venerdì 31 gennaio 2014
Definizione di "ricovero"/4: La vita dopo un DCA
Eccoci qua all’ultimo post della serie “Definizione di “ricovero””, post nel quale voglio prendere in considerazione ciò che succede a chi ha avuto un DCA nel momento in cui arriva ad una duratura remissione dello stesso. Abbandonare i comportamenti patologici indotti dal DCA rappresenta, in un certo senso, un mezzo per raggiungere un fine: il fine è il raggiungimento della salute e di una quanto migliore possibile qualità della vita. Non c’è una modalità univoca per arrivare ad acquistare un’ottima qualità della vita, né del resto è possibile dare un’univoca definizione di “ottima qualità della vita”: quello che è considerato “vita di qualità” varia infatti da persona a persona.
Ma è possibile guardare un gruppo di persone che hanno avuto una completa remissione dall’anoressia/bulimia e accorgersi che più o meno tempo fa queste persone erano devastate dalla piena espressione di un disturbo alimentare?
La risposta è: dipende. Dipende sia dal gruppo di persone che si prendono in esame, sia dagli specifici fattori che si prendono in considerazione.
Perfezionismo e bisogno di controllo
Il perfezionismo e/o il bisogno di controllo sono caratteristiche comuni, concomitanti o meno, a molte persone affette da DCA. Molte pazienti riferiscono elevati livelli di perfezionismo e/o forte bisogno di controllo sia prima che durante il DCA, il che ha portato i ricercatori a pensare che il perfezionismo e il bisogno di controllo fossero significativi fattori di rischio in merito allo sviluppo di un DCA. Quello che ci si chiede dunque è come il perfezionismo e/o il bisogno di controllo persistano anche dopo un percorso di “ricovero”. I dati a tal proposito sono piuttosto variegati, ma sembra che le persone che si ammalano di anoressia/bulimia siano più perfezioniste e/o più fissate col controllo rispetto a chi non ha mai avuto un DCA, anche se sia i livelli di perfezionismo sia il bisogno di controllo sembrano ridursi man mano che si procede sulla strada del ricovero.
In uno studio pubblicato su “International Journal Of Eating Disorders”, Anna Bardone-Cone e i suoi colleghi hanno comparato donne che avevano raggiunto una remissione dall’anoressia a donne che stavano ancora percorrendo la strada del ricovero, in merito a caratteristiche quali il perfezionismo e il bisogno di controllo. (Bardone-Cone et al., 2010) I ricercatori hanno reclutato 96 donne che erano ricoverate o che erano state ricoverate in una clinica specializzata per DCA nel Missouri. Di queste donne, 53 erano nel pieno del loro DCA, 15 stavano percorrendo la strada del ricovero, e 20 erano arrivate ad una remissione stabile. Sono stati valutati sia i comportamenti sintomatici propri del DCA, sia (tramite differenti misure) il perfezionismo e il bisogno di controllo.
Le donne che avevano raggiunto una remissione stabile dal DCA, presentavano livelli di perfezionismo e/o un bisogno di controllo soltanto di poco superiori rispetto a quelli di donne che non avevano mai avuto un DCA. Tuttavia, le donne che stavano percorrendo la strada del ricovero, mostravano livelli di perfezionismo e/o bisogno di controllo molto più elevati e più vicini a quelli delle donne nel pieno del loro DCA. Questo potrebbe voler dire che sia il perfezionismo sia il bisogno di controllo sono i 2 fattori che permangono più a lungo e si fanno risentire anche in quelle persone che sono piuttosto lontane dal DCA e molto avanti nella strada del ricovero. Potrebbe anche però voler anche dire che il ricovero da un DCA è ciò che permette la riduzione del perfezionismo e/o del bisogno di controllo.
Questi risultati contrastano con quelli di uno studio precedente, che aveva rilevato che i livelli di perfezionismo e/o bisogno di controllo rimanevano molto elevati anche dopo il “ricovero” da un DCA. Ma forse questa discrepanza è dovuta alla differente definizione di “ricovero” considerata dai 2 studi. Sarebbe bello poter ripetere ambo gli studi utilizzando un’univoca definizione di “ricovero”, per vedere cosa potrebbe venirne fuori.
Altre caratteristiche di personalità
Il perfezionismo e il bisogno di controllo sono 2 caratteristiche, non necessariamente concomitanti, spesso e volentieri presenti in chi ha l’anoressia, ma non sono i soli 2 fattori significativi. Alcune ricerche compiute sui tratti di personalità pre-esordio del DCA e post-esordio del DCA (Klump et al., 2004) di 358 donne malate di anoressia, bulimia o DCAnas hanno individuato altre caratteristiche caratteriali che condizionano il percorso di ricovero. Hanno valutato la personalità utilizzando il “Cloninger’s Temperament and Character Inventory” (che da ora in poi abbrevierò come “CTCI”).
Di che cosa si tratta?
In breve:
Il termine “temperamento” si riferisce a quell’ampia parte della nostra personalità che è innata. Nel CTCI sono considerati 4 aspetti del temperamento: evitamento, ricerca delle novità, dipendenza dalla ricompensa e persistenza. Il “carattere” è invece visto come un qualcosa di più flessibile e di non innato, bensì costruito giorno dopo giorno sulla base delle proprie esperienze di vita. Il CTCI valuta 3 differenti aspetti del carattere: autoreferenzialità, cooperatività e trascendenza.
Anche se alcuni aspetti del temperamento e del carattere variano dopo aver fatto un percorso di ricovero dal DCA, in molte aree non c’è granché shift. I ricercatori hanno trovato elevati livelli di evitamento in persone con DCA sia prima che dopo l’esordio dello stesso. Hanno altresì notato una riduzione dei livelli di cooperatività. La ricerca delle novità era più spiccata nelle donne affette da bulimia, anche se comunque ne è stato riscontrato un aumento anche nelle donne affette da anoressia, dopo che avevano raggiunto una quantomeno parziale remissione della malattia. Parlando più in generale del temperamento e del carattere, le donne che avevano intrapreso un percorso di ricovero mostravano significative differenze dalle donne che non avevano mai avuto un DCA in alcune specifiche aree, soprattutto nell’evitamento, nella ricerca delle novità, e nella cooperatività.
Aspetto interessante da notare, tutte le donne che erano arrivate ad una remissione del DCA presentavano tratti di personalità piuttosto simili tra loro. In altre parole, le donne con un passato/presente di DCA si somigliano per certi tratti caratteriali tra di loro, molto di più di quanto non facciano le donne che non hanno mai avuto un DCA. I ricercatori hanno comparato i tratti di personalità utilizzando un’ampia gamma di questionari, relativi non solo al DCA, di 60 donne che erano riuscite ad arrivare ad una remissione dell’anoressia o della bulimia (Wagner et al., 2006). In questo modo hanno potuto vedere come certi aspetti della personalità fossero non solo più frequentemente presenti in donne che avevano vissuto un DCA rispetto a quelle che non l’avevano vissuto, ma anche comuni tra le donne stesse. Sulla base di questo studio le donne che avevano raggiunto una remissione dal loro DCA sono state suddivise in 2 principali gruppi: quelle del primo gruppo avevano alti livelli di impulsività, ricerca delle novità, e trascendenza, quelle del secondo gruppo avevano alti livelli di evitamento e persistenza.
E loro, cosa ne dicono?
Uno dei modi migliori per capire com’è la vita di chi ha fatto significativi passi avanti sulla strada del ricovero, è chiederglielo direttamente. Così 2 ricercatori svedesi hanno chiesto a 14 donne che avevano intrapreso un percorso di ricovero, e che erano a buon punto, di sottoporsi ad un’intervista relativa alla loro propria percezione del “ricovero”. (Bjork & Alstrom, 2006). Le 14 donne in questione avevano tutte un’età compresa tra i 22 e i 34 anni, e si erano ammalate di DCA dai 2 al 12 anni prima. 4 di queste donne erano affette da anoressia, 4 da bulimia e 6 da DCAnas.
Prima che i ricercatori iniziassero a raccogliere le interviste, fecero immediatamente un’osservazione: tutte le partecipanti allo studio erano molto pronte e contente di condividere i loro pensieri e le loro sensazioni a proposito del “ricovero”. Molte di loro avevano un sacco di cose da dire, ed era così possibile raccogliere un sacco di materiale. Alcune di loro, tuttavia, avevano dato delle risposte piuttosto stringate: vivevano la vita che erano riuscite a riconquistare, e non avevano voglia di pensare nuovamente a quel DCA che gliel’aveva devastata.
Le frasi di queste ragazze si commentano da sole. Giusto per citarne qualcuna che quoto in pieno:
“Cerco di fare le cose per il mio bene in un altro modo, credo. Anche quando restringevo l’alimentazione mi sembrava di farlo per il mio bene, ma questa era solo una bugia derivata dall’anoressia. Adesso lavoro per la mia salute, per me stessa. Non vorrei sembrare un’egoista, una che si mette sempre al primo posto e pensa di avere ogni diritto del mondo, è che, semplicemente, cerco di ascoltarmi di più. Mi do tregua, tempo per respirare. Per esempio, se un giorno sono stanca e ho soltanto voglia di sedermi sul divano e leggere un libro, mi do il permesso di farlo, non come prima che dovevo essere sempre al pezzo.” (Novaly)
“Sì, ho accettato il mio corpo. Il che non significa che lo amo. Non mi piaccio fisicamente, ma accetto di essere così perché è quello che mi serve per riuscire a vivere a pieno la mia vita. Il mio corpo è sano e lavora, e questo è quanto. Ecco cosa penso. Non è il corpo che vorrei, ma per rendermi funzionale deve essere così, e dunque così sia.” (Haley)
“Ho ricominciato a lavorare per bene, ad uscire con gli amici, a dedicarmi allo sport… insomma, pian piano mi sono ripresa tutte le cose che mi piacciono e dalle quali con l’anoressia mi ero allontanata. Sto vivendo una vita di qualità. Sono ancora vulnerabile ai pensieri del DCA, però sono consapevole che sono tali e riesco a tenergli testa, cosicché continuo ad alimentarmi adeguatamente, e a fare tutto ciò che rende la mia vita degna d’essere chiamata tale. Ci sarà sempre qualcosa dell’anoressia in me, ma io sarò più forte di lei e i suoi pensieri li ricaccerò in un angolino senza più permettergli di affiorare e di condizionare questa vita di qualità che ho faticosamente ricostruito.” (Andrea)
I ricercatori concludono:
“Riguardo alle loro vite quotidiane attuali, le partecipanti allo studio esprimono speranza, consapevolezza, determinazione, e un senso di libertà. È chiaro che riescono a discernere la loro vita presente rispetto alla loro vita passata nei momenti peggiori del DCA. Il “ricovero” per queste donne è sinonimo di affrontare quotidianamente il DCA che in precedenza aveva riempito le loro vite, alimentandosi correttamente in maniera costante, e trovando altri interessi in modo da non identificarsi più nel DCA stesso. Sono donne che combattono per essere sane, sia fisicamente che psicologicamente. Anche se sono lucidamente consapevoli che le ricadute possono essere dietro l’angolo e che c’è da tenere sempre alta la guardia, sanno che non torneranno più ad una condizione di sudditanza nei confronti del DCA. E lo sanno perché adesso hanno raggiunto un’ottima qualità della vita, e si rendono conto che vale davvero la pena preservarla.”
(mia traduzione)
Concordo. In pieno.
Ma è possibile guardare un gruppo di persone che hanno avuto una completa remissione dall’anoressia/bulimia e accorgersi che più o meno tempo fa queste persone erano devastate dalla piena espressione di un disturbo alimentare?
La risposta è: dipende. Dipende sia dal gruppo di persone che si prendono in esame, sia dagli specifici fattori che si prendono in considerazione.
Perfezionismo e bisogno di controllo
Il perfezionismo e/o il bisogno di controllo sono caratteristiche comuni, concomitanti o meno, a molte persone affette da DCA. Molte pazienti riferiscono elevati livelli di perfezionismo e/o forte bisogno di controllo sia prima che durante il DCA, il che ha portato i ricercatori a pensare che il perfezionismo e il bisogno di controllo fossero significativi fattori di rischio in merito allo sviluppo di un DCA. Quello che ci si chiede dunque è come il perfezionismo e/o il bisogno di controllo persistano anche dopo un percorso di “ricovero”. I dati a tal proposito sono piuttosto variegati, ma sembra che le persone che si ammalano di anoressia/bulimia siano più perfezioniste e/o più fissate col controllo rispetto a chi non ha mai avuto un DCA, anche se sia i livelli di perfezionismo sia il bisogno di controllo sembrano ridursi man mano che si procede sulla strada del ricovero.
