Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.
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venerdì 14 novembre 2014

R: Cosa si cerca con l'anoressia + varie & eventuali

Il post di oggi prende spunto da un commento che mi ha lasciato ButterflyAnna nel post di Venerdì scorso. Volevo risponderle direttamente nel format dei commenti come generalmente faccio con chiunque scriva su questo blog, ma poi mi sono resa conto che ne sarebbe venuto fuori un mezzo poema, quindi ho deciso di trasformarlo in un post… anche perché tratta la quantomai controversa tematica del peso inteso come parametro di malattia/guarigione dall’anoressia, che è inevitabilmente oggetto di innumerevoli discussioni, per cui colgo la palla al balzo per dire la mia e condividere con voi la mia esperienza.

Nel suo commento, ButterflyAnna scrive: “sfido chiunque di voi a dire che all'inizio di questa malattia non avete pensato che perdere chili su chili e non mangiare fosse la cosa più giusta del mondo […] era solo voler dimagrire e voler restringere a tutti i costi […]Perché il pensiero era quello e i comportamenti erano quelli di una ragazza che voleva diventare sempre più magra a ogni costo […]Poi a quei 36 chili ci sono arrivata e non mi hanno portato felicità solo a quel punto ho capito di essere malata”.

In rigoroso ordine random, partiamo da valle per arrivare a monte.

Io credo che la fisicità non sia un parametro poi così strettamente attendibile per valutare la “malattia”/“guarigione” da un DCA. Anche perché sono dell’idea che ciò che rende una persona affetta da anoressia non è il peso ma i pensieri, cioè il pattern mentale – essendo l’anoressia malattia mentale per psichiatrica definizione. Per cui, come ho già scritto altrove, ritengo che una persona possa essere malata di anoressia anche se pesa 150 Kg, se la sua forma mentis è quella propria dell’anoressia, perché è il quadro mentale che connota l’anoressia, non la fisicità.

È ovvio, e lo capisce anche un bambino, che ci sono certi livelli di sottopeso che per forza non sono compatibili con la salute. Riprendendo l’esperienza raccontata da ButterflyAnna, è palese che una donna che pesa 36 Kg (a meno che non sia alta un metro e un cavolo) non può essere in salute e deve recuperare, su questo credo non ci sia neanche da discutere.

Per il resto, il termine “sottopeso” (come il termine “sovrappeso”, del resto) è molto generico, e pertanto di pressoché impossibile applicazione su vasta scala, data l’estrema soggettività di ognuna di noi. Quello che andrebbe considerato – e che sarebbe in effetti scientificamente corretto considerare, come dimostrano diversi studi recentemente condotti – è il Set-Point di peso corporeo fisiologico, che è un qualcosa di individualizzato per ciascuna di noi, e non risponde propriamente al canonico concetto di “normopeso secondo il B.M.I.” (sebbene sia vero che molte persone hanno un proprio Set-Point che corrisponde ad un valore di B.M.I. compreso nel range del normopeso). Il Set-Point è una sorta di “termostato del peso corporeo” che viene geneticamente determinato, ed è regolato per essere mantenuto intorno ad un punto fisso da complessi meccanismi di feedback (omeostasi). Questi meccanismi di equilibrio tendono a mantenere il valore di peso preimpostato dal Set-Point relativamente costante.
Il peso ovviamente sballa di molto quando, con un DCA, ci alimentiamo in maniera del tutto anomala e pieghiamo l’organismo alterando il metabolismo e dunque perdendo/prendendo peso. Tuttavia, poiché il Set-Point di peso corporeo fisiologico è appunto geneticamente determinato, nel momento in cui si riprende ad alimentarci regolarmente e correttamente, dopo il tempo necessario al metabolismo per riattivarsi e ricominciare a lavorare a regime, il nostro organismo tenderà a riportare il peso ai valori originari.

E questo giusto per chiarire da un punto di vista prettamente medico i discorsi sul sottopeso/sovrappeso.

Per quanto riguarda il concetto di “guarigione”, purtroppo è vero che molte persone che non hanno vissuto un DCA sulla propria pelle si fermano all’esteriorità, che è l’unica cosa che riescono a vedere e quindi a concepire, e pensano che il peso corporeo sia l’unico parametro che possa decretare lo stato di “guarigione” o meno di una persona. Ovviamente chiunque abbia avuto/abbia un DCA credo sappia bene che non è semplicemente così che stanno le cose.

Io penso che si dovrebbe focalizzare un po’ meno l’attenzione sul peso, e concentrarla maggiormente sulla qualità della vita. Quando si parla di “qualità della vita”, infatti, si fa contemporaneamente riferimento sia al campo fisico che a quello psicologico: è indubbio che non si possa avere una buona qualità della vita con un corpo fisicamente non in salute (vuoi per il sottopeso eccessivo in chi è affetta da anoressia, vuoi per i danni prodotti dalle condotte di compensazione in chi è affetta da bulimia, vuoi per le abbuffate in chi soffre di binge, vuoi per l’alimentazione altalenante in chi ha un DCAnas, etc…), e allo stesso tempo è indubbio che non si possa avere una buona qualità della vita con una mentalità pervasa dal DCA... perché tanto più esso è presente nella nostra testa, tanto più si perde in vita sociale, lavoro, studio, sport, e tutte quelle cose che rendono la nostra vita appunto una vita di qualità.

Ergo, secondo me è la qualità della vita che va a valutare quanto una persona sia “guarita” o meno da un DCA, compendiando sia gli aspetti fisici che quelli mentali… ammesso e non concesso che per malattie come i DCA si possa parlare di “guarigione”. Io infatti preferisco il termine “remissione” e sottolineo che, personalmente, non sono “guarita” dall’anoressia nel senso canonico del termine, perché mi capita tuttora di avere talvolta dei pensieri, che però riconosco come malati, e dunque non agisco. So che ci sono, ma li lascio lì, confinati in quell’angolino della mia testa, e non mi condizionano più nè comportamentalmente né mentalmente. È proprio per questo che ormai fortunatamente da diversi anni sto vivendo una remissione della malattia.

Tornando invece a monte, e dunque facendo riferimento alla prima parte del commento di ButterflyAnna, premetto che: quello che sto per scrivere fa parte della mia esperienza personale, ergo non ha alcun valore a carattere generale. Ciò significa che probabilmente alcune di voi si rispecchieranno comunque in ciò che scrivo, ed altre no. In ogni caso, nessuna pretesa di verità assoluta: semplicemente quello che ho vissuto io, e dunque la MIA personale verità, più o meno estendibile agli altri.

Nelle parole di ButterflyAnna, io NON mi ritrovo PER NIENTE.

Se vogliamo considerare il B.M.I. come riferimento, allora è tutta la vita che io sono “sottopeso”. Giusto per dire, se vogliamo considerare il B.M.I. come riferimento, allora tutti i membri della mia famiglia sono “sottopeso” da tutta la vita (eppure nessuno di loro ha un DCA). Sono sempre stata magra (e bassa) credo semplicemente perché, geneticamente, provengo da una famiglia in cui siamo tutti magri (e bassi): se di “sottopeso” vogliamo parlare, è un “sottopeso” del tutto fisiologico, che ci caratterizza tutti quanti. Poi, personalmente, con l’anoressia, ho ovviamente trasceso ogni limite di peso e sono arrivata ad una magrezza assolutamente patologica e del tutto incompatibile con la salute. Tuttavia attualmente, grazie all’aiuto della dietista che tuttora mi segue, ho recuperato il mio Set-Point di peso fisiologico, sto pertanto seguendo un “equilibrio alimentare” mirato proprio al mantenimento di questo peso e naturalmente all’evitamento della riadozione di comportamenti alimentari restrittivi e, salvo i danni permanenti che l’anoressia ha prodotto al mio corpo e che purtroppo mi dovrò portare dietro vita natural durante (mi riferisco a osteopenia e infertilità), sono perfettamente in salute e posso senza alcun problema fare sport, lavorare come istruttrice ed arbitro di karate, lavorare come medico, e se mi avanza un po’ di tempo nelle mie incasinatissime giornate anche prendermi un attimo di pausa per dedicarmi alle cose che mi piacciono come per esempio leggere e disegnare.

Essere perfettamente in salute da un punto di vista prettamente fisico non significa appunto, come dicevo, essere del tutto “guarita” dall’anoressia, perché se così fosse immagino che certi pensieri non mi passerebbero più neanche per l’anticamera del cervello. Ma significa che attualmente ho un corpo in salute e del tutto funzionale che mi permette di vivere a 360°, e che mi ha consentito di tornare ad avere un’ottima qualità della vita.

Io non ho mai avuto dunque il desiderio di essere magra poiché, banalmente, sono sempre stata magra.
Per quanto attiene la mia personale esperienza, il bisogno di controllo è stato il punto focale di tutto il disturbo alimentare. Io volevo avere il controllo assoluto. Su tutto. Su ogni singolo aspetto della mia vita. La cosa è partita da ambiti diversi dall’alimentazione e poi, in un formidabile colpo di coda, anche il versante alimentare è stato tirato dentro questo mio bisogno di programmare – e dunque controllare – ogni singolo secondo delle mie giornate.
Volevo “semplicemente” avere sotto controllo ogni singolo respiro della mia vita, e questo controllo che già mettevo in atto su altre cose, ad un certo punto ha iniziato a passare anche attraverso il canale alimentare. L’obiettivo della mia restrizione, in effetti era proprio questo: elaborare una forma di controllo su quello che mangiavo. Il dimagrimento è stata l’ovvia conseguenza, ma non mi ha mai fatto piacere, anzi, mi metteva a disagio, non avrei voluto (anche perché comprometteva le mie prestazioni sportive, e al tempo facevo agonismo ed ero a buon livello), ma avevo bisogno del controllo, e se “il prezzo da pagare” era quello di perdere chili, allora andava bene tutto, allora accettavo il compromesso, pur di non abbandonare la sensazione di sicurezza e di forza che quel (l’illusorio) controllo mi faceva provare.
Non ho mai avuto, dunque, l’obiettivo di restringere l’alimentazione per dimagrire (difatti non mi sono mai pesata, neanche nella fase più acuta dell’anoressia, proprio perché del peso in sé non me ne poteva fregare di meno, né ho mai contato le calorie o cose del genere), il mio unico pensiero era incentrato sul desiderio di avere il controllo su tutto. Ogni altra cosa era mera conseguenza.
Mai voluto diventare più magra… ma sempre voluto esercitare un controllo sempre più totale.
Salvo poi rendermi conto, ovviamente, che quell’anoressia che credevo di controllare, era proprio ciò che mi controllava in misura spietata.

venerdì 18 luglio 2014

Anoressia e metabolismo (II)

Dato che mi è stato richiesto sempre più frequentemente anche tramite e-mail, soprattutto in seguito al post che ho scritto a Giugno 2013, oggi ritorno a parlare del metabolismo, e delle influenze che i disturbi alimentari hanno su di esso.

Premettendo il solito disclaimer: 

1) Non sono una dietista né una dietologa. Non studio Dietistica all’università, e non ho frequentato alcun corso specialistico in Scienze della Nutrizione Umana. Sono laureata in Medicina, attualmente lavoro come medico di 118 (contratto a tempo determinato... sigh...), e le mie conoscenze in merito all’alimentazione e al metabolismo derivano dall’esame di Nutrizione, che ho sostenuto nel contesto del corso integrato di Fisiologia. 

2) Questo blog, per quanto ne so basandomi sulle e-mail che ricevo, è letto anche da ragazze di 12 – 13 anni. Quello che scriverò in questo post vuol essere perciò fruibile anche per coloro che non hanno particolari competenze. Ergo, cercherò di esprimermi in maniera non troppo complicata, ed inevitabilmente dovrò ricorrere a delle semplificazioni. Chiedo scusa in anticipo a tutti i professionisti del settore sanitario che leggeranno questo post, che inevitabilmente presenterà delle imprecisioni e delle facilonerie; d’altronde l’obiettivo non è quello di scrivere un trattato medico, ma un qualcosa che possa essere letto e compreso anche da chi ha fatto tutt’altro genere di studi. 

