Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 7 febbraio 2014

Dalla parte delle pazienti difficili

Quando ho affrontato il mio primo ricovero in una clinica specializzata per il trattamento di DCA, sono stata una vera bega per tutti: in parole povere, una rompicoglioni. Non lo dico né con vergogna e rimprovero, né con orgoglio. Ero una rompicoglioni, è semplicemente un dato di fatto. Ero ancora minorenne, e il ricovero era stato coatto, per cui io non ero assolutamente consenziente né collaborativa: non rispettavo l’ “equilibrio alimentare” che mi era stato assegnato, rispondevo in maniera maleducata ai terapeuti, facevo scherzi alla “Pranked” alle altre ragazze ricoverate, stavo sempre zitta durante la terapia di gruppo e mostravo palese disinteresse, prendevo per il culo tutti, non rispettavo le regole. Ero arrogante e strafottente. Ero convinta che avrei potuto farcela da sola a tenere testa all’anoressia, pensavo che un’alimentazione corretta fosse solo una secondarietà rispetto al trattamento psicoterapico, ho sempre tenuto un atteggiamento sgradevole e sgarbato, ero noncurante rispetto ai danni fisici dell’anoressia, e mi sentivo una straganza solo perché tra tutte le ragazze ricoverate in quel momento ero l’unica con una diagnosi di “Anoressia nervosa Sottotipo 1”, cioè prettamente restrittiva, senza mai uno sgarro, senza mai un’incrinatura al mio rigido ed egosintonico controllo.

Appunto, ero una rompicoglioni.

Ripensandoci adesso, mi dispiace di essermi comportata così nei confronti del personale della clinica, e delle altre ragazze ricoverate. Non lo meritavano. Ostentavo una gran sicurezza e sembravo la più forte e la più tosta di tutti, solo per celare il fatto che in realtà ero terrorizzata. Ero terrorizzata da tutto quanto. Mi faceva più paura l’idea di poter non avere più l’anoressia, che tutti i danni che mi procurava l’anoressia stessa. Oscillavo tra momenti in cui razionalmente riconoscevo la necessità di combattere contro l’anoressia e la consapevolezza di non poterlo fare da sola, e momenti in cui pensavo che andava bene così e che non avevo bisogno di niente e nessuno. Gli psicoterapeuti, i dietisti, le infermiere, tutto il personale della clinica, e le altre ragazze ricoverate sono rimaste prese in mezzo ad una mia guerra che era prettamente interiore. Un dietista e uno psicologo competenti ed intelligenti non la prendevano sul personale, e cercavano di tener testa alle mie stronzate. Tutti gli altri, invece, o se la sono presa perché non rientravo negli schemi e non ero collaborativa come le altre ragazze, o – suppongo – sono riuscita ad intimidirli così tanto con la mia falsa sicurezza e volitività, che mi hanno lasciata fare quello che volevo. Anoressia: 1, Veggie: 0.

Quel primo ricovero è stato sicuramente l’esperienza peggiore, tuttavia anche in seguito non sono mai stata una paziente facile, e non ho mai preteso di esserlo. Ciò detto, credo che chiunque voglia avere a che fare soltanto con “pazienti facili”, non debba lavorare nel campo dei disturbi alimentari.

Dopo quel primo disastroso ricovero, comunque, ce ne sono stati altri 4, nella medesima struttura ma dilazionati negli anni: a quel punto ero maggiorenne, e sono stata io ogni volta a richiedere il ricovero, quindi ero decisamente più collaborativa. Durante questi 4 ricoveri ho conosciuto un sacco di altre ragazze che potevano tranquillamente essere classificate come “pazienti difficili”. In effetti, conosco ben poche persone affette da un DCA che non siano state “pazienti difficili”.

I nostri modi di scatenare l’inferno, tuttavia, variano notevolmente da persona a persona. Generalizzando, ci sono ragazze apertamente difficili: quelle che si agitano, gridano, imprecano, si rifiutano di seguire le regole, dicono esplicitamente al personale di non rompere, rifiutano il cibo. Possono sembrare solo delle arroganti maleducate ma, come lo sono stata io, sono in realtà delle ragazze spaventate.

Ci sono poi invece ragazze altrettanto difficili, ma in maniera più velata, meno esplicita: quelle che se hanno difficoltà a mangiare qualcosa lo nascondono nel tovagliolo e se lo mettono in tasca, quelle che se non vogliono partecipare alla terapia di gruppo fingono interesse ma in realtà pensano a tutt’altro, quelle che dicono ai terapeuti ciò che si aspettano di sentirsi dire ma poi fanno comunque quello che vogliono.