In uno studio pubblicato su “International Journal Of Eating Disorders”, Anna Bardone-Cone e i suoi colleghi hanno comparato donne che avevano raggiunto una remissione dall’anoressia a donne che stavano ancora percorrendo la strada del ricovero, in merito a caratteristiche quali il perfezionismo e il bisogno di controllo. (Bardone-Cone et al., 2010) I ricercatori hanno reclutato 96 donne che erano ricoverate o che erano state ricoverate in una clinica specializzata per DCA nel Missouri. Di queste donne, 53 erano nel pieno del loro DCA, 15 stavano percorrendo la strada del ricovero, e 20 erano arrivate ad una remissione stabile. Sono stati valutati sia i comportamenti sintomatici propri del DCA, sia (tramite differenti misure) il perfezionismo e il bisogno di controllo.
Le donne che avevano raggiunto una remissione stabile dal DCA, presentavano livelli di perfezionismo e/o un bisogno di controllo soltanto di poco superiori rispetto a quelli di donne che non avevano mai avuto un DCA. Tuttavia, le donne che stavano percorrendo la strada del ricovero, mostravano livelli di perfezionismo e/o bisogno di controllo molto più elevati e più vicini a quelli delle donne nel pieno del loro DCA. Questo potrebbe voler dire che sia il perfezionismo sia il bisogno di controllo sono i 2 fattori che permangono più a lungo e si fanno risentire anche in quelle persone che sono piuttosto lontane dal DCA e molto avanti nella strada del ricovero. Potrebbe anche però voler anche dire che il ricovero da un DCA è ciò che permette la riduzione del perfezionismo e/o del bisogno di controllo.
Questi risultati contrastano con quelli di uno studio precedente, che aveva rilevato che i livelli di perfezionismo e/o bisogno di controllo rimanevano molto elevati anche dopo il “ricovero” da un DCA. Ma forse questa discrepanza è dovuta alla differente definizione di “ricovero” considerata dai 2 studi. Sarebbe bello poter ripetere ambo gli studi utilizzando un’univoca definizione di “ricovero”, per vedere cosa potrebbe venirne fuori.
Altre caratteristiche di personalità
Il perfezionismo e il bisogno di controllo sono 2 caratteristiche, non necessariamente concomitanti, spesso e volentieri presenti in chi ha l’anoressia, ma non sono i soli 2 fattori significativi. Alcune ricerche compiute sui tratti di personalità pre-esordio del DCA e post-esordio del DCA (Klump et al., 2004) di 358 donne malate di anoressia, bulimia o DCAnas hanno individuato altre caratteristiche caratteriali che condizionano il percorso di ricovero. Hanno valutato la personalità utilizzando il “Cloninger’s Temperament and Character Inventory” (che da ora in poi abbrevierò come “CTCI”).
Di che cosa si tratta?
In breve:
Il termine “temperamento” si riferisce a quell’ampia parte della nostra personalità che è innata. Nel CTCI sono considerati 4 aspetti del temperamento: evitamento, ricerca delle novità, dipendenza dalla ricompensa e persistenza. Il “carattere” è invece visto come un qualcosa di più flessibile e di non innato, bensì costruito giorno dopo giorno sulla base delle proprie esperienze di vita. Il CTCI valuta 3 differenti aspetti del carattere: autoreferenzialità, cooperatività e trascendenza.
Anche se alcuni aspetti del temperamento e del carattere variano dopo aver fatto un percorso di ricovero dal DCA, in molte aree non c’è granché shift. I ricercatori hanno trovato elevati livelli di evitamento in persone con DCA sia prima che dopo l’esordio dello stesso. Hanno altresì notato una riduzione dei livelli di cooperatività. La ricerca delle novità era più spiccata nelle donne affette da bulimia, anche se comunque ne è stato riscontrato un aumento anche nelle donne affette da anoressia, dopo che avevano raggiunto una quantomeno parziale remissione della malattia. Parlando più in generale del temperamento e del carattere, le donne che avevano intrapreso un percorso di ricovero mostravano significative differenze dalle donne che non avevano mai avuto un DCA in alcune specifiche aree, soprattutto nell’evitamento, nella ricerca delle novità, e nella cooperatività.
Aspetto interessante da notare, tutte le donne che erano arrivate ad una remissione del DCA presentavano tratti di personalità piuttosto simili tra loro. In altre parole, le donne con un passato/presente di DCA si somigliano per certi tratti caratteriali tra di loro, molto di più di quanto non facciano le donne che non hanno mai avuto un DCA. I ricercatori hanno comparato i tratti di personalità utilizzando un’ampia gamma di questionari, relativi non solo al DCA, di 60 donne che erano riuscite ad arrivare ad una remissione dell’anoressia o della bulimia (Wagner et al., 2006). In questo modo hanno potuto vedere come certi aspetti della personalità fossero non solo più frequentemente presenti in donne che avevano vissuto un DCA rispetto a quelle che non l’avevano vissuto, ma anche comuni tra le donne stesse. Sulla base di questo studio le donne che avevano raggiunto una remissione dal loro DCA sono state suddivise in 2 principali gruppi: quelle del primo gruppo avevano alti livelli di impulsività, ricerca delle novità, e trascendenza, quelle del secondo gruppo avevano alti livelli di evitamento e persistenza.
E loro, cosa ne dicono?
Uno dei modi migliori per capire com’è la vita di chi ha fatto significativi passi avanti sulla strada del ricovero, è chiederglielo direttamente. Così 2 ricercatori svedesi hanno chiesto a 14 donne che avevano intrapreso un percorso di ricovero, e che erano a buon punto, di sottoporsi ad un’intervista relativa alla loro propria percezione del “ricovero”. (Bjork & Alstrom, 2006). Le 14 donne in questione avevano tutte un’età compresa tra i 22 e i 34 anni, e si erano ammalate di DCA dai 2 al 12 anni prima. 4 di queste donne erano affette da anoressia, 4 da bulimia e 6 da DCAnas.
Prima che i ricercatori iniziassero a raccogliere le interviste, fecero immediatamente un’osservazione: tutte le partecipanti allo studio erano molto pronte e contente di condividere i loro pensieri e le loro sensazioni a proposito del “ricovero”. Molte di loro avevano un sacco di cose da dire, ed era così possibile raccogliere un sacco di materiale. Alcune di loro, tuttavia, avevano dato delle risposte piuttosto stringate: vivevano la vita che erano riuscite a riconquistare, e non avevano voglia di pensare nuovamente a quel DCA che gliel’aveva devastata.
Le frasi di queste ragazze si commentano da sole. Giusto per citarne qualcuna che quoto in pieno:
“Cerco di fare le cose per il mio bene in un altro modo, credo. Anche quando restringevo l’alimentazione mi sembrava di farlo per il mio bene, ma questa era solo una bugia derivata dall’anoressia. Adesso lavoro per la mia salute, per me stessa. Non vorrei sembrare un’egoista, una che si mette sempre al primo posto e pensa di avere ogni diritto del mondo, è che, semplicemente, cerco di ascoltarmi di più. Mi do tregua, tempo per respirare. Per esempio, se un giorno sono stanca e ho soltanto voglia di sedermi sul divano e leggere un libro, mi do il permesso di farlo, non come prima che dovevo essere sempre al pezzo.” (Novaly)
“Sì, ho accettato il mio corpo. Il che non significa che lo amo. Non mi piaccio fisicamente, ma accetto di essere così perché è quello che mi serve per riuscire a vivere a pieno la mia vita. Il mio corpo è sano e lavora, e questo è quanto. Ecco cosa penso. Non è il corpo che vorrei, ma per rendermi funzionale deve essere così, e dunque così sia.” (Haley)
“Ho ricominciato a lavorare per bene, ad uscire con gli amici, a dedicarmi allo sport… insomma, pian piano mi sono ripresa tutte le cose che mi piacciono e dalle quali con l’anoressia mi ero allontanata. Sto vivendo una vita di qualità. Sono ancora vulnerabile ai pensieri del DCA, però sono consapevole che sono tali e riesco a tenergli testa, cosicché continuo ad alimentarmi adeguatamente, e a fare tutto ciò che rende la mia vita degna d’essere chiamata tale. Ci sarà sempre qualcosa dell’anoressia in me, ma io sarò più forte di lei e i suoi pensieri li ricaccerò in un angolino senza più permettergli di affiorare e di condizionare questa vita di qualità che ho faticosamente ricostruito.” (Andrea)
I ricercatori concludono:
“Riguardo alle loro vite quotidiane attuali, le partecipanti allo studio esprimono speranza, consapevolezza, determinazione, e un senso di libertà. È chiaro che riescono a discernere la loro vita presente rispetto alla loro vita passata nei momenti peggiori del DCA. Il “ricovero” per queste donne è sinonimo di affrontare quotidianamente il DCA che in precedenza aveva riempito le loro vite, alimentandosi correttamente in maniera costante, e trovando altri interessi in modo da non identificarsi più nel DCA stesso. Sono donne che combattono per essere sane, sia fisicamente che psicologicamente. Anche se sono lucidamente consapevoli che le ricadute possono essere dietro l’angolo e che c’è da tenere sempre alta la guardia, sanno che non torneranno più ad una condizione di sudditanza nei confronti del DCA. E lo sanno perché adesso hanno raggiunto un’ottima qualità della vita, e si rendono conto che vale davvero la pena preservarla.”
(mia traduzione)
Concordo. In pieno.
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venerdì 24 gennaio 2014
Definizione di "ricovero"/3: Cosa contribuisce al ricovero/remissione di un DCA?
Negli ultimi 2 post ho parlato di come gli psicoterapeuti definiscono il “ricovero” e di come lo fanno le persone affette da DCA. Oggi voglio prendere i considerazione quali sono i fattori predittivi l’esito del “ricovero” in un DCA.
Premessa. Quando scriverò dei fattori predittivi di cattivo esito del “ricovero”, è possibile che qualcuna di voi ci si riconosca, e si scoraggi. “Veggie sta forse dicendo che non riuscirò mai a stare meglio?”. NO. Non sto assolutamente dicendo questo. Io sono dell’idea che CHIUNQUE, con il giusto supporto psicoterapeutico e nutrizionale, ma soprattutto con tanta forza di volontà, possa fare enormi passi avanti sulla strada del ricovero. Tutte noi – tutte – abbiamo fattori predittivi sia positivi che negativi in merito all’esito del “ricovero”. Per cui, riconoscersi addosso qualche fattore predittivo negativo non significa assolutamente che non possiate stare meglio, significa semplicemente che, in media, le persone che hanno presentato quelle caratteristiche hanno avuto più difficoltà nel loro percorso di ricovero. Ma la media è un fattore statistico, non ha affatto valore assoluto. Il vostro destino non sta scritto da nessuna parte, siete voi che ce lo create quotidianamente: con il giusto supporto, la psicoterapia, l’ “equilibrio alimentare” e soprattutto con tutto il vostro impegno e olio di gomito, potrete sicuramente arrivare ad avere una qualità della vita sempre migliore. Per cui, non scoraggiatevi e soprattutto non fate assurde previsioni sull’esito del vostro percorso di ricovero basandovi unicamente su quello che sto per scrivere: piuttosto, se vi rendete conto di avere qualche fattore predittivo negativo, utilizzatelo come spunto per lavorarci su durante le sedute di psicoterapia.
*Fine del predicozzo / Inizia il post vero e proprio*
Fattori ponderali e alimentari
La maggior parte della letteratura relativa ai fattori che influenzano il “ricovero” è stata ricavata su persone affette da anoressia. Ho trovato solo 2 studi inerenti la bulimia, ma non identificano alcun vero criterio predittivo l’esito del “ricovero” (Keel & Mitchell, 1997). Per cui, leggendo questo post tenete conto che parlo di dati estrapolati da studi condotti sull’anoressia.
