ero in controllo. Ma sono adesso consapevole che questo in realtà non esprime in alcun modo niente della persona che sono.

Da un punto di vista prettamente fisico, quello che cerco di fare è lavorare sull’accettazione del mio corpo. Non mi piace la mia fisicità, e non credo che debba necessariamente piacermi. Ma è necessario che io abbia un certo peso per riuscire a tener dietro a tutte le mie attività della vita quotidiana, e per riuscire ad avere una buona qualità della vita.

Ho parlato con la psicologa che mi segue relativamente a questa presunta necessità di amare il proprio corpo, e mi veniva da ridere al pensiero di dovermi mettere davanti ad uno specchio ripetendo mantra quali “Sono davvero sexy” e “Amo il mio corpo”. Non fa per me, inutile mentire a me stessa. Così, anziché lavorare sull’imparare ad amare il mio corpo, abbiamo iniziato a lavorare sull’accettazione. Sulla consapevolezza che non mi piace la mia fisicità, e probabilmente non mi piacerà mai, ma che devo imparare ad accettare un certo standard corporeo, anche se non rispecchia la mia idea di “dimostrazione di controllo”, perché è quello che mi permettere di vivere una vita degna, concentrandomi invece sulle cose che veramente rappresentano i miei punti di forza, e valorizzandoli.

E questo, pian piano, sta facendo la differenza. Il mio corpo non mi piace, e il bisogno di controllo è sempre lì, ma faccio quello che c’è bisogno di fare (mangio seguendo l’ “equilibrio alimentare” che mi ha prescritto la dietista, e non cedo all’impulso di restringere) e questo mi consente di dedicarmi a quelle cose (sport, lavoro, tirocinio post-laurea, amicizie…) che nella vita mi piacciono e m’interessano realmente. Anziché pensare che se non restringo l’alimentazione allora non ho il controllo della mia vita, penso che grazie al non essere così ossessiva nell’espletare il mio controllo e al non restringere l’alimentazione, posso reggere tranquillamente un turno di 12 ore (la notte, 20 – 8) in Pronto Soccorso senza rischiare di svenire da un momento all’altro. E il turno di notte in Pronto Soccorso è una vera meraviglia, ve lo assicuro.

Ho raggiunto una condizione ideale? Non lo so. Ma ho trovato un equilibrio. E da qui andrò avanti, in quest'equilibrio. Mi viene da dirlo in Inglese, con una frase rubata ad una canzone, ma che rende moltissimo: it works for me. Non ho bisogno di amare il mio corpo. Non ho bisogno di trovare gradevole la mia fisicità. È un’inezia, a fronte della persona che sono. Piuttosto che prendermela perché una parte del mio corpo non è come la vorrei, mi preoccupo per la mia capacità di essere un medico capace, una buona istruttrice ed arbitro imparziale di karate, una buona amica, una persona corretta, una persona in grado di realizzare i propri obiettivi nella vita.

Dunque no, non amo il mio corpo. E allora?

venerdì 23 agosto 2013

Dire di no alla campagna "Just say no (to anorexia)"

Come tutti/e i/le ragazzi/e nati/e negli anni ’80, ricordo molto bene la campagna “Dire di No alla Droga” che era molto in voga (per lo meno dalle mie parti) quando frequentavo le scuole medie. In seconda media mi ero messa anche a distribuire i volantini che erano stati portati dagli psicologi che tenevano questa campagna di prevenzione alle varie classi. Nell’ingenuità dei miei 12 anni, ero convinta che stavo facendo la cosa giusta, che avrei protetto tutti i miei compagni di classe da quei cattivoni dei pusher che avrebbero avuto la meglio su di loro se solo non si fossero messi a Dire di No alla Droga.

Ero una ragazzina tutto sommato aderente alle regole sociali più basilari. L’idea di fare qualcosa di palesemente illegale (a parte il non rispettare mai i limiti di velocità quando guido la macchina) non era nelle mie corde allora come non lo è adesso. Non mi è mai mancata una certa vena ribelle, soprattutto quando qualcuno mi provocava dicendomi che non ero capace di fare qualcosa – nel qual caso ce la mettevo tutta per dimostrare a chi me l’aveva detto che si sbagliava – ma se mi veniva detto che fare una certa cosa non era permesso, alla fin fine non la facevo. O, tutt’al più, trovavo giustificazioni semi-etiche per aggirare l’ostacolo. Ma la Veggie dodicenne non si rendeva conto che la tossicodipendenza era ben più del semplice essersi rifiutati di “Dire di No alla Droga”.

Dopo tutti questi anni, ne ho viste abbastanza per rendermi conto che le campagne di questo tipo non funzionano. Certo, la decisione di assumere sostanze stupefacenti o di bere alcoolici è una scelta, ma una dipendenza non è più una scelta. È ovvio che le persone che hanno maggiore probabilità di diventare dipendenti sono quelle che decidono di provare ad assumere queste sostanze, ed è su questo che agiscono tutte le molteplici campagne “Dire di No” che vengono proposte a scuola – sullo scoraggiare le persone ad assumere certe sostanze ancor prima che lo facciano. Ma la maggior parte delle persone magari inizialmente assume sostanze stupefacenti a cuor leggero, pensando che lo farà solo una volta, che non gli succederà mai di perdere il controllo e diventare dipendente. È qui che questo tipo di campagne falliscono: perché non riescono a far capire veramente quanto sia facile diventare dipendenti, e soprattutto come sia difficile staccarsene e quanto una tossicodipendenza possa devastare la vita.

Questo è noto da anni, non è cosa nuova. E allora perché, acciperbaccolina, esistono ancora persone nel mondo dei DCA che decidono di dar vita a una campagna “Dire di NO all’Anoressia”?!?