Queste ragazze danno meno nell’occhio ma alla fine, in ambo i casi, si arriva agli psicoterapeuti che dicono: “Non sappiamo come aiutarti, non sappiamo cos’è che ti fa stare male, perché non ci parli di quelli che sono i tuoi problemi?”. E di fronte a questo interrogativo, entrambe le tipologie di “pazienti difficili” rimangono sedute in silenzio. Fissano lo psicoterapeuta con aria inespressiva, e scuotono le spalle come a volersi scrollare di dosso la domanda.

Con entrambe le tipologie di “pazienti difficili”, dopo un po’ di tempo i terapeuti iniziano a sentirsi frustrati, e alla fine se ne lavano le mani. Pensano che noi, essendo “pazienti difficili”, non ne valiamo la pena. Pensano che non valga la pena di perdere energie e tempo con noi. Sentono che non riescono ad aiutarci, e ne sono imbarazzati, o provano vergogna, o semplicemente non concepiscono il fatto che tutte le loro lauree e dottorati possano non averli comunque resi in grado di entrare nella nostra mentalità e poter essere effettivamente d’aiuto. Non vogliono avere a che fare con pazienti che sembrano accondiscenti ma che poi fanno comunque come vogliono, e men che meno con pazienti che gridano, che li insultano, che fanno le arroganti, salvo poi ricevere una telefonata dal Pronto Soccorso a mezzanotte che li informa dell’ennesima prodezza (dis)alimentare delle loro assistite.

Non dimenticherò mai la psicoterapeuta che mi scaricò dicendomi: “Tu non sei malata di anoressia, l’anoressia è solo un sintomo, una manifestazione della tua vera malattia: tu sei malata di controllo, ecco qual è il vero problema. Ma se tu per prima non sei disposta a rinunciare a questo controllo, la tua patologia cronicizzerà, ed io non posso fare niente per te.”

Lei ha mollato con me. E anche altri terapeuti, successivamente.

Loro ci rinunciano, con noi “pazienti difficili”, si arrendono. Alzano bandiera bianca.

E così noi alziamo bandiera bianca con noi stesse.

Quello che tali terapeuti non hanno mai fatto è rimanere abbastanza a lungo da capire che quando ci aggrappiamo disperatamente al nostro disturbo alimentare
per paura
o rabbia
o pura testadaggine…
… quando ci aggrappiamo disperatamente ad esso contro ogni logica e razionalità, ecco, quegli psicoterapeuti che si arrendono non sapranno mai che un giorno noi ci aggrapperemo alla strada del ricovero con altrettanta fierezza.

Non fraintendetemi, non voglio dire che bisogna essere sempre entusiaste del tipo oh-percorrere-la-strada-del-ricovero-è-una-meraviglia-assoluta!, perché è ovvio che le cose non stanno così. Spesso e volentieri percorrere la strada del ricovero è tutt’altro che semplice e divertente, ed è ben arduo affrontare la lotta quotidiana contro il DCA. Pensare che una persona possa essere sempre al 100% super-iper-motivata a combattere contro l’anoressia è semplicemente sciocco.

Ma la forza che ci vincola al nostro disturbo alimentare – contro ogni parvenza di una vita normale, anche quando dilania noi stesse e le nostre relazioni con familiari ed amici, anche quando sappiamo che potremmo morire se continuiamo a seguire il DCA – è una risorsa. Perché quella forza noi la possediamo. Dobbiamo solo direzionarla nella giusta direzione: verso la strada del ricovero.

Le caratteristiche della propria personalità, come la capacità di essere una rompicoglioni, sono in genere neutre. Sono quello che sono. È il modo in cui le utilizziamo che fa la differenza. Essere una narcisista manipolatrice non vi aiuterà a farvi un sacco di amici, ma potrebbe rendervi un’ottima politica o un’ottima CEO. La paura di staccarsi da un DCA può essere poco a poco trasformata nella paura di ricadere di nuovo nel DCA. Un rifiuto ostinato a provare qualcosa di nuovo può lasciarvi bloccate nell’anoressia per decenni O può significare che la vostra abitudine di combattere contro il DCA un giorno sarà altrettanto solida.

