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venerdì 17 gennaio 2014

Definizione di "ricovero"/2: Come definiscono il ricovero coloro che hanno un DCA?

Nel post della settimana scorsa ho parlato di come il “ricovero” da un DCA viene definito dagli psicoterapeuti: penso che siano stati fatti col tempo un sacco di passi avanti nel comprendere cosa significhi il termine “ricovero” (remissione/guarigione) da un punto di vista prettamente scientifico, dato che attualmente gli psicoterapeuti sono consapevoli che il concetto di “ricovero” è molto più esteso del semplice riprendere a mangiare normalmente e riacquistare il peso perso. Certo, questa è una parte del “ricovero”, ma non lo rappresenta assolutamente in toto.

Quando si parla di “ricovero”, però, non si può considerare solo il punto di vista della scienza: è parlando con le persone che hanno/stanno combattendo un DCA che è possibile capire cosa significhi per loro il ricovero in termini di miglioramento della qualità della vita, funzionamento psicosociale, ricadute, e così via. Alcuni ricercatori, perciò, per definire il “ricovero” hanno deciso di – semplicemente – parlare con delle ragazze affette da DCA.

Studi di questo tipo sono ovviamente qualitativi, e basati su ampie interviste delle ragazze in questione. Ora, devo ammettere che io in genere sono più per il quantitativo che non per il qualitativo. Mi piacciono i numeri e i dati concreti. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che è ben difficile, se non impossibile, dare numeri precisi quando si parla di un qualcosa come il ricovero da un DCA. Per cui, credo sia corretto utilizzare questa tipologia di studi per un post che tratta del ricovero dal punto di vista delle persone affette da DCA.

Raggiungere il "ricovero"

Uno studio del 2004 pubblicato in “Qualitative Health Research” considerava non soltanto la definizione di “ricovero” in sè per sè, ma anche come questa cambiava nei pensieri delle ragazze affette da DCA man mano che cominciavano a stare meglio (D’Abundo & Chally, 2004). Per alcune persone, ammettere la gravità della propria condizione e la necessità d’iniziare a combattere contro il DCA rappresentava un vero e proprio punto di svolta, dicono gli autori dello studio:

“Per alcune, il riconoscimento della gravità della malattia è avvenuto in seguito ad un evento critico che ha aperto loro gli occhi sulla realtà. Di fronte ad un ricovero ospedaliero, una delle ragazze intervistate ha detto: “Io ci lavoro in ospedale, faccio l’infermiera, non ero pronta ad essere la paziente”. Asseriva che avrebbe preferito cambiare le sue abitudini alimentari piuttosto che far venire a conoscenza del DCA i suoi colleghi. Riconoscere la gravità della malattia significa anche rendersi conto di quali sono le conseguenze negative che questa ha sulla propria salute fisica e mentale. Le ragazze intervistate si sono rese conto che le conseguenze di un DCA includono l’avere un aspetto fisico peggiore, l’avere sempre freddo, il non riuscire a mangiare in presenza di altre persone, l’avere problemi di fertilità, l’avere restrizioni o abbuffate, il sentirsi spesso asteniche, il non riuscire a pensare chiaramente, il non avere una vita sociale. Le ragazze intervistate hanno detto anche di “essere stufe” di tutto quello che il DCA aveva portato nelle loro vite.” 
(mia traduzione) 

Molte delle ragazze intervistate definiscono l’inizio del proprio “ricovero” il ricominciare ad uscire con gli amici, il ricominciare a studiare/lavorare, e l’avere di nuovo un po’ di vita sociale: la ricostruzione delle relazioni. Ciò nonostante, tutte le ragazze intervistate dicono di non aver superato completamente il proprio DCA. È sempre in un qualche recesso della loro mente, e devono comunque combattere quotidianamente per tenere a bada certi comportamenti e pensieri.

Un altro studio sempre relativo a donne che parlano del loro “ricovero” dall’anoressia, è centrato sulla tematica del “Riappropriarsi della Vera Se Stessa” nel momento in cui viene intrapreso un percorso di ricovero (Lamoureaux & Bottorff, 2005) Percorrere la strada del ricovero non è semplice, né rapido, né costante. Una delle intervistate dice:

“Questo è ciò che ha caratterizzato la mia battaglia contro l’anoressia: periodi di remissione alternati a ricadute. Mi sentivo… come se, andando avanti, m’introducessi in un territorio sconosciuto… in un’identità sconosciuta… in dei comportamenti che non mi erano affatto familiari… per cui, non era una passeggiata di salute. Trovavo più confortante l’anoressia, sebbene fossi consapevole della malattia, perché anche se mi distruggeva, per lo meno non c’era niente di nuovo, la restrizione alimentare era una strada che conoscevo benissimo, e questo mi rassicurava. Lasciare tutto questo mi faceva sentire estremamente vulnerabile. Ecco da dove veniva la mia paura: da questa sensazione di vulnerabilità.” 
(mia traduzione) 

Definire il “ricovero” 

Capire come avviene il processo di ricovero è ovviamente utile, ma questo non ci dice che cos’è il “ricovero”. E, soprattutto, non ci dice se la percezione che hanno le persone malate di DCA del “ricovero” corrisponde o meno alle definizioni date dalla scienza. Fortunatamente, esiste uno studio che si occupa proprio di questo. La prima ricercatrice che ha cercato di capire cosa fosse il “ricovero” per le persone affette da DCA è Greta Noordenbos, della Leiden University in Olanda.