3) Quello che scriverò in questo post ha carattere assolutamente GENERALE. Nessuna mi lasci commenti chiedendomi consigli sul suo caso specifico, perché NON sono una professionista del settore, quindi NON sono in grado di darvene. L’unico consiglio che do vivamente a tutte quante è quello di lasciar perdere i fai-da-te o i consigli chiesti a chi non se ne intende veramente, e rivolgersi invece appunto ad una figura professionale competente che possa aiutarvi ad impostare un piano alimentare personalizzato, perché credo che questo sia un elemento fondamentale per combattere contro l’anoressia. 

E dunque, torniamo a parlare di metabolismo.

Il principale consumo di energia per il nostro corpo deriva dal metabolismo basale, ovvero il bruciare quelle calorie che servono per mantenere attive, in una situazione di riposo completo, le funzioni vitali (battito cardiaco, respirazione, funzionamento cerebrale, etc…) che necessitano di energia per continuare a svolgersi. Il metabolismo basale rappresenta circa i due terzi del fabbisogno calorico quotidiano. Le altre “spese energetiche” quotidiane derivano dall’attività fisica (intendendo col termine “attività fisica” ogni qualsiasi tipo di movimento) e dai processi digestivi stessi.

Dato questo preambolo, voi penserete che la restrizione alimentare si basa sul presupposto che, riducendo le entrate di cibo e quindi di energia, il corpo preleverà quelle che gli servono per sopravvivere dalle riserve depositate, ovvero dal tessuto adiposo. Ebbene, vi stupirà sapere che le cose non funzionano affatto in maniera così semplice e lineare. E ora vi spiego il perché.

Dire che il metabolismo basale è velocizzato o rallentato, significa che cambia la velocità con cui l’organismo brucia le calorie introdotte con il cibo. La velocità del metabolismo, anche in chi non ha un DCA, varia in funzione del sesso, dello stile di vita, della tipologia di alimentazione, nonché dell’età: il metabolismo è infatti molto elevato durante l’infanzia, e si abbassa poi di circa il 2,5% in ogni decennio di vita. (Questo è il motivo per cui, al contrario di quello che molti ciarlatani affermano, è impossibile mantenere sempre il peso dei 20 anni).

Il metabolismo si abbassa a bestia quando si riduce l’assunzione di cibo, proprio come accade nel caso della restrizione alimentare dell’anoressia, e questo abbassamento comincia ad evidenziarsi già dopo le prime 48 ore dall’inizio della restrizione alimentare. Questo succede perché, nel momento in cui si riduce l’introito calorico quotidiano, il corpo risponde immediatamente risparmiando energia per assicurare la sopravvivenza delle sue funzioni vitali.

Inoltre, a differenza di quello che si potrebbe pensare, quando s’inizia una restrizione alimentare, il primo peso che si perde non è legato alla distruzione del tessuto adiposo, bensì alla perdita di liquidi, e alla iniziale consumazione delle proteine del tessuto muscolare.

Quando una persona restringe l’alimentazione, e quindi al suo corpo viene negata la quantità di energia necessaria, esso reagisce cercando di risparmiare il più possibile anche dai pochi cibi che ingerisce, per cui il metabolismo si abbassa progressivamente: ecco perché all’inizio della restrizione alimentare è più facile perdere peso, e poi la cosa diventa man mano sempre più difficile, anche se la restrizione prosegue. Il metabolismo infatti si riduce più velocemente ed in misura maggiore man mano che il corpo diviene più sensibilizzato alla riduzione del cibo. Ecco perché, quando dopo un lungo periodo di restrizione alimentare, una persona ricomincia a mangiare normalmente, recupera molto peso in poco tempo: perché il metabolismo è così basso che tutto viene percepito come un surplus che il corpo cerca di accaparrarsi per “farne scorta” in previsione di un ulteriore periodo di restrizione alimentare. Perciò, se state cominciato un percorso di ricovero e siete alle prese con il vostro primo “equilibrio alimentare”, non spaventatevi e non mollate se inizialmente il peso s’impenna: è perfettamente normale che ciò accada, ma non continuerete assolutamente a prendere peso all’infinito, anzi, quando il vostro metabolismo sarà ritornato ai livelli ottimali, il vostro peso si ripristinerà sul vostro set-point, e rimarrà sempre più o meno lì… purchè continuiate ad alimentarvi in maniera regolare.

Dovete però tener conto del fatto che ci vorrà un bel po’ di tempo affinché il vostro metabolismo, fiaccato dalla restrizione alimentare, ritorni a funzionare normalmente, e che al fine di arrivare a ciò, la vostra alimentazione dev’essere sempre regolare. So che all’inizio può essere ansiogeno, ma vi assicuro che la soluzione c’è, ed è quella di perseverare nel seguire il vostro “equilibrio alimentare”, e lasciare che il vostro corpo si assesti al suo set-point di peso naturale. Esiste un set-point di peso naturale per ciascuna di noi, ed è quello a cui ci si stabilizza naturalmente mangiando regolarmente con continuità.

Vorrei precisare inoltre che i cosiddetti “sgarri” dal proprio “equilibrio alimentare” non vanno assolutamente demonizzati: il metabolismo, infatti, quando ripristinato correttamente, funziona anche velocizzandosi, per cui se una persona assume più calorie di quante sarebbero necessaria per soddisfare il proprio fabbisogno calorico giornaliero, il metabolismo accelera in modo da bruciarle senza che queste incidano sul peso corporeo, perché l’obiettivo è sempre quello di mantenere il set-point (che è geneticamente determinato). Quindi, lasciate da parte quella cavolata di luogo comune che vuole che le calorie in eccesso vengano immediatamente trasformate in tessuto adiposo.

Bè, spero che questa integrazione al post che avevo scritto lo scorso Giugno 2013 possa esservi utile.
 Naturalmente, per qualsiasi chiarimento o domanda (ma NON consulenza personalizzata!!), chiedetemi pure nei commenti, o tramite e-mail (veggie.any@gmail.com).
E se c’è qualche medico/dietologo/dietista/nutrizionista che legge e vuole fare maggiori precisazioni rispetto alla mia trattazione semplicistica dell’argomento, è il benvenuto!!

venerdì 4 luglio 2014

Impostare un peso da raggiungere: Un esercizio arbitrario?

Il raggiungimento di un peso salutare viene considerato una sorta di grande traguardo per i medici che hanno a che fare con una paziente affetta da DCA. Infatti un peso salutare viene spesso considerato come un prerequisito per il miglioramento anche sotto il punto di vista psicologico. Ora, il fatto che recuperare peso sia una componente cruciale del percorso di ricovero dall’anoressia, è una verità incontrovertibile. Il problema sorge quando si arriva a dover determinare QUANTO peso sia necessario recuperare. Come viene impostato il peso ideale, ottimale, di una persona che ha un DCA? E chi lo decide?

Nonostante la sua riconosciuta rilevanza, forse vi stupirà sapere che nella comunità scientifica c’è molto disaccordo in merito a come il “peso ideale” dovrebbe essere determinato. Peraltro, uno studio condotto da Peter Roots e dai suoi colleghi, ha mostrato che c’è discrepanza persino nelle metodiche utilizzate da cliniche specializzate nel trattamento di DCA, tanto in Gran Bretagna quanto negli altri Paesi europei.

In uno studio pubblicato nel 2006, Roots e i suoi colleghi hanno valutato come delle cliniche specializzate nel trattamento di DCA determinassero, monitorizzassero e utilizzassero il concetto di “peso ideale” nel trattamento delle pazienti ricoverate per anoressia. Ai ricercatori interessava inoltre sapere il tasso di aumento di peso atteso, quanto spesso le paziente erano state pesate, chi era stato coinvolto nella determinazione del “peso ideale”, e come il “peso ideale” era utilizzato nel “processo terapeutico e nel piano di dimissione/vita al di fuori della clinica”. Per realizzare questa ricerca hanno sottoposto il loro questionario a 28 specialisti che lavoravano in cliniche specializzate nel trattamento di DCA (17 in Gran Bretagna, 11 in altri Paesi europei).

Solo 21 dei 28 specialisti interpellati hanno accettato di partecipare alla ricerca: per lo più vi hanno partecipato specialisti inglesi, ma anche della Danimarca, della Finlandia, dell’Olanda, della Francia, della Germania, della Svezia, della Spagna e dell’Irlanda. (In Italia nessuno specialista ha accettato di partecipare, per carità, non interessiamoci di queste problematiche, ci mancherebbe altro…)

In breve, i seguenti sono stati i principali risultati ottenuti.

Quante cliniche specializzate in DCA stabiliscono un “peso ideale” per le loro pazienti? 

Delle 21 cliniche specializzate considerate, ben 18 stabiliscono un “peso ideale”: 10 di queste stabiliscono un “peso ideale” ben preciso, le altre 8 stabiliscono un “range di peso ideale”.
 Le restanti 3 non stabiliscono alcun “peso ideale” da raggiungere.

Come e quando il “peso ideale” per una paziente viene stabilito (per le 18 cliniche che lo stabiliscono, ovviamente) ? 

Per quel che riguarda il quando, 5 delle 18 cliniche stabiliscono il “peso ideale” prima che il ricovero abbia inizio, mentre le restanti lo stabiliscono al momento dell’ammissione in clinica.

Per quel che riguarda il come, 9 delle 18 cliniche lo stabiliscono in base ai percentili valutati sull’età della paziente, 5 lo stabiliscono in base al B.M.I., e 4 in base ad entrambi questi criteri.

Inoltre, 12 di queste cliniche stabiliscono il “peso ideale” sulla base di un valore standard (per lo più corrispondente ad un B.M.I. pari a 19), 4 lo decidono negoziando con le pazienti (generalmente almeno un mese dopo l’inizio del ricovero), e 2 considerando variabili individuali come la familiarità o il peso pre-anoressia. E’ interessante sottolineare come 2 di queste 18 cliniche hanno sottolineato “l’importanza di NON negoziare con la paziente il peso ideale da raggiungere”.

Dunque, sulle 21 cliniche coinvolte nella ricerca, come potete ben vedere, sono state ottenute ben 15 diverse risposte riguardo a come viene determinato il “peso ideale” che una paziente dovrebbe raggiungere. Vorrei sottolineare che 3 di queste 21 cliniche non stabiliscono alcun “peso ideale” cui arrivare, il che significa che abbiamo un’ulteriore variante, e dunque all’atto pratico 16 diverse risposte. 

Qual è il tasso di aumento di peso atteso? 

Sulla base delle risposte delle cliniche specializzate, è emerso che alcune di essere si attendono un recupero di 0,3 – 1 chilo la settimana, mentre altre si aspettano un aumento più consistente, ovvero 0,8 – 2 chili la settimana.

Aumento di peso e vita al di fuori della clinica 

Posto che il recupero ponderale è un’importante componente del percorso di ricovero, non è sorprendente che sia altrettanto importante il consolidare i progressi fatti, mantenere e migliorare al momento della dimissione e del reinserimento nella vita di tutti i giorni. Delle 21 cliniche specializzate considerate:

• In 9 cliniche, la dimissione dipende dal raggiungimento del “peso ideale”/”range di peso ideale”, e in 6 di queste per essere dimesse occorre anche mantenere quel peso per un certo periodo (1 – 6 settimane).
• In 8 cliniche, in aggiunta al peso, la dimissione dipende anche dalla disponibilità dei genitori/familiari di seguire la paziente, e dalla responsabilizzazione della paziente nell’assunzione di cibo in maniera adeguata.
• In 2 cliniche, in aggiunta a tutto quanto detto sinora, la dimissione dipende anche dai cambiamenti psicologici ed emotivi, e per una di queste in particolare dipende anche dalla capacità della paziente di non fissarsi più sul “peso ideale” e concentrarsi piuttosto sui suoi vissuti emotivi.

Cosa significa tutto questo? 

Innanzitutto, la mancanza di criteri univoci per stabilire il “peso ideale”, il tasso di aumento di peso, nonché i criteri di dimissione, fa sì che, per esempio, una 14enne che a causa dell’anoressia ha raggiunto XX chili al momento del ricovero, può essere dimessa quando:

• Ha un B.M.I. di almeno 16,5 dopo 13 settimane di ricovero secondo le linee guida di una prima clinica (aumento di circa mezzo chilo la settimana)
• Ha un B.M.I. di almeno 18 dopo 10 settimane di ricovero secondo le linee guida di una seconda clinica (aumento di circa 1 chilo la settimana)
• Ha un B.M.I. di almeno 18 dopo 33 settimane di ricovero secondo le linee guida di una terza clinica (aumento di circa 0,3 chili la settimana)
 • Ha un B.M.I. di almeno 21 dopo 10 settimane di ricovero secondo le linee guida di una quarta clinica (aumento di circa 2 chili la settimana)

Dunque, sulla base di questo, il “peso ideale” della nostra ipotetica paziente 14enne varia entro un range di 11 chili, e la durata totale del ricovero varia entro un range di 23 settimane – e questo solo per quanto riguarda le poche cliniche prese in esame in questo studio... immaginatevi il casino se fossero state di più.