Fin troppe ragazze vengono tacciate di essere “pazienti difficili” e vengono mollate dai terapeuti, con conseguente chiusura al trattamento, ricaduta, e infognamento ancora peggiore nel DCA a causa del senso di fallimento provato. Non metto in dubbio che possano effettivamente essere delle “pazienti difficili”. Non nego che, per gli psicoterapeuti, lavorare con una paziente malata di anoressia/bulimia/DCAnas possa essere un compito ingrato e molto difficile. Ma quando le persone cominciano a rendersi conto di quali sono le 2 facce della medaglia dell’essere rompicoglioni, possiamo cominciare ad allontanarci dal nostro DCA. Spesso e volentieri non siamo intenzionalmente “difficili” (ehm, okay, ammetto che effettivamente in certe occasioni io ho cercato di fare la difficile…), bensì siamo confuse, e spaventate, e bloccate, e arrabbiate. Chi non sarebbe “difficile” in situazioni del genere? L’essere una “paziente difficile” da trattare non giustifica gli psicoterapeuti che se ne lavano le mani. L’essere una “paziente difficile” non dovrebbe essere una scusa per gli psicoterapeuti per rinunciare. Purtroppo troppo spesso è proprio così.

Sì, io sono stata una “paziente difficile”. Sì, mi è stato detto che ero una malata di controllo, che sarei stata una paziente cronica e al di là di ogni possibile aiuto. Sì, mi sono dovuta fare un culo come un rosone per trovare la psicologa e la dietista che facessero al mio caso, e soprattutto per combattere contro l’anoressia giorno dopo giorno, cosa che sto facendo tuttora. Sì, ci ho impiegato anni, ed anni, ed anni, ed anni. Ma adesso ho davvero una buonissima qualità della vita.

DifficileNON è sinonimo di “Impossibile” né di “Senza speranza” – non lo dimenticate.

22 commenti:

Ivory ha detto...

Credo questo sia uno dei miei post preferiti...sa di spontaneo.
Spero tu te la stia passando bene :)
baci

Wolfie ha detto...

Mi è piaciuto tantissimo questo post, e per svariate ragioni. Penso che alcune delle psicologhe che mi hanno avuta in carico in passato avranno pensato a me come a una “paziente difficile”, anche se io sono più una “difficile” appartenente alla seconda categoria: apparentemente dolce e accondiscente, ma poi faccio veramente fatica a staccarmi da certe cose, e continuo a fare di testa mia. Proprio per questo motivo, per questa mia propensione all’annuire per accontentare tutti i dottori, ma poi non riuscire veramente a seguire i loro consigli, i primi tentativi di psicoterapia sono andati a vuoto. Però non ho desistito, e alla fine ho trovato la psicologa che mi segue tutt’ora, e che mi sopporta con pazienza, e non smette mai di credere in me, anche quando ho dei “cedimenti”, e mi ha aiutata tantissimo ad arrivare al punto in cui sto adesso. Penso tra l’altro che se la mia psicologa leggesse questo post, anche lei sarebbe d’accordo con quello che hai scritto. E vorrei che molti più psichiatri, psicologi, nutrizionisti, eccetera, potessero leggere questo post, ed iniziare a pensarla così.
Spezzando una lancia a favore dei dottori, posso immaginare che avere a che fare con “pazienti difficili” sia moltissimo frustrante, ma secondo me questo nostro essere “difficili” è indicativo di quanto stiamo soffrendo, di quanto è difficile affrontare un dca, e di quanto aiuto abbiamo bisogno.

GaiaCincia ha detto...

Da lettrice schizzinosa e "difficile" non posso che dire «God bless this post» ;)

Non posso aggiungere nulla, hai già detto tutto tu! Passa una buona settimana :*

Piccola G. ha detto...

Probabilmente é una delle prime volte che commento il tuo blog. Tu scrivi sempre cose cosi utili!
comunque penso di essere stata una paziente abbastanza difficile per il primo psichiatra e infatti siccome non volevo gli psicofarmaci mi ha scaricata. Idem l'altra dottoressa, ma grazie a lei sono stata accettata subito al centro dca che ora frequento.
mi sento davvero davvero spaventata.
e capisco benissimo come tu ti sia sentita.

Raki ha detto...

Credo che faccia parte del dca non riconoscere o non voler riconoscere di avere un problema, x quello quando ci di sente dire "ti voglio aiutare a guarire" scatta in automatico il "e xkè? Non sono malata, sto benissimo a sguazzare nel mio dca"
ok non l'ho detto nella maniera più fine, ma il succo e' quello, o x lo meno come lo vissuta io..

Jonny ha detto...