Mi riferisco alla campagna “Just Say No (to anorexia)" che è stata varata da un’importnte agenzia di moda brasiliana. Quest’agenzia di moda ha iniziato questa campagna che sta riscuotendo molto interesse. Accanto allo slogan “You are not a sketch. Just say no to anorexia” (“Non sei un disegno. Di’ di no all’anoressia”), appaiono due immagini: il disegno, il bozzetto disegnato da uno stilista, di una donna estremamente magra, affiancato alla fotografia di una modella, trattata col Photoshop in modo da farla apparire emaciata. A parole non rende bene, quindi vi posto l’immagine per farvi vedere esattamente cosa intendo.


Immagine tratta da: http://www.buzzfeed.com/copyranter/alarming-anorexia-ads-via-brazil

(click sull'immagine per ingrandirla)

(Sulla sinistra: il disegno di una donna magrissima. Sulla destra: una modella dimagrita artificialmente grazie al fotoritocco.)

Al di là del fatto che una campagna del genere proposta da un’agenzia di moda mi pare largamente ipocrita – per la serie “predico bene e razzolo male” – e di cattivo gusto, poiché non ha senso che le agenzie di moda si mettano a criticare una fisicità che loro stesse contribuiscono a creare, c’è un problema sottostante ben più grosso, a cui forse nessuno pensa abbastanza: è veramente possibile “Dire di No” in maniera fredda e sciente all’anoressia?

Sia attraverso i 5 ricoveri che ho fatto, sia tramite questo blog, ho avuto modo di conoscere molte persone con un DCA. La stragrande maggioranza di queste ragazze sapevano perfettamente, ancor prima di ammalarsi, quanto anoressia e bulimia fossero malattie pericolose, fisicamente e psicologicamente.

Io stessa, anche se fin dall’inizio ero perfettamente consapevole di quanto fosse anomala e insana la mia progressiva restrizione alimentare, pensavo che comunque andasse tutto bene perché comunque non adottavo nessuna condotta di compensazione, come credevo tutte le anoressiche facessero, perché io non volevo questo, volevo solo avere il controllo. Certo, all’epoca le mie conoscenze relative a quanto le persone con anoressia effettivamente mangiassero/vomitassero/facessero attività fisica compulsivamente/assumessero lassativi, erano senz’altro estremamente limitate, ma non è questo il punto. Anche quando ero proprio nel pieno dell’anoressia, non pensavo che una malattia del genere potesse veramente capitare a me. Pensavo che, se l’avessi deciso, avrei potuto smettere di restringere l’alimentazione in ogni qualsiasi momento e far tornare il mio rapporto col cibo spontaneo com’era prima. Pensavo che non ci sarebbero stati danni psicofisici residui. Pensavo di avere sempre e comunque quel controllo che tanto bramavo, e che l’anoressia stessa illusoriamente mi trasmetteva. Pensavo di essere troppo dannatamente intelligente per lasciarmi controllare dall’anoressia.

Questo è poi un po’ quello che mi hanno detto quelle pochissime persone che mi conoscevano che sono venute a conoscenza della mia anoressia nel momento in cui mi è stata diagnosticata: “Ho sempre pensato che tu fossi troppo intelligente per ammalarti di anoressia” (*). Nessuno lo ha detto con l’intenzione di ferirmi, ma il messaggio era chiaro: avrei dovuto saperlo meglio. Avrei dovuto tirarmene fuori prima. Niente di nuovo rispetto a quello che io stessa mi ero ripetuta millemila volte.

Per un po’ di tempo, l’ho pensato spesso: se solo avessi conosciuto veramente tutte le implicazioni mentali dell’anoressia, se solo avessi saputo cosa significasse avere la mente piena di ossessioni, se solo avessi avuto cognizione di quanto avrei danneggiato la mia salute, se solo avessi avuto la consapevolezza di quanto avrei mandato a puttane la mia vita con questo disturbo alimentare, non avrei mai provato a restringere l’alimentazione come se questo fosse il miglior modo per sentire che avevo il controllo su tutto, fame compresa. Tuttavia, adesso ho smesso di pensarla così. Perché? Perché so benissimo che l’avrei fatto ugualmente a prescindere da quante e quali informazioni avessi avuto. Perché nel momento in cui ho iniziato a restringere l’alimentazione avevo comunque bisogno di avere la sensazione di poter controllare ogni singolo aspetto della mia vita. Perché non si sceglie un male sapendolo tale, ma solo se, per sbaglio, lo si vede come un bene rispetto ad un qualcos’altro che viene percepito come un male maggiore. A scuola avevo assistito anche a delle campagne di sensibilizzazione relative ai disturbi alimentari, per cui teoricamente conoscevo i danni fisici e mentali prodotti dall’anoressia. Cionnonostante, non avrei mai pensato che mi sarei ritrovata, a poco più di 16 anni, a subire un ricovero coatto a causa della massiva perdita di peso che avevo realizzato nel giro di 2 anni. Pensavo che sarei riuscita in qualsiasi momento a “Dire di No”.

Il punto è: NON SI PUO’ SEMPRE “DIRE DI NO”.

Penso che sarebbe sciocco creare una campagna “Dire di No” alla schizofrenia o al disturbo bipolare. La canzone “Don’t Worry, Be Happy” non è un grido di battaglia anti-depressione, ed è giusto così.

Inoltre, le campagne come questa “Just Say No (to anorexia)" spostano il carico dell’anoressia totalmente sulle spalle di chi ne soffre. Come tutti hanno sempre pensato, il mio problema è stato che non sono stata capace di dire di no all’anoressia. Il problema, dunque, è la malata, non la malattia. Il problema, come ho già scritto più e più volte, non ha niente a che vedere con i cosiddetti “ideali di magrezza” proposti dai mass media, che possono dunque facilmente affrancarsi da ogni qualsiasi contributo gli possa essere ascritto in merito alla patogenesi dei DCA. Il problema è che, se le stesse agenzie di moda elaborano campagne anti-anoressia sul modello di quella di cui ho parlato in questo post, sottolineano il fatto (erroneo!) che l’anoressia sia tutta colpa delle malate che sono state troppo dementi non riuscendo a “Dire di No”.