In un altro studio recentissimo condotto in Australia da Rocks e i suoi colleghi nel 2013, in cui sono stati intervistati dei dietisti, è stata riscontrata la medesima enorme variabilità in merito alla scelta del “peso ideale” per chi soffre d’anoressia, e alla modalità con cui questo “peso ideale” viene determinato.

12 dietisti hanno riferito che gli obiettivi di “peso ideale” venivano comunemente stabiliti per le paziente ricoverate nella loro struttura, e che questo peso veniva determinato dal team medico multidisciplinare. Il resto dei dietisti intervistati ha dichiarato che gli obiettivi di peso da raggiungere si basavano esclusivamente sulle esigenze di ogni singola paziente. Il “peso ideale” veniva definito utilizzando: uno specifico “peso ideale” (10 dietisti), uno specifico B.M.I. (8 dietisti), un “range di peso ideale” (9 dietisti), o un “range di B.M.I. ideale” (8 dietisti). Le specifiche di “peso ideale” venivano principalmente calcolate sulla base di percentili legati all’età e all’altezza, stadio dello sviluppo, stadio del percorso di ricovero, B.M.I.

Come la penso io… (dicesi “mia opinione”, ergo opinabile per definizione)

Il concetto di “peso ideale” è – perdonate il francesismo – una cazzata. Pensateci: da una parte i medici vi dicono che per stare meglio dovete smetterla di fissarvi sul peso, ma dall’altra il recupero del peso E’ importante (oserei dire necessario) per poterla smettere di avere fissazioni. Già qui, è una contraddizione in termini. Del resto, la disomogeneità dei criteri, come dimostrato dagli studi di cui prima vi parlavo, non fa altro che creare ulteriore confusione.

Penso sbaglino quelle cliniche che fissano il raggiungimento di un certo B.M.I. come criterio per la dimissione: più una persona parte da un peso basso, più tempo gli ci vorrà per raggiungere il B.M.I. target. E vivere mesi, mesi e mesi all’interno di una clinica può essere anche controproducente, vuoi perché impedisce di avere quelle relazioni sociali che già di per sé l’anoressia ha limitato tantissimo, vuoi perché la paziente si può adagiare nell’ambiente ovattato e protetto rappresentato dalla clinica, e avere quindi ancor più difficoltà a relazionarsi al mondo esterno al momento della dimissione, il che faciliterà moltissimo la ricaduta nell’anoressia.

E’ anche vero che il perdurare di un peso particolarmente basso è pure un altro fattore che rende difficile l’allontanarsi dall’anoressia, e favorisce comunque le ricadute.

Inoltre, sebbene il recupero ponderale e il ritorno del ciclo mestruale siano senz’altro importanti, centrare tutta l’attenzione sulla necessità di raggiungere il “peso ideale” può diventare assolutamente controproducente. Non solo perché può dare alla paziente l’idea che i medici siano interessati solo ed unicamente al suo peso, e non al suo benessere psicologico, ma anche perché:
- per le ragazze che sono già fissate col peso, c’è il rischio che si fissino altrettanto sul mantenimento del “peso ideale” una volta raggiunto, e crollino se aumentano anche di un solo chilo rispetto al “peso ideale”;
- per le ragazze che non sono fissate col peso, c’è il rischio che venga fatta nascere questa fissa.

Altro che ricovero, dunque: una cosa del genere infogna ancora di più nell’anoressia! Tanto più che, come dimostrato dagli studi, il concetto di “peso ideale” per una paziente è piuttosto arbitrario, e che alcuni medici hanno idee completamente sbagliate su cosa significhi avere un peso “salutare”.

Il B.M.I., inoltre, a mio avviso serve più che altro a gettare fumo negli occhi. Questo indice dà per assunto che, se maggiore o uguale a 18, la persona è nomopeso e dunque automaticamente in salute. E io credo che tutti (genitori, familiari, e pure i medici) vogliano illuderci che è vera l’equazione normopeso = stato di salute. Ma non è vero. Per quanto possa piacere illudersi di questo, non è così che stanno le cose. L’OMS definisce la salute come “completo stato di benessere fisico, psichico e sociale”: dunque, se una persona è normopeso ma è ancora psicologicamente devastata dall’anoressia, è tutt’altro che in salute. Essere davvero in salute richiede un sacco (spesso e volentieri un SAAAAAAAAAAACCO) di tempo, ovvero molto, molto di più di quello che serve per recuperare un peso decente. E questo implica l’aver fatto passi avanti sotto il profilo psicologico, e l’aver migliorato consistentemente la propria qualità della vita.

Per cui, dimettere pazienti nel momento in cui hanno raggiunto un certo B.M.I. prestabilito dalla clinica, e che l’hanno raggiunto praticamente perché sono state forzate a mangiare (e magari stanno già progettando di restringere di nuovo l’alimentazione al momento della dimissione), quando dunque non hanno lavorato abbastanza sotto un punto di vista psicologico, o quando è stato inculcato loro che devono mantenere un certo peso, perché quello è il loro “peso ideale” quando magari non è assolutamente vero, e comunque quello non è un peso salutare per loro, non mi sembra proprio una strategia ottimale, a meno che – non me ne vogliate per la frecciatina – non siate direttori di cliniche private non convenzionate col SSN, per cui ogni ri-ricovero rappresenta per voi una fonte di guadagno.

Non so se avete notato: solo 3 delle cliniche esaminate da Roots e dai suoi colleghi non mettevano alcun tipo di limitazione sul peso da raggiungere. Il che significa che, purtroppo, nella maggior parte delle cliniche il peso è considerato un parametro molto più importante rispetto ai progressi psicologici nel decidere o meno la dimissione. La cosa mi fa rimanere abbastanza basita, visto che pensavo fosse assodato che l’anoressia è una malattia mentale, e visto che è noto e scientificamente documentato che le persone malate di anoressia che una volta ricoverate in clinica vengono forzate a recuperare un discreto quantitativo di peso in un ridotto lasso di tempo, senza un parallelamente forte percorso psicologico (che, del resto, richiederebbe moooooolto più tempo), hanno un’altissima percentuale di ricadute della malattia immediatamente dopo la dimissione.

È un vicolo cieco, davvero. Raggiungere un peso salutare è certamente importante, ma stabilire a priori e con esattezza quale sia il “peso ideale” di una persona è impossibile. Recuperare peso è senz’altro importante affinché il nostro cervello ragioni adeguatamente, e dunque affinché ci possiamo concentrare sul percorso psicoterapeutico, ma focalizzarsi troppo sul peso (soprattutto se si tratta di uno scorretto “peso ideale” determinato del tutto arbitrariamente) è assolutamente controproducente in un percorso di ricovero, perché alimenta i pensieri malati e il rimuginare su questi pensieri porta via tempo prezioso che potrebbe essere appunto impiegato per concentrarsi sulla parte psicologica del percorso di ricovero.

Il “peso ideale” non è in alcun modo un valido marker per stabilire quanto la persona sia “guarita” dall’anoressia. A mio parere, se proprio si vuole parlare di peso, perché comunque per chi è malata d’anoressia è importante recuperarlo, allora l’attenzione dovrebbe essere piuttosto concentrata sul raggiungimento del proprio Set-Point di peso corporeo fisiologico. Il Set-Point infatti si definisce in maniera assolutamente individualizzata, e deroga da ogni possibile tabella e schematizzazione. Come ho già scritto anche in un altro post, ognuna di noi discende da una certa famiglia, ha la propria genetica, il proprio morfotipo, le proprie peculiarità costituzionali. Ogni persona ha un suo proprio Set-Point di peso corporeo che è biologicamente appropriato per lei stessa. Niente a che vedere con i target o con l’idealità, bensì con la genetica, la biologia, lo stile di vita. Questa è la realtà. Una volta raggiunto il proprio Set-Point di peso corporeo fisiologico, il peso tende a stabilizzarsi spontaneamente su quei valori, perché il corpo tende a mantenere la propria omeostasi. E questo non può essere calcolato con alcuna tabella né deciso a propri, ma viene semplicemente raggiunto col tempo, alimentandosi con l’aiuto di una dietista in maniera sana e regolare.

venerdì 3 gennaio 2014

Diete e anoressia

Uno dei tanto classici quanto falsi luoghi comuni sull’anoressia, è che essa rappresenta il risultato di una dieta andata a finire male. Okay, dato che la maggior parte della gente pensa che l’anoressia sia la conseguenza di una dieta degenerata, vediamo un po’ di sfatare questo mito. E non semplicemente con il mio parere che, opinabile per definizione, ha una validità estremamente limitata, ma con l’aiuto di uno studio scientifico condotto da alcuni ricercatori finlandesi nel 2010.

Tanto per cominciare, immaginatevi due ipotetiche adolescenti: Adolescente A e Adolescente B. Entrambe le adolescenti “fanno una dieta”. Il che potrebbe significare che vogliono perdere qualche chilo, oppure che vogliono eliminare i fuoripasto e mangiare in maniera salutare, oppure che vogliono fare più attività fisica. A prescindere dal perché, le due ragazze iniziano a ridurre l’alimentazione in quantità e qualità. Adolescente A si comporta come la stragrande maggioranza delle persone che decidono di “mettersi a dieta”: un po’ riesce a seguirla, un po’ non ci riesce. Perde qualche chilo, poi lo riprende. In certi momenti fa più sport, in altri ne fa di meno. Dopo un po’ si annoia, e lascia perdere. Insomma, alla fin fine sta comunque bene. Per Adolescente B, invece, le cose vanno diversamente: si ammala di anoressia.

Le motivazioni tali per cui una persona sviluppa un DCA sono estremamente numerose nonché variabili da individuo ad individuo, poiché ogni persona ha un differente patrimonio genetico, un differente carattere, un differente background, delle differenti esperienze di vita, che si embricano in maniera estremamente complessa tra di loro, per dare vita al DCA stesso. Per cui, la frase “L’anoressia inizia con una dieta andata a finire male” mi sembra estremamente riduttiva. Sicuramente all’esordio dell’anoressia c’è una restrizione alimentare, per cui potrebbe semmai essere più corretto il dire: “L’anoressia inizia con un bilancio energetico negativo”… ma non è questo il punto. Perché è molto più vero il contrario: la stragrande maggioranza delle diete non portano all’anoressia. Dunque, cos’è che rende una piccola percentuale di persone vulnerabili allo sviluppo di un conclamato DCA dopo un periodo di bilancio energetico negativo?

Alcuni ricercatori finlandesi, perciò, hanno deciso di provare a vedere se esistesse un modo per predire quali, tra le millemila ragazzine che “fanno la dieta”, avessero un più alto rischio di sviluppare un disturbo alimentare conclamato. Il loro studio ha dimostrato che esiste. La risposta sembra essere legata alla comprensione di quelle che sono le vere motivazioni che spingono una ragazza a restringere l’alimentazione. Se l’intraprendere un regime alimentare restrittivo è motivato da manie di controllo, ansia, ossessività, senso di colpa, difficoltà relazionali, pregressi eventi vissuti come traumatici, scarsa autostima, rabbia, etc, sarà molto facile che la persona sviluppi l’anoressia, cosa che invece non succede praticamente mai alle persone che si mettono a dieta prettamente per motivi estetici.

Questi scienziati finlandesi sono dunque partiti proprio da questa domanda: quali fattori rendono alcune adolescenti più propense a sviluppare un DCA rispetto ad altre, che pure “fanno la dieta”? Nel formulare il loro studio hanno prestato attenzione non solo alle differenze nel comportamento alimentare ma soprattutto (la parte più importante del loro studio, a mio avviso) a numerose variabili psicologiche – il che dimostra che l’anoressia non è banalmente una “dieta degenerata”, ma ci stano ben altre problematiche dietro. Insomma, per rispondere alla domanda questi scienziati hanno inizialmente reclutato 595 ragazze finlandesi di 15 anni. Tutte queste ragazze hanno risposto a dei questionari relativi alla loro passata/presente salute fisica e mentale, ai loro comportamenti, alle loro esperienze di vita, e ad alcune brevi domande relative a diete e DCA. (Isomaa et al., 2010).