Pazienti difficili? Presente!
Credo di essere il non plus ultra delle pazienti difficili.
Anzi, ora come ora mi limito al “difficile”, visto che “paziente” non lo sono mai stata caratterialmente, ed ho smesso di esserlo anche all’atto pratico: da un pezzo ho mandato a fanculo gli stronzi in camice bianco, che pensano che solo perché han preso un pezzo di carta all’Università, allora sono in grado di salvare il mondo. Che vadano a fanculo, non capiscono un cazzo, e se le cose non gli vanno a verso non esitano a ricorrere al classico scaricabarile all’italiana per quelle pazienti che non rispondono come vorrebbero, e che gli fanno toccare con mano la loro idiozia ed incompetenza.

AlmaCattleya ha detto...

La sincerità che metti nei tuoi post è davvero disarmante.
Purtroppo quello che può succedere e convincersi davvero di essere difficile nel senso di impossibile, che nessuno ti potrà mai capire ma soprattutto di sentirsi infine sbagliati e di non capire il perché.
Un bacio a te e anche a quella piccola paziente "difficile" che eri.

(Mai più)Enigma ha detto...

Grazie del commento Veggie!
Credo che siamo tutte delle "pazienti difficili"...
Più la malattia prende il sopravvento ..e più diventiamo "difficili"..

Io in questo momento posso solo cercare di "fidarmi" e non ascoltare la mia parte malata...
per fortuna c'è ancora un pezzo di me che sceglie la vita e vuole ribellarsi a questa malattia di merda!
E senza l'aiuto dei medici (oltre alle persone a cui voglio bene) credo proprio che non ce la farei da sola.
Un abbraccio

PrettyLittleGirl ha detto...

Ciao Veggie!
Beh da un lato posso capire la psicoterapeuta nel dire "anche tu ci devi rinunciare al controllo".. Cioè io mi sono trovata molto spesso a "puntare i piedi per terra" durante la psicoterapia..letteralmente a fare la difficile e dire "io dalla mia posizione non mi smuovo ma neanche se mi paghi e anzi, sarà pure per te una sfida curarmi e ne vado fiera!"..Dall'alto dalla mia finta superiorità credo avessi solo paura..immaginati mollare tutto quello che sta in superficie e dover far risalire altre cose che stanno sotto, ammettere magari certe cose, e per di più, dopo aver fatto tutto questo, non avere nemmeno il salvagente a cui aggrapparmi!(che lo si chiami controllo o anoressia)
Sono consapevole che a un certo punto ho dovuto fare una scelta: o tenermi la mia posizione di controllo o provare a lasciare andare un po la presa, anche di poco, e ammettere che avevo di fronte una persona disposta con me a sviscerare davvero tutto, a metterci del suo, a costo di sviscerare anche le sue di ferite per farmi stare bene. Senza questo passo non saremmo andate avanti..
Ma certo, c'è stata la volontà e la pazienza di voler esaminare insieme a me le mie resistenze, quella paura mascherata da sfacciataggine. Non c' è stato un gettare la spugna, mai..
Se davvero si capisce che la paziente vuole aiuto, non gettare la spugna può portare a una condivisione e risultati meravigliosi per entrambe le parti (chi cura e chi è in cura), se si riesce ad avere pazienza e gestire la frustrazione..
Forse, sta tutto nel capire la richiesta d'aiuto del paziente, e le sue richieste velate..
Ma mannaggia, un buon professionista dovrebbe essere addestrato a "leggere tra le righe"!
La psicoterapia secondo me può essere in grado di smussare un po l'attaccamento alle difese e preparare la persona ad essere più disposta ad accettare anche un piano alimentare..perchè poi tutto li sta, una volta che sei disposta a rinunciare a certe difese emotive, mangiare dovrebbe pesare di meno se non è più uno strumento a servizio della propria volontà..
Penso che laddove prevale un'approccio "umano" è più facile che ci siano persone disposte a considerare una paziente per quello che è:una persona.
Il termine difficile non dovrebbe nemmeno bloccarli, in quanto la paziente difficile non è altro che una persona che mette in atto delle difese per sopravvivere a qualcosa per lei letale emotivamente..Compito di chi si prende cura del benessere dovrebbe essere aiutarla a vedere una strada percorribile dove lei vede il pericolo.
Il rapporto tra professionisti e pazienti non è altro che una relazione umana e in quanto tale penso ci si debba assumere sia le proprie responsabilità senza scusanti, sia anche saper aspettare senza aspettarsi che uno dei due "funzioni a comando" per cui aspettarsi che il paziente guarisca quando vogliamo noi, ne che chi ci cura abbia sempre la soluzione pronta..
Dovrebbe essere più che altro un'esplorare insieme e un lavoro costante verso il benessere..
Ti abbraccio forte..