Ma non è così che funziona un DCA. Perciò, e non sto facendo dell'ironia, se qualcuno riesce a capire l’utilità di campagne come questa “Just Say No(to anorexia)", allora gentilmente me la spieghi, perché io proprio non ci arrivo.


(*) Giusto per mettere i puntini sulle “i”, vorrei chiarire cosa credo pensassero le persone che mi hanno detto una cosa del genere. Io immagino che queste persone volessero dire che loro pensavano che, dal momento che io ero consapevole di quanto fosse pericolosa l’anoressia, avrei dovuto prevenirla e non ammalarmene. E che per loro era frustrante il vedere quanto fossi malata, consapevole di esserlo, e allo stesso tempo incapace di uscirne fuori. Per chi non abbia vissuto l’anoressia sulla propria pelle, sembra ovvio che se restringere l’alimentazione comprometteva la mia salute fisica e mentale, io avrei dovuto smettere di farlo, punto e basta. Ma un DCA non è matematica. Mentre parlavamo utilizzando frasi del genere, non credo che né io né gli altri avessimo smesso di pensare all’anoressia come ad una scelta totalmente sciente.

venerdì 7 giugno 2013

Cosa significa scegliere la strada del ricovero

Quando avevo più o meno sui 18 – 19 anni, nessuno sapeva cosa fare con me. Tutta la schiera di psicologi, dietisti, psichiatri, medici con cui avevo avuto a che fare, avevano di fatto alzato bandiera bianca. Dovevo essere io a scegliere scientemente, razionalmente e lucidamente di percorrere la strada del ricovero, dicevano loro, e questo era un qualcosa che io chiaramente non stavo facendo. Fino a che io non l’avessi fatto, non c’era niente che loro potessero fare per me. Avrei cominciato a percorrere la strada del ricovero quando sarei stata pronta.

Ovviamente, ho qualche problemuccio con questo modo di vedere la cosa. Non dico che sia una visione sbagliata, ma è quantomeno una visione molto semplicistica e riduttiva. Prima cosa, dà per scontato che una persona che è nel pieno dell’anoressia sia lucidamente e decisamente capace di scegliere di combattervi contro. Seconda cosa, fa sembrare il ricovero come una scelta sciente, un’unica e ben precisa scelta che una persona compie, e quando lo fa allora magicamente guarisce dall’anoressia.

Il problema è che la strada del ricovero non si sceglie lucidamente e scientemente una volta per tutte. Occorre scegliere di percorrere la strada del ricovero giorno dopo giorno, ogni mattina quando ci svegliamo e ci apprestiamo ad affrontare un’altra giornata, e bisogna rimarcare a noi stesse questa scelta ogni 5 – 6 volte al giorno. Occorre fare questa scelta anche quando proprio non vorremmo. Non è dunque una singola scelta che si fa una volta per tutte, e non è affatto semplice.

Se ci pensate, la stragrande maggioranza dei protocolli terapeutici per i DCA sono fatti per persone che cercano e vogliono (o, tutt’al più, accettano) seguire un protocollo terapeutico. E, insomma, è relativamente facile fare una psicoterapia e una riabilitazione nutrizionale ad una persona che è consenziente, vuole percorrere la strada del ricovero, e ce la mette tutta per essere aderente alle indicazioni mediche. Ma quando si parla di persone nel pieno dell’anoressia, laddove non è infrequente una spiccata difficoltà a comprendere quanto i propri pensieri e i propri comportamenti siano deviati, è veramente difficile riuscire ad intraprendere un percorso di ricovero, perché i medici non sanno come far fronte ad una paziente che non ha nessun interesse a staccarsi dall’anoressia. Per cui, piuttosto che cercare di elaborare nuove strategie terapeutiche per rendere più compliante una paziente che è ancora molto dentro il DCA, è decisamente più facile, economico e conveniente dire alla paziente che “noi ti potremo aiutare solo e soltanto quando tu sarai pronta a percorrere la strada del ricovero”.

Il problema principale di questa concezione medica – e della sua applicazione alle pazienti che hanno un DCA – è che una delle caratteristiche che più frequentemente s’incontrano nelle persone che hanno un DCA (anoressia in particolare) è che non c’è nessuna voglia d’iniziare un percorso di ricovero. Le motivazioni che rendono le persone affette da DCA estremamente restie ad iniziare un percorso di ricovero sono molteplici, e variano a persona a persona: solo per fare qualche esempio, le difficoltà a staccarsi dall’anoressia possono essere legate al fatto che essa rappresenta un’ottima strategia di coping, che fornisce un’illusoria sensazione di controllo, che la persona non si sente “abbastanza malata” da meritare di ricevere aiuto terapeutico, e così via. Ovviamente sarebbe cosa buona e giusta che ogni persona malata di DCA fosse in grado di prendere una decisione riflessiva e razionale in merito alla necessità di curarsi, ma spesso e volentieri le cose non stanno così.

Così tutti i medici si rintanano nei loro uffici, ed aspettano che la ragazza sia “pronta” a percorrere la strada del ricovero. Il problema è che più a lungo una persona viene lasciata in balìa del DCA, più sarà difficile che essa possa scegliere autonomamente di percorrere la strada del ricovero. Più una persona perde peso, minore è la produzione neurotrasmettitoriale, minore è la lucidità, più è difficile rendersi conto dello stato patologico in cui si verte, e scegliere un percorso di ricovero.

Tra l’altro, tutti i comportamenti tipici del DCA diventano molto rapidamente delle abitudini. Si restringe quando ci si trova davanti un piatto col Cibo X, perché è semplicemente quello che ci abituiamo a fare di fronte al Cibo X. Facciamo sempre lo stesso tipo di attività fisica per lo stesso lasso di tempo e nello stesso momento della giornata, perché è nel nostro programma mentale, che diventa un’abitudine. Mangiamo solo determinate quantità di determinati cibi in un certo ordine e ad una certa ora. Il cervello è un organo estremamente abitudinario e reiterativo. Poco a poco, aderisce sempre di più a quelle che sono delle “regole” che inconsciamente stabiliamo quando abbiamo un DCA.

