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venerdì 22 novembre 2013
Lasciar andare l'idea della perfetta guarigione
Se avete mai sentito in qualche programma televisivo qualcuno che ha un DCA parlare di come immagina possa essere una sua futura guarigione, siete perdonate per aver pensato che quel qualcuno stesse cercando di convincervi ad acquistare uno stock di pentole in una telepromozione.
A volte in TV o su Internet capita di vedere video (o di leggere post) di persone che dicono come pensano che sarà la loro vita una volta che saranno guarite dal DCA. Sono persone che dicono cose come: “Si guarisce dall’anoressia quando si riesce ad amare se stesse. Quando si riesce ad amare il proprio corpo e ad accettare tutte le proprie imperfezioni. Quando si arriva a questo, ci si rende conto che la vita è bellissima, è meravigliosa. Si riescono a raggiungere le radici del proprio DCA. E non ci si ricade mai, mai, mai, MAI più. Si guarisce del tutto, e questo è per sempre.”
Ecco, quando sento cose del genere, mi sembra un po’ di stare a sentire una telepromozione che ti vuol vendere qualche cosa. O l’inno di una setta segreta con una parola d’ordine e una divisa contraddistintiva.
Okay, credo che la maggior parte delle persone che hanno vissuto/vivono un DCA, abbiano la consapevolezza che non esiste una guarigione perfetta. Ma stando a quello che dicono alcune persone quando parlano di come immaginano la loro vita post-DCA, a me sembra che tendano a dipingere la cosiddetta guarigione come una forma idealizzata di Come-La-Vita-Sarà-Da-Ora-In-Poi-Sempre-Nel-Persempre-Amen. Non è in questo che consiste la strada del ricovero, secondo me. Se decidete d’iniziare a combattere contro il vostro DCA, e vi rendete conto che la dura realtà consta nel doversi opporre all’anoressia giorno dopo giorno, con fatica, con difficoltà, i discorsi sull’utopica perfetta guarigione non cominciano a sembravi un pochino fake?
Certo, a chi non piace pensare che dall’anoressia si possa guarire in toto, senza alcun residuato psicofisico, e che la vita senza il DCA possa essere perfetta? Ritrovare un’alimentazione completamente spontanea, amare il cibo, amare la propria fisicità. E poi svegliarsi ogni mattina, alzarsi da letto, guardarsi allo specchio e vedere quant’è sexy il riflesso che rimanda. Niente più giornatacce passate in preda a manie di controllo, niente più ansie. Soltanto autonomia, sicurezza di sé, e felicità. Penso che chiunque di noi possa aver immaginato, anche solo per un momento, qualcosa del genere pensando ad un futuro senza più anoressia.
Per quel che mi riguarda, percorrendo la strada del ricovero mi sono accorta che le cose non stavano così. E quindi, ho regolato il tiro. Ma non abbassandolo. Non mi sono detta: “No, non è così che andranno le cose, non ci sperare neanche”, bensì mi sono detta: “Non guardare al risultato, focalizzati sul processo.”. Se infatti mi fossi concentrata su un’utopica prospettiva di perfetta guarigione, e poi mi fossi accorta che la necessità di controllo permaneva, e che la vita presentava comunque tutte le sue difficoltà, mi sarei buttata giù ed avrei mollato, perché mi sarei sentita incapace di raggiungere quell’obiettivo, e dunque una fallita. Invece, concentrandomi su quello che potevo fare concretamente, giorno dopo giorno, per migliorare la qualità della mia vita, mi sono accorta che potevo muovere dei piccoli passi avanti per cercare di fare in modo che pian piano la mia situazione fosse migliore rispetto a prima. Tuttora, se guardo oggettivamente al punto in cui mi trovo (da qualche parte lungo la strada del ricovero), mi rendo conto che la mia vita non è rose e fiori, e non somiglia a quella che dicono di voler avere le persone che immaginano una completa guarigione dal proprio DCA, però sono comunque riuscita a ripristinare una elevata qualità della mia vita e continuerò ad impegnarmi per ottenere ulteriori miglioramenti in futuro.
Anche leggendo su Internet narrazioni di ragazze che raccontano la propria vita con il DCA, mi rendo conto che queste storie si ripartiscono per la maggior parte in 2 grani filoni: quelle che concludono “Penso che il DCA rimarrà comunque un vissuto che mi segnerà e mi condizionerà per il resto della mia vita, sia nel mio rapporto nei confronti del cibo, che di me stessa, che degli altri”, e quelle che concludono con le telepromozioni succitate. Il problema è che, a mio avviso, ambo le mentalità conducono al fallimento. Nel primo caso, perché una persona si abitua al DCA a tal punto da rassegnarsi ad una sorta di convivenza più o meno passiva, e perde così la reattività che serve per riconquistare giorno dopo giorno una vita migliore; nel secondo caso, perché viene idealizzata a tal punto l’idea della guarigione, che non potrà mai concretizzarsi con quelle modalità, che la delusione che ne consegue porterà inevitabilmente ad avere delle ricadute.
Spesso ricevo e-mail da parte di ragazze che mi chiedono cosa mi ha fatto decidere di combattere contro l’anoressia, qual è stato il mio punto di svolta, cosa mi ha convinto a cercare di stare meglio e tornare a mangiare normalmente. Mi dispiace sempre rispondere loro che non è così che per me sono andate le cose. È vero, c’è stato un live delle t.A.T.u. che mi ha dato una bella spinta nella giusta direzione, ma questo è stato un input: sarebbe rimasto passivo e fine a se stesso se io non lo avessi agito. Non c’è stato nella mia vita un epocale cambiamento, una qualche epifania, un qualche evento che dall’oggi al domani mi ha fatto cambiare completamente idea e combattere fervidamente contro l’anoressia. Il mio è stato un percorso lento, costellato di ricadute. Però mi sono rialzata ogni volta, ho stretto i denti, ho tenuto duro, ho ricominciato a combattere. È possibile che ci siano persone alle quali succede una qualche cosa, un qualche epico evento, e da lì in poi sfrecciano sulla strada del ricovero senza mai deragliare… ma questo non è l’unico modo, secondo me, per percorrere questa strada.
E, tra l’altro, percorrere la strada del ricovero non è una passeggiata. Talvolta su certi Tumblr leggo frasi come: “The worst day in recovery is still better than the best day in relapse” (“Il giorno peggiore mentre percorri la strada del ricovero è comunque meglio del giorno migliore di una ricaduta”). Onestamente? Se mi è concesso di dirlo, talvolta non è così. Talvolta la vita quotidiana è così difficile da affrontare, con tutti i suoi millemila imprevisti e difficoltà, che la sensazione di controllo che fa (illusoriamente) provare l’anoressia ti fa sentire molto meglio che il combattere l’anoressia stessa. Non è nel mio interesse né nei miei progetti un’ulteriore ricaduta nell’anoressia, ma sono consapevole che essendo stata l’anoressia una strategia di coping estremamente funzionale, è possibile che in futuro le difficoltà della vita mi porteranno ad un punto tale da mettermi nella necessità di riadottarla. Del resto, non ho scelto la restrizione alimentare perché volevo essere magra. Ho scelto la restrizione alimentare perché mi permetteva di provare quella sensazione di controllo che tanto anelavo poiché la vita – incontrollabile per antonomasia – mi sembrava così più facile da gestire.
Le difficoltà non cessano all’istante quando s’intraprende la strada del ricovero. I problemi che prima nascondevamo dietro al DCA restano, e ci si trova di fronte al difficile compito di affrontarli. E spesso sono schiaccianti. È dura. È veramente dura. Bisogna lavorarci su con la psicoterapia, perchè affrontare quei problemi è pure l’unico modo che abbiamo a disposizione per andare avanti.
Niente arcobaleni ed unicorni, qui. La strada del ricovero che sto percorrendo non è l’utopia della perfetta guarigione. Ma è un qualcosa che lentamente e gradualmente mi permette di stare meglio, e ce la metterò tutta per mantenere la rotta. Sì, ci sono state ricadute in passato, e non posso escludere l’eventualità che ce ne saranno in futuro. Sì, dovrò lavorare ancora tanto sulla mia necessità di controllo. Sì, molto probabilmente rimarrò vulnerabile all’anoressia per il resto della mia vita. Ma sapete cosa? Mi va bene così. Perchè potrò comunque arrivare ad avere un’ottima qualità della vita, anche se la vocina dell’anoressia rimarrà da qualche parte. Ma posso non agirla. E così le cose andranno meglio.
In conclusione: io non credo che si possa “guarire” dall’anoressia nel senso proprio del termine, e credo che qualcosa del DCA nella nostra mente rimarrà sempre. Ma credo anche che possa rimanerci in maniera passiva, senza più influenzare i nostri comportamenti, in maniera tale da permetterci di avere un’ottima qualità della vita. Credo fermamente infatti che sia possibile avere una remissione dell’anoressia, e che questa remissione possa protrarsi vita natural durante. Un po’ come l’acoolista, che avrà sempre la tentazione di bere, ma che razionalmente riuscirà sempre ad impedirsi di farlo, e nonostante la vocina nella sua testa riuscirà dunque comunque a vivere una vita di qualità elevata. Ecco, credo che lo stesso valga per l’anoressia.
Perciò, siate contente della grinta con cui ogni giorno riuscite ad affrontare la strada del ricovero, anche se non va tutto alla perfezione, anche se avete ancora l’impulso di restringere l’alimentazione, anche se avete ancora voglia di controllare tutto. I giorni di merda ci saranno comunque, ci saranno periodi che potranno comunque andare da schifo, perché così è la vita. Ma al di là di tutto questo, di tutte le follie, di tutti i casini, se continuiamo a combattere contro il DCA potremo trovare altre strategie di coping che non passino per la distruzione fisica e mentale, e potremo tornare ad avere una qualità della vita veramente elevata.