Anonimo ha detto...

veggie,io penasvo che si distinguesse solso tra anoressia e bulemia, nn sapevo che tra l anoressia ci sono vari tipi. pootresti spiegarmeli meglio?

sl

Anonimo ha detto...

Caio Veggie,

ho giusto lettoil commento ceh hai lascito sul blog di mai piu enigma, mi ha molto colpita. Io purtroppo come lei sento che questa cosa è troppo forte troppo potente, non riesco a combatterla. Nn ho un peso che mi mette a rischio la mia vita imminennte, mi permete di sopravivere..ma come?? mi condiziona la vita in tutto, eppure non lo voglio lasciare questo controllo, solo il pensiero mi fa sprofondare nel vuoto. Ma come hai fatto tu, che tu stessa ti definisci maniaca del controllo a lasciarti andare?
SL miriam

Annina ha detto...

Questa volta non mi trovo d'accordo con questo post per un semplicissimo motivo: se non vogliamo guarire (o una parte della nostra mente non vuole guarire), e di conseguenza ci riveliamo delle pazienti difficili, cosa possono fare i terapeuti per noi? Niente.
Seriamente, arriva un punto, dopo magari anni di analisi, dove noi rimaniamo ostinate nel non voler guarire, non ha senso andare in terapia. Il terapeuta non può aiutarci se noi per prime non vogliamo cambiare. Anche se l'essere "pazienti difficili" è solo un meccanismo di difesa, loro non possono fare nulla per noi.Possono provocarci, tentare di utilizzare tutti gli strumenti che hanno a disposizione per tentare di sbloccarci, ma se noi rimaniamo bloccate in uno stato non collaborativo allora il terapeuta non può farci niente.
Non sono i terapeuti ad alzare bandiera bianca, siamo noi ad arrenderci, perchè non vogliamo essere aiutate o perchè ne abbiamo paura, e di conseguenza si arrendono anche i terapeuti.

Anonimo ha detto...

Non ho parole <3

Anonimo ha detto...

Cara Veggie
ho già scritto qui ma preferisco mantenermi anonima per ora.
Volevo solo dirti che la prima parte del post è parte la più bella che ho letto nel tuo blog tra le ultime cose.
Non fraintermi ti prego,scrivi sempre cose utili e molto interessanti,però ecco,quel calore,quei sentimenti che sono trapelati dall'inizio del post,mi piacerebbe emergessero più spesso, non lo so;li trovo poco nei tuoi post.
Per carità non prenderla come una critica,volevo solo dire che mi hai fatto sorridere parecchio,sai,avrei voluto vedere quella ragazza che se la tirava perchè aveva una diagnosi con sottotipo "restrittivo". Raccontaci qualche "Pranked" a me piacerebbe molto.

Veggie ha detto...

@ EsseCi – Grazie!... Sono contenta che questo post ti piaccia!... Spero che anche a te stia andando tutto per il meglio!... Ti abbraccio…

@ Wolfie – Non c’è un solo modo per essere “pazienti difficili”, ognuno espleta il proprio sulla base del proprio carattere… Per cui, penso che tu abbia fatto benissimo ad insistere fino a che non hai trovato una psicologa che facesse al caso tuo… perché anche la situazione più difficile può essere adeguatamente affrontata con personale competente al proprio fianco… Anch’io non dico assolutamente che lavorare con “pazienti difficili” per un medico sia agile… però penso anche che il lavoro lo si sceglie, e con esso la consapevolezza che non saranno tutte rose e fiori, ma non per questo bisogna fare lo scaricabarile dei pazienti…

@ GaiaCincia – Ogni tua qualsiasi aggiunta è comunque sempre preziosa, ricordalo!... Grazie e… spero che anche tu abbia trascorso una buona settimana…

@ Piccola G. – Benvenuta!... Mi fa davvero piacere che trovi il mio blog utile, e mi fa altrettanto piacere leggere il tuo commento!... Sono contenta di leggere che frequenti un centro per DCA perché, come dicevo nel post, per esperienza personale, quando ho frequentato la “mia” clinica con lo spirito giusto, mi è stato davvero utile per fare passi avanti sulla strada del ricovero, dunque spero che possa esserlo altrettanto anche per te. Credo che, se è la tua prima esperienza in una struttura di questo tipo, aver paura sia normale… ma, a volte, aver paura è un modo per cominciare… Ti abbraccio…

