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venerdì 6 febbraio 2015
Il difficile è fare le cose semplici: La complessità dell'anoressia
Chi legge il mio blog da un bel po' di tempo saprà che non ho mai scritto un post in cui elenco le cause, la natura, le esperienze e le terapie dei DCA, poichè in effetti non ho alcuna certezza a tal proposito. Tuttavia, se c'è una cosa di cui sono assolutamente sicura a proposito dei DCA è che sono delle malattie terribilmente complesse e multisfaccettate senza soluzioni univoche che possano andar bene per tutte. Per cui, ho molto apprezzato questo studio scientifico scritto da Michael Strober e Craig Johnson, che mira ad esplorare la complessità dei DCA e del loro trattamento terapeutico.
Per scrivere l'articolo sono stati utilizzati case report, letteratura, e l'esperienza clinica degli autori stessi, al fine di rispondere al alcune delle controversie che circondano l'anoressia ed il suo trattamento terapeutico. Di tutte le controversie esistenti su questo DCA, si sono focalizzati su 2 in particolare.
1 - Cause genetiche/biologiche (Malattie mentali su base biologica) dell'anoressia?
2 - Terapia familiare come migliore forma di trattamento per le pazienti adolescenti?
Nell'analizzare questi 2 punti, gli autori hanno posto una fondamentale premessa: concentrarsi sulle singole spiegazioni e soluzioni terapeutiche per l'anoressia, oscura la complessità di questa patologia, e di conseguenza tutto il processo e tutte le possibili soluzioni terapeutiche necessarie per trattarla in maniera efficace. Di questa complessità occorre tenere conto, perchè è fondamentale per capire che l'approccio terapeutico più adatto varia da persona a persona. Dopo aver contestualizzato ed approfondito le tematiche trattate, Stober e Johnson concludono l'articolo suggerendo dei punti di riferimento per il trattamento terapeutico dell'anoressia.
Controversie come catalizzatori di conversazione
Lungi dal suggerire che le controversie che emergono in merito ai DCA in generale e all'anoressia in particolare debbano essere evitate, gli autori sottolineano che i punti di disaccordo e le discussioni in merito all'eziologia e al trattamento di queste patologie sono servite a mettere in luce aree su cui indagare per imparare qualcosa di nuovo su queste patologie.
Soprattutto, gli autori sottolineano che non sono necessariamente in disaccordo con la recente focalizzazione sugli eventuali aspetti genetici/biologici dei DCA e con la psicoterapia familiare, dicono semplicemente che è necessario ampliare le vedute riducendo l'importanza di questi 2 punti, per lasciare spazio anche ad altro.
Come forse molte di voi sapranno, ultimamente sono stati avviati diversi studi che cercano di correlare la comparsa dell'anoressia all'azione di fattori genetici/biologici. Io non dico che questo sia sbagliato, però mi sembra estremamente limitativo: trattare l'anoressia da un punto di vista gene-centrico mi sembra possa portare, al di là di tutto, alla conclusione che una volta che si è recuperato il peso perso, la psicoterapia è inutile perchè tanto è un problema di DNA.
Inoltre, poichè è noto il fatto che la psicoterapia funziona meglio quando si recupera peso, alcuni psicoterapeuti sono dell'idea che non sia opportuno iniziare il lavoro psicologico, fino a che il peso perso non è stato recuperato. Viceversa, gli autori di quest'articolo (ed io li quoto in pieno) sostengono che per fare psicoterapia non c'è bisogno di aspettare il recupero ponderale.
Reificazione della genetica
Mentre nella maggior parte dei trials clinici si fa riferimento a dei gold standard presenti in ogni campo cientifico, la rilevanza dei trials randomizzati controllati e degli studi genetici può risultare, come gli autori suggeriscono, in una “reificazione” dei risultati di questi studi. Anche se vi possono essere forti evidenze a favore di un determinato tipo di trattamento, ciò non significa che quel trattamento vada bene sempre, comunque e per tutte le persone affette da anoressia. Come Strober e Johnson fanno notare, rimangono comunque numerose questioni aperte, compresa quella del perchè uno stesso trattamento terapeutico non è ugualmente efficace su tutte le persone, e perchè non sempre la pratica clinica si basa sulle evidenze scientifiche.
Cause genetiche/biologiche rivistate
Come gli autori suggeriscono, non c'è una specifica evidenza che vi sia un'ereditarietà diretta per l'anoressia. Io non sono certo una genetista nè una neurobiologa, ma effettivamente non riesco a vedere una grande connessione tra malattie genetiche ed anoressia. La maggior incidenza di casi all'interno di una stessa famiglia, la imputo a cause comportamentali piuttosto che genetiche.