128 di queste ragazze avevano comportamenti alimentari restrittivi e rispondevano a uno o più dei criteri diagnostici del DSM-IV per i DCA, per cui sono state richiamate per interviste face-to-face più dettagliate. Solo 113 delle 128 ragazze sono ritornate per sottoporsi al colloquio orale, e di queste 81 sono state considerate “a rischio sviluppo anoressia”. Soltanto 65 di queste, però, si sono presentate ai successivi follow-up. I ricercatori però non hanno condotto ulteriori indagini sulle ragazze che seguivano una dieta ma non rispondevano a nessun criterio del DSM-IV per i DCA, e non le hanno neanche sottoposte a follow-up: questo secondo me è il grosso punto debole di questo studio (anche perché le persone indagate sono rimaste solo quelle che fin dall’inizio presentavano un comportamento borderline verso il DCA, il che ha probabilmente influenzato negativamente la significatività dei loro risultati).

Ad ogni modo, con le 81 interviste orali ottenute, i ricercatori hanno suddiviso le quindicenni in 4 gruppi mutualmente esclusivi (le cui descrizioni le traduco direttamente dallo studio in questione):

A dieta per vanità (in originale: “Vanity Dieters” – mi scuso per le pessime traduzioni di questi termini, ma non esiste un diretto equivalente in italiano) (28 ragazze). Le ragazze a dieta per vanità hanno iniziato la loro dieta per ottenere un corpo più snello, più sensuale e più appetibile, potremmo dire più in linea con gli standard della società odierna. Si mettono dunque a dieta con un obiettivo ben preciso, e generalmente la loro dieta prevede l’eliminazione di cibi ad alto contenuto calorico, dei dolci, associato ad un modesto incremento dell’attività fisica.

A dieta per sovrappeso (in originale: “Overweight Dieters”) (12 ragazze). Le ragazze a dieta per sovrappeso hanno iniziato la loro dieta per cercare di evitare la comparsa di quelle patologie che tipicamente si associano al sovrappeso e all’obesità (come per esempio il Diabete Mellito di tipo II, l’ipertensione arteriosa, la sindrome metabolica, etc…). La loro dieta è moderata, e anche l’esercizio fisico è contenuto e regolare. Questo gruppo include solo e soltanto ragazze che quando si sono messe a dieta erano oggettivamente sovrappeso (B.M.I.>25).

A dieta per sconquasso emotivo (in originale: “Depressed Dieters”) (33 ragazze). Le ragazze a dieta per sconquasso emotivo hanno iniziato la loro dieta in un momento particolarmente difficile della loro vita, che le aveva emotivamente molto scosse, con l’idea che le loro problematiche avrebbero potuto migliorare perdendo del peso. La tipologia di dieta è variabile tra queste ragazze, ma nella maggior parte dei casi è caratterizzata dal saltare pasti, abbuffarsi e poi vomitare, assumere lassativi, o fare tantissima attività fisica per regolare l’apporto energetico.

A dieta per bisogno di controllo (in originale: “Controllers Dieters”) (8 ragazze). Le ragazze a dieta per bisogno di controllo forniscono proprio questa spiegazione quando vengono chieste le motivazioni per cui la dieta è stata intrapresa: perché avevano bisogno di controllare tutto, anche l’alimentazione. Nella stragrande maggioranza dei casi sono ragazze originariamente normopeso o addirittura sottopeso. La loro dieta consiste nel ridurre progressivamente quantità e variabilità degli alimenti ingeriti.

[La descrizione dell’ultima categoria mi colpisce molto perchè personalmente me la ritrovo in pieno, dal momento che la mia restrizione alimentare è stata sempre strettamente legata alla mia necessità di sentire che tenevo tutto sotto controllo, alimentazione compresa.] 

Fatta questa prima suddivisione in 4 gruppi, i ricercatori hanno considerato i primi 2 separatamente dagli altri 2: ai primi 2 gruppi è stato ascritto un basso rischio di sviluppare un DCA, viceversa gli ultimi 2 gruppi sono stati definiti come ad alto rischio di DCA.

Questa suddivisione è stata confermata ad un follow-up eseguito dopo 3 anni, ad Agosto 2013. Nelle persone appartenenti ai primi 2 gruppi, quelli considerato cioè a basso rischio, solo 3 persone avevano sviluppato un DCA subclinico, e nessuna un DCA conclamato. Viceversa, negli altri 2 gruppi, ovvero quelli considerati ad alto rischio, ben 10 avevano sviluppato un DCA subclinico, e addirittura 19 avevano sviluppato un DCA conclamato. Le differenze sono evidentemente statisticamente significative: le ragazze dei 2 gruppi ad alto rischio avevano una probabilità circa 15 volte maggiore di sviluppare un DCA rispetto alle altre. Notevole, come risultato.

Gli autori dello studio concludono:

“Quel che abbiamo scoperto ha palesi implicazioni cliniche: anche il solo chiedere da parte di genitori, insegnanti, allenatori, chiunque stia quotidianamente vicino alle adolescenti, il perché si sono messe a dieta, può dare un’idea della probabilità che quella ragazza possa sviluppare un DCA. Le ragazze che si mettono a dieta perché hanno delle difficoltà nella loro vita quotidiana o delle difficoltà emotive, o che sembrano eccessivamente attratte da un bisogno di controllo, devono essere strettamente monitorate. Lo studio suggerisce inoltre che le diete seguite dalle adolescenti sono sostanzialmente innocue, se non motivate dalle caratteristiche presenti negli ultimi 2 sottogruppi.” 
(mia traduzione) 

Anche se personalmente non penso che le ragazze originariamente effettivamente sovrappeso che si mettono a dieta debbano essere automaticamente considerate come soggetti a basso rischio di sviluppo di un DCA (poiché io credo che se la persona ha dei vissuti emotivi pesanti o delle manie di controllo, è comunque ad alto rischio, quale che sia il suo peso di partenza), penso che comunque i risultati di questo studio siano importanti ed interessanti, perché mostrano che, appunto, l’anoressia non è la mera conseguenza di una dieta finita male, ma è piuttosto successiva a problematiche psicologiche d’altro tipo. Inoltre questo studio permette, sebbene ovviamente in maniera approssimativa, di valutare sulla base delle motivazioni alla dieta, se la ragazza è effettivamente a rischio di sviluppare un DCA, o se la sua dieta è sostanzialmente innocua.

venerdì 1 novembre 2013

Lasciar andare l'idea del "peso corporeo ideale"

(Premessa: quanto segue deriva in parte dai miei studi, ma in altra parte dai miei ragionamenti e dalla mia opinione personale. Sono assolutamente convinta di ciò che scrivo in merito alla mia opinione, ma questo non la rende comunque ovviamente verità assoluta.) 

Leggendo qualsiasi cosa riguardi i DCA – soprattutto l’anoressia – dagli studi scientifici alla letteratura, sembra impossibile riuscire ad evitare le frasi “peso corporeo ideale” e “peso corporeo previsto”. Spesso e volentieri i pesi sono espressi in percentuale rispetto al peso corporeo ideale/previsto. Lo stesso DSM pone come criterio diagnostico per l’anoressia: “peso corporeo al di sotto dell'85% rispetto a quanto previsto”. E anche l’efficacia dei trattamenti viene valutata sulla capacità di ritornare all’ 85%/90%/95% (scegliete quello che preferite) del peso corporeo ideale/previsto.

Posso essere molto terra-terra? “Peso corporeo ideale/previsto” è una frase che DETESTO.

In molti studi i ricercatori calcolano il “peso corporeo ideale” sulla base del 50° percentile del B.M.I. rispetto all’età. Avete presente i percentili su cui si valuta la crescita dei neonati? Ecco, sostanzialmente la stessa cosa. Data una certa età di una persona, e data la sua altezza, è possibile calcolare il “peso corporeo ideale” di un individuo. Questo “peso corporeo ideale” viene spesso considerato il peso che chi è affetta da un DCA dovrebbe raggiungere… perché, cavolo, lo dice il nome stesso che è “ideale”!!

Okay, allora, ragioniamoci un attimo su. Il 50° percentile per il peso o per il B.M.I. è in realtà “ideale” solo per quell’ 1% della popolazione che fisiologicamente, naturalmente, senza aver mai avuto un DCA né problemi di alcun tipo con l’alimentazione, cade su quel percentile. Per il restante 99% della popolazione, il 50° percentile rappresenta una sovra o una sottostima del proprio peso.

Ora, so benissimo che viene fatto un sacco di lavoro da parte dei medici quando si tratta di definire appropriati obiettivi di recupero del peso corporeo per una persona che ha un DCA, e stimare che una persona debba raggiungere il 50° percentile di peso (rispetto alla sua età e alla sua altezza) può essere un punto di partenza non del tutto negativo, in mancanza di altri dati… Ma possiamo almeno ammettere che questa è solo una stima generica, e non un “ideale”?!

Tanto più che il “peso corporeo ideale” corrisponde ad una cifra. Ad un numero ben preciso. Il che è stupido. Basti pensare al fatto che il peso di una qualsiasi donna può variare da alcuni etti finanche ad alcuni chili durante il ciclo mestruale. Inoltre, il peso corporeo di una qualsiasi persona (uomo o donna che sia) può variare in base allo stato di idratazione, al periodo dell’anno, all’assetto ormonale, alla vicinanza dall’ultimo pasto rispetto alla pesata, al fatto di aver svuotato o meno vescica ed intestino… e un sacco di altre cose.

Parlando con alcune ragazze che sono state ricoverate in una clinica specializzata nel trattamento per DCA (della quale non faccio il nome per ovvi motivi), mi è stato detto che al momento del ricovero veniva assegnato loro un “peso corporeo ideale” da raggiungere: quello corrispondente, in funzione della loro altezza, ad un B.M.I. = 19. Cioè, seriamente?? E io che pensavo che fossero le persone con un DCA quelle fissate con il controllo di tutto, oppure quelle fissate con gli obiettivi di peso e di B.M.I. da raggiungere… e pensavo che, viceversa, il compito di una clinica fosse quello di permettere alla persona di fare introspezione e di sviscerare le sue vere problematiche, svincolandosi e mettendo in secondo piano cibo e peso… E invece mi sbagliavo, a quanto pare non solo chi ha un DCA, ma anche alcune cliniche si focalizzano su numeri, peso e B.M.I..

Commento soltanto: BAH.

Inoltre, quando si parla di qualcosa come il “peso corporeo ideale”, trovo veramente ironico l’utilizzo della parola “ideale”. Perché, di quale “ideale” siamo parlando, esattamente? Gli ideali culturali? (Ma non fatemi ridere…) Gli ideali matematici? Gli ideali statistici? Gli ideali di salute? Forse. Ma, nuovamente, non esiste un peso specifico e ben preciso che corrisponde alla “salute”. Ogni persona ha un certo range di peso che per lei può essere comunque considerato associato ad uno stato di salute “ideale”.

Una volta una psichiatra con cui avevo da poco intrapreso un percorso psicoterapeutico mi propose di impostare il mio obiettivo di peso da raggiungere (poiché in quel periodo ero piuttosto sottopeso, in quanto reduce da una ricaduta) chiedendo a me quanto volessi pesare, quale peso fossi stata disposta a raggiungere, considerandolo come se fosse il mio “peso corporeo ideale”. Hmmm, chiedere ad una persona affetta da anoressia restrittiva quanto vorrebbe idealmente pesare mi sembra quantomeno miope, per non dire di peggio. (Per la cronaca: ovviamente mollai questa psicoterapia dopo il quarto incontro o giù di lì.)

Un altro genio assoluto (una nutrizionista, nella fattispecie) era convinta che il “peso corporeo ideale” che avrei dovuto raggiungere era quello previsto dal B.M.I., per cui il target sarebbe stato quello di raggiungere un valore di B.M.I. almeno pari a 18,5. (Sì, ho mollato anche questa nutrizionista, naturalmente.) Certamente il B.M.I. può essere considerato un buon range nella valutazione del peso corporeo, perchè ci sono studi scientifici che dimostrano che le persone che hanno una maggiore aspettativa di vita e una minore incidenza delle malattie, sono effettivamente quelle che hanno un B.M.I. compreso tra 18,5 e 25. Ma questo non è comunque un assoluto, è solo una statistica, e il peso del singolo non risponde alla statistica, bensì risponde al proprio patrimonio genetico. Il set-point di peso corporeo è una cosa assolutamente individualizzata, e sebbene in molti casi cada in quello che il B.M.I. definisce “normopeso”, nulla vita che possa cadere anche sopra o sotto questo range, e che la persona sia comunque in salute, perché è fisiologicamente geneticamente settata su un peso al di fuori del normopeso stimato col B.M.I..