Ma questo succederà solo quando lasceremo andare l’idea della perfetta guarigione, la telepromozione della vita perfetta senza anoressia, e cominceremo a concentrarci sui nostri piccoli-grandi progressi quotidiani, cominciando ad abbracciare le piccole-grandi conquiste per le quali abbiamo lavorato così duramente.
A volte in TV o su Internet capita di vedere video (o di leggere post) di persone che dicono come pensano che sarà la loro vita una volta che saranno guarite dal DCA. Sono persone che dicono cose come: “Si guarisce dall’anoressia quando si riesce ad amare se stesse. Quando si riesce ad amare il proprio corpo e ad accettare tutte le proprie imperfezioni. Quando si arriva a questo, ci si rende conto che la vita è bellissima, è meravigliosa. Si riescono a raggiungere le radici del proprio DCA. E non ci si ricade mai, mai, mai, MAI più. Si guarisce del tutto, e questo è per sempre.”
Ecco, quando sento cose del genere, mi sembra un po’ di stare a sentire una telepromozione che ti vuol vendere qualche cosa. O l’inno di una setta segreta con una parola d’ordine e una divisa contraddistintiva.
Okay, credo che la maggior parte delle persone che hanno vissuto/vivono un DCA, abbiano la consapevolezza che non esiste una guarigione perfetta. Ma stando a quello che dicono alcune persone quando parlano di come immaginano la loro vita post-DCA, a me sembra che tendano a dipingere la cosiddetta guarigione come una forma idealizzata di Come-La-Vita-Sarà-Da-Ora-In-Poi-Sempre-Nel-Persempre-Amen. Non è in questo che consiste la strada del ricovero, secondo me. Se decidete d’iniziare a combattere contro il vostro DCA, e vi rendete conto che la dura realtà consta nel doversi opporre all’anoressia giorno dopo giorno, con fatica, con difficoltà, i discorsi sull’utopica perfetta guarigione non cominciano a sembravi un pochino fake?
Certo, a chi non piace pensare che dall’anoressia si possa guarire in toto, senza alcun residuato psicofisico, e che la vita senza il DCA possa essere perfetta? Ritrovare un’alimentazione completamente spontanea, amare il cibo, amare la propria fisicità. E poi svegliarsi ogni mattina, alzarsi da letto, guardarsi allo specchio e vedere quant’è sexy il riflesso che rimanda. Niente più giornatacce passate in preda a manie di controllo, niente più ansie. Soltanto autonomia, sicurezza di sé, e felicità. Penso che chiunque di noi possa aver immaginato, anche solo per un momento, qualcosa del genere pensando ad un futuro senza più anoressia.
Per quel che mi riguarda, percorrendo la strada del ricovero mi sono accorta che le cose non stavano così. E quindi, ho regolato il tiro. Ma non abbassandolo. Non mi sono detta: “No, non è così che andranno le cose, non ci sperare neanche”, bensì mi sono detta: “Non guardare al risultato, focalizzati sul processo.”. Se infatti mi fossi concentrata su un’utopica prospettiva di perfetta guarigione, e poi mi fossi accorta che la necessità di controllo permaneva, e che la vita presentava comunque tutte le sue difficoltà, mi sarei buttata giù ed avrei mollato, perché mi sarei sentita incapace di raggiungere quell’obiettivo, e dunque una fallita. Invece, concentrandomi su quello che potevo fare concretamente, giorno dopo giorno, per migliorare la qualità della mia vita, mi sono accorta che potevo muovere dei piccoli passi avanti per cercare di fare in modo che pian piano la mia situazione fosse migliore rispetto a prima. Tuttora, se guardo oggettivamente al punto in cui mi trovo (da qualche parte lungo la strada del ricovero), mi rendo conto che la mia vita non è rose e fiori, e non somiglia a quella che dicono di voler avere le persone che immaginano una completa guarigione dal proprio DCA, però sono comunque riuscita a ripristinare una elevata qualità della mia vita e continuerò ad impegnarmi per ottenere ulteriori miglioramenti in futuro.
Anche leggendo su Internet narrazioni di ragazze che raccontano la propria vita con il DCA, mi rendo conto che queste storie si ripartiscono per la maggior parte in 2 grani filoni: quelle che concludono “Penso che il DCA rimarrà comunque un vissuto che mi segnerà e mi condizionerà per il resto della mia vita, sia nel mio rapporto nei confronti del cibo, che di me stessa, che degli altri”, e quelle che concludono con le telepromozioni succitate. Il problema è che, a mio avviso, ambo le mentalità conducono al fallimento. Nel primo caso, perché una persona si abitua al DCA a tal punto da rassegnarsi ad una sorta di convivenza più o meno passiva, e perde così la reattività che serve per riconquistare giorno dopo giorno una vita migliore; nel secondo caso, perché viene idealizzata a tal punto l’idea della guarigione, che non potrà mai concretizzarsi con quelle modalità, che la delusione che ne consegue porterà inevitabilmente ad avere delle ricadute.
Spesso ricevo e-mail da parte di ragazze che mi chiedono cosa mi ha fatto decidere di combattere contro l’anoressia, qual è stato il mio punto di svolta, cosa mi ha convinto a cercare di stare meglio e tornare a mangiare normalmente. Mi dispiace sempre rispondere loro che non è così che per me sono andate le cose. È vero, c’è stato un live delle t.A.T.u. che mi ha dato una bella spinta nella giusta direzione, ma questo è stato un input: sarebbe rimasto passivo e fine a se stesso se io non lo avessi agito. Non c’è stato nella mia vita un epocale cambiamento, una qualche epifania, un qualche evento che dall’oggi al domani mi ha fatto cambiare completamente idea e combattere fervidamente contro l’anoressia. Il mio è stato un percorso lento, costellato di ricadute. Però mi sono rialzata ogni volta, ho stretto i denti, ho tenuto duro, ho ricominciato a combattere. È possibile che ci siano persone alle quali succede una qualche cosa, un qualche epico evento, e da lì in poi sfrecciano sulla strada del ricovero senza mai deragliare… ma questo non è l’unico modo, secondo me, per percorrere questa strada.
E, tra l’altro, percorrere la strada del ricovero non è una passeggiata. Talvolta su certi Tumblr leggo frasi come: “The worst day in recovery is still better than the best day in relapse” (“Il giorno peggiore mentre percorri la strada del ricovero è comunque meglio del giorno migliore di una ricaduta”). Onestamente? Se mi è concesso di dirlo, talvolta non è così. Talvolta la vita quotidiana è così difficile da affrontare, con tutti i suoi millemila imprevisti e difficoltà, che la sensazione di controllo che fa (illusoriamente) provare l’anoressia ti fa sentire molto meglio che il combattere l’anoressia stessa. Non è nel mio interesse né nei miei progetti un’ulteriore ricaduta nell’anoressia, ma sono consapevole che essendo stata l’anoressia una strategia di coping estremamente funzionale, è possibile che in futuro le difficoltà della vita mi porteranno ad un punto tale da mettermi nella necessità di riadottarla. Del resto, non ho scelto la restrizione alimentare perché volevo essere magra. Ho scelto la restrizione alimentare perché mi permetteva di provare quella sensazione di controllo che tanto anelavo poiché la vita – incontrollabile per antonomasia – mi sembrava così più facile da gestire.
Le difficoltà non cessano all’istante quando s’intraprende la strada del ricovero. I problemi che prima nascondevamo dietro al DCA restano, e ci si trova di fronte al difficile compito di affrontarli. E spesso sono schiaccianti. È dura. È veramente dura. Bisogna lavorarci su con la psicoterapia, perchè affrontare quei problemi è pure l’unico modo che abbiamo a disposizione per andare avanti.
Niente arcobaleni ed unicorni, qui. La strada del ricovero che sto percorrendo non è l’utopia della perfetta guarigione. Ma è un qualcosa che lentamente e gradualmente mi permette di stare meglio, e ce la metterò tutta per mantenere la rotta. Sì, ci sono state ricadute in passato, e non posso escludere l’eventualità che ce ne saranno in futuro. Sì, dovrò lavorare ancora tanto sulla mia necessità di controllo. Sì, molto probabilmente rimarrò vulnerabile all’anoressia per il resto della mia vita. Ma sapete cosa? Mi va bene così. Perchè potrò comunque arrivare ad avere un’ottima qualità della vita, anche se la vocina dell’anoressia rimarrà da qualche parte. Ma posso non agirla. E così le cose andranno meglio.
In conclusione: io non credo che si possa “guarire” dall’anoressia nel senso proprio del termine, e credo che qualcosa del DCA nella nostra mente rimarrà sempre. Ma credo anche che possa rimanerci in maniera passiva, senza più influenzare i nostri comportamenti, in maniera tale da permetterci di avere un’ottima qualità della vita. Credo fermamente infatti che sia possibile avere una remissione dell’anoressia, e che questa remissione possa protrarsi vita natural durante. Un po’ come l’acoolista, che avrà sempre la tentazione di bere, ma che razionalmente riuscirà sempre ad impedirsi di farlo, e nonostante la vocina nella sua testa riuscirà dunque comunque a vivere una vita di qualità elevata. Ecco, credo che lo stesso valga per l’anoressia.
Perciò, siate contente della grinta con cui ogni giorno riuscite ad affrontare la strada del ricovero, anche se non va tutto alla perfezione, anche se avete ancora l’impulso di restringere l’alimentazione, anche se avete ancora voglia di controllare tutto. I giorni di merda ci saranno comunque, ci saranno periodi che potranno comunque andare da schifo, perché così è la vita. Ma al di là di tutto questo, di tutte le follie, di tutti i casini, se continuiamo a combattere contro il DCA potremo trovare altre strategie di coping che non passino per la distruzione fisica e mentale, e potremo tornare ad avere una qualità della vita veramente elevata.