Diagnosi precoce. In numerosi studi, una breve durata della malattia e un B.M.I. nel range del normopeso al momento della diagnosi sembrano essere fattori predittivi positivi del successo di un percorso di ricovero. (Ovvio che questa sia una variabile importante, è la scoperta dell’acqua calda.)
Recupero ponderale adeguato. In uno studio condotto su 212 adolescenti ospedalizzate per anoressia in Europa, i ricercatori hanno trovato che circa la metà andava incontro ad una seconda ospedalizzazione (Steinhausen et al., 2008). Basandosi sui dati, hanno identificato 5 fattori predittivi di riospedalizzazione in circa 2/3 delle pazienti: comorbidità con altre patologie psichiatriche, esordio del DCA in tenera età, iperattività, basso peso corporeo raggiunto, basso B.M.I. alla dimissione dal primo ricovero ospedaliero.
L’importanza di recuperare del peso è stata sottolineata anche in altri studi. In un follow-up dopo 21 anni di 84 donne che erano state ospedalizzate per anoressia, il 40% erano riuscite ad ottenere una remissione completa, il 20% alternavano periodi di remissione a ricadute, e il 26% erano acorda infognate nella malattia. (Le restanti, 14%, erano decedute). In questo caso, i fattori predittivi l’esito del percorso di ricovero erano rappresentati da: durata della malattia, B.M.I., sottotipo I o II di anoressia, severità dei sintomi psicologici, severità dei problemi relazionali, età d’esordio dell’anoressia, peso riacquistato.
Un altro studio inglese condotto su 22 donne ospedalizzate per anoressia ha rilevato che, effettivamente, riuscire a ritornare al proprio set-point fisiologico di peso corporeo rappresenta un element che evita successive riospedalizzazioni, e che aiuta nella remissione. (Baran, Weltzin & Kaye, 1995)
Varietà alimentare. I ricercatori hanno trovato che tanto maggiore è la varietà di cibi che una persona affetta da anoressia riesce a tornare a mangiare, tanto minore è la frequenza di ricadute. (Schebendach et al., 2008). Le 47 donne seguite in questo studio erano state ospedalizzate all’EDU del New York State Psychiatric Institute alla Columbia University. Dopo aver raggiunto un B.M.I. pari a 18 (il minimo del normopeso), alle 47 donne è stato fatto scrivere un “diario alimentare” per una settimana, quindi sono state seguite per un anno. A questo punto, si è visto che le donne che avevano una dieta più varia erano più avanti nel loro percorso di ricovero rispetto a quelle che mangiavano sempre i soliti poco vari cibi, a parità di calorie assunte.
Fattori psicologici
Non soltanto i fattori relativi al recupero ponderale e all’alimentazione fanno la differenza nel percorso di ricovero, ci sono anche differenze individuali sul piano caratteriale/psicologico che condizionano il percorrere la strada del ricovero.
Perfezionismo, disistima e bisogno di controllo. In uno studio condotto su 26 donne ricoverate in un ospedale francese per anoressia, i ricercatori hanno somministrato loro un questionario relativo ai DCA, e le hannoo seguite per circa 8 – 10 anni. (Bizeul, Sadowsky & Rigaud, 2001). Metà delle donne ha ottenuto una remissione dell’anoressia durante il periodo di follow up, l’altra metà non c’è riuscita. In questo studio, nella fattispecie, i ricercatori hanno definito “ricovero” il recupero del proprio set-point fisiologico di peso corporeo, la presenza di ciclo mestruale regolare, l’assenza dei comportamenti alimentari tipici del DCA per almeno 2 anni consecutivi, autonomia dalla famiglia, recupero di una buona qualità della vita.
I ricercatori hanno notato che le donne che rispondendo al questionario si riconoscevano caratteristiche quali il perfezionismo, la disistima e il bisogno di controllo, ma anche la difficoltà nelle relazioni interpersonali e una scarsa interocezione erano quelle che raggiungevano risultati più scarsi in termini di “ricovero”. Quando i ricercatori hanno preso in considerazione questi parametri, tuttavia, hanno notato che solo il perfezionismo, la disistima e il bisogno di controllo hanno effettivamente un valore predittivo negativo sull’esito del ricovero.
Supporto. In uno studio retrospettivo qualitativo condotto su 69 donne in Nuova Zelanda, i ricercatori hanno chiesto alle persone esaminate quali ritenevano fossero i fattori “sociali” che le avevano aiutate a stare meglio mentre percorrevano la strada del ricovero. Il 90% delle intervistate ha risposto “familiari” e/o “amici”. Altri fattori considerati un importante aiuto nel percorrere la strada del ricovero sono stati (in ordine d’importanza decrescente, secondo le percentuali riportate dallo studio in questione): crescita/maturazione, scoperta di altri interessi, psicoterapia, acquisizione di autonomia, lavoro, sport, supporto di altre persone che stavano combattendo contro il DCA, farmaci, gravidanza, il proprio partner.
Al di là della singola cosa, tutte le donne concordavano nel dire che un adeguato supporto da parte degli altri era stato un elemento molto importante nel loro percorso di ricovero. Chi fossero le persone supportive – amici, familiari, psicoterapeuti, partner – sembrava essere meno importante del supporto in sé per sé. Inoltre, un altro fondamentale aspetto del percorso di ricovero, a detta dei soggetti esaminati, stava nel riuscire a trovare altri interessi al di fuori dell’anoressia.
E i ricercatori sottolineano proprio questo aspetto alla fine dello studio:
“Il punto di forza e, allo stesso tempo, il punto di debolezza di questo studio consiste nel fatto che è filtrato esclusivamente dalla prospettiva delle pazienti. Pazienti che crescono, fanno nuove esperienze di vita, si aprono a nuovi interessi, e contemporaneamente grazie alla psicoterapia si guardano dentro cercando d’individuare le cause che le hanno portate a sviluppare il loro DCA. […] La prospettiva delle pazienti, unita ai dati clinici, ci permette di ricavare una sorta di romanzo, e di avere una ricca comprensione dell’eziologia e dei fattori che contribuiscono all’esito positivo di un percorso di ricovero dall’anoressia.”
(mia traduzione)
(…CONTINUA…)
Premessa. Quando scriverò dei fattori predittivi di cattivo esito del “ricovero”, è possibile che qualcuna di voi ci si riconosca, e si scoraggi. “Veggie sta forse dicendo che non riuscirò mai a stare meglio?”. NO. Non sto assolutamente dicendo questo. Io sono dell’idea che CHIUNQUE, con il giusto supporto psicoterapeutico e nutrizionale, ma soprattutto con tanta forza di volontà, possa fare enormi passi avanti sulla strada del ricovero. Tutte noi – tutte – abbiamo fattori predittivi sia positivi che negativi in merito all’esito del “ricovero”. Per cui, riconoscersi addosso qualche fattore predittivo negativo non significa assolutamente che non possiate stare meglio, significa semplicemente che, in media, le persone che hanno presentato quelle caratteristiche hanno avuto più difficoltà nel loro percorso di ricovero. Ma la media è un fattore statistico, non ha affatto valore assoluto. Il vostro destino non sta scritto da nessuna parte, siete voi che ce lo create quotidianamente: con il giusto supporto, la psicoterapia, l’ “equilibrio alimentare” e soprattutto con tutto il vostro impegno e olio di gomito, potrete sicuramente arrivare ad avere una qualità della vita sempre migliore. Per cui, non scoraggiatevi e soprattutto non fate assurde previsioni sull’esito del vostro percorso di ricovero basandovi unicamente su quello che sto per scrivere: piuttosto, se vi rendete conto di avere qualche fattore predittivo negativo, utilizzatelo come spunto per lavorarci su durante le sedute di psicoterapia.
*Fine del predicozzo / Inizia il post vero e proprio*
Fattori ponderali e alimentari
La maggior parte della letteratura relativa ai fattori che influenzano il “ricovero” è stata ricavata su persone affette da anoressia. Ho trovato solo 2 studi inerenti la bulimia, ma non identificano alcun vero criterio predittivo l’esito del “ricovero” (Keel & Mitchell, 1997). Per cui, leggendo questo post tenete conto che parlo di dati estrapolati da studi condotti sull’anoressia.
Diagnosi precoce. In numerosi studi, una breve durata della malattia e un B.M.I. nel range del normopeso al momento della diagnosi sembrano essere fattori predittivi positivi del successo di un percorso di ricovero. (Ovvio che questa sia una variabile importante, è la scoperta dell’acqua calda.)
Recupero ponderale adeguato. In uno studio condotto su 212 adolescenti ospedalizzate per anoressia in Europa, i ricercatori hanno trovato che circa la metà andava incontro ad una seconda ospedalizzazione (Steinhausen et al., 2008). Basandosi sui dati, hanno identificato 5 fattori predittivi di riospedalizzazione in circa 2/3 delle pazienti: comorbidità con altre patologie psichiatriche, esordio del DCA in tenera età, iperattività, basso peso corporeo raggiunto, basso B.M.I. alla dimissione dal primo ricovero ospedaliero.
L’importanza di recuperare del peso è stata sottolineata anche in altri studi. In un follow-up dopo 21 anni di 84 donne che erano state ospedalizzate per anoressia, il 40% erano riuscite ad ottenere una remissione completa, il 20% alternavano periodi di remissione a ricadute, e il 26% erano acorda infognate nella malattia. (Le restanti, 14%, erano decedute). In questo caso, i fattori predittivi l’esito del percorso di ricovero erano rappresentati da: durata della malattia, B.M.I., sottotipo I o II di anoressia, severità dei sintomi psicologici, severità dei problemi relazionali, età d’esordio dell’anoressia, peso riacquistato.
Un altro studio inglese condotto su 22 donne ospedalizzate per anoressia ha rilevato che, effettivamente, riuscire a ritornare al proprio set-point fisiologico di peso corporeo rappresenta un element che evita successive riospedalizzazioni, e che aiuta nella remissione. (Baran, Weltzin & Kaye, 1995)
Varietà alimentare. I ricercatori hanno trovato che tanto maggiore è la varietà di cibi che una persona affetta da anoressia riesce a tornare a mangiare, tanto minore è la frequenza di ricadute. (Schebendach et al., 2008). Le 47 donne seguite in questo studio erano state ospedalizzate all’EDU del New York State Psychiatric Institute alla Columbia University. Dopo aver raggiunto un B.M.I. pari a 18 (il minimo del normopeso), alle 47 donne è stato fatto scrivere un “diario alimentare” per una settimana, quindi sono state seguite per un anno. A questo punto, si è visto che le donne che avevano una dieta più varia erano più avanti nel loro percorso di ricovero rispetto a quelle che mangiavano sempre i soliti poco vari cibi, a parità di calorie assunte.
Fattori psicologici
Non soltanto i fattori relativi al recupero ponderale e all’alimentazione fanno la differenza nel percorso di ricovero, ci sono anche differenze individuali sul piano caratteriale/psicologico che condizionano il percorrere la strada del ricovero.
Perfezionismo, disistima e bisogno di controllo. In uno studio condotto su 26 donne ricoverate in un ospedale francese per anoressia, i ricercatori hanno somministrato loro un questionario relativo ai DCA, e le hannoo seguite per circa 8 – 10 anni. (Bizeul, Sadowsky & Rigaud, 2001). Metà delle donne ha ottenuto una remissione dell’anoressia durante il periodo di follow up, l’altra metà non c’è riuscita. In questo studio, nella fattispecie, i ricercatori hanno definito “ricovero” il recupero del proprio set-point fisiologico di peso corporeo, la presenza di ciclo mestruale regolare, l’assenza dei comportamenti alimentari tipici del DCA per almeno 2 anni consecutivi, autonomia dalla famiglia, recupero di una buona qualità della vita.
I ricercatori hanno notato che le donne che rispondendo al questionario si riconoscevano caratteristiche quali il perfezionismo, la disistima e il bisogno di controllo, ma anche la difficoltà nelle relazioni interpersonali e una scarsa interocezione erano quelle che raggiungevano risultati più scarsi in termini di “ricovero”. Quando i ricercatori hanno preso in considerazione questi parametri, tuttavia, hanno notato che solo il perfezionismo, la disistima e il bisogno di controllo hanno effettivamente un valore predittivo negativo sull’esito del ricovero.