Inoltre, quando si fa una valutazione sul peso di una persona che ha un DCA, credo sia di fatto estremamente difficile determinare quale sia il “peso corporeo ideale” che essa dovrebbe raggiungere. Può infatti sorgere spontaneo il pensiero: il mio “peso corporeo ideale” è quello che avevo prima di ammalarmi di anoressia. Okay… ma questo è solo parzialmente vero. Perché se una ragazza si ammala di anoressia a 10 anni, avrebbe ancora un bel po’ di sviluppo da fare… e – annuncio di pubblico servizio – non è generalmente salutare per una donna pesare quanto pesava quando era una 10enne. Poi, certo, se una si ammala a 25 anni, allora il discorso del tornare al peso precedente alla malattia ha un senso… ma occorre non farci fuorviare da questa considerazione.

Il problema è che l’idea di “peso corporeo ideale” è veicolata da un enorme bagaglio culturale. Fortunatamente, ultimamente mi è capitato di leggere su Internet che ci sono diversi professionisti nel campo dei DCA che cercano di spiegare e di far passare l’idea che si può essere in salute anche se si indossano taglie diverse, che c’è più da puntare sulla terapia degli aspetti mentali dell’anoressia, e non limitarsi a valutare solamente l’aspetto della rialmentazione… e questo mi dà un po’ di speranza, perché vedo che c’è gente che finalmente apre gli occhi.

E dunque, se non usiamo “peso corporeo ideale”, qual è l’alternativa? Peso target? Forse… ma per le adolescenti, in pieno periodo di crescita e sviluppo, i target non sono stazionari. Perciò, penso che dovremo lasciar andare l’idea di “peso corporeo ideale/previsto”, e focalizzarsi invece (oltre che, ovviamente, sugli aspetti mentali della malattia) su qual è il set-point di peso biologico di ciascuna paziente. Fare un discorso assolutamente individualizzato, lasciando perdere le generalizzazioni. Ognuna di noi discende da una certa famiglia, ha la propria genetica, il proprio morfotipo, le proprie peculiarità costituzionali. Ogni persona ha un suo proprio range di peso corporeo che è biologicamente appropriato per lei stessa. Niente a che vedere con i target o con l’idealità, bensì con la genetica, la biologia, e il set-point di ciascuna di noi. Questa è la realtà.

Occorre smetterla di pensare che esista un valore univoco di B.M.I. che definisce lo stato di salute o il “peso corporeo ideale” delle persone. Occorre smetterla di pensare che essere sottopeso sia solo e soltanto sinonimo di avere un B.M.I. < 18,5. Non è così. Ognuna di noi ha il suo set-point fisiologico di peso corporeo, un suo proprio range di “normalità”: si è sottopeso se si scende al disotto di quel proprio ed individuale range. Ma questo range non necessariamente corrisponde a quello del B.M.I.. Per quanto la maggior parte delle persone abbia effettivamente un set-point fisiologico ascrivibile ad un B.M.I. compreso tra 18,5 e 25, ci sono alcune persone che per stare bene hanno bisogno di un peso che corrisponde ad un B.M.I. > 25, e alcune altre persone che sono perfettamente in salute pur con un B.M.I. < 18,5. È la variabilità interindividuale, quella che non può essere assoggettata a nessuna statistica. Per cui, se per esempio c’è una ragazza il cui set-point di peso fisiologico corrisponde ad un B.M.I. = 26, e poi il suo peso cala fino ad arrivare ad un B.M.I. = 23, la statistica dice che è meglio, perché la ragazza è passata da un sovrappeso ad un normopeso… ma, in realtà, rispetto al suo standard fisiologico, la ragazza in questione non è normopeso, bensì sottopeso! E, per lei, quella non rappresenta perciò una situazione di salute. Ragionare per numeri aiuta senz’altro a schematizzare, ma non dimentichiamo che le statistiche non possono trascendere l’individualità. Dobbiamo dunque essere consapevoli del fatto che alcune persone hanno set-point di peso biologicamente appropriati che sono anche al di sopra di B.M.I. = 25, o al di sotto di B.M.I. = 18,5. E va bene così.

In un mondo di circa 7 miliardi d’individui, non esiste alcun assoluto “peso corporeo ideale”. È un qualcosa di assolutamente variabile e soggettivo. Prima accetteremo questo dato di fatto, meglio staremo tutti quanti.

venerdì 11 ottobre 2013

Perchè non amo il mio corpo, e non penso sia importante il farlo

Amare il proprio corpo rappresenta una sorta di Sacro Graal per chi ha un DCA. Messaggi sull’importanza dell’imparare ad amare il proprio corpo bombardano le persone che hanno un disturbo alimentare da ogni dove. Amare il proprio corpo e la propria fisicità è visto sia come la chiave per prevenire l’insorgenza dei DCA, sia come un obiettivo di cruciale importanza da raggiungere per poter “guarire” dall’anoressia.

Adesso vi svelerò un segreto: Io sto percorrendo la strada del ricovero, e non amo il mio corpo.

Ecco. L’ho detto. Non amo il mio corpo e non mi piace la mia fisicità, ma ho comunque fatto grandi passi avanti sulla strada del ricovero, e ora come ora le cose mi stanno andando bene, grazie mille.

Io non ho mai avuto il desiderio di essere magra perché, banalmente, io sono sempre stata magra. La mia principale spinta verso l’anoressia è stata il bisogno di avere tutto sotto controllo. Io volevo avere il controllo assoluto. Su tutto. Su ogni singolo aspetto della mia vita. La cosa è partita da ambiti diversi dall’alimentazione e poi, in un formidabile colpo di coda, anche il versante alimentare è stato tirato dentro questo mio bisogno di programmare – e dunque controllare – ogni singolo secondo delle mie giornate.
Volevo “semplicemente” avere sotto controllo ogni singolo respiro della mia vita, e questo controllo ad un certo punto ha iniziato a passare anche attraverso il canale alimentare. L’obiettivo della mia restrizione, in effetti era proprio questo: elaborare una forma di controllo su quello che mangiavo. Il dimagrimento è stata l’ovvia conseguenza, ma non mi ha mai fatto particolarmente piacere, anzi, mi metteva a disagio, non avrei voluto (anche perché comprometteva le mie prestazioni sportive, e al tempo ero a buon livello), ma avevo bisogno del controllo, e se “il prezzo da pagare” era quello di perdere chili, allora andava bene tutto, allora accettavo il compromesso, pur di non abbandonare la sensazione di sicurezza e di forza che quel(l’illusorio) controllo mi faceva provare.

Ho sempre avuto quest’abnorme bisogno di sentire che avevo tutto sotto controllo. Per quanto, vista dall’esterno, la cosa possa sembrare (ed essere a tutti gli effetti) patologica, sul momento io me ne fregavo, perché non mi rendevo conto di quanto il mio bisogno di controllo fosse eccessivo. Non mi ponevo il problema, perché per me non era un problema.

Sebbene la parvenza di controllo che mi pareva di esercitare con l’anoressia mi abbia probabilmente aiutata a sedare delle ansie sottostanti, non mi sono mai curata particolarmente della mia fisicità. Sapevo di essere una ragazza magra, ma era una constatazione fine a se stessa. E anche quando sono entrata nell’anoressia, ero consapevole che stavo perdendo peso, ma anche questa era una considerazione fine a se stessa. Il mio cervello non registrava veramente la perdita di peso: io volevo sentire che avevo il controllo, non m’importava quale fosse il mio peso (difatti non mi sono mai pesata). Io mi sentivo in controllo, quindi non riuscivo a capire come mai le persone che mi circondavano fossero così preoccupate per me.

Mi arrivavano barlumi di consapevolezza sul fatto che avessi un problema (sebbene, certo, razionalmente sapessi benissimo che mi stavo alimentando in maniera insufficiente) quando per qualche motivo succedevano cose che sfuggivano alle mie pretese di controllo. Quando succedeva qualcosa che non avevo programmato, andavo veramente ai pazzi. E restringevo l’alimentazione come se, per contrappasso, questo tipo di controllo potesse andare a compensare quelle aree della mia vita (la vasta gamma dei cosiddetti “imprevisti”) in cui invece non potevo avere per definizione alcun controllo.

Quando sono stata ricoverata in una clinica per la prima volta (ero minorenne, ed è stato un ricovero coatto) ho veramente sclerato. Io non ero assolutamente pronta né consenziente, quindi ovviamente quel ricovero è stato un completo insuccesso. Mi sentivo dilaniata dal fatto che la mia routine fosse scandita dagli impegni organizzati dalla clinica, e che la mia alimentazione fosse gestita da un dietista: in questo modo non avevo più alcun controllo, e questo per me era intollerabile. Non potevo più controllare niente, e non potevo neanche alleviare l’ansia e la rabbia che da ciò mi derivavano restringendo l’alimentazione. È in questo periodo che è nato l’altro mio problema, quello dell’autolesionismo, che ho iniziato ad adottare come nuova strategia di coping, non potendo più ricorrere alla restrizione alimentare. Il mio corpo cambiava, e io non potevo sopportarlo, non per il peso in sé per sé, di quello me ne fregava poco e niente, come del resto sempre poco e niente me n’era fregato, bensì perché quei cambiamenti del mio corpo non li stavo decidendo io, non li stavo controllando io. Il riprendere peso lo vivevo come sinonimo del non avere più controllo, ed era questo che non riuscivo a sopportare: il fatto che qualcuno mi avesse strappato via il mio “amato” controllo. Non m’importava del peso in sé, ma mi spezzava la sensazione di non poter più controllare niente. Il mio corpo non mi piaceva semplicemente perché era la materiale dimostrazione del fatto che non esercitavo più il controllo.

Inutile aggiungere che quando ho terminato questo ricovero ho avuto immediatamente una ricaduta, eh?! Comunque il tempo è passato, io ho fatto altri ricoveri, stavolta per mia scelta, e a poco a poco, molto lentamente, le cose hanno iniziato a migliorare (anche se ho comunque avuto delle ulteriori ricadute). Nel momento in cui ho ricominciato ad alimentarmi regolarmente senza più restringere, a poco a poco la mia testa ha cominciato a funzionare meglio, e quindi anche quest’assoluta necessità di controllo (che era comunque rinforzata dalla restrizione alimentare in uno dei quei famosi serpenti che si mordono la coda) si è lentamente attenuata sempre di più.

Ma non se n’è mai andata. Non del tutto.

Eccomi qua, oggi, per lo più priva dei comportamenti alimentari tipici dell’anoressia (okay, ogni tanto mi capita ancora di fare la cresta a qualche pasto, lo ammetto, ma è un evento veramente occasionale), con un residuo e persistente certo bisogno di controllo, e tuttora non amo la mia fisicità. E con ciò?

Col tempo, ho imparato a far prevalere la razionalità sull’illogico bisogno di controllo, e sui suoi riflessi sulla mia fisicità. Sono più consapevole del fatto che è impossibile che io riesca a controllare ogni singolo aspetto della mia vita. So che quando mi trovo in difficoltà tendo sempre ad utilizzare la restrizione alimentare come surrogato di controllo, e so che questo non ha un senso logico. So anche che il mio peso o la mia fisicità non rispecchiano in alcun modo il controllo che riesco ad avere o meno sulla mia vita. E so che adesso che ho sostanzialmente raggiunto il mio set-point di peso corporeo, rimarrò più o meno qui, salvo un paio di chili in più o in meno come margine d’oscillazione. Evidentemente, il mio bisogno di controllo non ha niente a che fare con il mio corpo.