Ma questo succederà solo quando lasceremo andare l’idea della perfetta guarigione, la telepromozione della vita perfetta senza anoressia, e cominceremo a concentrarci sui nostri piccoli-grandi progressi quotidiani, cominciando ad abbracciare le piccole-grandi conquiste per le quali abbiamo lavorato così duramente.
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venerdì 5 luglio 2013
ACT: una nuova possibile terapia per l'anoressia
[Innanzitutto, vi ringrazio per aver risposto al P.S. del mio post precedente. Riassumendo per grandi linee, le tematiche che più v’interessano sono relative alle nuove scoperte e ai nuovi studi (anche relativamente all’aspetto genetico) che vengono fatti sull’anoressia, alle novità terapeutiche per i DCA, alle strategie di auto-aiuto, agli adattamenti del nostro organismo alla restrizione alimentare, nonché alla mia esperienza personale. Okay, prometto che toccherò tutti questi punti nei prossimi post… cominciando da quello che mi sta più a cuore, ovvero le novità relativamente alla terapia dei DCA. (Dato che fare prevenzione è d’estrema difficoltà, diagnosi precoce e terapia sono le principali armi che dovrebbero essere affinate contro i DCA…)]
Per molte malattie – fisiche e psichiche – ad oggi esiste una terapia ben precisa e validata da tutto il mondo scientifico. Ciò non vale per l’anoressia: attualmente non si conosce alcuna terapia (né farmacologica ne psicologica) che permetta in maniera mirata di guarire dall’anoressia. Esistono molti approcci differenti, che consentono di fare dei passi avanti sulla strada del ricovero, ma nessuna terapia univocamente efficace. Pertanto, numerose sono le ricerche tuttora in atto per cercare di trovare approcci terapeutici sempre più efficaci ai DCA. Tra quelle che ho letto, la prospettiva terapeutica che mi pare più promettente ed interessante è la cosiddetta “AC-Therapy” (Acceptance and Commitment Therapy). Come la DBT (Dialectical Behavioral Therapy), anche la ACT è in un certo senso un derivato della terapia cognitivo-comportamentale (che, a me personalmente, non piace granchè come approccio ai DCA – mia opinione personale), rispetto alla quale presenta però diverse importanti differenze.
Sono da poco usciti 2 nuovi studi (uno pubblicato in una rivista scientifica americana, l’altro presentato alla “London Conference on Eating Disorders") che comparano la ACT ai più comuni approcci terapeutici all’anoressia. Nessuno dei 2 studi rivela che la ACT porti ad una significativa riduzione dei pensieri e di comportamenti tipici dei DCA, sebbene venga evidenziato che la ACT riduce significativamente le ricadute durante i 6 mesi successivi ad un ricovero.
Okay, ma in che cosa consiste questa ACT?, vi starete chiedendo.
La ACT è una terapia il cui obiettivo primario, diversamente dalle terapie più frequentemente applicate, non è quello di ridurre i sintomi dell’anoressia/bulimia. Piuttosto che ridurre i sintomi in se, la ACT ritiene che la riduzione dei comportamenti patologici possa essere la conseguenza spontanea dell’essere riusciti a ridurre l’ansia sottostante. Come? Accettando le cose che non possiamo controllare, e cercando di cambiare quello che possiamo cambiare. Osservare e considerare se stesse e il mondo circostante nel presente è uno degli elementi-chiave di questo tipo di terapia, che si basa sul dare priorità a ciò che per la persona è veramente importante nella vita, a prescindere da ciò che l’anoressia le suggerisce. Per esempio, se noi consideriamo l’amicizia come una priorità nella nostra vita, e un amico c’invita ad andare a mangiare una pizza insieme, noi dovremmo andarci, senza validare la voce dell’anoressia che ci dice di restare a casa per poter continuare a restringere l’alimentazione, o per non derogare dall’ “equilibrio alimentare”. Questo significa accettare il fatto che andare a mangiare quella pizza ci farà sentire in ansia e sarà psicologicamente stressante, ma validare l’importanza dell’amicizia. Scrivono gli autori dello studio che ho menzionato prima e che è stato pubblicato poche settimane fa su “Behavior Modification” (Juarascio et al., 2013)
“L’evitamento, ovvero il cercare di negare e rimuovere le esperienze dolore vissute, nonché il sottrarsi a certe situazioni, anche quando il farlo è inefficace o riduce la capacità d’impegnarsi in comportamenti desiderati, si pensa stia alla base di molta sofferenza psicologica (Hayes et al., 2004). In definitiva, la priorità di evitare pensieri angoscianti, sentimenti ansiogeni, o eventi che mettono in difficoltà, riduce la capacità di adottare misure comportamentali che sono necessarie per vivere una vita degna. Pertanto, la ACT insegna alle pazienti come ottenere distanza psicologica da esperienze dolorose interne, chiarire quali sono veramente le cose che ognuno considera come prioritarie nella propria vita oltre il DCA, e creare obiettivi che possono aiutare le pazienti a vivere la propria vita più appagante, ad avere una vita piena di significato, e aumentare la volontà di sperimentare esperienze interne negative al fine di ottenere risultati che possono comunque migliorare la qualità della vita.
Poichè l’evitamento (di persone, situazioni, cibi, etc…) è un qualcosa con cui le persone affette da anoressia hanno frequentemente a che fare (è uno dei nodi focali dei DCA, in effetti), questo spiega come mai la ACT possa essere una buona terapia per i disturbi alimentari.”
(mia traduzione)
Cos’hanno scoperto i ricercatori?
In breve, i ricercatori hanno reclutato 140 donne affette da DCA, che erano state ricoverate al “The Renfrew Center” di Philadelphia, e hanno comparato il normale trattamento ricevuto in questo centro, con lo stesso normale trattamento a cui erano state aggiunti 2 incontri ogni settimana di terapia ACT di gruppo. Circa metà delle donne erano affette da anoressia, l’altra metà da bulimia. Età per lo più intorno ai 26 – 27 anni, la più giovane una 18enne, la più grande una 55enne. I ricercatori hanno valutato le variazioni del B.M.I. tanto quanto le variazioni dei comportamenti e dei pensieri tipici dei DCA, nonché la capacità di riuscire a prendere le distanze dai pensieri ansiogeni, l’accettazione del venir meno del senso di controllo, e la regolarizzazione delle emozioni.
Le donne che erano state sottoposte alla terapia ACT, avevano fatto 6 incontri di gruppo (per un totale di 3 settimane di durata della terapia, facendo 2 incontri ogni settimana). Il che mi fa pensare ad un uso non particolarmente forte di questa terapia. 6 incontri? Tutto qui? Secondo me non si può neanche propriamente parlare di terapia, se il tutto si riduce a 6 incontri. È come guardare uno spot pubblicitario sulle vacanze alle Bahamas, e poi dire che ci si è state.
Comunque, al di là della mia opinione personale sulla durata della terapia, entrambi i gruppi (sia quello che non era stato sottoposto alla ACT, sia quello che c’era stato sottoposto) avevano mostrato miglioramenti significativi rispetto alla patologia. Questo però non sorprende, visto che la valutazione era stata fatta rispetto ai comportamenti che queste donne presentavano al momento dell’ingresso in clinica, per cui è abbastanza ovvio che dopo il ricovero ci fosse stata una riduzione della restrizione alimentare, del vomito auto-indotto, delle abbuffate, anche se la terapia in se fosse stata inefficace. Non c’era stata una riduzione superiore di questi comportamenti nelle donne che avevano seguito anche la ACT. Tuttavia, queste ultime riuscivano a gestire meglio la propria alimentazione dopo la dimissione dalla clinica, e avevano un tasso di ricadute decisamente inferiore (3,5% contro il 18%). E questo mi sembra un dato decisamente importante e significativo.
Altri aspetti sono stati considerati “trending towards statistical significance”, il che significa che hanno avuto una certa rilevanza, ma statisticamente parlando non abbastanza. Questo potrebbe voler dire sia che lo studio dovrebbe essere ripetuto su un numero maggiore di partecipanti per incrementarne la rilevanza statistica, sia che i ricercatori hanno cercato di glissare su dati che non corrispondevano propriamente alle loro aspettative.
Nell’altro studio, quello presentato alla “London Eating Disorder Conference” diretta da Ata Ghaderi, i ricercatori hanno randomizzato 43 donne affette da anoressia sottoponendole o a terapia tradizionale, o ad ACT, in ambo i casi facendo 19 sedute, e affiancandole con psicoterapia settimanale, corretto regime alimentare, e controlli medici occasionali. I ricercatori hanno poi comparato B.M.I., qualità della vita, strategie di coping, e pensieri e comportamenti tipici del DCA tra i 2 gruppi al termine del trattamento. (Piccola precisazione: solo il 58% delle partecipanti ha portato a termine lo studio.)
Entrambi i gruppi hanno mostrato un più o meno equivalente incremento del B.M.I. durante il trattamento, ma la frequenza delle ricadute post-trattamento è stata un po’ inferiore nelle donne che avevano seguito la ACT.
In conclusione, mi sa tanto che la ACT non è la terapia rivoluzionaria e risolutiva per guarire sempre e definitivamente dall’anoressia… del resto, ma quale terapia lo è? Penso però che sia un buon punto di partenza, la trovo una terapia valida, e credo che dovrebbe essere condotto un maggior numero di studi scientifici al riguardo, più che altro per capire quale tipologia di pazienti potrebbero giovare maggiormente di questo tipo di terapia, e se potesse essere utile l’impiegarla in associazione ad altri tipi di terapia tuttora già in uso per il trattamento dei DCA.