Supporto. In uno studio retrospettivo qualitativo condotto su 69 donne in Nuova Zelanda, i ricercatori hanno chiesto alle persone esaminate quali ritenevano fossero i fattori “sociali” che le avevano aiutate a stare meglio mentre percorrevano la strada del ricovero. Il 90% delle intervistate ha risposto “familiari” e/o “amici”. Altri fattori considerati un importante aiuto nel percorrere la strada del ricovero sono stati (in ordine d’importanza decrescente, secondo le percentuali riportate dallo studio in questione): crescita/maturazione, scoperta di altri interessi, psicoterapia, acquisizione di autonomia, lavoro, sport, supporto di altre persone che stavano combattendo contro il DCA, farmaci, gravidanza, il proprio partner.
Al di là della singola cosa, tutte le donne concordavano nel dire che un adeguato supporto da parte degli altri era stato un elemento molto importante nel loro percorso di ricovero. Chi fossero le persone supportive – amici, familiari, psicoterapeuti, partner – sembrava essere meno importante del supporto in sé per sé. Inoltre, un altro fondamentale aspetto del percorso di ricovero, a detta dei soggetti esaminati, stava nel riuscire a trovare altri interessi al di fuori dell’anoressia.
E i ricercatori sottolineano proprio questo aspetto alla fine dello studio:
“Il punto di forza e, allo stesso tempo, il punto di debolezza di questo studio consiste nel fatto che è filtrato esclusivamente dalla prospettiva delle pazienti. Pazienti che crescono, fanno nuove esperienze di vita, si aprono a nuovi interessi, e contemporaneamente grazie alla psicoterapia si guardano dentro cercando d’individuare le cause che le hanno portate a sviluppare il loro DCA. […] La prospettiva delle pazienti, unita ai dati clinici, ci permette di ricavare una sorta di romanzo, e di avere una ricca comprensione dell’eziologia e dei fattori che contribuiscono all’esito positivo di un percorso di ricovero dall’anoressia.”
(mia traduzione)
(…CONTINUA…)
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venerdì 17 gennaio 2014
Definizione di "ricovero"/2: Come definiscono il ricovero coloro che hanno un DCA?
Nel post della settimana scorsa ho parlato di come il “ricovero” da un DCA viene definito dagli psicoterapeuti: penso che siano stati fatti col tempo un sacco di passi avanti nel comprendere cosa significhi il termine “ricovero” (remissione/guarigione) da un punto di vista prettamente scientifico, dato che attualmente gli psicoterapeuti sono consapevoli che il concetto di “ricovero” è molto più esteso del semplice riprendere a mangiare normalmente e riacquistare il peso perso. Certo, questa è una parte del “ricovero”, ma non lo rappresenta assolutamente in toto.
Quando si parla di “ricovero”, però, non si può considerare solo il punto di vista della scienza: è parlando con le persone che hanno/stanno combattendo un DCA che è possibile capire cosa significhi per loro il ricovero in termini di miglioramento della qualità della vita, funzionamento psicosociale, ricadute, e così via. Alcuni ricercatori, perciò, per definire il “ricovero” hanno deciso di – semplicemente – parlare con delle ragazze affette da DCA.
Studi di questo tipo sono ovviamente qualitativi, e basati su ampie interviste delle ragazze in questione. Ora, devo ammettere che io in genere sono più per il quantitativo che non per il qualitativo. Mi piacciono i numeri e i dati concreti. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che è ben difficile, se non impossibile, dare numeri precisi quando si parla di un qualcosa come il ricovero da un DCA. Per cui, credo sia corretto utilizzare questa tipologia di studi per un post che tratta del ricovero dal punto di vista delle persone affette da DCA.
Raggiungere il "ricovero"
Uno studio del 2004 pubblicato in “Qualitative Health Research” considerava non soltanto la definizione di “ricovero” in sè per sè, ma anche come questa cambiava nei pensieri delle ragazze affette da DCA man mano che cominciavano a stare meglio (D’Abundo & Chally, 2004). Per alcune persone, ammettere la gravità della propria condizione e la necessità d’iniziare a combattere contro il DCA rappresentava un vero e proprio punto di svolta, dicono gli autori dello studio:
“Per alcune, il riconoscimento della gravità della malattia è avvenuto in seguito ad un evento critico che ha aperto loro gli occhi sulla realtà. Di fronte ad un ricovero ospedaliero, una delle ragazze intervistate ha detto: “Io ci lavoro in ospedale, faccio l’infermiera, non ero pronta ad essere la paziente”. Asseriva che avrebbe preferito cambiare le sue abitudini alimentari piuttosto che far venire a conoscenza del DCA i suoi colleghi. Riconoscere la gravità della malattia significa anche rendersi conto di quali sono le conseguenze negative che questa ha sulla propria salute fisica e mentale. Le ragazze intervistate si sono rese conto che le conseguenze di un DCA includono l’avere un aspetto fisico peggiore, l’avere sempre freddo, il non riuscire a mangiare in presenza di altre persone, l’avere problemi di fertilità, l’avere restrizioni o abbuffate, il sentirsi spesso asteniche, il non riuscire a pensare chiaramente, il non avere una vita sociale. Le ragazze intervistate hanno detto anche di “essere stufe” di tutto quello che il DCA aveva portato nelle loro vite.”
(mia traduzione)
Molte delle ragazze intervistate definiscono l’inizio del proprio “ricovero” il ricominciare ad uscire con gli amici, il ricominciare a studiare/lavorare, e l’avere di nuovo un po’ di vita sociale: la ricostruzione delle relazioni. Ciò nonostante, tutte le ragazze intervistate dicono di non aver superato completamente il proprio DCA. È sempre in un qualche recesso della loro mente, e devono comunque combattere quotidianamente per tenere a bada certi comportamenti e pensieri.
Un altro studio sempre relativo a donne che parlano del loro “ricovero” dall’anoressia, è centrato sulla tematica del “Riappropriarsi della Vera Se Stessa” nel momento in cui viene intrapreso un percorso di ricovero (Lamoureaux & Bottorff, 2005) Percorrere la strada del ricovero non è semplice, né rapido, né costante. Una delle intervistate dice:
“Questo è ciò che ha caratterizzato la mia battaglia contro l’anoressia: periodi di remissione alternati a ricadute. Mi sentivo… come se, andando avanti, m’introducessi in un territorio sconosciuto… in un’identità sconosciuta… in dei comportamenti che non mi erano affatto familiari… per cui, non era una passeggiata di salute. Trovavo più confortante l’anoressia, sebbene fossi consapevole della malattia, perché anche se mi distruggeva, per lo meno non c’era niente di nuovo, la restrizione alimentare era una strada che conoscevo benissimo, e questo mi rassicurava. Lasciare tutto questo mi faceva sentire estremamente vulnerabile. Ecco da dove veniva la mia paura: da questa sensazione di vulnerabilità.”
(mia traduzione)
Definire il “ricovero”
Capire come avviene il processo di ricovero è ovviamente utile, ma questo non ci dice che cos’è il “ricovero”. E, soprattutto, non ci dice se la percezione che hanno le persone malate di DCA del “ricovero” corrisponde o meno alle definizioni date dalla scienza. Fortunatamente, esiste uno studio che si occupa proprio di questo. La prima ricercatrice che ha cercato di capire cosa fosse il “ricovero” per le persone affette da DCA è Greta Noordenbos, della Leiden University in Olanda.
Il primo step del suo studio consisteva nel porre 4 domande a delle ragazze considerate completamente “ricoverate” (guarite) dall’anoressia/bulimia (Noordenbos & Seubring, 2006):
1 - Quali criteri sono per te importanti per definire il “ricovero” dall’anoressia/bulimia?
2 - Sei d’accordo con quella che è la definizione che gli psicoterapeuti danno di “ricovero”?
3 - Quali dei criteri proposti dagli psicoterpeuti hai soddisfatto al termine del tuo ultimo percorso di “ricovero”?
4 - Hai avuto ulteriori miglioramenti dopo che hai completato il tuo ultimo percorso di “ricovero”?
Utilizzando la letteratura preesistente a proposito del “ricovero” da un DCA, Noordenbos ha chiesto a ragazze affette da DCA di valutare l’importanza di 52 elementi inerenti il “ricovero”, elementi relativi ai comportamenti alimentari, all’immagine corporea, alla salute fisica, al funzionamento psicosociale, agli aspetti emozionali, e così via. Come potete vedere dalla tabella sottostante (l’ho ripresa pari-pari dallo studio in questione), a sinistra sono elencati gli elementi considerati, e a destra la percentuale di quanto le pazienti trovavano importante quell’elemento ai fini del “ricovero” dall’anoressia/bulimia (da un minimo dello 0% per elementi non importanti, a un massimo del 100% per elementi importantissimi).
(click sull'immagine per ingradire)
Un altro studio sempre condotto da Noordenbos si basava sul somministrare a ragazze “ricoverate” dal proprio DCA delle domande aperte relative a quali fossero secondo loro i fattori più importanti nel percorso di “ricovero” da un DCA (Noordenbos, 2011). Le loro risposte potevano essere distinte in alcune categorie principali, di gran lunga più ampie rispetto a quelle considerate nel precedente studio del 2006:
• Comportamento alimentare
• Attività fisica
• Immagine corporea
• Pensieri ossessivi
• Salute fisica
• Salute mentale
• Gestione delle emozioni
• Relazioni interpersonali
• Vita lavorativa
• Gestione delle comorbidità
Alcuni di questi aspetti si ritrovano nel Ricovero Olistico di cui vi parlavo nel post precedente, ecco perchè tra tutte le definizioni scientifiche di “ricovero” è quella che mi piace di più: è relativamente semplice da utilizzare, e considera aspetti del “ricovero” che chi è affetto da DCA asserisce essere importanti.
E voi, ragazze, come la pensate? Cosa significa per voi “ricovero” dall’anoressia/bulimia/binge/DCAnas?
(…CONTINUA…)
Quando si parla di “ricovero”, però, non si può considerare solo il punto di vista della scienza: è parlando con le persone che hanno/stanno combattendo un DCA che è possibile capire cosa significhi per loro il ricovero in termini di miglioramento della qualità della vita, funzionamento psicosociale, ricadute, e così via. Alcuni ricercatori, perciò, per definire il “ricovero” hanno deciso di – semplicemente – parlare con delle ragazze affette da DCA.
Studi di questo tipo sono ovviamente qualitativi, e basati su ampie interviste delle ragazze in questione. Ora, devo ammettere che io in genere sono più per il quantitativo che non per il qualitativo. Mi piacciono i numeri e i dati concreti. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che è ben difficile, se non impossibile, dare numeri precisi quando si parla di un qualcosa come il ricovero da un DCA. Per cui, credo sia corretto utilizzare questa tipologia di studi per un post che tratta del ricovero dal punto di vista delle persone affette da DCA.
Raggiungere il "ricovero"
Uno studio del 2004 pubblicato in “Qualitative Health Research” considerava non soltanto la definizione di “ricovero” in sè per sè, ma anche come questa cambiava nei pensieri delle ragazze affette da DCA man mano che cominciavano a stare meglio (D’Abundo & Chally, 2004). Per alcune persone, ammettere la gravità della propria condizione e la necessità d’iniziare a combattere contro il DCA rappresentava un vero e proprio punto di svolta, dicono gli autori dello studio:
“Per alcune, il riconoscimento della gravità della malattia è avvenuto in seguito ad un evento critico che ha aperto loro gli occhi sulla realtà. Di fronte ad un ricovero ospedaliero, una delle ragazze intervistate ha detto: “Io ci lavoro in ospedale, faccio l’infermiera, non ero pronta ad essere la paziente”. Asseriva che avrebbe preferito cambiare le sue abitudini alimentari piuttosto che far venire a conoscenza del DCA i suoi colleghi. Riconoscere la gravità della malattia significa anche rendersi conto di quali sono le conseguenze negative che questa ha sulla propria salute fisica e mentale. Le ragazze intervistate si sono rese conto che le conseguenze di un DCA includono l’avere un aspetto fisico peggiore, l’avere sempre freddo, il non riuscire a mangiare in presenza di altre persone, l’avere problemi di fertilità, l’avere restrizioni o abbuffate, il sentirsi spesso asteniche, il non riuscire a pensare chiaramente, il non avere una vita sociale. Le ragazze intervistate hanno detto anche di “essere stufe” di tutto quello che il DCA aveva portato nelle loro vite.”