Il primo step del suo studio consisteva nel porre 4 domande a delle ragazze considerate completamente “ricoverate” (guarite) dall’anoressia/bulimia (Noordenbos & Seubring, 2006):
1 - Quali criteri sono per te importanti per definire il “ricovero” dall’anoressia/bulimia?
2 - Sei d’accordo con quella che è la definizione che gli psicoterapeuti danno di “ricovero”?
3 - Quali dei criteri proposti dagli psicoterpeuti hai soddisfatto al termine del tuo ultimo percorso di “ricovero”? 
4 - Hai avuto ulteriori miglioramenti dopo che hai completato il tuo ultimo percorso di “ricovero”?

Utilizzando la letteratura preesistente a proposito del “ricovero” da un DCA, Noordenbos ha chiesto a ragazze affette da DCA di valutare l’importanza di 52 elementi inerenti il “ricovero”, elementi relativi ai comportamenti alimentari, all’immagine corporea, alla salute fisica, al funzionamento psicosociale, agli aspetti emozionali, e così via. Come potete vedere dalla tabella sottostante (l’ho ripresa pari-pari dallo studio in questione), a sinistra sono elencati gli elementi considerati, e a destra la percentuale di quanto le pazienti trovavano importante quell’elemento ai fini del “ricovero” dall’anoressia/bulimia (da un minimo dello 0% per elementi non importanti, a un massimo del 100% per elementi importantissimi).


(click sull'immagine per ingradire) 

Un altro studio sempre condotto da Noordenbos si basava sul somministrare a ragazze “ricoverate” dal proprio DCA delle domande aperte relative a quali fossero secondo loro i fattori più importanti nel percorso di “ricovero” da un DCA (Noordenbos, 2011). Le loro risposte potevano essere distinte in alcune categorie principali, di gran lunga più ampie rispetto a quelle considerate nel precedente studio del 2006:
• Comportamento alimentare
• Attività fisica
• Immagine corporea
• Pensieri ossessivi
• Salute fisica
• Salute mentale
• Gestione delle emozioni
• Relazioni interpersonali
• Vita lavorativa
• Gestione delle comorbidità

Alcuni di questi aspetti si ritrovano nel Ricovero Olistico di cui vi parlavo nel post precedente, ecco perchè tra tutte le definizioni scientifiche di “ricovero” è quella che mi piace di più: è relativamente semplice da utilizzare, e considera aspetti del “ricovero” che chi è affetto da DCA asserisce essere importanti.

E voi, ragazze, come la pensate? Cosa significa per voi “ricovero” dall’anoressia/bulimia/binge/DCAnas?

(…CONTINUA…)

5 commenti:

GaiaCincia ha detto...

Buon mattino!!

Mi piace molto di più l'idea di cercare una definizione di "ricovero" tra i pazienti invece che tra i dottori (ma è la mia solita sfiducia nei dottori, lo ammetto; probabilmente quando e se troverò dei medici che non mi trattano come una cretina cambierò idea :p)

Per me, il "ricovero" da qualsiasi disturbo/dipendenza è il percorso che fai per rimanere "pulito". Nella mia testolina bacata si è formata l'idea che alcuni disturbi mentali come DCA e autolesionismo siano molto affini alle dipendenze (da alcol, droga, videogiochi...). In fondo, come per le dipendenze, anche qui il disturbo è spesso una "copertina di Linus" per evitare di confrontarsi col reale...o beh, la mia testa me la sono abbondantemente fritta, quindi i miei sproloqui lasciano il tempo che trovano ;)

Aggiungo un off-topic personale:
Penso che sarà l'arte,"sangue nelle vene della storia del mondo", a salvarci e a guarirci dai mali dell'anima :) ma che ci vuoi fare, sono un'umanista da strapazzo xD

Sei tu il tesoro ;)

Wolfie ha detto...