Ecco che l’anoressia diventa la nostra nuova normalità.

Ben presto, tutto si appiattisce. Ci si dimentica com’era quando avevamo più energia. Si tralasciano hobby, interessi, studio, lavoro, perché l'anoressia occupa gran parte della nostra mente e della nostra giornata. Si allontanano gli amici perché non vogliamo che sappiano del nostro DCA. Ci si dimentica di come si faceva a mangiare senza farci problemi prima che l'anoressia esordisse. Ci si dimentica… tutto. Inizialmente, si ricorda ancora com’era la nostra vita in quando l’anoressia non la faceva da padrona. Ma poco a poco, anche questi ricordi s’indeboliscono, e comincia a parerci che in tutta la nostra vita non ci sia mai stato altro che l’anoressia. Si dimentica.

La frase “scegliere scientemente, razionalmente e lucidamente di percorrere la strada del ricovero” mi irrita per varie ragioni, soprattutto perché fa pensare che la strada del ricovero sia una tantum, una scelta che si fa una volta per tutte e poi non ci si pensa più. Come se io oggi scegliessi d’indossare un paio di jeans e una camicia bianca. Faccio questa scelta, indosso questi indumenti, ed è finta qui. Combattere contro l’anoressia non è così semplice. Non è in alcun modo una singola scelta.

Fare colazione. Io mi ricordo quando la mattina mi alzavo da letto e m’intrippavo in pensieri Shakespeariani del tipo “restringere a colazione o non restringere a colazione? Questo è il problema”. E anche quando decidi che, diamine, niente seghe mentali, quella cavolo di colazione la devi proprio fare senza restringere, allora devi decidere se prendere il latte coi biscotti e, nel caso, quali biscotti. Quanti biscotti. E, tra l’altro, quale tipo di latte. Intero? Parzialmente scremato? Scremato? E poi, nient’altro oltre a latte e biscotti? Succo di frutta o no. Qualcos’altro al posto del succo di frutta. Caffè o no (a me il caffè non piace, quindi un problema in meno… almeno questo!). E questo è solo il primo pasto della giornata. E cosa succede quei giorni in cui non si ha proprio per niente voglia di fare colazione? Che si fa, allora? Come si fa ad obbligarsi a mangiare comunque?

Io credo che scegliere la strada del ricovero non è come una lampadina che si accende di punto in bianco. Credo che per scegliere la strada del ricovero sia necessario un supporto medico anche quando non siamo ancora propriamente complianti, e anche quando lo siamo occorre comunque rinnovare questa scelta giorno dopo giorno. Perché è solo così che l’anoressia che è diventata col tempo la nostra normalità, può lasciare il posto al percorrere la strada del ricovero, che col tempo deve diventare la nostra nuova normalità. Più si sceglie la strada del ricovero, più sceglierla risulta essere meno faticoso. Ma per arrivare a questo, occorre imporsi di fare cose che ci danno discomfort, fare comunque cose che non vorremmo fare, cose che allontanano il (fasullo) senso di controllo che ci faceva provare l’anoressia, per lasciarci nell’incertezza di affrontare le sfide della vita senza più ricorrere ad una strategia di coping malata quale è il DCA. Significa che, anche nei momenti in cui non siamo propriamente ancora in grado di percorrere la strada del ricovero perché ancora troppo dentro all’anoressia, c’è bisogno di un supporto nutrizionale e psicoterapeutico che ci fornisca strategie di coping alternative, onde evitare il dilagare dell’ansia che ci riporterebbe immediatamente ad avere una ricaduta. Scegliere di percorrere la strada del ricovero è una scelta che, secondo me, dovremmo rinnovare giorno dopo giorno per tutta la nostra vita. Ma quando il percorrere la strada del ricovero diventa un’abitudine esattamente come lo era diventata l’anoressia, allora non sarà comunque facile e divertente, ma non sarà neanche più così dura come lo è nei primi tempi.

venerdì 26 aprile 2013

Ansia, cibo e necessità di controllo

Recentemente ho letto un articolo inerente la relazione che intercorre tra fobie e la necessità di controllo. Una delle componenti-chiave della fobia è l’ansia, la paura di perdere il controllo. Cosa potrebbe succedere se fossi chiusa dentro uno spazio molto ristretto e non potessi uscire? – si chiede la persona claustrofobica. O, nel caso dell’anoressia: cosa potrebbe succedere se io non restringessi sistematicamente l’alimentazione? Cosa potrebbe succedere se non facessi sempre la stessa attività fisica tutti i giorni?, e così via…

Il controllo è in realtà un sentimento qualitativo, sì, ma attraverso il DCA lo trasformiamo in un qualcosa di quantitativo: dose di cibo assunto, entità di attività fisica svolta, B.M.I., taglia dei vestiti… Il punto è che, in realtà, la nostra spasmodica ricerca di controllo è strettamente connessa alla ricerca di un sollievo dall’ansia. Il pensiero di base è: se riesco a controllare alla perfezione tutto ciò che riguarda il cibo e l’attività fisica, allora mi sentirò come se tutto nella vita potesse andare bene. 

Salvo poi ovviamente il rendersi conto che questo “andare tutto bene” è un’utopia, e che le cose non vanno dritte a prescindere dal nostro comportamento alimentare. Ma la sensazione di controllo che l’anoressia comunque c’infonde è tale che continuiamo ad ancorarci ad essa anche quando sappiamo quanto possa essere deleteria per noi.