(mia traduzione)
Molte delle ragazze intervistate definiscono l’inizio del proprio “ricovero” il ricominciare ad uscire con gli amici, il ricominciare a studiare/lavorare, e l’avere di nuovo un po’ di vita sociale: la ricostruzione delle relazioni. Ciò nonostante, tutte le ragazze intervistate dicono di non aver superato completamente il proprio DCA. È sempre in un qualche recesso della loro mente, e devono comunque combattere quotidianamente per tenere a bada certi comportamenti e pensieri.
Un altro studio sempre relativo a donne che parlano del loro “ricovero” dall’anoressia, è centrato sulla tematica del “Riappropriarsi della Vera Se Stessa” nel momento in cui viene intrapreso un percorso di ricovero (Lamoureaux & Bottorff, 2005) Percorrere la strada del ricovero non è semplice, né rapido, né costante. Una delle intervistate dice:
“Questo è ciò che ha caratterizzato la mia battaglia contro l’anoressia: periodi di remissione alternati a ricadute. Mi sentivo… come se, andando avanti, m’introducessi in un territorio sconosciuto… in un’identità sconosciuta… in dei comportamenti che non mi erano affatto familiari… per cui, non era una passeggiata di salute. Trovavo più confortante l’anoressia, sebbene fossi consapevole della malattia, perché anche se mi distruggeva, per lo meno non c’era niente di nuovo, la restrizione alimentare era una strada che conoscevo benissimo, e questo mi rassicurava. Lasciare tutto questo mi faceva sentire estremamente vulnerabile. Ecco da dove veniva la mia paura: da questa sensazione di vulnerabilità.”
(mia traduzione)
Definire il “ricovero”
Capire come avviene il processo di ricovero è ovviamente utile, ma questo non ci dice che cos’è il “ricovero”. E, soprattutto, non ci dice se la percezione che hanno le persone malate di DCA del “ricovero” corrisponde o meno alle definizioni date dalla scienza. Fortunatamente, esiste uno studio che si occupa proprio di questo. La prima ricercatrice che ha cercato di capire cosa fosse il “ricovero” per le persone affette da DCA è Greta Noordenbos, della Leiden University in Olanda.
Il primo step del suo studio consisteva nel porre 4 domande a delle ragazze considerate completamente “ricoverate” (guarite) dall’anoressia/bulimia (Noordenbos & Seubring, 2006):
1 - Quali criteri sono per te importanti per definire il “ricovero” dall’anoressia/bulimia?
2 - Sei d’accordo con quella che è la definizione che gli psicoterapeuti danno di “ricovero”?
3 - Quali dei criteri proposti dagli psicoterpeuti hai soddisfatto al termine del tuo ultimo percorso di “ricovero”?
4 - Hai avuto ulteriori miglioramenti dopo che hai completato il tuo ultimo percorso di “ricovero”?
Utilizzando la letteratura preesistente a proposito del “ricovero” da un DCA, Noordenbos ha chiesto a ragazze affette da DCA di valutare l’importanza di 52 elementi inerenti il “ricovero”, elementi relativi ai comportamenti alimentari, all’immagine corporea, alla salute fisica, al funzionamento psicosociale, agli aspetti emozionali, e così via. Come potete vedere dalla tabella sottostante (l’ho ripresa pari-pari dallo studio in questione), a sinistra sono elencati gli elementi considerati, e a destra la percentuale di quanto le pazienti trovavano importante quell’elemento ai fini del “ricovero” dall’anoressia/bulimia (da un minimo dello 0% per elementi non importanti, a un massimo del 100% per elementi importantissimi).
(click sull'immagine per ingradire)
Un altro studio sempre condotto da Noordenbos si basava sul somministrare a ragazze “ricoverate” dal proprio DCA delle domande aperte relative a quali fossero secondo loro i fattori più importanti nel percorso di “ricovero” da un DCA (Noordenbos, 2011). Le loro risposte potevano essere distinte in alcune categorie principali, di gran lunga più ampie rispetto a quelle considerate nel precedente studio del 2006:
• Comportamento alimentare
• Attività fisica
• Immagine corporea
• Pensieri ossessivi
• Salute fisica
• Salute mentale
• Gestione delle emozioni
• Relazioni interpersonali
• Vita lavorativa
• Gestione delle comorbidità
Alcuni di questi aspetti si ritrovano nel Ricovero Olistico di cui vi parlavo nel post precedente, ecco perchè tra tutte le definizioni scientifiche di “ricovero” è quella che mi piace di più: è relativamente semplice da utilizzare, e considera aspetti del “ricovero” che chi è affetto da DCA asserisce essere importanti.
E voi, ragazze, come la pensate? Cosa significa per voi “ricovero” dall’anoressia/bulimia/binge/DCAnas?
(…CONTINUA…)
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venerdì 10 gennaio 2014
Definizione di "ricovero"/1: Come definiscono il ricovero gli psicoterapeuti?
A partire da oggi voglio iniziare a scrivere una serie di post in merito alla definizione di “ricovero”, parola che, come avrete avuto modo di notare leggendo il mio blog, io utilizzo moltissimo. È tuttavia una parola che non ha un significato unico, un’univoca chiave di lettura, quando si parla di disturbi alimentari: c’è chi la utilizza come sinonimo di “guarigione”, chi la usa come sinonimo di “remissione”, chi la usa come sinonimo di “percorso”… per tale motivo voglio dedicare questo e i miei prossimi post alla definizione del termine “ricovero”, quali sono le varie definizioni di ricovero, e perché sono importanti. In questo primo post, inizierò col parlare di quello che gli psicoterapeuti considerano come “ricovero” (guarigione/remissione) da un DCA.
Considerato che la stragrande maggioranza delle lettrici del mio blog (a giudicare dai commenti e dalle e-mail che ricevo) hanno un DCA, o sono familiari di persone con un DCA, potrà sembrarvi strano che io voglia condurvi in una piuttosto esoterica discussione di tutte le minuzie che gli psichiatri prendono in considerazione quando parlano di “ricovero” da un DCA. Potrebbe sembrarvi a primo acchito che io voglia sottilizzare: cos’è, una questione di tempo? mi chiederete voi. Si può parlare di ricovero quando una persona non manifesta i sintomi del DCA per due settimane? Per due mesi? Per due anni? E se si arrivasse addirittura a tre anni? O se fosse un anno soltanto?
So che alcune di voi sono delle nerd delle definizioni come me, e che troveranno quindi la discussione interessante di per se stessa. Ma la maggior parte di voi immagino legga questo blog per trovare suggerimenti di auto-aiuto su come gestire le problematiche quotidiane relative al proprio DCA, su come limitare certi comportamenti tipici del DCA, su come cercare di allontanare i pensieri caratteristici del DCA, e magari arriccia il naso di fronte ad un post in cui mi metto a speculare sulle definizioni di “ricovero”. Ma, ragazze, aspettate solo un secondo. Non smettete di leggere qui, andate avanti. Perché vi accorgerete che avere un’idea più precisa delle varie definizioni di “ricovero” può essere utile per capire meglio quale linea terapeutica può essere più efficace da intraprendere per ciascuna.
Sarebbe meraviglioso se ogni qualsiasi ragazza affetta da un DCA ne riemergesse ritrovando una totale naturalezza nell’alimentarsi, eliminando ogni problematica relazionale, e amando il proprio corpo in tutto e per tutto, ma questa semplicemente non è la realtà. La realtà è che le persone che sviluppano un DCA costituiscono un gruppo estremamente eterogeneo, e altrettanto eterogeneo perciò non può che essere il ricovero dal DCA stesso.
L’obiettivo nel dare una definizione di “ricovero” nel senso prettamente scientifico del termine è cercare di capire quali sono gli elementi che permettono a chi ha un DCA di stare meglio (e anche ovviamente quali sono quelli che viceversa non lo permettono), se c’è qualche particolare fattore che è cruciale nello stare meglio, se ci sono fattori opzionali, e perché.
Detto questo, arriviamo al dunque. (Per chi, come me, è affetta da DCNnas – Disturbo del Comportamento Nerd Non Altrimenti Specificato, vada pure tranquillamente avanti. Per le altre: munitevi di bombole dell’ossigeno, e buona immersione!)
Criterio Morgan-Russell
Il primissimo tentativo di definire il “ricovero” da un DCA è stato fatto nel 1975 (in quegli anni l’anoressia era l’unico DCA considerato in quanto tale nel DSM!) dagli psicologi britannici Morgan e Russel, ed è stato pubblicato su “Psychological Medicine”. I dati da loro elaborati per definire il “ricovero” (che hanno appunto preso da loro il nome di “Criterio Morgan-Russell”) consideravano 14 differenti fattori, dal lavoro svolto, alle relazioni psicosociali, al peso corporeo, alla presenza o meno del ciclo mestruale. Per semplicità tuttavia, Morgan e Russell fecero riferimento soltanto al peso corporeo e alla presenza/assenza del ciclo: le pazienti che ottenevano i migliori risultati in termini “ricovero” dal DCA erano coloro il cui peso corporeo era almeno l’85% del peso corporeo ideale, e che mestruavano regolarmente. Ottenevano modesti risultati le pazienti il cui peso corporeo era compreso tra il 75% e l’85% rispetto al peso corporeo ideale e che avevano un ciclo mestruale irregolare. Ottenevano scarsi risultati le pazienti il cui peso corporeo era al di sotto del 75% rispetto al peso corporeo ideale, con mestruazioni rare o assenti. Questi dati li avevano ottenuti grazie ad uno studio condotto su 41 pazienti affette da anoressia, seguite con dei follow-up per 4 anni. I criteri di Morgan-Russell sono anche definiti “Regola del tre”, che viene da loro esplicata come: “una paziente su 3 guarisce dal DCA, una paziente su 3 va incontro a continui cicli di remissione e peggioramento, una paziente su 3 rimane cronicamente malata”.
Ritengo ci siano molti problemi relativi al Criterio Morgan-Russell. Innanzitutto, la scarsità dei parametri considerati: di ogni paziente viene valutato solamente il peso corporeo e la presenza/assenza del ciclo. Un po’ pochino per definire lo stato di salute di una persona, non credete?? Inoltre, come la mettiamo quando ad avere un DCA è un maschio, una donna in menopausa, o una bambina che non ha ancora avuto il menarca? In tutti questi casi il ciclo mestruale non può ovviamente essere considerato, e il Criterio non può dunque essere applicato. In secondo luogo, come si può definire esattamente quale sia “l’85% del peso corporeo ideale” di una persona? Con questa frase, i due psicologi intendevano più semplicemente dire che la paziente non rispondeva più ai criteri di peso proposti dal DSM per l’anoressia… il che non significa che una persona sia automaticamente guarita dall’anoressia, perché io credo che una malattia mentale la si possa avere quale che sia il proprio peso. Infine, se è vero che, come dice questo Criterio, un terzo delle pazienti "guariscono", gli altri due terzi mantengono comunque in qualche modo più o meno esplicito caratteristiche comportamentali proprie del DCA. Il che non è decisamente un buon risultato.
E non sono la sola a pensarla così, come conferma uno studio eseguito circa 20 anni dopo: Ratnasuriya et al., 1991. Ci sono voluti ben 20 anni per arrivare a questo. 20 anni in cui è stato sempre utilizzato il Criterio Morgan-Russell.
Nuove definizioni
Gli psicoterapeuti non erano dunque inconsapevoli degli evidenti limiti del Criterio Morgan-Russell, ma non avendo molto materiale a disposizione su cui lavorare, c’era ben poco da fare. Tuttavia, col passare del tempo, gli psicoterapeuti hanno cominciato a considerare sempre di più l’intervallo libero da sintomi come parametro di valutazione del “ricovero” da un DCA. Si pone però un problema: per quanto tempo una persona non deve manifestare i comportamenti tipici del DCA, per poter parlare di “ricovero” dal DCA? Gli psicoterapeuti non trovano un accordo su questo, e gli studi a tal proposito si moltiplicano. Ci sono alcuni studi che parlano di “ricovero” quando la paziente non manifesta sintomi del DCA per alcuni mesi (per esempio: Herzog et al., 1999), ed altri che parlano di “ricovero” solo se i sintomi sono assenti per anni (per esempio: Von Holle et al., 2008).