Per molte malattie – fisiche e psichiche – ad oggi esiste una terapia ben precisa e validata da tutto il mondo scientifico. Ciò non vale per l’anoressia: attualmente non si conosce alcuna terapia (né farmacologica ne psicologica) che permetta in maniera mirata di guarire dall’anoressia. Esistono molti approcci differenti, che consentono di fare dei passi avanti sulla strada del ricovero, ma nessuna terapia univocamente efficace. Pertanto, numerose sono le ricerche tuttora in atto per cercare di trovare approcci terapeutici sempre più efficaci ai DCA. Tra quelle che ho letto, la prospettiva terapeutica che mi pare più promettente ed interessante è la cosiddetta “AC-Therapy” (Acceptance and Commitment Therapy). Come la DBT (Dialectical Behavioral Therapy), anche la ACT è in un certo senso un derivato della terapia cognitivo-comportamentale (che, a me personalmente, non piace granchè come approccio ai DCA – mia opinione personale), rispetto alla quale presenta però diverse importanti differenze.
Sono da poco usciti 2 nuovi studi (uno pubblicato in una rivista scientifica americana, l’altro presentato alla “London Conference on Eating Disorders") che comparano la ACT ai più comuni approcci terapeutici all’anoressia. Nessuno dei 2 studi rivela che la ACT porti ad una significativa riduzione dei pensieri e di comportamenti tipici dei DCA, sebbene venga evidenziato che la ACT riduce significativamente le ricadute durante i 6 mesi successivi ad un ricovero.
Okay, ma in che cosa consiste questa ACT?, vi starete chiedendo.
La ACT è una terapia il cui obiettivo primario, diversamente dalle terapie più frequentemente applicate, non è quello di ridurre i sintomi dell’anoressia/bulimia. Piuttosto che ridurre i sintomi in se, la ACT ritiene che la riduzione dei comportamenti patologici possa essere la conseguenza spontanea dell’essere riusciti a ridurre l’ansia sottostante. Come? Accettando le cose che non possiamo controllare, e cercando di cambiare quello che possiamo cambiare. Osservare e considerare se stesse e il mondo circostante nel presente è uno degli elementi-chiave di questo tipo di terapia, che si basa sul dare priorità a ciò che per la persona è veramente importante nella vita, a prescindere da ciò che l’anoressia le suggerisce. Per esempio, se noi consideriamo l’amicizia come una priorità nella nostra vita, e un amico c’invita ad andare a mangiare una pizza insieme, noi dovremmo andarci, senza validare la voce dell’anoressia che ci dice di restare a casa per poter continuare a restringere l’alimentazione, o per non derogare dall’ “equilibrio alimentare”. Questo significa accettare il fatto che andare a mangiare quella pizza ci farà sentire in ansia e sarà psicologicamente stressante, ma validare l’importanza dell’amicizia. Scrivono gli autori dello studio che ho menzionato prima e che è stato pubblicato poche settimane fa su “Behavior Modification” (Juarascio et al., 2013)
“L’evitamento, ovvero il cercare di negare e rimuovere le esperienze dolore vissute, nonché il sottrarsi a certe situazioni, anche quando il farlo è inefficace o riduce la capacità d’impegnarsi in comportamenti desiderati, si pensa stia alla base di molta sofferenza psicologica (Hayes et al., 2004). In definitiva, la priorità di evitare pensieri angoscianti, sentimenti ansiogeni, o eventi che mettono in difficoltà, riduce la capacità di adottare misure comportamentali che sono necessarie per vivere una vita degna. Pertanto, la ACT insegna alle pazienti come ottenere distanza psicologica da esperienze dolorose interne, chiarire quali sono veramente le cose che ognuno considera come prioritarie nella propria vita oltre il DCA, e creare obiettivi che possono aiutare le pazienti a vivere la propria vita più appagante, ad avere una vita piena di significato, e aumentare la volontà di sperimentare esperienze interne negative al fine di ottenere risultati che possono comunque migliorare la qualità della vita.
Poichè l’evitamento (di persone, situazioni, cibi, etc…) è un qualcosa con cui le persone affette da anoressia hanno frequentemente a che fare (è uno dei nodi focali dei DCA, in effetti), questo spiega come mai la ACT possa essere una buona terapia per i disturbi alimentari.”
(mia traduzione)
Cos’hanno scoperto i ricercatori?
In breve, i ricercatori hanno reclutato 140 donne affette da DCA, che erano state ricoverate al “The Renfrew Center” di Philadelphia, e hanno comparato il normale trattamento ricevuto in questo centro, con lo stesso normale trattamento a cui erano state aggiunti 2 incontri ogni settimana di terapia ACT di gruppo. Circa metà delle donne erano affette da anoressia, l’altra metà da bulimia. Età per lo più intorno ai 26 – 27 anni, la più giovane una 18enne, la più grande una 55enne. I ricercatori hanno valutato le variazioni del B.M.I. tanto quanto le variazioni dei comportamenti e dei pensieri tipici dei DCA, nonché la capacità di riuscire a prendere le distanze dai pensieri ansiogeni, l’accettazione del venir meno del senso di controllo, e la regolarizzazione delle emozioni.
Le donne che erano state sottoposte alla terapia ACT, avevano fatto 6 incontri di gruppo (per un totale di 3 settimane di durata della terapia, facendo 2 incontri ogni settimana). Il che mi fa pensare ad un uso non particolarmente forte di questa terapia. 6 incontri? Tutto qui? Secondo me non si può neanche propriamente parlare di terapia, se il tutto si riduce a 6 incontri. È come guardare uno spot pubblicitario sulle vacanze alle Bahamas, e poi dire che ci si è state.
Comunque, al di là della mia opinione personale sulla durata della terapia, entrambi i gruppi (sia quello che non era stato sottoposto alla ACT, sia quello che c’era stato sottoposto) avevano mostrato miglioramenti significativi rispetto alla patologia. Questo però non sorprende, visto che la valutazione era stata fatta rispetto ai comportamenti che queste donne presentavano al momento dell’ingresso in clinica, per cui è abbastanza ovvio che dopo il ricovero ci fosse stata una riduzione della restrizione alimentare, del vomito auto-indotto, delle abbuffate, anche se la terapia in se fosse stata inefficace. Non c’era stata una riduzione superiore di questi comportamenti nelle donne che avevano seguito anche la ACT. Tuttavia, queste ultime riuscivano a gestire meglio la propria alimentazione dopo la dimissione dalla clinica, e avevano un tasso di ricadute decisamente inferiore (3,5% contro il 18%). E questo mi sembra un dato decisamente importante e significativo.
Altri aspetti sono stati considerati “trending towards statistical significance”, il che significa che hanno avuto una certa rilevanza, ma statisticamente parlando non abbastanza. Questo potrebbe voler dire sia che lo studio dovrebbe essere ripetuto su un numero maggiore di partecipanti per incrementarne la rilevanza statistica, sia che i ricercatori hanno cercato di glissare su dati che non corrispondevano propriamente alle loro aspettative.
Nell’altro studio, quello presentato alla “London Eating Disorder Conference” diretta da Ata Ghaderi, i ricercatori hanno randomizzato 43 donne affette da anoressia sottoponendole o a terapia tradizionale, o ad ACT, in ambo i casi facendo 19 sedute, e affiancandole con psicoterapia settimanale, corretto regime alimentare, e controlli medici occasionali. I ricercatori hanno poi comparato B.M.I., qualità della vita, strategie di coping, e pensieri e comportamenti tipici del DCA tra i 2 gruppi al termine del trattamento. (Piccola precisazione: solo il 58% delle partecipanti ha portato a termine lo studio.)
Entrambi i gruppi hanno mostrato un più o meno equivalente incremento del B.M.I. durante il trattamento, ma la frequenza delle ricadute post-trattamento è stata un po’ inferiore nelle donne che avevano seguito la ACT.
In conclusione, mi sa tanto che la ACT non è la terapia rivoluzionaria e risolutiva per guarire sempre e definitivamente dall’anoressia… del resto, ma quale terapia lo è? Penso però che sia un buon punto di partenza, la trovo una terapia valida, e credo che dovrebbe essere condotto un maggior numero di studi scientifici al riguardo, più che altro per capire quale tipologia di pazienti potrebbero giovare maggiormente di questo tipo di terapia, e se potesse essere utile l’impiegarla in associazione ad altri tipi di terapia tuttora già in uso per il trattamento dei DCA.
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venerdì 7 giugno 2013
Cosa significa scegliere la strada del ricovero
Quando avevo più o meno sui 18 – 19 anni, nessuno sapeva cosa fare con me. Tutta la schiera di psicologi, dietisti, psichiatri, medici con cui avevo avuto a che fare, avevano di fatto alzato bandiera bianca. Dovevo essere io a scegliere scientemente, razionalmente e lucidamente di percorrere la strada del ricovero, dicevano loro, e questo era un qualcosa che io chiaramente non stavo facendo. Fino a che io non l’avessi fatto, non c’era niente che loro potessero fare per me. Avrei cominciato a percorrere la strada del ricovero quando sarei stata pronta.
Ovviamente, ho qualche problemuccio con questo modo di vedere la cosa. Non dico che sia una visione sbagliata, ma è quantomeno una visione molto semplicistica e riduttiva. Prima cosa, dà per scontato che una persona che è nel pieno dell’anoressia sia lucidamente e decisamente capace di scegliere di combattervi contro. Seconda cosa, fa sembrare il ricovero come una scelta sciente, un’unica e ben precisa scelta che una persona compie, e quando lo fa allora magicamente guarisce dall’anoressia.
Il problema è che la strada del ricovero non si sceglie lucidamente e scientemente una volta per tutte. Occorre scegliere di percorrere la strada del ricovero giorno dopo giorno, ogni mattina quando ci svegliamo e ci apprestiamo ad affrontare un’altra giornata, e bisogna rimarcare a noi stesse questa scelta ogni 5 – 6 volte al giorno. Occorre fare questa scelta anche quando proprio non vorremmo. Non è dunque una singola scelta che si fa una volta per tutte, e non è affatto semplice.