Inoltre, ho imparato a separare il mio bisogno di controllo sia dalla mia fisicità che dalla mia autostima. Come dicevo prima, al di là dell’anoressia, non ho mai prestato particolare interesse alla mia fisicità. Non mi sono mai giudicata per la mia apparenza esteriore. Mi sono sempre giudicata molto, molto di più per le mie capacità scolastiche e sportive, e cose di questo genere. Certo, l’anoressia ha cambiato qualcosa, nel senso che ho utilizzato la mia fisicità come marker della presenza o meno del controllo: fintanto che restringevo l’alimentazione, ero in controllo. Ma sono adesso consapevole che questo in realtà non esprime in alcun modo niente della persona che sono.

Da un punto di vista prettamente fisico, quello che cerco di fare è lavorare sull’accettazione del mio corpo. Non mi piace la mia fisicità, e non credo che debba necessariamente piacermi. Ma è necessario che io abbia un certo peso per riuscire a tener dietro a tutte le mie attività della vita quotidiana, e per riuscire ad avere una buona qualità della vita.

Ho parlato con la psicologa che mi segue relativamente a questa presunta necessità di amare il proprio corpo, e mi veniva da ridere al pensiero di dovermi mettere davanti ad uno specchio ripetendo mantra quali “Sono davvero sexy” e “Amo il mio corpo”. Non fa per me, inutile mentire a me stessa. Così, anziché lavorare sull’imparare ad amare il mio corpo, abbiamo iniziato a lavorare sull’accettazione. Sulla consapevolezza che non mi piace la mia fisicità, e probabilmente non mi piacerà mai, ma che devo imparare ad accettare un certo standard corporeo, anche se non rispecchia la mia idea di “dimostrazione di controllo”, perché è quello che mi permettere di vivere una vita degna, concentrandomi invece sulle cose che veramente rappresentano i miei punti di forza, e valorizzandoli.

E questo, pian piano, sta facendo la differenza. Il mio corpo non mi piace, e il bisogno di controllo è sempre lì, ma faccio quello che c’è bisogno di fare (mangio seguendo l’ “equilibrio alimentare” che mi ha prescritto la dietista, e non cedo all’impulso di restringere) e questo mi consente di dedicarmi a quelle cose (sport, lavoro, tirocinio post-laurea, amicizie…) che nella vita mi piacciono e m’interessano realmente. Anziché pensare che se non restringo l’alimentazione allora non ho il controllo della mia vita, penso che grazie al non essere così ossessiva nell’espletare il mio controllo e al non restringere l’alimentazione, posso reggere tranquillamente un turno di 12 ore (la notte, 20 – 8) in Pronto Soccorso senza rischiare di svenire da un momento all’altro. E il turno di notte in Pronto Soccorso è una vera meraviglia, ve lo assicuro.

Ho raggiunto una condizione ideale? Non lo so. Ma ho trovato un equilibrio. E da qui andrò avanti, in quest'equilibrio. Mi viene da dirlo in Inglese, con una frase rubata ad una canzone, ma che rende moltissimo: it works for me. Non ho bisogno di amare il mio corpo. Non ho bisogno di trovare gradevole la mia fisicità. È un’inezia, a fronte della persona che sono. Piuttosto che prendermela perché una parte del mio corpo non è come la vorrei, mi preoccupo per la mia capacità di essere un medico capace, una buona istruttrice ed arbitro imparziale di karate, una buona amica, una persona corretta, una persona in grado di realizzare i propri obiettivi nella vita.

Dunque no, non amo il mio corpo. E allora?

venerdì 6 settembre 2013

L'altra faccia della medaglia della sensazione di fame: la sensazione di pienezza

Quando sono stata ricoverata in clinica sentivo un sacco parlare nella necessità per chi ha un DCA d’imparare a gestire la sensazione di fame. Non dico che parlare di questo sia inutile, assolutamente, ma ritengo che non sia l’unica variabile in gioco. La sensazione di pienezza rappresenta l’altra faccia della medaglia della sensazione di fame, eppure non riceve la medesima attenzione. Eppure io ho sempre trovato la sensazione di pienezza decisamente più difficile da gestire.

Uno dei più noti luoghi comuni che circolano a proposito dei DCA è che le persone affette da anoressia non abbiano fame. Non è difficile crederlo, poiché una frase che viene comunemente ripetuta dalle ragazze che hanno questo DCA, soprattutto quando la malattia è agli esordi, è: “No grazie, non ho fame adesso”. Penso che tutte non l’abbiamo detto almeno una volta, non è vero?!

Un’altra cosa interessante dei DCA, è che molte persone affette da anoressia riportano spesso, durante il loro percorso di riabilitazione nutrizionale, di avvertire la sensazione di sazietà precoce.

Partendo da questo dato di fatto, sono stati condotti numerosi studi di imaging cerebrale, ed è venuto fuori che esiste una base neurale che determina la comparsa di questa sensazione; non è dunque sorprendente il fatto che molte persone affette da DCA non riescano a percepire correttamente le sensazioni di fame e di pienezza.

Se ci pensate, vi accorgerete che quando si inizia un percorso di riabilitazione nutrizionale, la sensazione di fame si ripristina in tempi relativamente brevi. Questo non significa che si diventi rapidamente in grado di rispondere adeguatamente a questa sensazione: molto spesso infatti il senso di controllo indotto dall’anoressia è tale che anche se si sente la fame ci si impone di non mangiare. Sul non assecondare pensieri indotti dall’anoressia è naturalmente necessario lavorare con la psicoterapia. Il punto è che, a prescindere dal fatto che l’assecondiamo o meno, la sensazione di fame ricompare in modo relativamente rapido.

Viceversa, per quanto riguarda la sensazione di pienezza le cose sono più complesse. Per molto tempo si avverte una sensazione di sazietà precoce, che in un primo momento ha una base fisica perché il nostro apparato digerente è disabituato ad alimentarsi normalmente e regolarmente, poi ha senz’altro una base neurologica, e io credo che in parte abbia anche una base psicologica: il sentirsi piene giustifica lo smettere di mangiare senza sentirsi troppo in colpa perché non si sta seguendo l’ “equilibrio alimentare”: non mangio altro non perché non voglia seguire lo schema, ma perché davvero sono piena e non ce la faccio a mangiare nient’altro. Ovviamente, è un pensiero generato dall’anoressia: non si è veramente sazie, è solo che il DCA altera il senso di sazietà sia a livello fisico che a livello mentale.

Il problema è questo: anche dopo aver mangiato poco ci si sente come se avessimo già mangiato abbastanza. In realtà, non ci rendiamo veramente conto di quanto abbiamo mangiato: la sensazione di sazietà che si avverte non risponde ad un bisogno fisico, ma a uno stimolo mentale (patologico).

Questa tipologia di sensazioni può rendere molto difficile seguire il proprio “equilibrio alimentare” prescritto dalla propria dietista/nutrizionista, per cui, secondo me, quello che dobbiamo fare quando ci troviamo in una situazione del genere è cercare di ascoltare la parte razionale della nostra testa: in fin dei conti, sappiamo benissimo che il nostro schema alimentare è tarato perfettamente su di noi, è elaborato da una professionista ed è individualizzato, per cui quello che vi è scritto, quello che dobbiamo mangiare, è esattamente quanto ci serve per recuperare il peso perso (in un primo momento), o per mantenere il peso raggiunto (in un secondo momento). Non neghiamo le sensazioni di fame/sazietà che proviamo, ci sono e non ha senso ignorarle, però mettiamole momentaneamente da una parte, e ritiriamole fuori durante la psicoterapia, quando avremo modo di sviscerare con la nostra psicoterapeuta quali sono i problemi e le difficoltà che effettivamente nascondiamo dietro queste sensazioni correlate all’alimentazione. Mentre mangiamo, cerchiamo di far prevalere la razionalità, e di mangiare tutto quanto prescritto dal nostro “equilibrio alimentare”, anche perché più ci si riabitua a mangiare normalmente, meno queste sensazioni disagevoli si fanno sentire.

Quella che ho appena scritto è la mia opinione personale. Per la cronaca, il gold standard per la riabilitazione nutrizionale nelle prime fasi di un DCA quando c’è bisogno di recuperare peso è l’alimentazione meccanica, mentre il gold standard per l’alimentazione quando bisogna mantenere il peso raggiunto è la cosiddetta intuitive eating (alimentazione intuitiva). Su di me, nessuna delle due cose ha funzionato. E immagino di non essere la sola. Tuttora io seguo uno schema alimentare di mantenimento del peso che mi ha prescritto la dietista che mi segue. Se fossi lasciata a fare di testa mia, molto probabilmente ricomincerei a restringere. Non volontariamente, non intenzionalmente, ma credo proprio che lo farei. Ho bisogno di seguire il mio schema per avere un corpo sano. Questo è ciò che funziona su di me. So anche essere flessibile se è necessario, ma preferisco comunque, quando posso, mangiare seguendo il mio schema.

In realtà non ci sono ancora risposte scientifiche del tutto certe sulle sensazioni di fame e sazietà durante la riabilitazione nutrizionale. In ogni caso, resta il fatto che viene molto meno sottolineato (per lo meno, così mi è parso) l’aspetto della gestione della sazietà precoce rispetto all’aspetto di gestione della fame. Io penso che ambo le cose siano importanti, perché possono entrambe creare difficoltà a chi ha un DCA.

E voi cosa ne pensate? Avete mai avuto difficoltà nel riconoscere correttamente le vostre sensazioni di fame/sazietà? Come riuscite a gestire la vostra alimentazione? Se vi va, fatemi sapere come la pensate nei commenti.

venerdì 12 luglio 2013

A proposito del Mindfulness nel trattamento dei DCA

Sapete cos’è il “Mindfulness”? Wikipedia lo definisce come: “modalità di prestare attenzione, momento per momento, nell’hic et nunc, intenzionalmente e in modo non giudicante, al fine di risolvere (o prevenire) la sofferenza interiore e raggiungere un’accettazione di sé attraverso una maggiore consapevolezza della propria esperienza che comprende: sensazioni, percezioni, impulsi, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni.” È una modalità terapeutica di cui ho sentito molto parlare, ultimamente. Sta prendendo sempre più campo, e ci sono molteplici ricerche che cercano di dimostrare quanto questa sia utile nel trattamento di disturbi d’ansia, depressione, DOC, somatizzazioni e patologie correlate. Nessuna sorpresa dunque che il Mindfulness sia diventato popolare anche nel campo dei disturbi alimentari. Secondo questa tecnica terapeutica dovremmo cercare di imparare a “vivere il momento” e cercare di essere delle osservatrici neutre della nostra stessa vita. Personalmente (mia opinione, e dunque opinabile per antonomasia) su di me NON ho trovato utile l’applicare questa metodica terapeutica. C’è chi dice che invece sia utile eccome, sicuramente è molto utilizzata, ma gli studi scientifici che cercando di dimostrare l’efficacia di questa terapia nel trattamento dei DCA, soprattutto anoressia, sono numericamente molto limitati, condotti su piccoli campioni, e comunque parziali. Cionnonostante, sono a conoscenza del fatto (riferitomi da alcune lettrici di questo blog) che alcune cliniche utilizzano il Mindfulness come un qualcosa di perfettamente integrato al loro protocollo terapeutico. Nell’ambito dei DCA, infatti, questa tecnica consiste nel cercare di non “fuggire” mentalmente dal cibo, ma concentrarsi su quello che si ha nel piatto, senza pensare ad altro, e cercando di tenere bassi i livelli di ansia nella consapevolezza che quello che si mangia è quanto previsto dal proprio “equilibrio alimentare”.
La domanda da porsi, dunque, è: il Mindfulness funziona? E, se sì, chi può trarne beneficio?