Gli autori dello studio danno pertanto dei suggerimenti su come la genetica potrebbe essere, ma solo trasversalmente, implicata nello sviluppo dell'anoressia:
• I geni e l'ambiente che ci circonda sono correlati, tuttavia nessuno di essi singolarmente è in grado di spiegare nè di causare un DCA
• Persone con una predisposizione all'anoressia possono essere esposte a particolari circostanze di vita e determinano l'espressione di quelle caratteristiche alle quali sono predisposte
• La genetica e l'ambiente che ci circonda possono incidere contemporaneamente o separatamente in diversi momenti della vita di un individuo
• I circuiti neuronali si plasmano e si adattano sulla base dell'ambiente che circonda il soggetto
• Lo stress può essere catalizzatore di variazioni neurochimiche che modulano cambiamenti di diverse aree cerebrali e condizionano il comportamento
• Uno stress ambientale porta ad iper-sensibilità delle aree cerebrali implicate nella generazione della paura, d'altro canto queste stesse strutture possono essere riportate alla norma agendo sull'ambiente stesso
• Il carattere e l'ambiente in cui un individuo vive influenzano significativamente il suo comportamento
La discussione degli autori in merito all'interazione tra geni ed ambiente è dettagliata e intrigante; e mi è piaciuto il fatto che fattori ambientali sia positivi che negativi siano stati indicati come possibili concause dell'anoressia, poichè troppo spesso ci si concentra solo sui fattori ambientali negativi, e si tende a tralasciare l'effetto di quelli positivi.
In breve, Strober e Johnson argomentano il fatto che i medici (e le persone più in generale) debbano prendere in considerazione come minimo 3 fattori diversi per cercare di comprendere l'anoressia:
• Fattori biologici
• Fattori ambientali
• Personalità e contesto vitale dell'individuo
Senza riuscire a comprendere questi 3 fattori, è veramente difficile trovare un trattamento efficace per l'anoressia. Come illustrano anche i casi clinici studiati in questo articolo “i sintomi delle malattie psichiche non esistono in un vuoto impersonale”, e far riferimento solo a spiegazioni genetico-biologiche è insufficiente a fornire soluzioni che possano essere valide per chi soffre e per i familiari.
Esperienza, competenza e complessità
Un altro elemento centrale di questo articolo è la focalizzazione sull'importanza di una corretta istruzione teorico-pratica per i medici che avranno a che fare con queste patologie così complesse. Gli autori si lanciano in una disquisizione sulle strategie implicate nella determinazione dell'approccio terapeutico più appropriato per la singola persona affetta da anoressia. Sottolineano come i medici debbano diventare più consapevoli delle loro pecche nel comprendere e nel trattare l'anoressia, tanto quanto la scienza li sottende.
Le stesse pazienti ed i loro familiari devono essere informati (presumibilmente dal team terapeutico) della multifattorialità della patogenesi dell'anoressia: questo è un suggerimento che ho particolarmente apprezzato, perchè mi sembra che troppo spesso i genitori si auto-accusino della genesi dell'anoressia nelle loro figlie, quando magari il loro ruolo è più o meno marginale, e la loro comprensione sull'anoressia molto parziale.
Comprendere che l'anoressia è una malattia a patogenesi multifattoriale non significa che in tutti i casi la famiglia c'entri meno di meno zero nella comparsa di questa patologia, ma significa che il suo ruolo non è così centrale come per molto tempo varie teorie psicologiche hanno detto fosse, e che dunque è necessario concentrare maggiormente il lavoro psicoterapeutico sul singolo individuo, che non sulla sua famiglia.
Stabilire punti di riferimento
Ovviamente, data la grande complessità dell'anoressia, non è facile determinare dei punti di riferimento durante il corso del trattamento terapeutico.
Gli autori dell'articolo pertanto sottolineano una serie di punti da prendere in considerazione:
• Sintomi lievi che persistono nonostante tentativi terapeutici non devono essere ignorati o sottovalutati.
• La salute fisica e quella mentale sono strettamente correlate: la lucidità di una ragazza affetta da anoressia, e dunque la possibilità di trarre giovamento dalla psicoterapia, aumenta in maniera direttamente proporzionale al recupero del peso perso.
• Una singola strategia terapeutica applicata su un vasto numero di pazienti dà generalmente risultati insoddisfacenti, poichè ogni singola persona risponde bene ad uno specifico tipo di terapia.
• L'inesperienza stessa degli psicoterapeuti, o i preconcetti che essi stessi hanno sull'anoressia possono avere effetti estremamente negativi sul percorso di ricovero di una paziente.
• Più a lungo l'anoressia persiste, peggiore è il suo impatto sulla salute psicofisica delle pazienti.
Mentre dei punti di riferimento possono essere utili in termini di decidere se una ragazza debba essere ricoverata in clinica o meno, e su quale tipologia di percorso terapeutico seguire, senza un team medico che abbia adeguata esperienza nel campo dei DCA e che sia in grado di comprendere quali complessi processi si giocano nell'anoressia, difficilmente un percorso di ricovero risulterà utile.
Con la constatazione che i loro suggerimenti per i punti di riferimento sono una linea di massima piuttosto che soluzioni empiriche, gli autori propongono diversi scenari e punti di riferimento. Questi punti di riferimento sono per lo più centrati sul tipo di DCA, e variano sulla base dell'età e del decorso della patologia.
Non voglio annoiarvi ulteriormente mettendomi ad illustrare singolarmente i vari punti di riferimento: se siete interessate, vi raccomando caldamente di leggere l'articolo per intero.
Implicazioni
A mio avviso, quest'articolo fa un lavoro eccellente nell'illustrare la complessità dell'anoressia. I suggerimenti dati da Strober e Johnson sottolineano quanto sia importante essere a conoscenza di questa complessità, e quanto sia altrettanto fondamentale essere ben informati, e ben coordinati nel trattamento di un DCA.