Io penso – per quella che è stata la mia esperienza personale, si capisce, lungi da me il voler fare di tutta l’erba un fascio – che l’aspetto fondamentale di un DCA sia proprio la mania di avere il controllo. La necessità di avere la sensazione di avere il controllo, vero o illusorio che sia, è la base di tutto. Ma non è tutto, ovviamente. Perché spesso l’anoressia non nasce soltanto come un qualcosa che si sente il bisogno di controllare, ma anche come un modo per provare a sentirci più a nostro agio con noi stesse. Il tutto diventa poi un serpente che si morde la coda: più andiamo avanti nella malattia, più sentiamo che il controllo ci sfugge, più strettamente cerchiamo di controllare l’alimentazione per evitare di essere soverchiate dall’ansia.

L’ansia è un altro elemento molto importante nel contesto di un DCA. Non è tanto correlata al cibo in sé, quanto a tutto il resto: alla vita stessa, così ansiogena che bisogna per forza ricorrere ad una strategia di coping. Occorre inoltre sempre tener presente il fatto che i DCA hanno un effetto sia psicologico, sia neurochimico: il ridurre l’introito alimentare limita la produzione di quei neurotrasmettitori che fomentano l’ansia, e i comportamenti rituali di checkup danno l’illusione di avere il pieno controllo su ogni singolo aspetto della propria vita.

Paradossalmente, più ci s’inoltra nell’anoressia, più la vita diventa difficile. Questo ci spinge a impegnarci ancora di più in questa via distruttiva per mantenere il senso di controllo che il DCA ci dà. L’avere un senso di controllo riduce lo stress.

Una delle cose che più stressa le persone è sentire di non avere il controllo. Quando perdiamo il controllo, attuiamo elaborate ginnastiche mentali per auto-convincerci che abbiamo il controllo, o per evitare di compiere azioni che potrebbero portarci a perdere il controllo. Molte di queste sono ascrivibili al “pensiero magico”: se vado sulla cyclette per mezz’ora, andrà tutto bene. Manterrò il controllo, il mio peso rimarrà stabile, e sarà tutto okay. Oppure: se riesco a restringere l'alimentazione in questo modo, posso controllare tutto e quindi niente mi coglierà impreparata. Cose del genere diventano mantra inconsci che ci ripetiamo più e più volte, arrivando ad organizzare sempre di più la nostra vita in funzione delle stesse.

Quel che dovremo fare, perciò, è imparare ad affrontare face-to-face i nostri veri problemi. Soltanto confrontandoci con quello che ci mette ansia e ci spaventa, possiamo renderci conto che il controllo è sopravvalutato. Inoltre, ironicamente, dato tutto il controllo che abbiamo dato prova di possedere con l’anoressia, possiamo utilizzare lo stesso per mantenerci dritte sulla strada del ricovero: non abbiamo forse dimostrato di avere un controllo così forte da permetterci di fare tutto ciò che vogliamo??!...

Dunque, in conclusione, l’anoressia non è una malattia del cibo, è una malattia del controllo. È anche una malattia dell’ansia, della paura, dello stress, di tutti i problemi assolutamente individuali e personali che ognuna di noi ha e che momentaneamente non riesce ad affrontare se non con quest’erronea strategia di coping. Un DCA è un insieme di tante cose, in fondo, per cui penso che l’unico semplice modo per spiegare cos’è un DCA sia il dire che è… complicato.

venerdì 16 novembre 2012

Voler vivere con l'anoressia??

Okay. Sono pronta a scommettere che chiunque legge questo mio blog, ne segue almeno un altro paio che trattano sempre di disturbi alimentari. E che, pertanto, tutte avranno notato che ci sono blog tenuti da ragazze che, pur avendo un DCA, non figurano l’idea di poterlo combattere, in quanto sostengono che il DCA sia parte integrante di se stesse e della loro vita, e/o lo considerano comunque una scelta vantaggiosa. Non sto parlando delle ragazze che si autodefiniscono “pro-ana”, "pro-mia" e cazzatelle affini, mi riferisco piuttosto a quelle persone che utilizzano i propri blog come una sorta di “valvola di sfogo” nel tentativo di buttare fuori un po’ della merda che il DCA quotidianamente riversa nelle loro vite, ma che nonostante la consapevolezza di quanto il DCA sia distruttivo, sono restie ad iniziare un percorso di ricovero. Avrete anche notato che si tratta per lo più di ragazze che hanno l’anoressia, e che invece chi soffre di bulimia o di binge non percepisce positivamente il suo DCA – cosa che trovo piuttosto interessante, ma ci tornerò più avanti.

Dunque, ricapitolando: si tratta di ragazze che hanno un DCA conclamato, diagnosticato, che in taluni casi in passato hanno anche intrapreso percorsi di ricovero che poi però hanno abbandonato, e che nonostante razionalmente si rendano conto della pericolosità dei DCA per la propria salute, per una ragione o per un’altra non si sentono pronte a staccarsi dal loro disturbo alimentare – il che, ad una lettura superficiale, può far pensare che queste ragazze vogliano rimanere malate, ma secondo me le cose non stanno proprio così… comunque, ci tornerò su tra qualche minuto.

Allo stesso tempo, ci sono il mio blog e tutta una serie di blog con contenuti affini, che potrebbero essere indicati come spiccatamente “pro-ricovero”. Insomma, tutti quei blog tenuti da ragazze che parimenti hanno un DCA, ma che sono già fermamente decise a combatterlo. E che, talvolta, rimangono (rimaniamo, mi ci metto anch’io) un po’ stizzite di fronte a quelle che dicono di voler perseverare nel loro DCA.

Osservando questa dicotomia tra blog che trovo molto interessante, mi è venuto inevitabilmente da chiedermi: cosa rende diverse le ragazze che dicono di voler vivere col DCA, da quelle che dicono di volerlo combattere? La mia risposta è stata: NIENTE. Perché sono dell’idea che chiunque scriva che non vuole combattere contro l’anoressia non significa necessariamente che quella persona voglia avere l’anoressia. Se state leggendo questo post e appartenete a coloro che sono dell’idea di voler vivere con il proprio DCA, dopo aver letto questo probabilmente starete pensando: “No no no no no. Hai torto, hai torto. Non ne sai niente di tutto questo, evidentemente non sai cosa significhi avere l’anoressia.” (E invece, purtroppo, lo so fin troppo bene.) Ma lasciate un attimo che vi spieghi. Io credo che il dire di non voler combattere contro l’anoressia non significa desiderare di avere l’anoressia in sé.