Sono d’accordo con quello che ha detto gaiacincia sul fatto che piace molto anche a me l’idea di ricercare una definizione di ricovero tra le pazienti, però a differenza di lei penso che sia stato molto interessante anche il post precedente. Sono due punti di vista diversi per vedere la stessa cosa, ed è interessante vedere come si integrano a vicenda.
Per quel che riguarda il significato che do io al termine “ricovero”, secondo me è il ricominciare a vivere dopo un periodo di tempo più o meno lungo passato in completa balìa del dca. Quando è il dca a dominare la tua vita, ne sei completamente condizionata, e tutto quello che fai è in funzione del dca stesso. Per cui, il “ricovero” secondo me è tutto quello che porta a distaccarsi dal dca, e ricominciare a vivere, e si compone di tutti quei progressi che possiamo quotidianamente realizzare: non solo sul piano alimentare (anche se questa è certamente una componente importante) ma anche sul piano psicologico, lavorando su noi stesse, e sul piano sociale, ricominciando ad aprirsi agli altri, a studiare o a lavorare, ad avere dei passatempi. Per me il “ricovero” è quello che sto vivendo adesso: fare psicoterapia, seguire lo schema alimentare della nutrizionista, continuare a lavorare sui miei problemi, tenere testa alla bulimia, combattere affiancata da tutte le persone che mi vogliono bene e a cui voglio bene. Non escludo la possibilità di avere delle ricadute, ma sono consapevole che adesso ho gli strumenti (anche psicologici) per rialzarmi e ricominciare ad oppormi alla bulimia. Il “ricovero” secondo me non è l’avere una vita completamente priva di ogni minimo accenno di dca, ma è il riuscire a vivere bene ed in maniera soddisfacente nonostante il dca possa sempre rimanere da qualche parte nella nostra testa.

Vele Ivy ha detto...

Molto interessante il fatto che il ricovero sia considerato da un punto di vista soggettivo delle ragazze, e anche il fatto di pensarlo a come qualcosa in divenire... in effetti è proprio un percorso, quindi la percezione di quello che si sta vivendo non è sempre uguale.

Terri ha detto...

Per me ricovero vuol dire ''salvezza'' e ''interesse''.
Purtroppo (si, purtroppo) non ho affrontato questo percorso , credevo che ne sarei uscita da sola e fino a poco tempo fa ero fiera di me, perchè pensavo di avercela fatta. Ma niente, il mostro è sempre nella mia testa e mi sono pentita di non aver seguito il consiglio della dietista e aver intrapreso la strada del ricovero. Adesso sono seguita da una psicologa (adorabile!) che mi aiuta molto, ma io sento che c'è qualcosa che manca. E soprattutto mi manca sentire e vedere le mie ossa. Dio, quanto mi sento stupida...
Ti abbraccio forte, e ti seguo sempre!

Veggie ha detto...

@ GaiaCincia – Spero davvero che riuscirai a trovare dei medici in gamba che possano darti concretamente una mano… perché so per esperienza personale quanto sia utile ed importante. E penso che le definizioni di “ricovero” date dai medici e quelle date dalle ragazze siano, in un certo senso, complementari… un po’ come vedere le due diverse facce della stessa medaglia.
P.S.= Rispondendo al tuo off-topic… E io penso invece che sarà la scienza, lo sai… che ci vuoi fare, sono donna di scienza… ^^”

@ Wolfie – Mi piace molto l’interpretazione che dai del “ricovero”, e sono sostanzialmente d’accordo con quello che scrivi… Anch’io penso che sia importante sia il parere delle pazienti che quello dei medici, perché si possono integrare vicendevolmente…

@ Vele/Ivy – Sì, è positivo che siano stati fatti studi in cui vengono interpellate le dirette interessate… E anche secondo me il ricovero può essere visto come un percorso. Un PERCORSO, non un EVENTO come spesso viene propagandato… con l’unico fine che quando poi una ricade si sente una fallita…

@ Taiyou – Innanzitutto grazie per aver arricchito questo post con la tua opinione… Penso che ambo le parole che associ al termine “ricovero” siano molto azzeccate, per come la vedo io… Soprattutto “interesse”, che credo sia veramente un concetto intimamente connesso al “ricovero”… ma, Taiyou, tu non sei affatto stupida, non crederlo neanche per sbaglio… hai una malattia. Avere una malattia non ha niente a che vedere con l’essere stupide. Quello che dici che ti manca è semplicemente un condizionamento della tua malattia… il che non ha niente a che vedere con le tue capacità intellettive. Vorrei solo dirti che, se pensi che ti manchi ancora qualcosa, puoi affiancare ulteriore supporto all’importante percorso psicologico che stai già facendo… il fatto che tu una volta, in un particolare momento della tua vita, possa aver rifiutato un ricovero, non significa che il danno è fatto per sempre… Puoi tranquillamente intraprendere questo percorso quando vuoi, anche domani, anche tra un mese o tra un anno… niente scappa, hai tutto il tempo e tutte le possibilità.

 
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