Inoltre gli autori fanno anche notare come il trattamento più adatto per un DCA non sia generalizzabile, ma variabile da persona a persona, e come in momenti differenti del percorso della strada del ricovero si possa aver bisogno anche di strategie terapeutiche diverse. Inoltre, gli autori fanno notare come non tutti i medici siano ugualmente competenti nel trattare i DCA e quanto sia importante pertanto non arrendersi se si incappa in psicoterapeuti non propriamente centrati, ma continuare a cercare fino a che non si trovano persone realmente competenti ed in grado di darci una mano concretamente.
Infine, gli autori a mio parere fanno un ottimo lavoro anche nel sottolineare le incredibili battaglie che giorno dopo giorno si trova ad affrontare chi ha un DCA, ed anche i familiari. Mi piace molto vedere come questi 2 autori si prendano a cuore la tematica dell'anoressia nella sua totale complessità, e come il loro sguardo sia rivolto ad ampio raggio alle pazienti, alle famiglie, e ai terapeuti, perché è solo coordinando l'azione e lavorando come una squadra che si ottengono i risultati migliori.
Per scrivere l'articolo sono stati utilizzati case report, letteratura, e l'esperienza clinica degli autori stessi, al fine di rispondere al alcune delle controversie che circondano l'anoressia ed il suo trattamento terapeutico. Di tutte le controversie esistenti su questo DCA, si sono focalizzati su 2 in particolare.
1 - Cause genetiche/biologiche (Malattie mentali su base biologica) dell'anoressia?
2 - Terapia familiare come migliore forma di trattamento per le pazienti adolescenti?
Nell'analizzare questi 2 punti, gli autori hanno posto una fondamentale premessa: concentrarsi sulle singole spiegazioni e soluzioni terapeutiche per l'anoressia, oscura la complessità di questa patologia, e di conseguenza tutto il processo e tutte le possibili soluzioni terapeutiche necessarie per trattarla in maniera efficace. Di questa complessità occorre tenere conto, perchè è fondamentale per capire che l'approccio terapeutico più adatto varia da persona a persona. Dopo aver contestualizzato ed approfondito le tematiche trattate, Stober e Johnson concludono l'articolo suggerendo dei punti di riferimento per il trattamento terapeutico dell'anoressia.
Controversie come catalizzatori di conversazione
Lungi dal suggerire che le controversie che emergono in merito ai DCA in generale e all'anoressia in particolare debbano essere evitate, gli autori sottolineano che i punti di disaccordo e le discussioni in merito all'eziologia e al trattamento di queste patologie sono servite a mettere in luce aree su cui indagare per imparare qualcosa di nuovo su queste patologie.
Soprattutto, gli autori sottolineano che non sono necessariamente in disaccordo con la recente focalizzazione sugli eventuali aspetti genetici/biologici dei DCA e con la psicoterapia familiare, dicono semplicemente che è necessario ampliare le vedute riducendo l'importanza di questi 2 punti, per lasciare spazio anche ad altro.
Come forse molte di voi sapranno, ultimamente sono stati avviati diversi studi che cercano di correlare la comparsa dell'anoressia all'azione di fattori genetici/biologici. Io non dico che questo sia sbagliato, però mi sembra estremamente limitativo: trattare l'anoressia da un punto di vista gene-centrico mi sembra possa portare, al di là di tutto, alla conclusione che una volta che si è recuperato il peso perso, la psicoterapia è inutile perchè tanto è un problema di DNA.
Inoltre, poichè è noto il fatto che la psicoterapia funziona meglio quando si recupera peso, alcuni psicoterapeuti sono dell'idea che non sia opportuno iniziare il lavoro psicologico, fino a che il peso perso non è stato recuperato. Viceversa, gli autori di quest'articolo (ed io li quoto in pieno) sostengono che per fare psicoterapia non c'è bisogno di aspettare il recupero ponderale.
Reificazione della genetica
Mentre nella maggior parte dei trials clinici si fa riferimento a dei gold standard presenti in ogni campo cientifico, la rilevanza dei trials randomizzati controllati e degli studi genetici può risultare, come gli autori suggeriscono, in una “reificazione” dei risultati di questi studi. Anche se vi possono essere forti evidenze a favore di un determinato tipo di trattamento, ciò non significa che quel trattamento vada bene sempre, comunque e per tutte le persone affette da anoressia. Come Strober e Johnson fanno notare, rimangono comunque numerose questioni aperte, compresa quella del perchè uno stesso trattamento terapeutico non è ugualmente efficace su tutte le persone, e perchè non sempre la pratica clinica si basa sulle evidenze scientifiche.
Cause genetiche/biologiche rivistate
Come gli autori suggeriscono, non c'è una specifica evidenza che vi sia un'ereditarietà diretta per l'anoressia. Io non sono certo una genetista nè una neurobiologa, ma effettivamente non riesco a vedere una grande connessione tra malattie genetiche ed anoressia. La maggior incidenza di casi all'interno di una stessa famiglia, la imputo a cause comportamentali piuttosto che genetiche.