Alcuni ricercatori si sono posti questa domanda, ed hanno impostato uno studio cercando di valutare l’efficacia delle tecniche del Mindfulness attuate sia prima che durante i pasti, su un gruppo di pazienti affette da DCA ricoverate in una clinica. In breve, hanno scoperto che il Mindfulness non è sempre una modalità efficace (né tantomeno la migliore) per aiutare le persone con un DCA durante la fase di ri-alimentazione. (Marek et al., 2013)

Spesso il termine Mindfulness viene utilizzato come se fosse un qualcosa che tutti conoscono, un qualcosa di ovvio. Non lo è, naturalmente. L’utilizzo colloquiale del termine Mindfulness non rispecchia esattamente quello che gli psicologi intendono quando utilizzano questo termine. In una non recentissima dichiarazione consensuale (Bishop et al., 2004), gli psicologi scrivono che il Mindfulness è:  

“un processo che permette di regolare la propria attenzione, al fine di ottenere una consapevolezza non elaborativa dell’evento corrente, e la capacità di relazionarsi all’evento in questione con un orientamento di curiosità, apertura mentale, e accettazione. Il Mindfulness è inoltre un processo di approfondimento della conoscenza sulla natura della propria mente, e l’adozione di una prospettiva decentrata sui pensieri e sui sentimenti, in maniera tale che possano essere vissuti per quella che è la loro soggettività (VS la loro necessaria validazione) e la loro natura transitoria (VS la loro permanenza).”
(mia traduzione) 

Considerato che la maggior parte delle persone con un DCA tendono fortemente a giudicare se stesse (penso di essere il CEO di questo club!) nonché tentano disperatamente di controllare i propri sentimenti e il modo in cui gli eventi esterni le influenzano (perché c’è quella sensazione che se si riesce a controllare allora non succederà niente di male, o di ansiogeno... di questo club sono il CEO dei CEO!!), il Mindfulness teoricamente potrebbe essere visto come un ottimo modo per arginare questi sintomi. Finora, la maggior parte del lavoro che è stato fatto col Mindfulness si è concentrato sulla bulimia e sul binge. Immagino che questo sia successo perché credo che (ma vado a naso, perché non mi è mai successo, quindi se a qualcuna è successo ed è diverso da quello che sto per scrivere, mi smentisca pure!) durante un’abbuffata la persona bulimica/con binge non è concentrata e lucidamente consapevole di quello che sta mangiando e delle sensazioni che sta provando (giusto??). E immagino che questo sia un punto molto importante per chi ha questo tipo di DCA.

Sempre in linea teorica, se una persona con bulimia/binge attuasse il Mindfulness, sarebbe meno propensa ad abbuffarsi, e forse non si sentirebbe troppo in colpa dopo averlo fatto (immagino, poi non so). Anche se gli studi scientifici al riguardo forniscono dati imprecisi, e spesso i campioni utilizzati sono troppo piccoli per poter parlare di statistica efficace, pare che i trattamenti in cui è integrato il Mindfulness siano promettenti soprattutto per la bulimia e il binge. Pare che questa metodica terapeutica sia efficace anche per persone con problemi di obesità. Ma i risultati ottenuti non ci dicono comunque che il Mindfulness sia assolutamente sempre efficace per ogni qualsiasi tipo di DCA, e per ogni qualsiasi persona.

Cos’hanno trovato i ricercatori?

In uno studio coinvolgente 17 donne affette da DCA ricoverate in una clinica, e 23 donne-controllo, ovvero donne senza DCA, Ryan Marek e i suoi colleghi hanno diviso ciascun gruppo circa a metà. Metà delle persone di ciascun gruppo è stata sottoposta a distrazioni durante il pasto. L’altra metà invece è stata sottoposta a Mindfulness. Alle partecipanti allo studio è stato anche chiesto di rispondere ad un questionario relativo al proprio umore (per esempio: tristezza, paura, vergogna, serenità, disgusto, depressione, ansia, rabbia, emozione) e alle proprie sensazioni di fame/sazietà. Inoltre, dovevano scrivere delle annotazioni relativamente a cosa ne pensassero (quanto gradissero o meno) quel tipo di trattamento.

Delle 17 pazienti affette da DCA, una aveva l’anoressia, 8 la bulimia, e 8 dei DCAnas. A tutte le partecipanti allo studio è stata fatta mangiare una fetta di torta ai mirtilli e al caffè, e gli è stato fatto compilare il questionario sull’umore prima e dopo averla mangiata. Questo è stato fatto per due volte.

Per il gruppo di controllo (quello formato da ragazze senza DCA) il Mindfulness riduceva significativamente le eventuali sensazioni negative post-pasto. Per il gruppo delle ragazze con DCA, invece, l’effetto era più scarso: coloro che erano state sottoposte a Mindfulness provavano più ansia, tristezza, depressione e senso di colpa post-pasto rispetto a quelle che erano state sottoposte a distrazioni. Le ragazze con DCA, inoltre, scrivevano di aver gradito il Mindfulness molto meno rispetto a quanto fosse stato gradito dalle ragazze senza DCA.

Gli autori hanno scritto:  

“Dato che il Mindfulness è stato applicato su pazienti che hanno una forte ansia a fronte dell’idea di dover mangiare, nonché alterate sensazioni di fame/sazietà, quello che è venuto fuori forse non è sorprendente. Poiché molte delle pazienti affette da DCA sono malnutrite da molto tempo, le loro sensazioni di fame/sazietà non sono più biologiche. Consequenzialmente, esse riferiscono eccessiva pienezza, gonfiore, dolore addominale anche dopo aver consumato piccole quantità di cibo. Per cui, non si può dire che il Mindfulness sia inefficace nelle pazienti che hanno un DCA, ma semplicemente che dovrebbe essere una tecnica applicata più a lungo, affinchè le pazienti possano padroneggiarla, e quindi trovarla funzionale.”
(mia traduzione)

Come la penso io?
Per quello che mi riguarda personalmente, le distrazioni sono sempre state e sono tuttora un toccasana quando devo mangiare. Più mi concentro su quello che sto mangiando e sulle sensazioni che sto provando, più mi si chiude lo stomaco e non riesco più a mangiare. Se mi ci dovessi concentrare ad ogni pasto per prenderci l’abitudine, comincerei immediatamente di nuovo a restringere. Per questo mentre mangio preferisco leggere un libro o guardare la TV.

Ovviamente, la distrazione durante il pasto non dev’essere considerata una stampella perenne e assoluta. Non c’è niente di sbagliato nel pensare a quello che si sta mangiando, magari per qualcuna di voi può essere anche utile per sapere che sta mangiando quanto deve, e non si sta abbuffando. Ma se il pensiero dev’essere puntato su quante calorie contiene l’alimento che si ha nel piatto, su quanta attività fisica dovrebbe essere fatta per smaltirlo, su quanto sarebbe bello poter restringere, allora il rimedio diventa peggiore del male. Meglio allora lasciar perdere il Mindfulness, e invitare a pranzo un amico con cui fare due chiacchiere.

E voi, come la pensate?

venerdì 14 giugno 2013

Anoressia e metabolismo

Disclaimer:

1) Non sono una dietista né una dietologa. Non studio Dietistica all’università, e non ho frequentato alcun corso specialistico in Scienze della Nutrizione Umana. Sono una laureanda in Medicina, e le mie conoscenze in merito all’alimentazione e al metabolismo derivano dall’esame di Nutrizione, che ho sostenuto nel contesto del corso integrato di Fisiologia.

 2) Questo blog, per quanto ne so basandomi sulle e-mail che ricevo, è letto anche da ragazze di 12 – 13 anni. Quello che scriverò in questo post vuol essere perciò fruibile anche per coloro che non hanno particolari competenze. Ergo, cercherò di esprimermi in maniera non troppo complicata, ed inevitabilmente dovrò ricorrere a delle semplificazioni. Chiedo scusa in anticipo a tutti i professionisti del settore sanitario che leggeranno questo post, che inevitabilmente presenterà delle imprecisioni e delle facilonerie; d’altronde l’obiettivo non è quello di scrivere un trattato medico, ma un qualcosa che possa essere letto e compreso anche da chi ha fatto tutt’altro genere di studi. (Se poi c’è qualche medico o qualche dietologo/dietista/nutrizionista che mi legge – bè, almeno una dietista so per certo che c’è, vero Ilaria?! – e vuol fare qualche precisazione senza scendere in tecnicismi comprensibili solo agli “addetti ai lavori”, è assolutamente benaccetto!)

3) Quello che scriverò in questo post ha carattere assolutamente GENERALE. Nessuna mi lasci commenti chiedendomi consigli sul suo caso specifico, perché NON sono una professionista del settore, quindi NON sono in grado di darvene. L’unico consiglio che do vivamente a tutte quante è quello di lasciar perdere i fai-da-te o i consigli chiesti a chi non se ne intende veramente, e rivolgersi invece appunto ad una figura professionale che possa aiutarvi ad impostare un piano alimentare personalizzato, perché credo che questo sia un elemento fondamentale per combattere contro l’anoressia.

Dopo questa doverosa premessa, arriviamo al post vero e proprio. L’argomento che sto per trattare l’avrete già capito dal titolo. Ne parlavo anche con justvicky qualche giorno fa, e molte di voi mi hanno scritto chiedendomi informazioni in merito al metabolismo, e ai cambiamenti ad esso indotti dall’anoressia. Effettivamente, la restrizione alimentare che accompagna l’anoressia altera tantissimo il metabolismo, e questo rappresenta uno dei fattori che, all’inizio di un percorso di ricovero, complica le cose, perché a fronte di piccoli introiti alimentari ci sono significativi aumenti di peso, che “spaventano” la persona e che le fanno venir voglia di mollare tutto.
La bella notizia, comunque, è che le alterazioni metaboliche indotte dall’anoressia sono col tempo reversibili. La brutta notizia è che per saperne di più dovrete sorbirvi tutto questo mio post.

Cominciamo dalle basi… ovvero dal metabolismo basale, appunto. Il metabolismo basale rappresenta il dispendio energetico che ha ogni qualsiasi organismo a riposo, ovvero l’energia che è necessaria a svolgere le funzioni metaboliche vitali (attività del sistema nervoso, circolazione sanguigna, contrazioni cardiache, attività respiratoria, etc…).
Data questa definizione, evidenziamo un dato di fatto: nelle 24 ore giornaliere, una persona completamente a riposo, che non si alza neanche da letto ma sta lì dormendo tutto il giorno, brucia più di 1000 Kcal. Ne siete sorprese? Pensate che lo stia inventando io? Ebbene, lasciate allora che ve lo dimostri matematicamente, con una formula che si chiama RMR (Resting Metabolic Rate):

RMR= (10 x peso in Kg) + (6.25 x altezza in cm) - (5 x età) - 161 

Grazie a questa formula chiunque può avere una stima piuttosto fedele di quante calorie brucerebbe se dormisse h 24.
Vi vedo già, lì, che state facendo i calcoli con i vostri dati: scommetto che nessuna di voi ha ottenuto un risultato minore di 1000, ci ho dato?
Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che la restrizione alimentare che si porta avanti con l’anoressia è inutile e deleteria proprio perché troppo restrittiva. E poiché un’alimentazione troppo restrittiva altera il metabolismo basale (ancora un attimo di pazienza, e ve ne spiegherò i perché e i percome), chiunque si rivolge ad una dietista per iniziare un percorso di ricovero, si vede proposta una dieta iniziale da 900 - 1000 Kcal/die, e fugge a gambe levate perché pensa che siano esagerate e la faranno ingrassare a dismisura e senza fine, si ricreda: la matematica non è un’opinione.

Com’è dunque che la restrizione alimentare dell’anoressia determina un abbassamento del metabolismo? Considerate che l’obiettivo primario del nostro corpo è quello di mantenersi in vita. Se perciò gli vengono fornite calorie inferiori a quelle che, in condizioni normali, gli sarebbero necessarie, l’organismo instaura dei meccanismi biologici adattativi che consentono comunque una discreta efficienza di tutte le funzioni primarie legate alla sopravvivenza. La presenza di questi meccanismi adattativi del dispendio energetico atti a preservare la sopravvivenza dell’ organismo in condizioni anche molto sfavorevoli, si traduce appunto nella diminuzione generalizzata delle attività metaboliche e quindi sia nella sospensione di alcune attività non ritenute dal corpo essenziali alla sopravvivenza (ecco perché sparisce il ciclo o, comunque, diventa irregolare), sia in una minore utilizzazione di energia da parte dei diversi tessuti e organi. L’abbassamento del metabolismo basale si accompagna peraltro ad una variazione nell’utilizzo dei substrati energetici: il glucosio (primaria fonte die energia per il nostro organismo), non più introdotto in quantità sufficiente con l’alimentazione ed esaurite le riserve epatiche di glicogeno (forma di stoccaggio del glucosio all’interno del fegato), viene prodotto a partire da substrati non glucidici tramite un processo biochimico chiamato gluconeogenesi: i substrati più utilizzati sono gli aminoacidi (i principali costituenti delle proteine) ed è per questo che il peso che si perde con la restrizione alimentare è dovuto principalmente alla perdita della massa muscolare. La massa grassa – salvo i casi di sottopeso più estremo – si riduce molto meno rispetto alla massa muscolare, perché la gluconeogenesi condotta a partire dagli acidi grassi è più tardiva rispetto a quella condotta a partire dagli aminoacidi.