Io sono fermamente convinta che l’anoressia sia utilizzata come simbolo di tutte le cose che nella vita di una persona vanno storte. Una strategia di coping, insomma: non è importante in sé, è importante per quello che rappresenta, per quello che va a tappare.

E, ovviamente, a questo punto le persone che stanno leggendo e che non contemplano l’idea di combattere contro l’anoressia, dissentiranno con quanto ho appena scritto, e diranno: “No, ma io voglio davvero essere anoressica. Ce l’ho da così tanto tempo, che ormai fa parte di me, non mi ricordo nemmeno di com’era la mia vita prima dell’anoressia, ma ora l’anoressia è nella mia vita e mi va bene così. Voglio davvero restringere l’alimentazione, perdere peso, bruciare calorie, insomma, voglio davvero continuare a tenere questo comportamento.” Bè, poco ma sicuro, voi davvero DESIDERATE continuare a tenere questo comportamento. Lo desiderate. Lo so. Ma perchè?

Si pone dunque la questione: “Perchè qualcuna vuole davvero questo?”. E le ragioni possono essere estremamente complesse e numerose, variabili da persona a persona, ma una di queste, comune a tutte, credo che sia il fatto che c’è il bisogno di controllo. Nessuna in realtà vuole l’anoressia in sé – ma tutte si vuole la sensazione di controllo che deriva dal riuscire a restringere l’alimentazione. Ha un senso, no? Voglio dire, non penso che chiunque abbia un DCA possa essere completamente in disaccordo con questo. Chi di voi potrebbe dirmi, in onestà, che non vuole sentirsi in controllo? Che non vuole sentirsi come se, controllando l’alimentazione, potesse tenere a bada l’ansia e quindi avere la (illusoria) sensazione di poter controllare ogni ambito della propria vita e piegarlo a proprio piacimento? Chi non vuole sentirsi forte e sicura di se stessa almeno in qualcosa come la restrizione alimentare?

Chiunque, nella vita, ha piacere a sentirsi sicuro di sé in qualcosa, ha piacere a sentire che sta controllando qualcosa. È solo che le persone che hanno un DCA intraprendono una via patologica per ottenere queste sensazioni. Non è il desiderio di controllo in sé ad essere patologico – è il modo in cui esso si manifesta.

Inoltre, ho avuto modo di notare, nessuna delle persone che ha avuto un DCA lo considera come un qualcosa di assolutamente negativo perché, se non altro, è stato “grazie” al DCA che hanno ricevuto l’aiuto di cui avevano bisogno, ma che non avrebbero ottenuto altrimenti – ed è questa, secondo me, un’altra delle ragioni per cui certe ragazze si dichiarano non convinte di voler combattere contro l’anoressia. In fin dei conti, se una ragazza ha un DCA, e tutte le persone intorno sono così preoccupate per la sua perdita di peso, sono così preoccupate per la sua magrezza eccessiva, sono così preoccupate per la sua mancanza del ciclo, sono così terrorizzate all’idea che quella ragazza possa morire, e così via – ecco che vengono ottenute cose che altrimenti non si sarebbero potute avere. Questa è la triste realtà di un disturbo alimentare. Di ogni qualsiasi disturbo alimentare, anche se l’anoressia è il caso più eclatante.

Con un DCA si ottiene la possibilità di poter parlare con uno psicoterapeuta, si ottiene l’attenzione, l’ascolto e l’affetto delle persone che stanno intorno, molto più di quanto quelle persone dedicavano attenzione, ascolto ed affetto prima che il disturbo alimentare esordisse. E, allo stesso tempo, per la maggior parte del tempo, chi ha un DCA dentro di sé non vorrebbe tenere tutti i comportamenti tipici del disturbo stesso… vorrebbe solo ottenere dagli altri le cose che ottiene quando tiene quei comportamenti. E questa, per alcune, può sembrare una valida ragione per non combattere seriamente contro l’anoressia.

Voglio dire, se c’è una ragazza che non si sente presa in considerazione, che ha la sensazione che a chi le sta vicino non interessi niente di lei, che si sente messa in disparte, e poi scopre che se tiene dei comportamenti alimentari erronei allora tutti si preoccupano per lei e le stanno vicini – e lei si sente considerata, sente l’affetto altrui, la loro preoccupazione per ciò che sta facendo – perché non dovrebbe portare avanti quel comportamento alimentare erroneo? È qui che la mente s’auto-inganna.

“Qual è una buona ragione per combattere contro l’anoressia?” è dunque l’altra cosa che si chiedono queste ragazze. E questa domanda è la ragione per cui certe ragazze abbandonano la psicoterapia e si trincerano dietro il proprio disturbo alimentare. È la ragione per cui dicono di non voler intraprendere la strada del ricovero. È perché temono che, migliorando il loro stato di salute, potrebbero venir meno l’affetto e l’attenzione che l’anoressia ha calamitato su di loro. (Al solito, parlo di “anoressia” semplicemente perché si tratta del mio DCA e perciò mi viene più spontaneo, ma ovviamente quanto scritto ritengo valga per ogni qualsiasi disturbo alimentare.)