Gli autori dello studio danno pertanto dei suggerimenti su come la genetica potrebbe essere, ma solo trasversalmente, implicata nello sviluppo dell'anoressia:
• I geni e l'ambiente che ci circonda sono correlati, tuttavia nessuno di essi singolarmente è in grado di spiegare nè di causare un DCA
• Persone con una predisposizione all'anoressia possono essere esposte a particolari circostanze di vita e determinano l'espressione di quelle caratteristiche alle quali sono predisposte
• La genetica e l'ambiente che ci circonda possono incidere contemporaneamente o separatamente in diversi momenti della vita di un individuo
• I circuiti neuronali si plasmano e si adattano sulla base dell'ambiente che circonda il soggetto
• Lo stress può essere catalizzatore di variazioni neurochimiche che modulano cambiamenti di diverse aree cerebrali e condizionano il comportamento
• Uno stress ambientale porta ad iper-sensibilità delle aree cerebrali implicate nella generazione della paura, d'altro canto queste stesse strutture possono essere riportate alla norma agendo sull'ambiente stesso
• Il carattere e l'ambiente in cui un individuo vive influenzano significativamente il suo comportamento
La discussione degli autori in merito all'interazione tra geni ed ambiente è dettagliata e intrigante; e mi è piaciuto il fatto che fattori ambientali sia positivi che negativi siano stati indicati come possibili concause dell'anoressia, poichè troppo spesso ci si concentra solo sui fattori ambientali negativi, e si tende a tralasciare l'effetto di quelli positivi.
In breve, Strober e Johnson argomentano il fatto che i medici (e le persone più in generale) debbano prendere in considerazione come minimo 3 fattori diversi per cercare di comprendere l'anoressia:
• Fattori biologici
• Fattori ambientali
• Personalità e contesto vitale dell'individuo
Senza riuscire a comprendere questi 3 fattori, è veramente difficile trovare un trattamento efficace per l'anoressia. Come illustrano anche i casi clinici studiati in questo articolo “i sintomi delle malattie psichiche non esistono in un vuoto impersonale”, e far riferimento solo a spiegazioni genetico-biologiche è insufficiente a fornire soluzioni che possano essere valide per chi soffre e per i familiari.
Esperienza, competenza e complessità
Un altro elemento centrale di questo articolo è la focalizzazione sull'importanza di una corretta istruzione teorico-pratica per i medici che avranno a che fare con queste patologie così complesse. Gli autori si lanciano in una disquisizione sulle strategie implicate nella determinazione dell'approccio terapeutico più appropriato per la singola persona affetta da anoressia. Sottolineano come i medici debbano diventare più consapevoli delle loro pecche nel comprendere e nel trattare l'anoressia, tanto quanto la scienza li sottende.
Le stesse pazienti ed i loro familiari devono essere informati (presumibilmente dal team terapeutico) della multifattorialità della patogenesi dell'anoressia: questo è un suggerimento che ho particolarmente apprezzato, perchè mi sembra che troppo spesso i genitori si auto-accusino della genesi dell'anoressia nelle loro figlie, quando magari il loro ruolo è più o meno marginale, e la loro comprensione sull'anoressia molto parziale.
Comprendere che l'anoressia è una malattia a patogenesi multifattoriale non significa che in tutti i casi la famiglia c'entri meno di meno zero nella comparsa di questa patologia, ma significa che il suo ruolo non è così centrale come per molto tempo varie teorie psicologiche hanno detto fosse, e che dunque è necessario concentrare maggiormente il lavoro psicoterapeutico sul singolo individuo, che non sulla sua famiglia.
Stabilire punti di riferimento
Ovviamente, data la grande complessità dell'anoressia, non è facile determinare dei punti di riferimento durante il corso del trattamento terapeutico.
Gli autori dell'articolo pertanto sottolineano una serie di punti da prendere in considerazione:
• Sintomi lievi che persistono nonostante tentativi terapeutici non devono essere ignorati o sottovalutati.
• La salute fisica e quella mentale sono strettamente correlate: la lucidità di una ragazza affetta da anoressia, e dunque la possibilità di trarre giovamento dalla psicoterapia, aumenta in maniera direttamente proporzionale al recupero del peso perso.
• Una singola strategia terapeutica applicata su un vasto numero di pazienti dà generalmente risultati insoddisfacenti, poichè ogni singola persona risponde bene ad uno specifico tipo di terapia.
• L'inesperienza stessa degli psicoterapeuti, o i preconcetti che essi stessi hanno sull'anoressia possono avere effetti estremamente negativi sul percorso di ricovero di una paziente.
• Più a lungo l'anoressia persiste, peggiore è il suo impatto sulla salute psicofisica delle pazienti.
Mentre dei punti di riferimento possono essere utili in termini di decidere se una ragazza debba essere ricoverata in clinica o meno, e su quale tipologia di percorso terapeutico seguire, senza un team medico che abbia adeguata esperienza nel campo dei DCA e che sia in grado di comprendere quali complessi processi si giocano nell'anoressia, difficilmente un percorso di ricovero risulterà utile.
Con la constatazione che i loro suggerimenti per i punti di riferimento sono una linea di massima piuttosto che soluzioni empiriche, gli autori propongono diversi scenari e punti di riferimento. Questi punti di riferimento sono per lo più centrati sul tipo di DCA, e variano sulla base dell'età e del decorso della patologia.
Non voglio annoiarvi ulteriormente mettendomi ad illustrare singolarmente i vari punti di riferimento: se siete interessate, vi raccomando caldamente di leggere l'articolo per intero.