La restrizione alimentare comporta inoltre una riduzione della cosiddetta termogenesi post prandiale, ovvero l’ aumento immediato del dispendio energetico che si osserva dopo l’ assunzione di un pasto o di singoli nutrienti. La termogenesi post prandiale è dovuta ai processi di assorbimento, metabolizzazione e deposito dei diversi substrati ma è anche sottoposta a meccanismi di regolazione più complessi e ancora non ben conosciuti. Nell’ anoressia, a fronte di una scarsa disponibilità di energia, la termogenesi post prandiale si riduce in accordo con un concetto generale di “risparmio metabolico” da parte dell’organismo (un’altra forma, quindi, di adattamento).

La riduzione del metabolismo basale e della termogenesi post prandiale sono adattamenti biologici piuttosto precoci quando s’inizia a restringere l’alimentazione. Ecco perché teoricamente ci sarebbe bisogno di mangiare sempre di meno per continuare a perdere peso: perché, abbassandosi il metabolismo, è sufficiente un introito alimentare sempre minore per soddisfare le esigenze dell’organismo (nei casi più estremi, il metabolismo si può abbassare anche a 500 Kcal/die). Questo spiega perché è inutile che, se dopo un periodo di restrizione alimentare il vostro peso smette di scendere, restringiate ulteriormente l’introito di cibo: con un metabolismo così ridotto, basta mangiare un’inezia per fare pari (o, addirittura, per dare sopra), per cui la discesa del peso si blocca (e, a volte, il peso ri-aumenta). È normale che sia così. Per cui, lasciate perdere scene da drama-queen stile: “OMG, ho mangiato 600 Kcal e il mio peso non è sceso di un grammo, sono disperata, è la tragedia più grande dell’umanità, altro che tsunami, terremoti, tornadi!... È quasi grave come quando Pikachu perde una battle contro un altro pokémon!” … è ovvio che se avete seguito un regime alimentare così distruttivamente restrittivo da portare il vostro metabolismo ai minimi storici, riprendete peso anche solo mangiando mezzo yogurt magro. Non sperate di continuare a dimagrire ancora restringendo ulteriormente l’alimentazione: il risultato migliore che potrete ottenere, praticamente, in questo modo sarà un collasso. Perché sotto un certo TOT minimo di calorie, l’organismo stacca la spina a intermittenza.

Il fatto che però il peso possa stabilizzarsi ad un livello più o meno basso proprio perché, mangiando di meno, il metabolismo basale si è ridotto, non significa che le cose stanno andando meglio, anzi. Vorrei farvi notare che si può morire a causa di un DCA anche se si è normopeso secondo il range stabilito dal B.M.I.. Questo perché, a prescindere al peso, la restrizione alimentare comporta comunque un danno a tutti i nostri organi. Se non introduciamo con l’alimentazione i nutrienti in maniera adeguata, il cervello, il cuore, i polmoni, il fegato, i reni, l’apparato digerente… ogni qualsiasi porzione del nostro organismo non lavora in maniera appropriata. La continua e progressiva perdita di peso che spesso è tipica dell’anoressia, è solo un sintomo fisico del danno che è stato prodotto con la restrizione alimentare. Il sintomo è sempre posteriore rispetto al danno. Quindi, se anche una persona non ha ancora una perdita di peso particolarmente significativa, questo non significa che il suo corpo non stia vivendo uno stato di deprivazione, e quindi di sofferenza. Il peso corporeo non è strettamente correlato con lo stato di salute. Questa è un’estrema semplificazione assolutamente fuorviante. Spesso è il motivo per cui persone con DCA non ricercano aiuto se non hanno perso TOT chili, perché pensano di non essere “abbastanza malate” per aver bisogno dell’intervento medico. Ma questo è sbagliato. Perché la compromissione della salute corporea data dalla restrizione alimentare, è molto più precoce rispetto al sintomo fisico della perdita di peso. Se ci pensate, questo è un concetto valido per tutte le malattie: sareste capaci di riconoscere una persona diabetica unicamente sulla base del suo aspetto fisico? No, perché è una malattia che si manifesta fisicamente solo quando è avanzata e non trattata. Ma il fatto che una persona diabetica sembri in perfetta salute, non significa che non abbia bisogno delle sue iniezioni di insulina. Per cui, la restrizione alimentare è pericolosa anche solo per il semplice fatto che l’organismo non riesce ad avere quello di cui necessita. E gli adattamenti metabolici sono proprio un tentativo di rispondere a quest’insufficienza. Ma il fatto che entri in azione un adattamento, è già indicativo del fatto che c’è qualcosa che non va.

In virtù di quanto ho appena scritto, una prima ovvia conclusione: a discapito di tutti i luoghi comuni che si trovano facilmente su Internet, relativi a cibi/bevande che dovrebbero fungere da acceleratori del metabolismo, quest’ultimo è accelerato/rallentato solo dalla QUANTITA’ di cibo che viene mangiato, poiché l’obiettivo finale del nostro organismo è sempre quello di mantenere quello che sarebbe il proprio set-point di peso corporeo. Non esiste un singolo magico cibo o una singola magica bevanda che accelera il metabolismo: per cui, voi che vi fate flebo di thé verde o cospargete ogni qualsiasi cosa commestibile di spezie, rassegnatevi. Nonostante questo, il vostro metabolismo non accelererà d’una virgola. (Anche perché, banalmente: se ci fosse un cibo/bevanda capace di accelerare il metabolismo, chiunque potrebbe consumare 10.000 Kcal al giorno di qualsiasi cosa, e poi mangiare/bere costantemente quel cibo/bevanda, e dato che esso accelererebbe il metabolismo, nessuno aumenterebbe d’un grammo. Dato che questa è fantascienza, è palesemente evidente che nessun cibo/bevanda ha simili proprietà magiche.)

Che cosa succede poi ad una persona che per tanto tempo ha ristretto l’alimentazione (e che, quindi, ha un metabolismo basale bassissimo), nel momento in cui inizia un percorso di ricovero e viene rialimentata? Succede quello che molte di voi già sanno benissimo, avendolo vissuto sulla propria pelle: un significativo aumento di peso in un lasso di tempo estremamente breve, che è fortemente ansiogeno e che rappresenta uno dei principali fattori trigger per ricadute nell’anoressia e/o abbandono della terapia nutrizionale e psicologica. Questo accade perché, se in un metabolismo fiaccato dalla restrizione alimentare, viene proposto un introito calorico superiore al livello cui il metabolismo si è assestato, tutto l’eccesso viene immediatamente tradotto in un aumento di peso da parte di un corpo che, in quel momento, è “avido” di calorie perché ne è stato privato per molto tempo, per cui tende ad “immagazzinare” tutto quello che c’è in più.

Tuttavia, quello che bisogna fare nella prima fase della rialimentazione, è avere pazienza: le modificazioni metaboliche dovute all’anoressia, infatti, NON sono irreversibili. Il metabolismo basale che ciascuna di noi aveva prima di entrare nell’anoressia, viene infatti a ripristinarsi nel giro di alcuni mesi… ma solo se si tiene duro nel primo momento di difficoltà, quando si vede risalire significativamente il peso, e si continua ad alimentarsi in maniera regolare. La chiave per normalizzare il metabolismo è infatti proprio quella di mangiare regolarmente tutti i giorni, seguendo l’ “equilibrio alimentare” che la dietista ci prescrive. È il tenere un regime alimentare regolare a lungo, che riporta infatti il metabolismo ai suoi livelli ottimali. Per cui, la rapida impennata del peso che si nota nelle prime settimane di rialimentazione, viene successivamente a ridursi poco a poco, man mano che il metabolismo si normalizza, perché a quel punto il corpo “si accorge” che gli vengono forniti tutti i nutrienti di cui ha bisogno nelle giuste quantità, e quindi vengono meno i meccanismi di adattamento metabolico che erano stati messi in atto con la restrizione alimentare. Quel che succede, quindi, è che al primo rapido recupero del peso segue un incremento molto più lento e graduale, uno stazionamento, o addirittura una diminuzione nel momento in cui il normale metabolismo è ripristinato. Questa progressiva normalizzazione del metabolismo, con le conseguenti oscillazioni di peso, proseguirà fino a che non avrete raggiunto il vostro set-point fisiologico di peso: a quel punto, il vostro peso si stabilizzerà, e rimarrete più o meno su quei valori, come avevo già spiegato nella seconda parte di QUESTO POST

Okay, questo per dirla nella maniera più breve (si fa per dire… ^^” ) e più semplice possibile. Spero che adesso possiate sentirvi anche solo un pochino meno in ansia quando vi siederete di fronte al tavolo, e dovrete seguire il vostro “equilibrio alimentare”.

Se mi sono espressa in maniera comunque poco chiara fatemelo sapere, che cercherò di spiegarmi meglio, e se avete delle domande, fatemele pure. Cercherò di rispondervi nella maniera più esauriente possibile, con gli ovvi limiti elencati a inizio post.

venerdì 24 maggio 2013

"Quando tutto il resto fallisce, è colpa della paziente"

Oggi vorrei riportarvi un articolo che ho trovato su Internet, che mi ha lasciata piuttosto perplessa, e decisamente discorde.
Si tratta del risultato di un’inchiesta qui riportata, relativa ai casi di morte in giovani donne affette da anoressia, che fa sì che il medico esaminatore concluda:

In conseguenza di ciò che è successo, Mr Hinchliff afferma: “Lei [la paziente in questione affetta da anoressia - nda] non era mai stata completamente compliante alla terapia di rialimentazione, e questo ha causato ripercussioni negative sulla sua salute fisica, che l’hanno condotta alla morte.” 
(mia traduzione) 

Perchè, certo, è tutta e solo colpa della paziente se è morta, vero?!

Chi ha steso tali conclusioni non ha pensato che se la paziente non è stata compliante, è perchè non riusciva ad essere compliante. Quando sei sottopeso, malnutrita e con una mentalità che è ancora completamente in balia dell’anoressia, affrontare una cosa ansiogena come un regime alimentare regolare scandito da 5 pasti quotidiani è un qualcosa che più di una persona non sarebbe in grado di tollerare. Nella stragrande maggioranza dei casi, le ragazze affette da un DCA vorrebbero veramente stare meglio, solo che non riescono a tollerare l’ansia che il distaccarsi dall’anoressia comporta inevitabilmente. Il DCA, perciò, continua ad apparire preferibile di fronte dall’ansia innescata dall’idea di dover affrontare la vita senza mettere in atto questa strategia di coping.

Il problema è che purtroppo è ancora molto diffuso, “grazie” anche a quest’informazione a mio avviso scorretta derivante dai mass-media, il preconcetto che recuperare il peso perso significhi “guarire” dall’anoressia. Certamente la riabilitazione nutrizionale è fondamentale per fare passi avanti sulla strada del ricovero, ma il fatto che una paziente abbia recuperato il peso perso non significa che il DCA è svanito dalla sua mente, anzi, tutt’altro. È per questo che poi si hanno le ricadute, tante ricadute, e la gente che guarda dall’esterno pronta a dire che se non c’è compliance terapeutica non è possibile avere un aiuto. Mah.

Nella stragrande maggioranza dei casi, rimanere vincolate a un DCA anche dopo averne scoperti i lati negativi, non è una scelta. È una necessità di coping. Per cui la gente dovrebbe smetterla di aspettarsi che una paziente affetta da un DCA possa essere completamente compliante a seguire un regime alimentare equilibrato in ogni qualsiasi momento. L’abilità dei terapeuti che si relazionano con persone che hanno un DCA, secondo me, dovrebbe stare nella capacità di capire in quale particolare momento del percorso di ricovero si trova la ragazza, ed agire di conseguenza: giusto per fare un esempio, inutile dare una dieta ipercalorica a una ragazza che fino al giorno prima restringeva l’alimentazione da far paura, e pretendere che la segua per filo e per segno (etichettandola poi come “non compliante” se non lo fa). Meglio provvedere a graduali incrementi calorici, affinché la paziente possa abituarsi poco a poco, e non opporre eccessiva resistenza. È solo così che si possono avere pazienti complianti.
Non è – e non deve essere – un lavoro (e men che mai una colpa!) della paziente.

Voi cosa ne pensate?
 
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