Gli autori di quest’ultimo studio scrivono:
“Il tasso di ricovero [tra le pazienti affette da DCA] varia moltissimo, sia in base alla definizione di “ricovero” cui si fa riferimento, sia in base alla lunghezza dei follow-up. La lunghezza dell’osservazione in precedenti studi longitudinali è infatti estremamente variabile, in un range compreso tra 1 e 15 anni. Gli studi con follow-up a breve termine forniscono risultati migliori in termini di riuscita del ricovero, perché valutano soltanto brevi periodi in cui le pazienti non manifestano i sintomi. Tuttavia in questo modo si perdono la ciclicità e le ricadute che una persona con un DCA può presentare anche a distanza di anni ed anni.”
(mia traduzione)
Lo studio di Von Holle et al., peraltro, sembra trovare bassi tassi di ricovero: valutando l’assenza di sintomi per un periodo di 3 anni, solo il 10% delle persone affette da anoressia, e solo il 15% delle persone affette da bulimia possono dirsi in pieno ricovero. Ma, data la periodicità dei disturbi alimentari, niente esclude che anche queste persone apparentemente del tutto ricoverate abbiano avuto successivamente a quei 3 anni delle ricadute.
Le definizioni di “ricovero” aiutano anche a trovare una definizione di “ricaduta” (Olmsted, Kaplan & Rockert, 2005). In questo studio, i ricercatori cominciano a rendersi conto del fatto che, data la natura dei DCA, il “ricovero” non può essere un qualcosa di univoco, ma esiste soltanto all’interno di un certo range di variabilità. Comprendere quale sia questo range di variabilità e quali siano i più importanti markers dello stesso è cruciale per poter capire cosa succede alle persone che hanno un DCA quando intraprendono un percorso di “ricovero”.
Ricovero olistico
Una delle più omnicomprensive definizioni di “ricovero” da un DCA, viene da uno studio pubblicato nel 2010 in “Behavior Research and Therapy” (Bardone-Cone et al., 2010). In questo studio, i ricercatori hanno distinto e valutato tre diversi aspetti del “ricovero” da un DCA.
• Ricovero fisico: Non più sottopeso/sovrappeso (sulla base del diverso DCA), non più sintomi fisici propri del DCA (per esempio: non più alterazioni elettrolitiche derivanti dal vomito auto-indotto, oppure non più svenimenti causati dalla carenza alimentare)
• Ricovero comportamentale: Non più comportamenti anomali tipici del DCA per almeno 3 mesi; per esempio: non più restrizione alimentare, non più abbuffata-vomito, non più attività fisica eccessiva, non più abuso di lassativi, etc.
• Ricovero psichico: Non più sintomi psicologici condizionanti comportamenti, derivanti dal DCA; per esempio: ricominciare a fare le cose che si era smesso di fare a causa del DCA, riappropriarsi di lavoro/studio, amicizie, sport, hobby
Si parla di “pieno ricovero” quando una persona soddisfa tutti e 3 i criteri, di “parziale ricovero” quando ne soddisfa 2 su 3. Gli psicoterapeuti e i ricercatori sono consapevoli che i primi 2 criteri sono quelli che possono essere soddisfatti più rapidamente e per certi versi anche più facilmente, ma è solo quando questi 2 criteri si combinano con il terzo, che si ha un soddisfacente stato di “ricovero”.
Com’è facilmente immaginabile, i ricercatori hanno trovato che le persone “pienamente ricoverate” (cioè rispondenti a tutti e 3 i criteri sopraelencati) erano indistinguibili rispetto alle persone non affette da DCA, sia sul piano fisico che sul piano comportamentale, e abbastanza simili alle persone non affette da DCA sul piano psichico. Le persone ancora nel pieno del DCA erano indistinguibili rispetto ad altre persone malate di DCA non incluse nella ricerca, e le persone “parzialmente ricoverate” si trovavano in una via di mezzo tra gli altri 2 gruppi.
La maggior parte dei parametri utilizzati per valutare gli aspetti psichici del ricovero sono relativi a comportamenti socio-culturali (il lavoro, lo studio, la frequentazione delle amicizie, il fare sport, etc…) che un DCA fa venir meno. Penso che siano degli ottimi parametri da valutare, ma personalmente mi sarebbe piaciuto che fossero stati contemplati anche altri parametri come il bisogno di controllo, o l’ansia, o l’autostima, etc. Ritengo infatti che, non includendo parametri di questo tipo, si perda un sottogruppo di pazienti che sono quelle “un-po’-meno-che-pienamente ricoverate” e che dunque potrebbero avere ancora bisogno d’aiuto, ma poiché hanno un peso corretto, non restringono più l’alimentazione, e hanno una vita ricca di molteplici attività e relazioni amicali, potrebbero erroneamente essere considerate del tutto uscite dall’anoressia.
Fatto il mio solito appunto da bastian contraria inveterata, mi piace che Bardone-Cone e i suoi colleghi abbiano scisso i 3 differenti aspetti del “ricovero” da un DCA. Penso infatti che sia estremamente importante il sottolineare che il ricominciare a mangiare normalmente e il riacquistare un peso salutare sia solo un aspetto del “ricovero” da un DCA, e che ricominciare a vivere sotto tutti gli altri aspetti sia un passo cruciale per stare veramente meglio. Come dicevo prima, negli aspetti psichici del ricovero io incorporerei anche altri parametri, però comunque l’idea di base dei ricercatori mi piace.
Dunque, ecco cosa intendono oggi gli psicoterapeuti quando parlano di “ricovero”. Ma non sono solo gli psicoterapeuti a parlarne…
(CONTINUA…)
Considerato che la stragrande maggioranza delle lettrici del mio blog (a giudicare dai commenti e dalle e-mail che ricevo) hanno un DCA, o sono familiari di persone con un DCA, potrà sembrarvi strano che io voglia condurvi in una piuttosto esoterica discussione di tutte le minuzie che gli psichiatri prendono in considerazione quando parlano di “ricovero” da un DCA. Potrebbe sembrarvi a primo acchito che io voglia sottilizzare: cos’è, una questione di tempo? mi chiederete voi. Si può parlare di ricovero quando una persona non manifesta i sintomi del DCA per due settimane? Per due mesi? Per due anni? E se si arrivasse addirittura a tre anni? O se fosse un anno soltanto?
So che alcune di voi sono delle nerd delle definizioni come me, e che troveranno quindi la discussione interessante di per se stessa. Ma la maggior parte di voi immagino legga questo blog per trovare suggerimenti di auto-aiuto su come gestire le problematiche quotidiane relative al proprio DCA, su come limitare certi comportamenti tipici del DCA, su come cercare di allontanare i pensieri caratteristici del DCA, e magari arriccia il naso di fronte ad un post in cui mi metto a speculare sulle definizioni di “ricovero”. Ma, ragazze, aspettate solo un secondo. Non smettete di leggere qui, andate avanti. Perché vi accorgerete che avere un’idea più precisa delle varie definizioni di “ricovero” può essere utile per capire meglio quale linea terapeutica può essere più efficace da intraprendere per ciascuna.
Sarebbe meraviglioso se ogni qualsiasi ragazza affetta da un DCA ne riemergesse ritrovando una totale naturalezza nell’alimentarsi, eliminando ogni problematica relazionale, e amando il proprio corpo in tutto e per tutto, ma questa semplicemente non è la realtà. La realtà è che le persone che sviluppano un DCA costituiscono un gruppo estremamente eterogeneo, e altrettanto eterogeneo perciò non può che essere il ricovero dal DCA stesso.
L’obiettivo nel dare una definizione di “ricovero” nel senso prettamente scientifico del termine è cercare di capire quali sono gli elementi che permettono a chi ha un DCA di stare meglio (e anche ovviamente quali sono quelli che viceversa non lo permettono), se c’è qualche particolare fattore che è cruciale nello stare meglio, se ci sono fattori opzionali, e perché.
Detto questo, arriviamo al dunque. (Per chi, come me, è affetta da DCNnas – Disturbo del Comportamento Nerd Non Altrimenti Specificato, vada pure tranquillamente avanti. Per le altre: munitevi di bombole dell’ossigeno, e buona immersione!)
Criterio Morgan-Russell
Il primissimo tentativo di definire il “ricovero” da un DCA è stato fatto nel 1975 (in quegli anni l’anoressia era l’unico DCA considerato in quanto tale nel DSM!) dagli psicologi britannici Morgan e Russel, ed è stato pubblicato su “Psychological Medicine”. I dati da loro elaborati per definire il “ricovero” (che hanno appunto preso da loro il nome di “Criterio Morgan-Russell”) consideravano 14 differenti fattori, dal lavoro svolto, alle relazioni psicosociali, al peso corporeo, alla presenza o meno del ciclo mestruale. Per semplicità tuttavia, Morgan e Russell fecero riferimento soltanto al peso corporeo e alla presenza/assenza del ciclo: le pazienti che ottenevano i migliori risultati in termini “ricovero” dal DCA erano coloro il cui peso corporeo era almeno l’85% del peso corporeo ideale, e che mestruavano regolarmente. Ottenevano modesti risultati le pazienti il cui peso corporeo era compreso tra il 75% e l’85% rispetto al peso corporeo ideale e che avevano un ciclo mestruale irregolare. Ottenevano scarsi risultati le pazienti il cui peso corporeo era al di sotto del 75% rispetto al peso corporeo ideale, con mestruazioni rare o assenti. Questi dati li avevano ottenuti grazie ad uno studio condotto su 41 pazienti affette da anoressia, seguite con dei follow-up per 4 anni. I criteri di Morgan-Russell sono anche definiti “Regola del tre”, che viene da loro esplicata come: “una paziente su 3 guarisce dal DCA, una paziente su 3 va incontro a continui cicli di remissione e peggioramento, una paziente su 3 rimane cronicamente malata”.
Ritengo ci siano molti problemi relativi al Criterio Morgan-Russell. Innanzitutto, la scarsità dei parametri considerati: di ogni paziente viene valutato solamente il peso corporeo e la presenza/assenza del ciclo. Un po’ pochino per definire lo stato di salute di una persona, non credete?? Inoltre, come la mettiamo quando ad avere un DCA è un maschio, una donna in menopausa, o una bambina che non ha ancora avuto il menarca? In tutti questi casi il ciclo mestruale non può ovviamente essere considerato, e il Criterio non può dunque essere applicato. In secondo luogo, come si può definire esattamente quale sia “l’85% del peso corporeo ideale” di una persona? Con questa frase, i due psicologi intendevano più semplicemente dire che la paziente non rispondeva più ai criteri di peso proposti dal DSM per l’anoressia… il che non significa che una persona sia automaticamente guarita dall’anoressia, perché io credo che una malattia mentale la si possa avere quale che sia il proprio peso. Infine, se è vero che, come dice questo Criterio, un terzo delle pazienti "guariscono", gli altri due terzi mantengono comunque in qualche modo più o meno esplicito caratteristiche comportamentali proprie del DCA. Il che non è decisamente un buon risultato.
E non sono la sola a pensarla così, come conferma uno studio eseguito circa 20 anni dopo: Ratnasuriya et al., 1991. Ci sono voluti ben 20 anni per arrivare a questo. 20 anni in cui è stato sempre utilizzato il Criterio Morgan-Russell.
Nuove definizioni
Gli psicoterapeuti non erano dunque inconsapevoli degli evidenti limiti del Criterio Morgan-Russell, ma non avendo molto materiale a disposizione su cui lavorare, c’era ben poco da fare. Tuttavia, col passare del tempo, gli psicoterapeuti hanno cominciato a considerare sempre di più l’intervallo libero da sintomi come parametro di valutazione del “ricovero” da un DCA. Si pone però un problema: per quanto tempo una persona non deve manifestare i comportamenti tipici del DCA, per poter parlare di “ricovero” dal DCA? Gli psicoterapeuti non trovano un accordo su questo, e gli studi a tal proposito si moltiplicano. Ci sono alcuni studi che parlano di “ricovero” quando la paziente non manifesta sintomi del DCA per alcuni mesi (per esempio: Herzog et al., 1999), ed altri che parlano di “ricovero” solo se i sintomi sono assenti per anni (per esempio: Von Holle et al., 2008).