Se ci pensate, la stragrande maggioranza dei protocolli terapeutici per i DCA sono fatti per persone che cercano e vogliono (o, tutt’al più, accettano) seguire un protocollo terapeutico. E, insomma, è relativamente facile fare una psicoterapia e una riabilitazione nutrizionale ad una persona che è consenziente, vuole percorrere la strada del ricovero, e ce la mette tutta per essere aderente alle indicazioni mediche. Ma quando si parla di persone nel pieno dell’anoressia, laddove non è infrequente una spiccata difficoltà a comprendere quanto i propri pensieri e i propri comportamenti siano deviati, è veramente difficile riuscire ad intraprendere un percorso di ricovero, perché i medici non sanno come far fronte ad una paziente che non ha nessun interesse a staccarsi dall’anoressia. Per cui, piuttosto che cercare di elaborare nuove strategie terapeutiche per rendere più compliante una paziente che è ancora molto dentro il DCA, è decisamente più facile, economico e conveniente dire alla paziente che “noi ti potremo aiutare solo e soltanto quando tu sarai pronta a percorrere la strada del ricovero”.
Il problema principale di questa concezione medica – e della sua applicazione alle pazienti che hanno un DCA – è che una delle caratteristiche che più frequentemente s’incontrano nelle persone che hanno un DCA (anoressia in particolare) è che non c’è nessuna voglia d’iniziare un percorso di ricovero. Le motivazioni che rendono le persone affette da DCA estremamente restie ad iniziare un percorso di ricovero sono molteplici, e variano a persona a persona: solo per fare qualche esempio, le difficoltà a staccarsi dall’anoressia possono essere legate al fatto che essa rappresenta un’ottima strategia di coping, che fornisce un’illusoria sensazione di controllo, che la persona non si sente “abbastanza malata” da meritare di ricevere aiuto terapeutico, e così via. Ovviamente sarebbe cosa buona e giusta che ogni persona malata di DCA fosse in grado di prendere una decisione riflessiva e razionale in merito alla necessità di curarsi, ma spesso e volentieri le cose non stanno così.
Così tutti i medici si rintanano nei loro uffici, ed aspettano che la ragazza sia “pronta” a percorrere la strada del ricovero. Il problema è che più a lungo una persona viene lasciata in balìa del DCA, più sarà difficile che essa possa scegliere autonomamente di percorrere la strada del ricovero. Più una persona perde peso, minore è la produzione neurotrasmettitoriale, minore è la lucidità, più è difficile rendersi conto dello stato patologico in cui si verte, e scegliere un percorso di ricovero.
Tra l’altro, tutti i comportamenti tipici del DCA diventano molto rapidamente delle abitudini. Si restringe quando ci si trova davanti un piatto col Cibo X, perché è semplicemente quello che ci abituiamo a fare di fronte al Cibo X. Facciamo sempre lo stesso tipo di attività fisica per lo stesso lasso di tempo e nello stesso momento della giornata, perché è nel nostro programma mentale, che diventa un’abitudine. Mangiamo solo determinate quantità di determinati cibi in un certo ordine e ad una certa ora. Il cervello è un organo estremamente abitudinario e reiterativo. Poco a poco, aderisce sempre di più a quelle che sono delle “regole” che inconsciamente stabiliamo quando abbiamo un DCA.
Ecco che l’anoressia diventa la nostra nuova normalità.
Ben presto, tutto si appiattisce. Ci si dimentica com’era quando avevamo più energia. Si tralasciano hobby, interessi, studio, lavoro, perché l'anoressia occupa gran parte della nostra mente e della nostra giornata. Si allontanano gli amici perché non vogliamo che sappiano del nostro DCA. Ci si dimentica di come si faceva a mangiare senza farci problemi prima che l'anoressia esordisse. Ci si dimentica… tutto. Inizialmente, si ricorda ancora com’era la nostra vita in quando l’anoressia non la faceva da padrona. Ma poco a poco, anche questi ricordi s’indeboliscono, e comincia a parerci che in tutta la nostra vita non ci sia mai stato altro che l’anoressia. Si dimentica.
La frase “scegliere scientemente, razionalmente e lucidamente di percorrere la strada del ricovero” mi irrita per varie ragioni, soprattutto perché fa pensare che la strada del ricovero sia una tantum, una scelta che si fa una volta per tutte e poi non ci si pensa più. Come se io oggi scegliessi d’indossare un paio di jeans e una camicia bianca. Faccio questa scelta, indosso questi indumenti, ed è finta qui. Combattere contro l’anoressia non è così semplice. Non è in alcun modo una singola scelta.
Fare colazione. Io mi ricordo quando la mattina mi alzavo da letto e m’intrippavo in pensieri Shakespeariani del tipo “restringere a colazione o non restringere a colazione? Questo è il problema”. E anche quando decidi che, diamine, niente seghe mentali, quella cavolo di colazione la devi proprio fare senza restringere, allora devi decidere se prendere il latte coi biscotti e, nel caso, quali biscotti. Quanti biscotti. E, tra l’altro, quale tipo di latte. Intero? Parzialmente scremato? Scremato? E poi, nient’altro oltre a latte e biscotti? Succo di frutta o no. Qualcos’altro al posto del succo di frutta. Caffè o no (a me il caffè non piace, quindi un problema in meno… almeno questo!). E questo è solo il primo pasto della giornata. E cosa succede quei giorni in cui non si ha proprio per niente voglia di fare colazione? Che si fa, allora? Come si fa ad obbligarsi a mangiare comunque?
Io credo che scegliere la strada del ricovero non è come una lampadina che si accende di punto in bianco. Credo che per scegliere la strada del ricovero sia necessario un supporto medico anche quando non siamo ancora propriamente complianti, e anche quando lo siamo occorre comunque rinnovare questa scelta giorno dopo giorno. Perché è solo così che l’anoressia che è diventata col tempo la nostra normalità, può lasciare il posto al percorrere la strada del ricovero, che col tempo deve diventare la nostra nuova normalità. Più si sceglie la strada del ricovero, più sceglierla risulta essere meno faticoso. Ma per arrivare a questo, occorre imporsi di fare cose che ci danno discomfort, fare comunque cose che non vorremmo fare, cose che allontanano il (fasullo) senso di controllo che ci faceva provare l’anoressia, per lasciarci nell’incertezza di affrontare le sfide della vita senza più ricorrere ad una strategia di coping malata quale è il DCA. Significa che, anche nei momenti in cui non siamo propriamente ancora in grado di percorrere la strada del ricovero perché ancora troppo dentro all’anoressia, c’è bisogno di un supporto nutrizionale e psicoterapeutico che ci fornisca strategie di coping alternative, onde evitare il dilagare dell’ansia che ci riporterebbe immediatamente ad avere una ricaduta. Scegliere di percorrere la strada del ricovero è una scelta che, secondo me, dovremmo rinnovare giorno dopo giorno per tutta la nostra vita. Ma quando il percorrere la strada del ricovero diventa un’abitudine esattamente come lo era diventata l’anoressia, allora non sarà comunque facile e divertente, ma non sarà neanche più così dura come lo è nei primi tempi.
Ovviamente, ho qualche problemuccio con questo modo di vedere la cosa. Non dico che sia una visione sbagliata, ma è quantomeno una visione molto semplicistica e riduttiva. Prima cosa, dà per scontato che una persona che è nel pieno dell’anoressia sia lucidamente e decisamente capace di scegliere di combattervi contro. Seconda cosa, fa sembrare il ricovero come una scelta sciente, un’unica e ben precisa scelta che una persona compie, e quando lo fa allora magicamente guarisce dall’anoressia.
Il problema è che la strada del ricovero non si sceglie lucidamente e scientemente una volta per tutte. Occorre scegliere di percorrere la strada del ricovero giorno dopo giorno, ogni mattina quando ci svegliamo e ci apprestiamo ad affrontare un’altra giornata, e bisogna rimarcare a noi stesse questa scelta ogni 5 – 6 volte al giorno. Occorre fare questa scelta anche quando proprio non vorremmo. Non è dunque una singola scelta che si fa una volta per tutte, e non è affatto semplice.
Se ci pensate, la stragrande maggioranza dei protocolli terapeutici per i DCA sono fatti per persone che cercano e vogliono (o, tutt’al più, accettano) seguire un protocollo terapeutico. E, insomma, è relativamente facile fare una psicoterapia e una riabilitazione nutrizionale ad una persona che è consenziente, vuole percorrere la strada del ricovero, e ce la mette tutta per essere aderente alle indicazioni mediche. Ma quando si parla di persone nel pieno dell’anoressia, laddove non è infrequente una spiccata difficoltà a comprendere quanto i propri pensieri e i propri comportamenti siano deviati, è veramente difficile riuscire ad intraprendere un percorso di ricovero, perché i medici non sanno come far fronte ad una paziente che non ha nessun interesse a staccarsi dall’anoressia. Per cui, piuttosto che cercare di elaborare nuove strategie terapeutiche per rendere più compliante una paziente che è ancora molto dentro il DCA, è decisamente più facile, economico e conveniente dire alla paziente che “noi ti potremo aiutare solo e soltanto quando tu sarai pronta a percorrere la strada del ricovero”.