Implicazioni
A mio avviso, quest'articolo fa un lavoro eccellente nell'illustrare la complessità dell'anoressia. I suggerimenti dati da Strober e Johnson sottolineano quanto sia importante essere a conoscenza di questa complessità, e quanto sia altrettanto fondamentale essere ben informati, e ben coordinati nel trattamento di un DCA.
Inoltre gli autori fanno anche notare come il trattamento più adatto per un DCA non sia generalizzabile, ma variabile da persona a persona, e come in momenti differenti del percorso della strada del ricovero si possa aver bisogno anche di strategie terapeutiche diverse. Inoltre, gli autori fanno notare come non tutti i medici siano ugualmente competenti nel trattare i DCA e quanto sia importante pertanto non arrendersi se si incappa in psicoterapeuti non propriamente centrati, ma continuare a cercare fino a che non si trovano persone realmente competenti ed in grado di darci una mano concretamente.
Infine, gli autori a mio parere fanno un ottimo lavoro anche nel sottolineare le incredibili battaglie che giorno dopo giorno si trova ad affrontare chi ha un DCA, ed anche i familiari. Mi piace molto vedere come questi 2 autori si prendano a cuore la tematica dell'anoressia nella sua totale complessità, e come il loro sguardo sia rivolto ad ampio raggio alle pazienti, alle famiglie, e ai terapeuti, perché è solo coordinando l'azione e lavorando come una squadra che si ottengono i risultati migliori.
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venerdì 7 marzo 2014
Maldestri suggerimenti di prevenzione per i genitori
Dato che stiamo andando verso la Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla, che è centrata su informazione e prevenzione dei DCA (fate click QUI per avere maggiori informazioni), vorrei parlare proprio di questo: informazione e prevenzione. Quando si parla di informazione e prevenzione dei DCA, c’è da dire che parte di essa è rivolta verso che è già affetta da un DCA, e consiste per lo più nello spiegare quali saranno le terribili conseguenze del DCA sia dal punto di vista fisico che psicologico, al fine di mettere in guardia le persone che intendono proseguire su questa strada (penso che sia una buona cosa, ma non credo funzioni veramente se una persona è nel pieno di un DCA, perché in fin dei conti non siamo stupide e sappiamo quanto il DCA sia dannoso, se lo portiamo avanti è perché rappresenta quella che in quel momento percepiamo come la più ottimale strategia di coping a fronte di altre problematiche); parte di essa è rivolta invece verso i genitori.
Questa è una cosa senz’altro positiva, se viene però condotta nella maniera adeguata. Di certo, a suo tempo, i miei genitori non sapevano che il mio costante bisogno di controllo su tutto era una spia lampeggiante. Né sapevano che la mia restrizione alimentare era solo un sintomo che nascondeva tutt’altri problemi. E non sapevano neanche quali potessero essere i segnali da cogliere per capire che in me c’era qualcosa che non andava, nè le conseguenze di un DCA diagnosticato tardivamente. Ecco, informazioni in merito a queste tematiche sono veramente utili, e sarebbe meraviglioso se venissero fornite più massivamente.
Purtroppo, spesso e volentieri, la prevenzione e l’informazione non viene affatto condotta nella maniera adeguata. Ho provato a digitare su Google “Eating Disorders Prevention" + "Parents” e guardate un po’ quali sono i primi link che mi sono saltati fuori:
Eating Disorders Often Begin At Home (The Almagest)
Food for Thought (Hamlet Hub)
How Parental Behavior May Impact A Child’s Body Image (Forbes)
Li avete letti? Okay, superficialmente questi articoli non sembrano malaccio. In effetti, sembrano tremendamente positivi. Ecco come aiutare i genitori ad aiutare le loro figlie! Come potrebbero mai questi articoli mandare un messaggio sbagliato?
Ecco come:
1) Tutti questi articoli sottilmente (ma neanche tanto…) incolpano i genitori per lo sviluppo di un DCA nelle loro figlie. Nell’articolo di “Forbes”, infatti, l’autore scrive:
“I genitori vengono presi come esempio. Sfortunatamente, i genitori possono talora dimenticare come le loro azioni, pensieri e parole impattano nella vita dei propri figli. Quando si parla di immagine corporea e comportamenti alimentari, la cosa diventa particolarmente rilevante. […] Pertanto i genitori devono fare molta attenzione a come mangiano, a come si relazionano al proprio corpo, e all’impatto che questo potrebbe potenzialmente avere sui loro figli.”
(mia traduzione)
Sì, okay. È naturale che i comportamenti genitoriali possano influenzare i figli – in fin dei conti, si impara a camminare e a parlare per imitazione. Ma c’è un gap enorme tra questo e il dire che la mera imitazione può creare un disturbo alimentare. La verità è che nessun comportamento genitoriale può far ammalare la figlia di anoressia. Non funziona assolutamente così. Anche se il messaggio riportato nell’articolo sembra positivo, instilla subliminalmente senso di colpa nel genitore che legge: “se una ragazza ha un DCA, i suoi genitori erano fissati su peso e cibo e avevano una relazione sbagliata con la propria immagine corporea”. Falso. Certo in rarissimi casi può esistere questa correlazione, ma è una cosa più unica che rara, e dunque ciò non vuol dire che è il comportamento dei genitori a causare un DCA nelle loro figlie, o che, se tu hai un DCA, allora i tuoi genitori ti hanno condizionato pesantemente.