@ Raki89 – Sicuramente quello che dici può essere vero per alcune persone nella prima fase della malattia… quando magari non hanno ancora inquadrato il DCA in quanto tale… Però a volte le difficoltà nel trattamento restano anche nella piena consapevolezza di malattia, perché la patologia rappresenta un “discomfort sicuro” che in certi momenti può essere comunque considerato preferibile a un futuro ignoto…

@ Jonny – Io sono dell’idea che non tutti i medici siano uguali, e che esistano anche persone in gamba e competenti… e che valga la pena di cercarle, e d’insistere… Però poi, certo, siamo maggiorenni e vaccinate, e ognuna sceglie per la propria vita…

@ AlmaCattleya – Infatti, a volte il sentirsi “rifiutate” dai terapeuti può essere veramente deleterio, perché può far erroneamente convincere una persona che è un caso senza speranza, che non ce la farà mai, che resterà sempre malata… E questo certo non sprona la persona a continuare a chiedere aiuto.. .anzi, spinge un po’ di più nel baratro… Per questo credo che i terapeuti dovrebbero andarci cauti quando trattano con “pazienti difficili”…

@ (Mai più)Enigma – Grazie a te, bellissima!!... Sono completamente d’accordo con te sul fatto che sicuramente la malattia è un qualcosa che contribuisce ad inasprire gli spigoli del nostro carattere… in misura tanto maggiore quanto più ne siamo dentro… A parte questo, fai benissimo a cercare di non ascoltare la tua parte malata, in quanto consapevole che è tale e nient’altro… e spero davvero che i medici che ti seguono ti possano dare concretamente una mano: anche per me il supporto psicologico + nutrizionistico è stato di fondamentale importanza per permettermi di arrivare al punto dove sono adesso… e, spero, per riuscire ad andare ancora più avanti d’ora in poi… Ti abbraccio forte forte…

Veggie ha detto...

@ PrettyLittleGirl – Sono perfettamente d’accordo con la tua interpretazione della figura dello psicoterapeuta. Io credo che quello che tu definisci “leggere tra le righe” debba essere una delle molteplici competenze professionali di uno psicoterapeuta… Non esiste veramente una persona malata che voglia essere e restare malata… in certi momenti una si può illudere che sia così, ma non è mai vero fino in fondo… e compito dello psicoterapeuta è adottare le strategie terapeutiche più mirate vuoi per relazionarsi con la paziente che ha di fronte, vuoi per impostare un percorso insieme… Un terapeuta che molla, a mio avviso, manda alla paziente l’erroneo messaggio che è un caso senza speranza, un fallimento, e che non potrà mai stare bene perché neanche uno specialista se la può… cosa che credo sia assolutamente falsa e sbagliata. Io penso che la tua terapeuta abbia agito nella maniera migliore… perché ti ha dimostrato che non era disposta a darsi per vita con te e che, allo stesso tempo, quello che potevate intraprendere insieme, una a fianco all’altra, era un cammino la cui finalità era unicamente quella di farti stare meglio… Forse è proprio facendoti capire questo che è riuscita a penetrare le tue difese, che sei riuscita a fidarti di lei, e a produrre durante le sedute (e nella tua vita quotidiana) un lavoro produttivo su te stessa…

@ SL Miriam – Per quanto riguarda la classificazione dei vari sottotipi di anoressia, ti lascio questo link dove è spiegata in maniera semplice e diretta (ci trovi anche i criteri diagnostici della malattia secondo il DSM-IV):
http://www.psicodiagnosiecura.com/i-disturbi-psicologici/disturbi-dell-alimentazione/anoressia-nervosa/
Per quanto riguarda il tuo secondo commento, credo che tu ti sia risposta da sola… quando hai utilizzato la parola “sopravvivere”. Io credo che il punto centrale sia questo: il rendersi conto che stai mandando tutto al diavolo e cionnonostante riesci a malapena a sopravvivere… perché penso che questa possa essere la molla che fa scattare la voglia di riappropriarsi della propria vita per ricominciare a viverla a pieno. Se l’idea di lasciare il controllo ti fa sprofondare nel vuoto, prova a trovare cose che ti piacciano e che possano riempire questo vuoto. Che poi, per inciso, la vita non è bianco/nero: lasciare il controllo non significa automaticamente e solamente diventare completamente priva di controllo. Significa invece allentare il controllo quel tanto che basta affinché esso non sia più totalmente condizionante… che è quello che ho fatto e sto cercando di fare anch’io. Trova passioni, interessi, qualsiasi cosa che riempia la tua vita e che ti piaccia davvero: trovare alternative all’anoressia, che siano molto più valide della stessa, è il modo migliore per allontanarsene. Ti abbraccio forte…