Il problema principale di questa concezione medica – e della sua applicazione alle pazienti che hanno un DCA – è che una delle caratteristiche che più frequentemente s’incontrano nelle persone che hanno un DCA (anoressia in particolare) è che non c’è nessuna voglia d’iniziare un percorso di ricovero. Le motivazioni che rendono le persone affette da DCA estremamente restie ad iniziare un percorso di ricovero sono molteplici, e variano a persona a persona: solo per fare qualche esempio, le difficoltà a staccarsi dall’anoressia possono essere legate al fatto che essa rappresenta un’ottima strategia di coping, che fornisce un’illusoria sensazione di controllo, che la persona non si sente “abbastanza malata” da meritare di ricevere aiuto terapeutico, e così via. Ovviamente sarebbe cosa buona e giusta che ogni persona malata di DCA fosse in grado di prendere una decisione riflessiva e razionale in merito alla necessità di curarsi, ma spesso e volentieri le cose non stanno così.
Così tutti i medici si rintanano nei loro uffici, ed aspettano che la ragazza sia “pronta” a percorrere la strada del ricovero. Il problema è che più a lungo una persona viene lasciata in balìa del DCA, più sarà difficile che essa possa scegliere autonomamente di percorrere la strada del ricovero. Più una persona perde peso, minore è la produzione neurotrasmettitoriale, minore è la lucidità, più è difficile rendersi conto dello stato patologico in cui si verte, e scegliere un percorso di ricovero.
Tra l’altro, tutti i comportamenti tipici del DCA diventano molto rapidamente delle abitudini. Si restringe quando ci si trova davanti un piatto col Cibo X, perché è semplicemente quello che ci abituiamo a fare di fronte al Cibo X. Facciamo sempre lo stesso tipo di attività fisica per lo stesso lasso di tempo e nello stesso momento della giornata, perché è nel nostro programma mentale, che diventa un’abitudine. Mangiamo solo determinate quantità di determinati cibi in un certo ordine e ad una certa ora. Il cervello è un organo estremamente abitudinario e reiterativo. Poco a poco, aderisce sempre di più a quelle che sono delle “regole” che inconsciamente stabiliamo quando abbiamo un DCA.
Ecco che l’anoressia diventa la nostra nuova normalità.
Ben presto, tutto si appiattisce. Ci si dimentica com’era quando avevamo più energia. Si tralasciano hobby, interessi, studio, lavoro, perché l'anoressia occupa gran parte della nostra mente e della nostra giornata. Si allontanano gli amici perché non vogliamo che sappiano del nostro DCA. Ci si dimentica di come si faceva a mangiare senza farci problemi prima che l'anoressia esordisse. Ci si dimentica… tutto. Inizialmente, si ricorda ancora com’era la nostra vita in quando l’anoressia non la faceva da padrona. Ma poco a poco, anche questi ricordi s’indeboliscono, e comincia a parerci che in tutta la nostra vita non ci sia mai stato altro che l’anoressia. Si dimentica.
La frase “scegliere scientemente, razionalmente e lucidamente di percorrere la strada del ricovero” mi irrita per varie ragioni, soprattutto perché fa pensare che la strada del ricovero sia una tantum, una scelta che si fa una volta per tutte e poi non ci si pensa più. Come se io oggi scegliessi d’indossare un paio di jeans e una camicia bianca. Faccio questa scelta, indosso questi indumenti, ed è finta qui. Combattere contro l’anoressia non è così semplice. Non è in alcun modo una singola scelta.
Fare colazione. Io mi ricordo quando la mattina mi alzavo da letto e m’intrippavo in pensieri Shakespeariani del tipo “restringere a colazione o non restringere a colazione? Questo è il problema”. E anche quando decidi che, diamine, niente seghe mentali, quella cavolo di colazione la devi proprio fare senza restringere, allora devi decidere se prendere il latte coi biscotti e, nel caso, quali biscotti. Quanti biscotti. E, tra l’altro, quale tipo di latte. Intero? Parzialmente scremato? Scremato? E poi, nient’altro oltre a latte e biscotti? Succo di frutta o no. Qualcos’altro al posto del succo di frutta. Caffè o no (a me il caffè non piace, quindi un problema in meno… almeno questo!). E questo è solo il primo pasto della giornata. E cosa succede quei giorni in cui non si ha proprio per niente voglia di fare colazione? Che si fa, allora? Come si fa ad obbligarsi a mangiare comunque?
Io credo che scegliere la strada del ricovero non è come una lampadina che si accende di punto in bianco. Credo che per scegliere la strada del ricovero sia necessario un supporto medico anche quando non siamo ancora propriamente complianti, e anche quando lo siamo occorre comunque rinnovare questa scelta giorno dopo giorno. Perché è solo così che l’anoressia che è diventata col tempo la nostra normalità, può lasciare il posto al percorrere la strada del ricovero, che col tempo deve diventare la nostra nuova normalità. Più si sceglie la strada del ricovero, più sceglierla risulta essere meno faticoso. Ma per arrivare a questo, occorre imporsi di fare cose che ci danno discomfort, fare comunque cose che non vorremmo fare, cose che allontanano il (fasullo) senso di controllo che ci faceva provare l’anoressia, per lasciarci nell’incertezza di affrontare le sfide della vita senza più ricorrere ad una strategia di coping malata quale è il DCA. Significa che, anche nei momenti in cui non siamo propriamente ancora in grado di percorrere la strada del ricovero perché ancora troppo dentro all’anoressia, c’è bisogno di un supporto nutrizionale e psicoterapeutico che ci fornisca strategie di coping alternative, onde evitare il dilagare dell’ansia che ci riporterebbe immediatamente ad avere una ricaduta. Scegliere di percorrere la strada del ricovero è una scelta che, secondo me, dovremmo rinnovare giorno dopo giorno per tutta la nostra vita. Ma quando il percorrere la strada del ricovero diventa un’abitudine esattamente come lo era diventata l’anoressia, allora non sarà comunque facile e divertente, ma non sarà neanche più così dura come lo è nei primi tempi.
venerdì 26 aprile 2013
Ansia, cibo e necessità di controllo
Recentemente ho letto un articolo inerente la relazione che intercorre tra fobie e la necessità di controllo. Una delle componenti-chiave della fobia è l’ansia, la paura di perdere il controllo. Cosa potrebbe succedere se fossi chiusa dentro uno spazio molto ristretto e non potessi uscire? – si chiede la persona claustrofobica. O, nel caso dell’anoressia: cosa potrebbe succedere se io non restringessi sistematicamente l’alimentazione? Cosa potrebbe succedere se non facessi sempre la stessa attività fisica tutti i giorni?, e così via…
Il controllo è in realtà un sentimento qualitativo, sì, ma attraverso il DCA lo trasformiamo in un qualcosa di quantitativo: dose di cibo assunto, entità di attività fisica svolta, B.M.I., taglia dei vestiti… Il punto è che, in realtà, la nostra spasmodica ricerca di controllo è strettamente connessa alla ricerca di un sollievo dall’ansia. Il pensiero di base è: se riesco a controllare alla perfezione tutto ciò che riguarda il cibo e l’attività fisica, allora mi sentirò come se tutto nella vita potesse andare bene.
Salvo poi ovviamente il rendersi conto che questo “andare tutto bene” è un’utopia, e che le cose non vanno dritte a prescindere dal nostro comportamento alimentare. Ma la sensazione di controllo che l’anoressia comunque c’infonde è tale che continuiamo ad ancorarci ad essa anche quando sappiamo quanto possa essere deleteria per noi.
Io penso – per quella che è stata la mia esperienza personale, si capisce, lungi da me il voler fare di tutta l’erba un fascio – che l’aspetto fondamentale di un DCA sia proprio la mania di avere il controllo. La necessità di avere la sensazione di avere il controllo, vero o illusorio che sia, è la base di tutto. Ma non è tutto, ovviamente. Perché spesso l’anoressia non nasce soltanto come un qualcosa che si sente il bisogno di controllare, ma anche come un modo per provare a sentirci più a nostro agio con noi stesse. Il tutto diventa poi un serpente che si morde la coda: più andiamo avanti nella malattia, più sentiamo che il controllo ci sfugge, più strettamente cerchiamo di controllare l’alimentazione per evitare di essere soverchiate dall’ansia.
L’ansia è un altro elemento molto importante nel contesto di un DCA. Non è tanto correlata al cibo in sé, quanto a tutto il resto: alla vita stessa, così ansiogena che bisogna per forza ricorrere ad una strategia di coping. Occorre inoltre sempre tener presente il fatto che i DCA hanno un effetto sia psicologico, sia neurochimico: il ridurre l’introito alimentare limita la produzione di quei neurotrasmettitori che fomentano l’ansia, e i comportamenti rituali di checkup danno l’illusione di avere il pieno controllo su ogni singolo aspetto della propria vita.
Paradossalmente, più ci s’inoltra nell’anoressia, più la vita diventa difficile. Questo ci spinge a impegnarci ancora di più in questa via distruttiva per mantenere il senso di controllo che il DCA ci dà. L’avere un senso di controllo riduce lo stress.
Una delle cose che più stressa le persone è sentire di non avere il controllo. Quando perdiamo il controllo, attuiamo elaborate ginnastiche mentali per auto-convincerci che abbiamo il controllo, o per evitare di compiere azioni che potrebbero portarci a perdere il controllo. Molte di queste sono ascrivibili al “pensiero magico”: se vado sulla cyclette per mezz’ora, andrà tutto bene. Manterrò il controllo, il mio peso rimarrà stabile, e sarà tutto okay. Oppure: se riesco a restringere l'alimentazione in questo modo, posso controllare tutto e quindi niente mi coglierà impreparata. Cose del genere diventano mantra inconsci che ci ripetiamo più e più volte, arrivando ad organizzare sempre di più la nostra vita in funzione delle stesse.
Quel che dovremo fare, perciò, è imparare ad affrontare face-to-face i nostri veri problemi. Soltanto confrontandoci con quello che ci mette ansia e ci spaventa, possiamo renderci conto che il controllo è sopravvalutato. Inoltre, ironicamente, dato tutto il controllo che abbiamo dato prova di possedere con l’anoressia, possiamo utilizzare lo stesso per mantenerci dritte sulla strada del ricovero: non abbiamo forse dimostrato di avere un controllo così forte da permetterci di fare tutto ciò che vogliamo??!...