2) Questi articoli danno ai genitori un falso senso di sicurezza. Le persone pensano che se ai loro figli viene insegnato come alimentarsi correttamente, o gli viene spiegato quanto deleterio sia un DCA, o gli viene detto di amarsi ed accettarsi per quella che è la loro fisicità, essi non si ammaleranno mai di anoressia. Perché, in teoria, sanno tutto quello che c’è da sapere per evitare la malattia.
Ma non si può pensare di immunizzare un/a bambino/a all’anoressia fornendogli spiegazioni razionali e corrette, perché un DCA non è una malattia “razionale”. Si può fare tutto l’immaginabile e l’inimmaginabile, e si può farlo bene, e ugualmente quel bambino/a potrà in futuro ammalarsi di anoressia/bulimia.
3) Questi articoli danno per scontato che la causa principale dei DCA sia rappresentata da problemi con la propria immagine corporea. Non è che questo sia falso. Questo è ENORMEMENTE ED INCOMMENSURABILMENTE FALSO! Alcune persone malate di DCA possono sviluppare un’alterazione della percezione della propria immagine corporea (il termine tecnico è “dismorfismo corporeo”) nel corso della malattia, ma sono solo una piccola percentuale rispetto a tutte le malate di DCA, e comunque questa è una conseguenza della malattia, non una causa! Penso che noi tutte sappiamo benissimo che il nostro DCA è stato determinato da tutt’altri tipi di problemi sottostanti, variabili da persona a persona, e che abbiamo utilizzato il DCA più che altro come strategia di coping, ma erano ben altri i veri problemi, NON certo il voler essere magre per fare le modelle! Ergo, in tutti questi articoli c’è un grosso errore di fondo.
4) Questi articoli operano un’errata fusione tra “dieta” e “disturbo alimentare”. Un’altra cosa che mi fa veramente incavolare, di nuovo in riferimento all’articolo pubblicato su “Forbes” (sì, è il peggiore dei 3, secondo me):
“Basandosi su studi recenti (ah sì? E quali sarebbero? Perché, causalmente, non ne viene citato neanche uno? – mia nota a margine) i DCA stanno diventando sempre più frequenti, e esordiscono anche in tenerissima età. L’associazione Nazionale dei DCA dice che circa l’80% delle bambine di 10 anni, infatti, hanno paura di prendere peso. (statistica pescata da chissà dove… sono maligna se dico “inventata”?! – altra mia nota a margine) Sebbene vari fattori contribuiscano alla comparsa e allo sviluppo di un DCA, il modo in cui una madre si relazione alla propria immagine corporea ha una significativa influenza su come i suoi figli vedranno se stessi. Uno studio ha rilevato che l’eccessiva concentrazione di una madre sul proprio peso corporeo è la terza causa più importante che determina problemi d’immagine corporea nelle adolescenti che credono che le loro madri le vogliano magre, e sono 2 - 3 volte più propense a preoccuparsi a loro volta del proprio peso. Queste anomale percezioni dell’immagine corporea non sono un’esclusiva delle ragazze: uno studio della “Harvard School of Public Health” del 2013 ha rilevato che circa il 18% dei ragazzi adolescenti inclusi nel loro studio erano “estremamente preoccupati” per la loro fisicità. In effetti, discutere delle diete o esprimere il desiderio di perdere peso davanti a propri figli quando sono bambini od adolescenti può influenzare negativamente la loro immagine corporea.”
(mia traduzione)
A-ha.
E questo, secondo le loro menti illuminate, cosa avrebbe a che fare con i disturbi alimentari?
5) Questi articoli hanno una concezione dei DCA che andava di moda un secolo fa. Ecco a voi qualche perla estratta dall’articolo di “Forbes”:
Le prime speculazioni, basate su vecchissimi modelli psicoanalitici, hanno a che fare con il concetto di cibo come nutrimento materno:
“Per comprendere la natura psicosociale dei DCA occorre considerare che questa è relazionata a concetti comportamentali come il ruolo dell’attaccamento – radicato al “latte materno”, spiega Krasner. “Questa comprensione primordiale del ruolo che il cibo gioca permette di avere una visione relazionale dei disturbi alimentari nella famiglia”.
"Come spiega Krasner, le prime ipotesi in merito alla patogenesi dei DCA sono relative alle difficoltà tra madre e figlia nella condivisione del “latte materno”: dare amore, ricevere amore, condividere il cibo, condividere ricorrenze legate al cibo.”
(mia traduzione)
Ehm… COMECOSA? L’autore dell’articolo in questione e il cosiddetto “esperto psicoterapeuta” Krasner hanno mai provato a leggere qualcosa relativo ai DCA che sia stato pubblicato negli ultimi 10 anni? O si sono limitati alla lettura di fonti dell’ottocento? Questa roba è retrograda, ampiamente superata dagli studi e dalle acquisizioni più recenti, è semplicemente sbagliata e obsoleta!
Io credo che i genitori non siano la causa della comparsa di DCA nei propri figli, e non credo neanche che ne possano prevenire l’insorgenza. Sebbene sia vero che un buon comportamento genitoriale è d’aiuto per i figli, lo è semplicemente perché i genitori cercano di educare correttamente i propri figli, non perché questo possa in alcun modo avere a che fare con lo sviluppo o meno di un DCA.
Il fatto che una ragazza possa avere un DCA non è in correlazione diretta con i genitori che ha avuto, e non dice niente relativamente a questi genitori.