Gli autori di quest’ultimo studio scrivono:
“Il tasso di ricovero [tra le pazienti affette da DCA] varia moltissimo, sia in base alla definizione di “ricovero” cui si fa riferimento, sia in base alla lunghezza dei follow-up. La lunghezza dell’osservazione in precedenti studi longitudinali è infatti estremamente variabile, in un range compreso tra 1 e 15 anni. Gli studi con follow-up a breve termine forniscono risultati migliori in termini di riuscita del ricovero, perché valutano soltanto brevi periodi in cui le pazienti non manifestano i sintomi. Tuttavia in questo modo si perdono la ciclicità e le ricadute che una persona con un DCA può presentare anche a distanza di anni ed anni.”
(mia traduzione)
Lo studio di Von Holle et al., peraltro, sembra trovare bassi tassi di ricovero: valutando l’assenza di sintomi per un periodo di 3 anni, solo il 10% delle persone affette da anoressia, e solo il 15% delle persone affette da bulimia possono dirsi in pieno ricovero. Ma, data la periodicità dei disturbi alimentari, niente esclude che anche queste persone apparentemente del tutto ricoverate abbiano avuto successivamente a quei 3 anni delle ricadute.
Le definizioni di “ricovero” aiutano anche a trovare una definizione di “ricaduta” (Olmsted, Kaplan & Rockert, 2005). In questo studio, i ricercatori cominciano a rendersi conto del fatto che, data la natura dei DCA, il “ricovero” non può essere un qualcosa di univoco, ma esiste soltanto all’interno di un certo range di variabilità. Comprendere quale sia questo range di variabilità e quali siano i più importanti markers dello stesso è cruciale per poter capire cosa succede alle persone che hanno un DCA quando intraprendono un percorso di “ricovero”.
Ricovero olistico
Una delle più omnicomprensive definizioni di “ricovero” da un DCA, viene da uno studio pubblicato nel 2010 in “Behavior Research and Therapy” (Bardone-Cone et al., 2010). In questo studio, i ricercatori hanno distinto e valutato tre diversi aspetti del “ricovero” da un DCA.
• Ricovero fisico: Non più sottopeso/sovrappeso (sulla base del diverso DCA), non più sintomi fisici propri del DCA (per esempio: non più alterazioni elettrolitiche derivanti dal vomito auto-indotto, oppure non più svenimenti causati dalla carenza alimentare)
• Ricovero comportamentale: Non più comportamenti anomali tipici del DCA per almeno 3 mesi; per esempio: non più restrizione alimentare, non più abbuffata-vomito, non più attività fisica eccessiva, non più abuso di lassativi, etc.
• Ricovero psichico: Non più sintomi psicologici condizionanti comportamenti, derivanti dal DCA; per esempio: ricominciare a fare le cose che si era smesso di fare a causa del DCA, riappropriarsi di lavoro/studio, amicizie, sport, hobby
Si parla di “pieno ricovero” quando una persona soddisfa tutti e 3 i criteri, di “parziale ricovero” quando ne soddisfa 2 su 3. Gli psicoterapeuti e i ricercatori sono consapevoli che i primi 2 criteri sono quelli che possono essere soddisfatti più rapidamente e per certi versi anche più facilmente, ma è solo quando questi 2 criteri si combinano con il terzo, che si ha un soddisfacente stato di “ricovero”.
Com’è facilmente immaginabile, i ricercatori hanno trovato che le persone “pienamente ricoverate” (cioè rispondenti a tutti e 3 i criteri sopraelencati) erano indistinguibili rispetto alle persone non affette da DCA, sia sul piano fisico che sul piano comportamentale, e abbastanza simili alle persone non affette da DCA sul piano psichico. Le persone ancora nel pieno del DCA erano indistinguibili rispetto ad altre persone malate di DCA non incluse nella ricerca, e le persone “parzialmente ricoverate” si trovavano in una via di mezzo tra gli altri 2 gruppi.
La maggior parte dei parametri utilizzati per valutare gli aspetti psichici del ricovero sono relativi a comportamenti socio-culturali (il lavoro, lo studio, la frequentazione delle amicizie, il fare sport, etc…) che un DCA fa venir meno. Penso che siano degli ottimi parametri da valutare, ma personalmente mi sarebbe piaciuto che fossero stati contemplati anche altri parametri come il bisogno di controllo, o l’ansia, o l’autostima, etc. Ritengo infatti che, non includendo parametri di questo tipo, si perda un sottogruppo di pazienti che sono quelle “un-po’-meno-che-pienamente ricoverate” e che dunque potrebbero avere ancora bisogno d’aiuto, ma poiché hanno un peso corretto, non restringono più l’alimentazione, e hanno una vita ricca di molteplici attività e relazioni amicali, potrebbero erroneamente essere considerate del tutto uscite dall’anoressia.
Fatto il mio solito appunto da bastian contraria inveterata, mi piace che Bardone-Cone e i suoi colleghi abbiano scisso i 3 differenti aspetti del “ricovero” da un DCA. Penso infatti che sia estremamente importante il sottolineare che il ricominciare a mangiare normalmente e il riacquistare un peso salutare sia solo un aspetto del “ricovero” da un DCA, e che ricominciare a vivere sotto tutti gli altri aspetti sia un passo cruciale per stare veramente meglio. Come dicevo prima, negli aspetti psichici del ricovero io incorporerei anche altri parametri, però comunque l’idea di base dei ricercatori mi piace.
Dunque, ecco cosa intendono oggi gli psicoterapeuti quando parlano di “ricovero”. Ma non sono solo gli psicoterapeuti a parlarne…
(CONTINUA…)
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venerdì 3 gennaio 2014
Diete e anoressia
Uno dei tanto classici quanto falsi luoghi comuni sull’anoressia, è che essa rappresenta il risultato di una dieta andata a finire male. Okay, dato che la maggior parte della gente pensa che l’anoressia sia la conseguenza di una dieta degenerata, vediamo un po’ di sfatare questo mito. E non semplicemente con il mio parere che, opinabile per definizione, ha una validità estremamente limitata, ma con l’aiuto di uno studio scientifico condotto da alcuni ricercatori finlandesi nel 2010.
Tanto per cominciare, immaginatevi due ipotetiche adolescenti: Adolescente A e Adolescente B. Entrambe le adolescenti “fanno una dieta”. Il che potrebbe significare che vogliono perdere qualche chilo, oppure che vogliono eliminare i fuoripasto e mangiare in maniera salutare, oppure che vogliono fare più attività fisica. A prescindere dal perché, le due ragazze iniziano a ridurre l’alimentazione in quantità e qualità. Adolescente A si comporta come la stragrande maggioranza delle persone che decidono di “mettersi a dieta”: un po’ riesce a seguirla, un po’ non ci riesce. Perde qualche chilo, poi lo riprende. In certi momenti fa più sport, in altri ne fa di meno. Dopo un po’ si annoia, e lascia perdere. Insomma, alla fin fine sta comunque bene. Per Adolescente B, invece, le cose vanno diversamente: si ammala di anoressia.
Le motivazioni tali per cui una persona sviluppa un DCA sono estremamente numerose nonché variabili da individuo ad individuo, poiché ogni persona ha un differente patrimonio genetico, un differente carattere, un differente background, delle differenti esperienze di vita, che si embricano in maniera estremamente complessa tra di loro, per dare vita al DCA stesso. Per cui, la frase “L’anoressia inizia con una dieta andata a finire male” mi sembra estremamente riduttiva. Sicuramente all’esordio dell’anoressia c’è una restrizione alimentare, per cui potrebbe semmai essere più corretto il dire: “L’anoressia inizia con un bilancio energetico negativo”… ma non è questo il punto. Perché è molto più vero il contrario: la stragrande maggioranza delle diete non portano all’anoressia. Dunque, cos’è che rende una piccola percentuale di persone vulnerabili allo sviluppo di un conclamato DCA dopo un periodo di bilancio energetico negativo?
Alcuni ricercatori finlandesi, perciò, hanno deciso di provare a vedere se esistesse un modo per predire quali, tra le millemila ragazzine che “fanno la dieta”, avessero un più alto rischio di sviluppare un disturbo alimentare conclamato. Il loro studio ha dimostrato che esiste. La risposta sembra essere legata alla comprensione di quelle che sono le vere motivazioni che spingono una ragazza a restringere l’alimentazione. Se l’intraprendere un regime alimentare restrittivo è motivato da manie di controllo, ansia, ossessività, senso di colpa, difficoltà relazionali, pregressi eventi vissuti come traumatici, scarsa autostima, rabbia, etc, sarà molto facile che la persona sviluppi l’anoressia, cosa che invece non succede praticamente mai alle persone che si mettono a dieta prettamente per motivi estetici.
Questi scienziati finlandesi sono dunque partiti proprio da questa domanda: quali fattori rendono alcune adolescenti più propense a sviluppare un DCA rispetto ad altre, che pure “fanno la dieta”? Nel formulare il loro studio hanno prestato attenzione non solo alle differenze nel comportamento alimentare ma soprattutto (la parte più importante del loro studio, a mio avviso) a numerose variabili psicologiche – il che dimostra che l’anoressia non è banalmente una “dieta degenerata”, ma ci stano ben altre problematiche dietro. Insomma, per rispondere alla domanda questi scienziati hanno inizialmente reclutato 595 ragazze finlandesi di 15 anni. Tutte queste ragazze hanno risposto a dei questionari relativi alla loro passata/presente salute fisica e mentale, ai loro comportamenti, alle loro esperienze di vita, e ad alcune brevi domande relative a diete e DCA. (Isomaa et al., 2010).
128 di queste ragazze avevano comportamenti alimentari restrittivi e rispondevano a uno o più dei criteri diagnostici del DSM-IV per i DCA, per cui sono state richiamate per interviste face-to-face più dettagliate. Solo 113 delle 128 ragazze sono ritornate per sottoporsi al colloquio orale, e di queste 81 sono state considerate “a rischio sviluppo anoressia”. Soltanto 65 di queste, però, si sono presentate ai successivi follow-up. I ricercatori però non hanno condotto ulteriori indagini sulle ragazze che seguivano una dieta ma non rispondevano a nessun criterio del DSM-IV per i DCA, e non le hanno neanche sottoposte a follow-up: questo secondo me è il grosso punto debole di questo studio (anche perché le persone indagate sono rimaste solo quelle che fin dall’inizio presentavano un comportamento borderline verso il DCA, il che ha probabilmente influenzato negativamente la significatività dei loro risultati).
Ad ogni modo, con le 81 interviste orali ottenute, i ricercatori hanno suddiviso le quindicenni in 4 gruppi mutualmente esclusivi (le cui descrizioni le traduco direttamente dallo studio in questione):
A dieta per vanità (in originale: “Vanity Dieters” – mi scuso per le pessime traduzioni di questi termini, ma non esiste un diretto equivalente in italiano) (28 ragazze). Le ragazze a dieta per vanità hanno iniziato la loro dieta per ottenere un corpo più snello, più sensuale e più appetibile, potremmo dire più in linea con gli standard della società odierna. Si mettono dunque a dieta con un obiettivo ben preciso, e generalmente la loro dieta prevede l’eliminazione di cibi ad alto contenuto calorico, dei dolci, associato ad un modesto incremento dell’attività fisica.
A dieta per sovrappeso (in originale: “Overweight Dieters”) (12 ragazze). Le ragazze a dieta per sovrappeso hanno iniziato la loro dieta per cercare di evitare la comparsa di quelle patologie che tipicamente si associano al sovrappeso e all’obesità (come per esempio il Diabete Mellito di tipo II, l’ipertensione arteriosa, la sindrome metabolica, etc…). La loro dieta è moderata, e anche l’esercizio fisico è contenuto e regolare. Questo gruppo include solo e soltanto ragazze che quando si sono messe a dieta erano oggettivamente sovrappeso (B.M.I.>25).
A dieta per sconquasso emotivo (in originale: “Depressed Dieters”) (33 ragazze). Le ragazze a dieta per sconquasso emotivo hanno iniziato la loro dieta in un momento particolarmente difficile della loro vita, che le aveva emotivamente molto scosse, con l’idea che le loro problematiche avrebbero potuto migliorare perdendo del peso. La tipologia di dieta è variabile tra queste ragazze, ma nella maggior parte dei casi è caratterizzata dal saltare pasti, abbuffarsi e poi vomitare, assumere lassativi, o fare tantissima attività fisica per regolare l’apporto energetico.