Dunque, in conclusione, l’anoressia non è una malattia del cibo, è una malattia del controllo. È anche una malattia dell’ansia, della paura, dello stress, di tutti i problemi assolutamente individuali e personali che ognuna di noi ha e che momentaneamente non riesce ad affrontare se non con quest’erronea strategia di coping. Un DCA è un insieme di tante cose, in fondo, per cui penso che l’unico semplice modo per spiegare cos’è un DCA sia il dire che è… complicato.
Il controllo è in realtà un sentimento qualitativo, sì, ma attraverso il DCA lo trasformiamo in un qualcosa di quantitativo: dose di cibo assunto, entità di attività fisica svolta, B.M.I., taglia dei vestiti… Il punto è che, in realtà, la nostra spasmodica ricerca di controllo è strettamente connessa alla ricerca di un sollievo dall’ansia. Il pensiero di base è: se riesco a controllare alla perfezione tutto ciò che riguarda il cibo e l’attività fisica, allora mi sentirò come se tutto nella vita potesse andare bene.
Salvo poi ovviamente il rendersi conto che questo “andare tutto bene” è un’utopia, e che le cose non vanno dritte a prescindere dal nostro comportamento alimentare. Ma la sensazione di controllo che l’anoressia comunque c’infonde è tale che continuiamo ad ancorarci ad essa anche quando sappiamo quanto possa essere deleteria per noi.
Io penso – per quella che è stata la mia esperienza personale, si capisce, lungi da me il voler fare di tutta l’erba un fascio – che l’aspetto fondamentale di un DCA sia proprio la mania di avere il controllo. La necessità di avere la sensazione di avere il controllo, vero o illusorio che sia, è la base di tutto. Ma non è tutto, ovviamente. Perché spesso l’anoressia non nasce soltanto come un qualcosa che si sente il bisogno di controllare, ma anche come un modo per provare a sentirci più a nostro agio con noi stesse. Il tutto diventa poi un serpente che si morde la coda: più andiamo avanti nella malattia, più sentiamo che il controllo ci sfugge, più strettamente cerchiamo di controllare l’alimentazione per evitare di essere soverchiate dall’ansia.
L’ansia è un altro elemento molto importante nel contesto di un DCA. Non è tanto correlata al cibo in sé, quanto a tutto il resto: alla vita stessa, così ansiogena che bisogna per forza ricorrere ad una strategia di coping. Occorre inoltre sempre tener presente il fatto che i DCA hanno un effetto sia psicologico, sia neurochimico: il ridurre l’introito alimentare limita la produzione di quei neurotrasmettitori che fomentano l’ansia, e i comportamenti rituali di checkup danno l’illusione di avere il pieno controllo su ogni singolo aspetto della propria vita.
Paradossalmente, più ci s’inoltra nell’anoressia, più la vita diventa difficile. Questo ci spinge a impegnarci ancora di più in questa via distruttiva per mantenere il senso di controllo che il DCA ci dà. L’avere un senso di controllo riduce lo stress.
Una delle cose che più stressa le persone è sentire di non avere il controllo. Quando perdiamo il controllo, attuiamo elaborate ginnastiche mentali per auto-convincerci che abbiamo il controllo, o per evitare di compiere azioni che potrebbero portarci a perdere il controllo. Molte di queste sono ascrivibili al “pensiero magico”: se vado sulla cyclette per mezz’ora, andrà tutto bene. Manterrò il controllo, il mio peso rimarrà stabile, e sarà tutto okay. Oppure: se riesco a restringere l'alimentazione in questo modo, posso controllare tutto e quindi niente mi coglierà impreparata. Cose del genere diventano mantra inconsci che ci ripetiamo più e più volte, arrivando ad organizzare sempre di più la nostra vita in funzione delle stesse.
Quel che dovremo fare, perciò, è imparare ad affrontare face-to-face i nostri veri problemi. Soltanto confrontandoci con quello che ci mette ansia e ci spaventa, possiamo renderci conto che il controllo è sopravvalutato. Inoltre, ironicamente, dato tutto il controllo che abbiamo dato prova di possedere con l’anoressia, possiamo utilizzare lo stesso per mantenerci dritte sulla strada del ricovero: non abbiamo forse dimostrato di avere un controllo così forte da permetterci di fare tutto ciò che vogliamo??!...
Dunque, in conclusione, l’anoressia non è una malattia del cibo, è una malattia del controllo. È anche una malattia dell’ansia, della paura, dello stress, di tutti i problemi assolutamente individuali e personali che ognuna di noi ha e che momentaneamente non riesce ad affrontare se non con quest’erronea strategia di coping. Un DCA è un insieme di tante cose, in fondo, per cui penso che l’unico semplice modo per spiegare cos’è un DCA sia il dire che è… complicato.
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mercoledì 6 luglio 2011
Freni al ricovero: Valium virtuale
Penso che l’ansia, più o meno marcata, sia un vissuto comune a chiunque stia alle prese con l’anoressia. L’ansia rende irritabili, e peggiora ulteriormente le cose che temiamo, un po’ come un serpente che si morde la coda.
Si comincia a star meglio quando ci si rende conto di quanto l’ansia possa pervadere la vita. Questo è il primo passo. Poi però bisogna imparare a mettere in atto strategie di coping contro l’ansia. Ed è proprio questo che mette un freno al percorrere la strada del ricovero:
L’anoressia è un ansiolitico
L’anoressia è una strategia di coping che permette di limitare l’ansia grazie alla sensazione di (illusorio) controllo che fornisce. L’ansia deriva infatti per lo più dal timore che qualcosa non vada come vorremmo, che esca dalla nostra sfera di controllo. L’anoressia sembra fornire la chiave del controllo. Ecco quindi che la malattia diventa la cura. Se possiamo controllare le cose (questo è ciò che l’anoressia ci fa credere), allora possiamo farle andare come vogliamo, ed evitare sorprese indesiderate, quindi possiamo contenere l’ansia. E se proprio, pur controllando l’andamento delle cose, il risultato non fosse conforme alle nostre aspettative, poiché detto risultato deriva comunque dal nostro indirizzamento controllato dei fatti, siamo in grado successivamente di adottare un’altra strategia (sempre controllata!) che ci permetta di dirigere le cose in un’altra maniera, pervenendo ai risultati desiderati.
Se sale il controllo, cala l’ansia. In tal senso, l’anoressia è meglio del Valium. Possiamo controllare le cose, e ci sentiamo bene quando restringiamo l’alimentazione: quale migliore accoppiata potremmo desiderare?
Anche durante le ricadute, si è consapevoli che il ritorno all’anoressia non avrà un lieto fine, e che prima o poi saremo comunque costrette a ricominciare a seguire l’ “equilibrio alimentare” e a riprendere peso. Eppure, ogni volta ci sentiamo raggelate. E non soltanto per il peso da riprendere o per la paura del cambiamento, ma soprattutto per l’aumento dell’ansia che arriva spontaneo quando si rinuncia al “controllo” dell’anoressia. Ci sembra di non essere capaci di gestire quell’ansia senza ricorrere al DCA. Nel pieno dell’anoressia, ci sembra di sapere perfettamente quello che vogliamo: restringere l’alimentazione. In questo frangente, l’ansia si riduce notevolmente perché abbiamo per lo meno un’incrollabile certezza. Il fatto addizionale che l’anoressia sia un ottimo asso nella manica, riduce i livelli di ansia sostanzialmente a zero. Perché anche se tutto andasse a puttane, l’anoressia resta sempre, no?!
Iniziare il percorso di ricovero significa abbandonare tutto questo. Significa rinunciare al nostro Valium virtuale ed imparare ad adottare altre strategie di coping non disfunzionali nei confronti dell’ansia. Il ricovero di per sé – ahimè! – non riduce l’ansia. Ci si sente ansiose come prima e, anzi, forse sembra pure peggio perché siamo appena reduci da un qualcosa che aveva fatto scomparire l’ansia totalmente. Ci sono millemila strategie di coping nei confronti dell’ansia, dallo yoga, alla meditazione, al masticare chewing-gum, al prendere una camomilla, al ricamare, al cercare di distrarsi… e ce ne vogliono a milioni, di queste strategie, perché non tutte sono funzionali per le differenti situazioni. Ovviamente non posso mettermi a prendere una camomilla se sono nel bel mezzo di una gara, ma posso respirare a fondo e dire a me stessa di rimanere concentrata su ciò che sto facendo per impedire alla mia testa di divagare ed essere facile preda dell’ansia. Inoltre, bisogna imparare ad accettare il fatto che la vita non si può controllare, e che quindi l’ansia non potrà mai essere eliminata del tutto, ma che non è così insormontabile da doverla tamponare con l’anoressia. Perciò, quando vi trovate a provare particolare ansia nel percorrere la strada del ricovero e vi viene voglia di rituffarvi nell’anoressia, prendetevi un attimo per pensare: “Quest’ansia l’ho già vissuta, e non ne sono morta. L’anoressia può essere un Valium, un palliativo, ma non la risolve. Perciò, tutto quello che posso fare, è affrontare quest’ansia tal quale. L’ansia non mi ha mai uccisa, quindi ce la posso fare anche stavolta”.