La frase “I genitori vengono presi come esempio” non dovrebbe mai, mai, mai e poi mai essere utilizzata quando si parla di DCA. Bisogna smetterla di colpevolizzare i genitori.
Immaginate se leggeste un articolo in merito alla prevenzione dei tumori che fornisce un elenco di suggerimenti in merito alle norme igieniche di base per i genitori, come se questo implicasse che la comparsa di un tumore fosse un segno di scarsa igiene del bambino. Immaginate che questi segnali precoci di tumore sarebbero trattati così superficialmente se bisognasse prendere seriamente in considerazione l’idea di consultare un medico?
I disturbi alimentari non sono un problema con “l’immagine corporea”. Sono solo la spia esteriore di numerosi e svariati altri problemi sottostanti. Non possono essere prevenuti o trattati con le semplici cure genitoriali. Se si sospetta un DCA in una ragazza, non bisogna puntare il dito sui genitori, ma bisogna soltanto AGIRE IMMEDIATAMENTE cercando aiuto sia da un punto di vista nutrizionale, ma soprattutto da un punto di vista psicoterapeutico.
Questa è una cosa senz’altro positiva, se viene però condotta nella maniera adeguata. Di certo, a suo tempo, i miei genitori non sapevano che il mio costante bisogno di controllo su tutto era una spia lampeggiante. Né sapevano che la mia restrizione alimentare era solo un sintomo che nascondeva tutt’altri problemi. E non sapevano neanche quali potessero essere i segnali da cogliere per capire che in me c’era qualcosa che non andava, nè le conseguenze di un DCA diagnosticato tardivamente. Ecco, informazioni in merito a queste tematiche sono veramente utili, e sarebbe meraviglioso se venissero fornite più massivamente.
Purtroppo, spesso e volentieri, la prevenzione e l’informazione non viene affatto condotta nella maniera adeguata. Ho provato a digitare su Google “Eating Disorders Prevention" + "Parents” e guardate un po’ quali sono i primi link che mi sono saltati fuori:
Eating Disorders Often Begin At Home (The Almagest)
Food for Thought (Hamlet Hub)
How Parental Behavior May Impact A Child’s Body Image (Forbes)
Li avete letti? Okay, superficialmente questi articoli non sembrano malaccio. In effetti, sembrano tremendamente positivi. Ecco come aiutare i genitori ad aiutare le loro figlie! Come potrebbero mai questi articoli mandare un messaggio sbagliato?
Ecco come:
1) Tutti questi articoli sottilmente (ma neanche tanto…) incolpano i genitori per lo sviluppo di un DCA nelle loro figlie. Nell’articolo di “Forbes”, infatti, l’autore scrive:
“I genitori vengono presi come esempio. Sfortunatamente, i genitori possono talora dimenticare come le loro azioni, pensieri e parole impattano nella vita dei propri figli. Quando si parla di immagine corporea e comportamenti alimentari, la cosa diventa particolarmente rilevante. […] Pertanto i genitori devono fare molta attenzione a come mangiano, a come si relazionano al proprio corpo, e all’impatto che questo potrebbe potenzialmente avere sui loro figli.”
(mia traduzione)
Sì, okay. È naturale che i comportamenti genitoriali possano influenzare i figli – in fin dei conti, si impara a camminare e a parlare per imitazione. Ma c’è un gap enorme tra questo e il dire che la mera imitazione può creare un disturbo alimentare. La verità è che nessun comportamento genitoriale può far ammalare la figlia di anoressia. Non funziona assolutamente così. Anche se il messaggio riportato nell’articolo sembra positivo, instilla subliminalmente senso di colpa nel genitore che legge: “se una ragazza ha un DCA, i suoi genitori erano fissati su peso e cibo e avevano una relazione sbagliata con la propria immagine corporea”. Falso. Certo in rarissimi casi può esistere questa correlazione, ma è una cosa più unica che rara, e dunque ciò non vuol dire che è il comportamento dei genitori a causare un DCA nelle loro figlie, o che, se tu hai un DCA, allora i tuoi genitori ti hanno condizionato pesantemente.
2) Questi articoli danno ai genitori un falso senso di sicurezza. Le persone pensano che se ai loro figli viene insegnato come alimentarsi correttamente, o gli viene spiegato quanto deleterio sia un DCA, o gli viene detto di amarsi ed accettarsi per quella che è la loro fisicità, essi non si ammaleranno mai di anoressia. Perché, in teoria, sanno tutto quello che c’è da sapere per evitare la malattia.
Ma non si può pensare di immunizzare un/a bambino/a all’anoressia fornendogli spiegazioni razionali e corrette, perché un DCA non è una malattia “razionale”. Si può fare tutto l’immaginabile e l’inimmaginabile, e si può farlo bene, e ugualmente quel bambino/a potrà in futuro ammalarsi di anoressia/bulimia.