E la ragione – e qui mi riallaccio con quanto avevo scritto all’inizio del post – per cui l’atteggiamento “non voglio mollare il DCA” è più frequente in chi ha l’anoressia che non in chi ha la bulimia o il binge, è perché spesso chi ha questi ultimi due DCA è normopeso o sovrappeso. E così riceve comunque poche attenzioni da chi gli sta intorno. Inoltre, da quel che ho capito parlando con ragazze che hanno questi due DCA, l’abbuffata e il vomito auto-indotto vengono vissuti come una perdita di controllo, e questo riporta all’altro aspetto di chi ho già parlato. Comportamenti di questo tipo, peraltro, inducono da parte degli altri commenti quali: “Perché non la smetti di mangiare così tanto? Perché non provi a perdere qualche chilo?”. Il che è estremamente sciocco, perché è come dire a una persona che ha l’anoressia: “Perché mangi così poco? Perché non provi a prendere qualche chilo?”. Non è così semplice ed immediato. Non è mai così semplice ed immediato. Se lo fosse, non credete che chiunque abbia un DCA impiegherebbe straordinariamente poco per guarire?!...

Dunque, tirando le somme. Io penso che chiunque affermi di voler convivere con un DCA conclamato, in realtà vuole combatterlo, o potrebbe facilmente essere sul punto di pensare di volerlo combattere. Ha solo timore che, una volta migliorate le condizioni fisiche, tutti gli altri pensino che sta finalmente bene, e che non ha più alcun tipo di problema; visto che la maggior parte della gente che non ha vissuto un DCA tende ad associare la guarigione dall’anoressia al recupero di un peso e di un aspetto decente, e che quindi nessuno possa poi più curarsi di loro, e che quindi tornino esattamente nella situazione di partenza. Ma chi ha vissuto un disturbo alimentare, chi lo vive, sa che la fisicità è solo la cosa più superficiale. E che combattere contro l’anoressia significa molto, molto, MOLTO di più del mero recuperare qualche chilo. Perché i veri problemi che vengono esternalizzati con una strategia di coping quale l’anoressia, sono molto più profondi ed intricati della banale restrizione alimentare.

Se combattere contro l’anoressia significasse essere prese in considerazione, ascoltate, aiutate nei momenti di difficoltà anche senza avere un DCA conclamato e senza tenere i comportamenti alimentari erronei tipici del DCA stesso – avere le stesse attenzioni che si hanno quando si ha un DCA conclamato ma senza bisogno di restringere l’alimentazione/abbuffarsi/vomitare, o qualsiasi cosa ciascuna di noi faccia col cibo – nonché riuscire comunque a sentirsi forti, sicure di sé, in controllo, e speciali, io credo che chiunque vorrebbe combattere contro l’anoressia senza pensarci due volte. Io penso che le ragazze che dicono di non volersi opporre all’anoressia, temano di perdere quelle sensazioni e quelle attenzioni che l’anoressia per la prima volta nella loro vita gli permette di percepire e di ricevere, ed è per questo che dicono di non voler abbandonare la restrizione alimentare. Ma il punto è che abbiamo una voce proprio per esprimere quello che non ci va, anziché proiettarlo sul corpo e lasciare che sia lui a parlare per noi. E che possiamo essere speciali anche senza l’anoressia, perché non è una malattia che può renderci tali, ma solo la nostra personalità e il modo in cui ci rapportiamo alla vita.

Ovvio, questo è solo il mio punto di vista… In ogni caso, se siete o non siete d’accordo con quello che ho scritto, fatemelo sapere nei commenti. Questo è quel che io penso delle ragazze che tengono dei blog o che mi scrivono via e-mail dicendomi che non sono affatto convinte di voler combattere contro l’anoressia. E voi, che ne pensate? Lasciatemi il vostro feedback nei commenti, se vi va!

venerdì 25 maggio 2012

Dire "SI"

La parola “NO” è una costante dell’anoressia. “No grazie, ho già mangiato”; “No, adesso non mi va”; “No, stasera ho da fare”. Un sacco di evitamenti. Se si viene poste di fronte a qualcosa che possa interferire con il nostro DCA, diciamo di “no” e scappiamo via. La stessa anoressia, del resto, è un castello di carta le cui fondamenta affondano sulla negazione e sul concetto del “no”: no al cibo in quantità normali, no alla perdita dell’apparente controllo, no alla vita sociale, no al raccontare la verità, niente.

Sarà capitato a tutte di trovarsi di fronte a qualcuno che chiede qual è il gusto di qualcosa, o quali sono le nostre preferenze alimentari. Di solito, di fronte a domande del genere, la risposta più spontanea è: “Non lo so, non l’ho mai assaggiato”, oppure si tira fuori una bugia su quali siano le cose che si preferisce mangiare. In realtà, magari dentro di noi immaginiamo pure quale possa essere il gusto di un certo alimento, o cosa si preferirebbe mangiare, cosa ci piacerebbe di più. L’ironia, qui, è: si può facilmente immaginare il gusto di certi alimenti, ma si fa molta più fatica ad immaginare che noi stesse possiamo mangiare quegli alimenti. Non è il cibo in sé per sé che causa ansia, è l’idea di dire “sì” di fronte alla possibilità di mangiare quel cibo.

 Dunque, perchè dire “sì” causa ansia? Penso che questo derivi soprattutto dal timore di non avere più il controllo. Perché in fin dei conti, è questo il tassello fondamentale su cui l’anoressia si basa: il controllo. Finché si dice “no” a qualsiasi cosa, si mantiene il controllo. E se invece il dire “sì” ci strappasse questo controllo? Eccola, la cosa veramente terrorizzante. Ponendo la questione sull’argomento “cibo”, ciò equivale a dire che è relativamente semplice accettare l’idea che si NECESSITA di nutrirsi, ma è molto più difficile accettare l’idea che si VOGLIA nutrirsi.

Credo che la maggior parte delle persone con un DCA siano, per natura, delle persone piuttosto evitanti. La maggior parte dell’evitazione è correlata alla paura. Paura di non poter più controllare tutto quanto, come l’anoressia ci dà l’illusione di poter fare. Questo è ciò che principalmente porta a dire “no”. Dopo un po’, questo rifiutare finisce per diventare un’abitudine – una cattiva abitudine, in effetti – e bisogna lavorarci su per cambiare questa mentalità.