@ Annina – Ciao Annina, benvenuta!... Innanzitutto, se hai un po’ di tempo a disposizione, mi piacerebbe che tu leggessi questo mio post (e se magari ti andasse anche di commentarlo, mi farebbe molto piacere):
http://anoressiabulimiaafterdark.blogspot.it/2012/11/voler-vivere-con-lanoressia.html
perché penso che, sebbene in maniera parziale e trasversale, possa rappresentare una sorta di risposta quantomeno alla prima parte del tuo commento.
Per sommi capi, dunque, estrapolando il succo di suddetto post, io penso che anche chi più fermamente afferma di non voler guarire, è in realtà una persona che vorrebbe guarire, ma che ha un terrore folle di farlo, quali che ne siano le ragioni.
In virtù di questo, ritengo la figura dello psicoterapeuta di fondamentale importanza: perché ha il compito di lavorare sulla/con la paziente che si trova davanti, per aprire una breccia nel suo muro di ostinazione. Sarebbe troppo facile (e troppo da mondo delle favole) se tutte quante le pazienti da sole, prima o poi, maturassero autonomamente la volontà di combattere contro l’anoressia. Se così fosse, il lavoro degli psicoterapeuti sarebbe una pacchia, perché è facile lavorare e ottenere progressi nel momento in cui si ha davanti una paziente collaborativa. (continua...)

Veggie ha detto...

(...continua) Lo zoccolo duro del lavoro della psicoterapeuta invece, a mio avviso, consiste proprio nel riuscire in qualche modo (e non saprei quale, perché io non sono una psicoterapeuta) a portare la paziente non collaborativa (e, specie all’inizio, la maggior parte delle pazienti con un DCA non è collaborativa) ad iniziare a lavorare su se stessa: è proprio in questo che, a mio parere, si distingue il bravo psicoterapeuta, quello che è davvero professionalmente competente. Con le persone collaborative è facile agire, mi verrebbe da dire: son capaci tutti. È quando lo psicoterapeuta si trova davanti un muro di pietre o di gomma che deve tirare fuori tutta la sua competenza professionale ed umana per cambiare le cose. Io non credo che se una paziente non è collaborativa e rimane tale sia solo e soltanto colpa (con tutto l’odio che nutro per questa parola) della paziente stessa, penso che sia anche colpa del terapeuta che non è in grado di lavorare adeguatamente sulla/con la persona che si trova di fronte. Perché se una persona malata di anoressia non riesce a trovare in autonomia motivazioni per allontanarsi dalla malattia, diventa compito del terapeuta lavorare in maniera tale da farle aprire gli occhi e farle trovare ciò per cui valga la pena di combattere e di vivere. E un terapeuta che si arrende, a mio parere, è perciò una persona che non sa svolgere adeguatamente il proprio lavoro: perché passa un messaggio sbagliatissimo alla paziente, e perché evidentemente lo studio e le esperienze lavorative pregresse non lo hanno reso comunque in grado di affrontare i grossi scogli che (chiunque) nella propria professione si trova di fronte. “Help people when they say they don’t want your help, because it’s the moment when they need it most” (cit.) – penso che gli psicoterapeuti se lo dovrebbero ripetere tutti i giorni stile mantra…
P.S.= Perdonami se mi permetto… il tuo commento è scritto in terza persona, quindi non so se ciò che scrivi è una tua opinione generalizzata, o fa riferimento al tuo caso di specie… Se così fosse, vorrei semplicemente dirti che mi spiace davvero che tu non sia riuscita a trovare finora un terapeuta in grado di “prenderti per mano” e di darti concretamente un aiuto valido, e mi dispiace ancora di più se questi terapeuti che non ti hanno aiutata ti hanno fatto credere che non c’è nessuno in grado di fare niente per te, e che il tuo destino è quello di rimanere in uno stato di “blocco” permanente. Perché è una cazzata. Perché tu puoi fare tantissimo per te stessa, e ancora di più se hai un supporto psicoterapeutico veramente valido. Perché hai tutto il tempo, le possibilità e le potenzialità per cambiare completamente la tua vita, e per farla diventare esattamente come la vorresti. E se qualcuno ti ha fatto credere il contrario – è una sua opinione, non la realtà dei fatti. Spero tantissimo che tu possa continuare a combattere e stare a poco a poco sempre meglio. Perché la differenza tra una vita soggiogata dall’anoressia e una vita in cui tieni testa all’anoressia è così enorme che non si può neanche esprimere a parole. Ti auguro tutto il meglio.