Si comincia a star meglio quando ci si rende conto di quanto l’ansia possa pervadere la vita. Questo è il primo passo. Poi però bisogna imparare a mettere in atto strategie di coping contro l’ansia. Ed è proprio questo che mette un freno al percorrere la strada del ricovero:
L’anoressia è un ansiolitico
L’anoressia è una strategia di coping che permette di limitare l’ansia grazie alla sensazione di (illusorio) controllo che fornisce. L’ansia deriva infatti per lo più dal timore che qualcosa non vada come vorremmo, che esca dalla nostra sfera di controllo. L’anoressia sembra fornire la chiave del controllo. Ecco quindi che la malattia diventa la cura. Se possiamo controllare le cose (questo è ciò che l’anoressia ci fa credere), allora possiamo farle andare come vogliamo, ed evitare sorprese indesiderate, quindi possiamo contenere l’ansia. E se proprio, pur controllando l’andamento delle cose, il risultato non fosse conforme alle nostre aspettative, poiché detto risultato deriva comunque dal nostro indirizzamento controllato dei fatti, siamo in grado successivamente di adottare un’altra strategia (sempre controllata!) che ci permetta di dirigere le cose in un’altra maniera, pervenendo ai risultati desiderati.
Se sale il controllo, cala l’ansia. In tal senso, l’anoressia è meglio del Valium. Possiamo controllare le cose, e ci sentiamo bene quando restringiamo l’alimentazione: quale migliore accoppiata potremmo desiderare?
Anche durante le ricadute, si è consapevoli che il ritorno all’anoressia non avrà un lieto fine, e che prima o poi saremo comunque costrette a ricominciare a seguire l’ “equilibrio alimentare” e a riprendere peso. Eppure, ogni volta ci sentiamo raggelate. E non soltanto per il peso da riprendere o per la paura del cambiamento, ma soprattutto per l’aumento dell’ansia che arriva spontaneo quando si rinuncia al “controllo” dell’anoressia. Ci sembra di non essere capaci di gestire quell’ansia senza ricorrere al DCA. Nel pieno dell’anoressia, ci sembra di sapere perfettamente quello che vogliamo: restringere l’alimentazione. In questo frangente, l’ansia si riduce notevolmente perché abbiamo per lo meno un’incrollabile certezza. Il fatto addizionale che l’anoressia sia un ottimo asso nella manica, riduce i livelli di ansia sostanzialmente a zero. Perché anche se tutto andasse a puttane, l’anoressia resta sempre, no?!
Iniziare il percorso di ricovero significa abbandonare tutto questo. Significa rinunciare al nostro Valium virtuale ed imparare ad adottare altre strategie di coping non disfunzionali nei confronti dell’ansia. Il ricovero di per sé – ahimè! – non riduce l’ansia. Ci si sente ansiose come prima e, anzi, forse sembra pure peggio perché siamo appena reduci da un qualcosa che aveva fatto scomparire l’ansia totalmente. Ci sono millemila strategie di coping nei confronti dell’ansia, dallo yoga, alla meditazione, al masticare chewing-gum, al prendere una camomilla, al ricamare, al cercare di distrarsi… e ce ne vogliono a milioni, di queste strategie, perché non tutte sono funzionali per le differenti situazioni. Ovviamente non posso mettermi a prendere una camomilla se sono nel bel mezzo di una gara, ma posso respirare a fondo e dire a me stessa di rimanere concentrata su ciò che sto facendo per impedire alla mia testa di divagare ed essere facile preda dell’ansia. Inoltre, bisogna imparare ad accettare il fatto che la vita non si può controllare, e che quindi l’ansia non potrà mai essere eliminata del tutto, ma che non è così insormontabile da doverla tamponare con l’anoressia. Perciò, quando vi trovate a provare particolare ansia nel percorrere la strada del ricovero e vi viene voglia di rituffarvi nell’anoressia, prendetevi un attimo per pensare: “Quest’ansia l’ho già vissuta, e non ne sono morta. L’anoressia può essere un Valium, un palliativo, ma non la risolve. Perciò, tutto quello che posso fare, è affrontare quest’ansia tal quale. L’ansia non mi ha mai uccisa, quindi ce la posso fare anche stavolta”.
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domenica 23 gennaio 2011
Mantenere la motivazione
Una delle cose più difficili da fare in un percorso di ricovero è mantenere la motivazione. Voglio perciò suggerirvi una serie di cose da poter fare in modo da continuare sempre a camminare nella giusta direzione.
1 – Fate un CD che racchiude canzoni che lancino un messaggio positivo, un messaggio che dice che l’anoressia non vale la pena. Poi ascoltatelo ogni volta che potete: in treno mentre andate a scuola o al lavoro, in macchina mentre state guidando, la sera prima di andare a letto… o semplicemente in un momento tutto per voi che riuscite a ritagliarvi.
2 – Se avete un paio di jeans (o una maglietta, o un qualsiasi capo d’abbigliamento) che vi ricorda in particolar modo di quando eravate nel pieno dell’anoressia e pesavate XX Kg, prendete un pennarello indelebile e scriveteci sopra tutti i motivi per cui odiate il vostro DCA.
3 – Buttate via la bilancia e promettete a voi stesse che non sarete più schiave di un pezzo di metallo.
4 – Cominciate a tenere un “Diario di Ricovero”. Riempitelo di frasi positive e di pensieri che vi possano aiutare a mantenere la giusta direzione, e leggetelo ogni qualvolta ne avrete bisogno.
5 – Scrivete frasi positive su Post-It colorati e attaccateli ovunque possiate leggerli ogni giorno. Ve ne suggerisco un paio…
“Fall in love or fall in hate. Get inspired or be depressed. Ace a test or flunk a class. Make babies or make art. Speak the truth or lie and cheat. Dance on the table or sit in the corner. Life is divine chaos: embrace it. Forgive yourself. Breathe. And enjoy the ride…”
“What lies behind us and what lies before us are small matters compared to what lies within us”
6 – Ponetevi un obiettivo a breve termine, un obiettivo piccolo, per voi stesse, che vi renda felici, e cercate di realizzarlo. Ma non drammatizzate se non ce la farete. Si tratterà solo di scegliere un altro obiettivo e di darvi un’altra possibilità.
7 – Arrabbiatevi. Chiunque abbia un DCA ha milioni di ragioni per essere arrabbiata. L’anoressia ci convince che non valiamo abbastanza e che non andiamo abbastanza bene… sono tutte bugie! Non dovremmo forse essere arrabbiate nei confronti di quest’abile manipolatrice? Noi meritiamo MOLTO di più del nulla che alla fine ci dà l’anoressia.
8 – Fate qualcosa di piacevole per il vostro corpo. Mettetevi lo smalto alle unghie, cambiate il vostro taglio di capelli, comprate un paio di scarpe che vi piacciono, etc…
9 – Fate un disegno, un collage, scrivete una poesia che vi permetta di esprimere liberamente voi stesse.
10 – Evitate in ogni modo di piangervi addosso. Indubbio che un DCA faccia stare male, ma autocommiserarsi non aiuta affatto, anzi, al contrario…
11 – Fate una lista delle cose positive e costruttive che vi piacerebbe fare nella vostra vita.
12 – Pensate che se ci sono mille ragioni per scegliere l’anoressia, allora ce ne sono anche mille e una per non sceglierla.
1 – Fate un CD che racchiude canzoni che lancino un messaggio positivo, un messaggio che dice che l’anoressia non vale la pena. Poi ascoltatelo ogni volta che potete: in treno mentre andate a scuola o al lavoro, in macchina mentre state guidando, la sera prima di andare a letto… o semplicemente in un momento tutto per voi che riuscite a ritagliarvi.
2 – Se avete un paio di jeans (o una maglietta, o un qualsiasi capo d’abbigliamento) che vi ricorda in particolar modo di quando eravate nel pieno dell’anoressia e pesavate XX Kg, prendete un pennarello indelebile e scriveteci sopra tutti i motivi per cui odiate il vostro DCA.
3 – Buttate via la bilancia e promettete a voi stesse che non sarete più schiave di un pezzo di metallo.
4 – Cominciate a tenere un “Diario di Ricovero”. Riempitelo di frasi positive e di pensieri che vi possano aiutare a mantenere la giusta direzione, e leggetelo ogni qualvolta ne avrete bisogno.
5 – Scrivete frasi positive su Post-It colorati e attaccateli ovunque possiate leggerli ogni giorno. Ve ne suggerisco un paio…
“Fall in love or fall in hate. Get inspired or be depressed. Ace a test or flunk a class. Make babies or make art. Speak the truth or lie and cheat. Dance on the table or sit in the corner. Life is divine chaos: embrace it. Forgive yourself. Breathe. And enjoy the ride…”
“What lies behind us and what lies before us are small matters compared to what lies within us”
6 – Ponetevi un obiettivo a breve termine, un obiettivo piccolo, per voi stesse, che vi renda felici, e cercate di realizzarlo. Ma non drammatizzate se non ce la farete. Si tratterà solo di scegliere un altro obiettivo e di darvi un’altra possibilità.
7 – Arrabbiatevi. Chiunque abbia un DCA ha milioni di ragioni per essere arrabbiata. L’anoressia ci convince che non valiamo abbastanza e che non andiamo abbastanza bene… sono tutte bugie! Non dovremmo forse essere arrabbiate nei confronti di quest’abile manipolatrice? Noi meritiamo MOLTO di più del nulla che alla fine ci dà l’anoressia.
8 – Fate qualcosa di piacevole per il vostro corpo. Mettetevi lo smalto alle unghie, cambiate il vostro taglio di capelli, comprate un paio di scarpe che vi piacciono, etc…
9 – Fate un disegno, un collage, scrivete una poesia che vi permetta di esprimere liberamente voi stesse.
10 – Evitate in ogni modo di piangervi addosso. Indubbio che un DCA faccia stare male, ma autocommiserarsi non aiuta affatto, anzi, al contrario…
11 – Fate una lista delle cose positive e costruttive che vi piacerebbe fare nella vostra vita.
12 – Pensate che se ci sono mille ragioni per scegliere l’anoressia, allora ce ne sono anche mille e una per non sceglierla.
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