3) Questi articoli danno per scontato che la causa principale dei DCA sia rappresentata da problemi con la propria immagine corporea. Non è che questo sia falso. Questo è ENORMEMENTE ED INCOMMENSURABILMENTE FALSO! Alcune persone malate di DCA possono sviluppare un’alterazione della percezione della propria immagine corporea (il termine tecnico è “dismorfismo corporeo”) nel corso della malattia, ma sono solo una piccola percentuale rispetto a tutte le malate di DCA, e comunque questa è una conseguenza della malattia, non una causa! Penso che noi tutte sappiamo benissimo che il nostro DCA è stato determinato da tutt’altri tipi di problemi sottostanti, variabili da persona a persona, e che abbiamo utilizzato il DCA più che altro come strategia di coping, ma erano ben altri i veri problemi, NON certo il voler essere magre per fare le modelle! Ergo, in tutti questi articoli c’è un grosso errore di fondo.
4) Questi articoli operano un’errata fusione tra “dieta” e “disturbo alimentare”. Un’altra cosa che mi fa veramente incavolare, di nuovo in riferimento all’articolo pubblicato su “Forbes” (sì, è il peggiore dei 3, secondo me):
“Basandosi su studi recenti (ah sì? E quali sarebbero? Perché, causalmente, non ne viene citato neanche uno? – mia nota a margine) i DCA stanno diventando sempre più frequenti, e esordiscono anche in tenerissima età. L’associazione Nazionale dei DCA dice che circa l’80% delle bambine di 10 anni, infatti, hanno paura di prendere peso. (statistica pescata da chissà dove… sono maligna se dico “inventata”?! – altra mia nota a margine) Sebbene vari fattori contribuiscano alla comparsa e allo sviluppo di un DCA, il modo in cui una madre si relazione alla propria immagine corporea ha una significativa influenza su come i suoi figli vedranno se stessi. Uno studio ha rilevato che l’eccessiva concentrazione di una madre sul proprio peso corporeo è la terza causa più importante che determina problemi d’immagine corporea nelle adolescenti che credono che le loro madri le vogliano magre, e sono 2 - 3 volte più propense a preoccuparsi a loro volta del proprio peso. Queste anomale percezioni dell’immagine corporea non sono un’esclusiva delle ragazze: uno studio della “Harvard School of Public Health” del 2013 ha rilevato che circa il 18% dei ragazzi adolescenti inclusi nel loro studio erano “estremamente preoccupati” per la loro fisicità. In effetti, discutere delle diete o esprimere il desiderio di perdere peso davanti a propri figli quando sono bambini od adolescenti può influenzare negativamente la loro immagine corporea.”
(mia traduzione)
A-ha.
E questo, secondo le loro menti illuminate, cosa avrebbe a che fare con i disturbi alimentari?
5) Questi articoli hanno una concezione dei DCA che andava di moda un secolo fa. Ecco a voi qualche perla estratta dall’articolo di “Forbes”:
Le prime speculazioni, basate su vecchissimi modelli psicoanalitici, hanno a che fare con il concetto di cibo come nutrimento materno:
“Per comprendere la natura psicosociale dei DCA occorre considerare che questa è relazionata a concetti comportamentali come il ruolo dell’attaccamento – radicato al “latte materno”, spiega Krasner. “Questa comprensione primordiale del ruolo che il cibo gioca permette di avere una visione relazionale dei disturbi alimentari nella famiglia”.
"Come spiega Krasner, le prime ipotesi in merito alla patogenesi dei DCA sono relative alle difficoltà tra madre e figlia nella condivisione del “latte materno”: dare amore, ricevere amore, condividere il cibo, condividere ricorrenze legate al cibo.”
(mia traduzione)
Ehm… COMECOSA? L’autore dell’articolo in questione e il cosiddetto “esperto psicoterapeuta” Krasner hanno mai provato a leggere qualcosa relativo ai DCA che sia stato pubblicato negli ultimi 10 anni? O si sono limitati alla lettura di fonti dell’ottocento? Questa roba è retrograda, ampiamente superata dagli studi e dalle acquisizioni più recenti, è semplicemente sbagliata e obsoleta!
Io credo che i genitori non siano la causa della comparsa di DCA nei propri figli, e non credo neanche che ne possano prevenire l’insorgenza. Sebbene sia vero che un buon comportamento genitoriale è d’aiuto per i figli, lo è semplicemente perché i genitori cercano di educare correttamente i propri figli, non perché questo possa in alcun modo avere a che fare con lo sviluppo o meno di un DCA.
Il fatto che una ragazza possa avere un DCA non è in correlazione diretta con i genitori che ha avuto, e non dice niente relativamente a questi genitori.
La frase “I genitori vengono presi come esempio” non dovrebbe mai, mai, mai e poi mai essere utilizzata quando si parla di DCA. Bisogna smetterla di colpevolizzare i genitori.
Immaginate se leggeste un articolo in merito alla prevenzione dei tumori che fornisce un elenco di suggerimenti in merito alle norme igieniche di base per i genitori, come se questo implicasse che la comparsa di un tumore fosse un segno di scarsa igiene del bambino. Immaginate che questi segnali precoci di tumore sarebbero trattati così superficialmente se bisognasse prendere seriamente in considerazione l’idea di consultare un medico?
I disturbi alimentari non sono un problema con “l’immagine corporea”. Sono solo la spia esteriore di numerosi e svariati altri problemi sottostanti. Non possono essere prevenuti o trattati con le semplici cure genitoriali. Se si sospetta un DCA in una ragazza, non bisogna puntare il dito sui genitori, ma bisogna soltanto AGIRE IMMEDIATAMENTE cercando aiuto sia da un punto di vista nutrizionale, ma soprattutto da un punto di vista psicoterapeutico.
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