Veggie ha detto...

@ Anonima (11 Febbraio 2014, ore: 19.07) - <3 a te!!...

@ Anonima (12 Febbraio 2014, ore: 10.36) – Se preferisci commentare in forma anonima, per ora o per sempre, per me non c’è nessunissimo problema… Ho lasciato all’attivo l’opzione di commento anonimo proprio per permettere a chiunque di esprimersi senza dover necessariamente rendere nota al mondo la propria identità. Figurati se prendo il tuo commento come una critica, e perché mai??!... Non mi sembra affatto che tu stia criticando, mi sembra semplicemente che tu sia esprimendo la tua opinione su ciò che ti piace più o meno tra tutto ciò che leggi su questo blog… e mi fa molto piacere che tu lo faccia, perché sono proprio i vostri commenti in cui mi fate notare cosa più vi interessa che mi permettono di “aggiustare il tiro” e scrivere post che possano essere sempre più mirati… quindi, ti ringrazio per aver espresso il tuo parere!... Detto questo, ovviamente il tono dei miei post varia in funzione della tematica trattata: se racconto un vissuto od esprimo un’opinione, necessariamente uso un tono più “personale”, se invece riporto gli studi scientifici che trovo interessanti o parlo di strategie di auto-aiuto da affiancare alla psicoterapia, allora naturalmente vado più sul “professionale”… insomma, dipende dal contenuto del post!...
P.S.= Hai presente il programma “Pranked”, quello che andava in onda su MTV?!... Ecco, per organizzare le mie “marachelle” facevo riferimento proprio a quello, fonte suprema d’ispirazione… ^^”

Anonimo ha detto...

Mi riconosco in questo essere difficile.
Specie per la frase: "Non sappiamo come aiutarti, non sappiamo cos’è che ti fa stare male, perché non ci parli di quelli che sono i tuoi problemi?" che mi è stata riferita dalla mia psichiatra qualche tempo fa. Anche io espressione neutra, sentimento di non-apertura e superiorità. Mi piaceva metterla in difficoltà girando intorno alle cose importanti usando parole di poco conto, insomma parlando per parlare e non per risolvere i problemi. Addirittura mi ha detto che non era capace di fare una diagnosi, per la troppa mancanza di informazioni sul mio conto, e in quel momento mi sono sentita vincente ;)
( i miei mi avevano mandata da una psichiatra a causa del fatto che avevano scoperto che vomitavo regolarmente ).
Il tuo post mi piace, vedo un po' di me in ciò che scrivi (tranne per il fatto di essere anoressica restrittiva, cosa che non sono, anzi direi l'opposto).
Concordo con ciò che affermi sugli psichiatri/ psicologi e sul fatto che non dovrebbero gettare la spugna così presto.
Curiosità: quali sono gli scherzi che facevi nella clinica? Ahah xD :)
Un abbraccio !
B.

Veggie ha detto...

@ Barbarawantstobeskinny – Penso che la stragrande maggioranza di persone con un DCA sia una “paziente difficile”… So bene come ci si sente quando si riesce a mettere in difficoltà i terapeuti, perché, come scrivevo appunto nel post, c’è stato un momento della mia vita in cui ci sono passata anch’io… Poi fortunatamente si cresce (da un punto di vista mentale e comportamentale, intendo), e ci si rende conto che imputarsi è un comportamento sterile, e si inizia a sfruttare le psicoterapia in maniera costruttiva, come importantissima arma per combattere contro il DCA. Purtroppo non sempre i terapeuti hanno la pazienza di rimanerci accanto durante gli anni necessari a questa nostra trasformazione e maturazione interiore… bè, peggio per loro: si trovano altri specialisti con cui poter lavorare adeguatamente, e si va avanti. Per quanto riguarda il mero DCA… bè, io credo che il sintomo clinico possa essere diverso, variabile da persona a persona, ma le difficoltà e la sofferenza sottese siano analoghe per tutte noi…
P.S.= Ho citato “Pranked” perché hai presente il programma “Pranked” che mandavano in onda parecchi anni fa su MTV?... Ecco, mi ispiravo esattamente a quello, per i miei scherzi… ^^”

Eli ha detto...

Te lo scrivo a questo post, potrei scriverlo sotto tanti altri, avrei voluto scrivertelo già tante altre volte: Grazie, di cuore. Davvero.

Veggie ha detto...

@ Eli – Grazie a te.

 
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