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domenica 9 novembre 2008
Titti e Silvestro
Riguardando vecchie fotografie, oggi mi sono capitate tra le mani anche quelle scattate durante il mio terzo ricovero. Così ho notato che sulla faccia interna della porta della mia camera della clinica in cui stavo, c’era appeso un poster. Un poster di Titti e Silvestro, il canarino giallo e il gatto che progetta sempre di mangiarlo senza riuscirci mai, avete presente?! Sul momento non gli dedicai molta attenzione, ma riguardando quelle fotografie adesso, mi fa un po’ strano quel poster allegro e variopinto che raffigura gatto ed uccellino in quella stanza spenta. Non era un poster che avevo appeso io. L’avevo trovato quando ero arrivata, e l’avevo lasciato lì. Era un periodo in cui ero abbastanza indifferente a ciò che mi circondava. Eppure, oggi, mi sono sorpresa a ritornare più volte con lo sguardo sulla foto di quel poster. Quel poster raffigura Titti che, dentro la sua gabbietta dorata, si dondola sulla sua piccola altalena e ride di Silvestro che, accucciato sul pavimento e con aria arrabbiata, non riesce evidentemente a raggiungere la voliera. I colori sono sgargianti, è l’unica cosa che dà un tocco di vita alla stanza, e sebbene stoni, all’improvviso mi rendo conto del perché oggi quella fotografia abbia attirato tanto la mia attenzione.
Io, in quel momento, ero come Titti. Forse è proprio per questo che, durante quel ricovero, non ho tolto quel poster dalla porta: perché, a suo modo, parlava di me. E, ragazze, pensateci un momento: non è forse vero che, in fin dei conti, quel poster parla di tutte noi? Noi siamo come Titti che, inseguita da Silvestro, si rinchiude velocemente nella sua gabbietta dorata per cercare il rifugio e la protezione che non saprebbe trovare altrove. Da lassù ride e guarda con sufficienza ciò che dal basso la minaccia. Da lassù è sicura di avere un controllo totale, a trecentosessanta gradi del mondo sottostante. Però, nonostante Titti se la rida, sta dentro una gabbia. Una gabbia dorata, ma pur sempre una gabbia. E non può uscirne, ovviamente, perché questo potrebbe esserle fatale, dato Silvestro in agguato. Infatti, se uscisse dovrebbe proprio fare i conti con ciò da cui si era messa al riparo. Ecco, forse è così anche per noi. Forse è così anche per l’anoressia: rifugiarsi in questa malattia può consentire di sfuggire ai pericoli, alle minacce, ai dolori che rendono intollerabile la vita, in nome di un ideale di distacco e di autonomia assoluta. Forse noi ci siamo rinchiuse nelle nostre gabbie dorate illudendoci di essere al sicuro dalle difficoltà che non riuscivamo ad affrontare, ma siamo costrette a guardare dalle sbarre – come quelle che c’erano alla finestra della clinica – il mondo circostante, la vita che continua a scorrere, un mondo e una vita da cui ci siamo escluse per non soccombere. E forse non è un caso neanche se il nemico di Titti è Silvestro. Se il nemico di Titti è qualcuno che vuole mangiarla.
Ma, ragazze, quella gabbietta non è la vita. È solo un simulacro di vita. Lì dentro possiamo sopravvivere, ma non vivere davvero. Quello di cui non ci rendiamo conto è che, come Titti, noi abbiamo delle ali. E che, perciò, aprire la porta di quella gabbietta non significa necessariamente precipitare nelle fauci spalancate di Silvestro: significa anche spiegare le ali e volare via da quello che oggi ci fa paura. Ciò non significa che dobbiamo immediatamente aprire la porta e slanciarci nel vuoto: bisogna prima avere la ragionevole sicurezza che le ali ci sorreggano. Perciò, ragazze, prendiamoci pure tutto il tempo necessario per guarire le nostre ferite e calmare le nostre paure. Non è un processo immediato ed uguale per tutte. Ma poi apriamo quella porta e voliamo.
Volare è possibile. Lo è per tutte voi. Se soltanto lo volete, le vostre ali possono diventare forti abbastanza per farlo.
Volevo solo che lo sapeste…
Io, in quel momento, ero come Titti. Forse è proprio per questo che, durante quel ricovero, non ho tolto quel poster dalla porta: perché, a suo modo, parlava di me. E, ragazze, pensateci un momento: non è forse vero che, in fin dei conti, quel poster parla di tutte noi? Noi siamo come Titti che, inseguita da Silvestro, si rinchiude velocemente nella sua gabbietta dorata per cercare il rifugio e la protezione che non saprebbe trovare altrove. Da lassù ride e guarda con sufficienza ciò che dal basso la minaccia. Da lassù è sicura di avere un controllo totale, a trecentosessanta gradi del mondo sottostante. Però, nonostante Titti se la rida, sta dentro una gabbia. Una gabbia dorata, ma pur sempre una gabbia. E non può uscirne, ovviamente, perché questo potrebbe esserle fatale, dato Silvestro in agguato. Infatti, se uscisse dovrebbe proprio fare i conti con ciò da cui si era messa al riparo. Ecco, forse è così anche per noi. Forse è così anche per l’anoressia: rifugiarsi in questa malattia può consentire di sfuggire ai pericoli, alle minacce, ai dolori che rendono intollerabile la vita, in nome di un ideale di distacco e di autonomia assoluta. Forse noi ci siamo rinchiuse nelle nostre gabbie dorate illudendoci di essere al sicuro dalle difficoltà che non riuscivamo ad affrontare, ma siamo costrette a guardare dalle sbarre – come quelle che c’erano alla finestra della clinica – il mondo circostante, la vita che continua a scorrere, un mondo e una vita da cui ci siamo escluse per non soccombere. E forse non è un caso neanche se il nemico di Titti è Silvestro. Se il nemico di Titti è qualcuno che vuole mangiarla.
Ma, ragazze, quella gabbietta non è la vita. È solo un simulacro di vita. Lì dentro possiamo sopravvivere, ma non vivere davvero. Quello di cui non ci rendiamo conto è che, come Titti, noi abbiamo delle ali. E che, perciò, aprire la porta di quella gabbietta non significa necessariamente precipitare nelle fauci spalancate di Silvestro: significa anche spiegare le ali e volare via da quello che oggi ci fa paura. Ciò non significa che dobbiamo immediatamente aprire la porta e slanciarci nel vuoto: bisogna prima avere la ragionevole sicurezza che le ali ci sorreggano. Perciò, ragazze, prendiamoci pure tutto il tempo necessario per guarire le nostre ferite e calmare le nostre paure. Non è un processo immediato ed uguale per tutte. Ma poi apriamo quella porta e voliamo.
Volare è possibile. Lo è per tutte voi. Se soltanto lo volete, le vostre ali possono diventare forti abbastanza per farlo.
Volevo solo che lo sapeste…
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