Bisogna perciò combattere contro la tentazione di dire sempre di “no”. Magari mangiando un morso della focaccia che ci offre la nostra amica. Magari rinunciando ad una corsa per rimanere a leggere un libro. Magari riuscendo a seguire l’ “equilibrio alimentare”. Magari mangiando un gelato per merenda se ne abbiamo voglia, senza negarcelo. Bisogna provare a dire di “sì” un po’ più spesso. Sì al cibo, ma soprattutto, sì al cambiamento, sì al sorriso, sì alla voglia di combattere… sì alla vita.

mercoledì 20 luglio 2011

Freni al ricovero: E' complicato

La vita è incredibilmente complicata. Ci sono le relazioni interpersonali (amici, familiari, colleghi di lavoro, compagni di scuola, etc…), c’è il lavoro, c’è la scuola, c’è lo sport, e ci sono comunque un sacco di variabili sulle quali in realtà non possiamo avere alcun controllo. Sebbene l’anoressia non sia solo ed unicamente sinonimo di “controllo”, trovo che la necessità di avere il controllo sia uno dei leit-motive di ogni DCA.

Molto spesso, quando si percorre la strada del ricovero, sebbene non si provi esattamente la “mancanza dei bei tempi andati” quando eravamo completamente in balia dell’anoressia, quando sentiamo la mancanza del DCA sono proprio i momenti in cui la vita sembra farsi più difficile, ed allora sentiamo la mancanza della semplicità connessa all’anoressia. E questo può essere un ulteriore blocco al ricovero.

L'anoressia semplifica la vita

Quando si è nel pieno dell’anoressia, le cose che c’interessano sono essenzialmente 3: perseguire la restrizione alimentare, continuare a provare il senso di controllo e di soddisfazione che ci dà la restrizione alimentare, cercare di nascondere al resto del mondo quello che stiamo facendo. Possiamo anche avere qualche difficoltà nel lavoro o nella scuola – ma va bene comunque, perchè stiamo restringendo l’alimentazione. Possiamo anche avere difficoltà a preparare una gara sportiva – ma va bene comunque, perchè ci sentiamo soddisfatte di noi stesse, sentiamo di avere il controllo e che, perciò, possiamo controllare qualsiasi ambito della nostra vita. Possiamo anche aver litigato con la nostra migliore amica – ma va bene comunque, perché siamo state brave a raccontare bugie e nessuno ha fatto caso a quanto poco anche oggi abbiamo mangiato. Ta-dah! E’ semplice, no?! Fintanto che continuniamo ad esercitare il nostro ferreo controllo alimentare, la vita diventa tremendamente semplice perchè nient’altro conta.

E poiché più si prosegue la restrizione alimentare, più sono gravi le carenze dell’aminoacido triptofano, minore è la produzione di serotonina, peggiore è la neurotrasmissione, maggiore è l’ossessività dei pensieri inerenti il DCA, la semplicità diventa poco a poco sempre più pronunciata. Perché, letteralmente, l’unica cosa cui si diviene capaci di pensare è la restrizione alimentare. Anche se si volesse, anche se si avesse bisogno di pensare a qualcosa di diverso, non ci si riesce. Tutto va a ruotare intorno alla restrizione e al senso di controllo e di soddisfazione che ne derivano. Ci sembra di avere la nostra vita tanto più in mano quanto più ci sta sfuggendo. Certo, la ginnastica mentale che bisogna fare per perseguire la restrizione alimentare è tutt’altro che semplice. Ci si sforza continuamente d’immaginare quali circostanze potrebbero limitare la possibilità di restringere l’alimentazione, e in quale modo fare la cresta a quel che mangiamo. Nonostante questo, tale ginnastica mentale è comunque più semplice di tutte le altre sfide che la vita ci porrebbe davanti se non avessimo lo schermo dell’anoressia. Così s’impara a negare, a isolarci, a mentire, a nascondere, per preservare l’anoressia e l’apparente semplicità e controllo che questa pare, in un primo momento, apportare.

Quando si è nel pieno dell’anoressia, non si è molto preoccupate relativamente a quello che sarà il futuro lontano – non si pensa neanche, per esempio, che l’anoressia possa ucciderci. Non si pensa minimamente ai danni che l’anoressia lascerà sul nostro corpo anche se dovessimo sopravviverle. Fintanto che l’anoressia rimane il nostro asso nella manica, fintanto che quel poco che mangiamo basta a mantenerci in vita, non si dà grande importanza al futuro. Non gli si dà grande peso.

Restrizione alimentare. Controllo. Attività fisica. Queste cose sono molto più facili rispetto a tutto il resto, rispetto alle relazioni interpersonali, al lavoro, allo studio. La vita richiede che ci mettiamo tutte noi stesse per giocare in ruoli differenti, cavarcela in situazioni diverse, rapportarci a persone differenti. E’ difficile. Quando riceviamo un invito a cena da un’amica, dobbiamo determinare come quest’invito possa essere incastrato con i nostri impegni e le nostre responsabilità: dove queste responsabilità possono venire meno, se c’è bisogno di noi a casa, se possiamo organizzare gli altri impegni in modo da farci rientrare anche la cena. Quando si ha un DCA, tutti questi problemi non esistono: si declina l’invito e basta, in quanto cena = cibo = mangiare di fronte ad altri. Egoista, se vogliamo, ma definitivamente semplice.

Percorrere la strada del ricovero significa accettare la vita con tutti i suoi problemi, difficoltà e “catastrofi”. Significa giocare tutte le parti, e le cose non andranno sempre come vorremmo. Significa relazionarsi con le persone correndo il rischio di essere ferite. Significa accettare le nostre imperfezioni, e assumersi la responsabilità di provare a vivere davvero. Ma io credo che ne valga la pena. Che ne valga la pena comunque. Che valga la pena alzare la campana di vetro dell’anoressia, anche solo per respirare un attimo.
 
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