A dieta per bisogno di controllo (in originale: “Controllers Dieters”) (8 ragazze). Le ragazze a dieta per bisogno di controllo forniscono proprio questa spiegazione quando vengono chieste le motivazioni per cui la dieta è stata intrapresa: perché avevano bisogno di controllare tutto, anche l’alimentazione. Nella stragrande maggioranza dei casi sono ragazze originariamente normopeso o addirittura sottopeso. La loro dieta consiste nel ridurre progressivamente quantità e variabilità degli alimenti ingeriti.
[La descrizione dell’ultima categoria mi colpisce molto perchè personalmente me la ritrovo in pieno, dal momento che la mia restrizione alimentare è stata sempre strettamente legata alla mia necessità di sentire che tenevo tutto sotto controllo, alimentazione compresa.]
Fatta questa prima suddivisione in 4 gruppi, i ricercatori hanno considerato i primi 2 separatamente dagli altri 2: ai primi 2 gruppi è stato ascritto un basso rischio di sviluppare un DCA, viceversa gli ultimi 2 gruppi sono stati definiti come ad alto rischio di DCA.
Questa suddivisione è stata confermata ad un follow-up eseguito dopo 3 anni, ad Agosto 2013. Nelle persone appartenenti ai primi 2 gruppi, quelli considerato cioè a basso rischio, solo 3 persone avevano sviluppato un DCA subclinico, e nessuna un DCA conclamato. Viceversa, negli altri 2 gruppi, ovvero quelli considerati ad alto rischio, ben 10 avevano sviluppato un DCA subclinico, e addirittura 19 avevano sviluppato un DCA conclamato. Le differenze sono evidentemente statisticamente significative: le ragazze dei 2 gruppi ad alto rischio avevano una probabilità circa 15 volte maggiore di sviluppare un DCA rispetto alle altre. Notevole, come risultato.
Gli autori dello studio concludono:
“Quel che abbiamo scoperto ha palesi implicazioni cliniche: anche il solo chiedere da parte di genitori, insegnanti, allenatori, chiunque stia quotidianamente vicino alle adolescenti, il perché si sono messe a dieta, può dare un’idea della probabilità che quella ragazza possa sviluppare un DCA. Le ragazze che si mettono a dieta perché hanno delle difficoltà nella loro vita quotidiana o delle difficoltà emotive, o che sembrano eccessivamente attratte da un bisogno di controllo, devono essere strettamente monitorate. Lo studio suggerisce inoltre che le diete seguite dalle adolescenti sono sostanzialmente innocue, se non motivate dalle caratteristiche presenti negli ultimi 2 sottogruppi.”
(mia traduzione)
Anche se personalmente non penso che le ragazze originariamente effettivamente sovrappeso che si mettono a dieta debbano essere automaticamente considerate come soggetti a basso rischio di sviluppo di un DCA (poiché io credo che se la persona ha dei vissuti emotivi pesanti o delle manie di controllo, è comunque ad alto rischio, quale che sia il suo peso di partenza), penso che comunque i risultati di questo studio siano importanti ed interessanti, perché mostrano che, appunto, l’anoressia non è la mera conseguenza di una dieta finita male, ma è piuttosto successiva a problematiche psicologiche d’altro tipo. Inoltre questo studio permette, sebbene ovviamente in maniera approssimativa, di valutare sulla base delle motivazioni alla dieta, se la ragazza è effettivamente a rischio di sviluppare un DCA, o se la sua dieta è sostanzialmente innocua.
Tanto per cominciare, immaginatevi due ipotetiche adolescenti: Adolescente A e Adolescente B. Entrambe le adolescenti “fanno una dieta”. Il che potrebbe significare che vogliono perdere qualche chilo, oppure che vogliono eliminare i fuoripasto e mangiare in maniera salutare, oppure che vogliono fare più attività fisica. A prescindere dal perché, le due ragazze iniziano a ridurre l’alimentazione in quantità e qualità. Adolescente A si comporta come la stragrande maggioranza delle persone che decidono di “mettersi a dieta”: un po’ riesce a seguirla, un po’ non ci riesce. Perde qualche chilo, poi lo riprende. In certi momenti fa più sport, in altri ne fa di meno. Dopo un po’ si annoia, e lascia perdere. Insomma, alla fin fine sta comunque bene. Per Adolescente B, invece, le cose vanno diversamente: si ammala di anoressia.
Le motivazioni tali per cui una persona sviluppa un DCA sono estremamente numerose nonché variabili da individuo ad individuo, poiché ogni persona ha un differente patrimonio genetico, un differente carattere, un differente background, delle differenti esperienze di vita, che si embricano in maniera estremamente complessa tra di loro, per dare vita al DCA stesso. Per cui, la frase “L’anoressia inizia con una dieta andata a finire male” mi sembra estremamente riduttiva. Sicuramente all’esordio dell’anoressia c’è una restrizione alimentare, per cui potrebbe semmai essere più corretto il dire: “L’anoressia inizia con un bilancio energetico negativo”… ma non è questo il punto. Perché è molto più vero il contrario: la stragrande maggioranza delle diete non portano all’anoressia. Dunque, cos’è che rende una piccola percentuale di persone vulnerabili allo sviluppo di un conclamato DCA dopo un periodo di bilancio energetico negativo?
Alcuni ricercatori finlandesi, perciò, hanno deciso di provare a vedere se esistesse un modo per predire quali, tra le millemila ragazzine che “fanno la dieta”, avessero un più alto rischio di sviluppare un disturbo alimentare conclamato. Il loro studio ha dimostrato che esiste. La risposta sembra essere legata alla comprensione di quelle che sono le vere motivazioni che spingono una ragazza a restringere l’alimentazione. Se l’intraprendere un regime alimentare restrittivo è motivato da manie di controllo, ansia, ossessività, senso di colpa, difficoltà relazionali, pregressi eventi vissuti come traumatici, scarsa autostima, rabbia, etc, sarà molto facile che la persona sviluppi l’anoressia, cosa che invece non succede praticamente mai alle persone che si mettono a dieta prettamente per motivi estetici.
Questi scienziati finlandesi sono dunque partiti proprio da questa domanda: quali fattori rendono alcune adolescenti più propense a sviluppare un DCA rispetto ad altre, che pure “fanno la dieta”? Nel formulare il loro studio hanno prestato attenzione non solo alle differenze nel comportamento alimentare ma soprattutto (la parte più importante del loro studio, a mio avviso) a numerose variabili psicologiche – il che dimostra che l’anoressia non è banalmente una “dieta degenerata”, ma ci stano ben altre problematiche dietro. Insomma, per rispondere alla domanda questi scienziati hanno inizialmente reclutato 595 ragazze finlandesi di 15 anni. Tutte queste ragazze hanno risposto a dei questionari relativi alla loro passata/presente salute fisica e mentale, ai loro comportamenti, alle loro esperienze di vita, e ad alcune brevi domande relative a diete e DCA. (Isomaa et al., 2010).
128 di queste ragazze avevano comportamenti alimentari restrittivi e rispondevano a uno o più dei criteri diagnostici del DSM-IV per i DCA, per cui sono state richiamate per interviste face-to-face più dettagliate. Solo 113 delle 128 ragazze sono ritornate per sottoporsi al colloquio orale, e di queste 81 sono state considerate “a rischio sviluppo anoressia”. Soltanto 65 di queste, però, si sono presentate ai successivi follow-up. I ricercatori però non hanno condotto ulteriori indagini sulle ragazze che seguivano una dieta ma non rispondevano a nessun criterio del DSM-IV per i DCA, e non le hanno neanche sottoposte a follow-up: questo secondo me è il grosso punto debole di questo studio (anche perché le persone indagate sono rimaste solo quelle che fin dall’inizio presentavano un comportamento borderline verso il DCA, il che ha probabilmente influenzato negativamente la significatività dei loro risultati).
Ad ogni modo, con le 81 interviste orali ottenute, i ricercatori hanno suddiviso le quindicenni in 4 gruppi mutualmente esclusivi (le cui descrizioni le traduco direttamente dallo studio in questione):
A dieta per vanità (in originale: “Vanity Dieters” – mi scuso per le pessime traduzioni di questi termini, ma non esiste un diretto equivalente in italiano) (28 ragazze). Le ragazze a dieta per vanità hanno iniziato la loro dieta per ottenere un corpo più snello, più sensuale e più appetibile, potremmo dire più in linea con gli standard della società odierna. Si mettono dunque a dieta con un obiettivo ben preciso, e generalmente la loro dieta prevede l’eliminazione di cibi ad alto contenuto calorico, dei dolci, associato ad un modesto incremento dell’attività fisica.
A dieta per sovrappeso (in originale: “Overweight Dieters”) (12 ragazze). Le ragazze a dieta per sovrappeso hanno iniziato la loro dieta per cercare di evitare la comparsa di quelle patologie che tipicamente si associano al sovrappeso e all’obesità (come per esempio il Diabete Mellito di tipo II, l’ipertensione arteriosa, la sindrome metabolica, etc…). La loro dieta è moderata, e anche l’esercizio fisico è contenuto e regolare. Questo gruppo include solo e soltanto ragazze che quando si sono messe a dieta erano oggettivamente sovrappeso (B.M.I.>25).
A dieta per sconquasso emotivo (in originale: “Depressed Dieters”) (33 ragazze). Le ragazze a dieta per sconquasso emotivo hanno iniziato la loro dieta in un momento particolarmente difficile della loro vita, che le aveva emotivamente molto scosse, con l’idea che le loro problematiche avrebbero potuto migliorare perdendo del peso. La tipologia di dieta è variabile tra queste ragazze, ma nella maggior parte dei casi è caratterizzata dal saltare pasti, abbuffarsi e poi vomitare, assumere lassativi, o fare tantissima attività fisica per regolare l’apporto energetico.
A dieta per bisogno di controllo (in originale: “Controllers Dieters”) (8 ragazze). Le ragazze a dieta per bisogno di controllo forniscono proprio questa spiegazione quando vengono chieste le motivazioni per cui la dieta è stata intrapresa: perché avevano bisogno di controllare tutto, anche l’alimentazione. Nella stragrande maggioranza dei casi sono ragazze originariamente normopeso o addirittura sottopeso. La loro dieta consiste nel ridurre progressivamente quantità e variabilità degli alimenti ingeriti.
[La descrizione dell’ultima categoria mi colpisce molto perchè personalmente me la ritrovo in pieno, dal momento che la mia restrizione alimentare è stata sempre strettamente legata alla mia necessità di sentire che tenevo tutto sotto controllo, alimentazione compresa.]
Fatta questa prima suddivisione in 4 gruppi, i ricercatori hanno considerato i primi 2 separatamente dagli altri 2: ai primi 2 gruppi è stato ascritto un basso rischio di sviluppare un DCA, viceversa gli ultimi 2 gruppi sono stati definiti come ad alto rischio di DCA.
Questa suddivisione è stata confermata ad un follow-up eseguito dopo 3 anni, ad Agosto 2013. Nelle persone appartenenti ai primi 2 gruppi, quelli considerato cioè a basso rischio, solo 3 persone avevano sviluppato un DCA subclinico, e nessuna un DCA conclamato. Viceversa, negli altri 2 gruppi, ovvero quelli considerati ad alto rischio, ben 10 avevano sviluppato un DCA subclinico, e addirittura 19 avevano sviluppato un DCA conclamato. Le differenze sono evidentemente statisticamente significative: le ragazze dei 2 gruppi ad alto rischio avevano una probabilità circa 15 volte maggiore di sviluppare un DCA rispetto alle altre. Notevole, come risultato.
Gli autori dello studio concludono:
“Quel che abbiamo scoperto ha palesi implicazioni cliniche: anche il solo chiedere da parte di genitori, insegnanti, allenatori, chiunque stia quotidianamente vicino alle adolescenti, il perché si sono messe a dieta, può dare un’idea della probabilità che quella ragazza possa sviluppare un DCA. Le ragazze che si mettono a dieta perché hanno delle difficoltà nella loro vita quotidiana o delle difficoltà emotive, o che sembrano eccessivamente attratte da un bisogno di controllo, devono essere strettamente monitorate. Lo studio suggerisce inoltre che le diete seguite dalle adolescenti sono sostanzialmente innocue, se non motivate dalle caratteristiche presenti negli ultimi 2 sottogruppi.”
(mia traduzione)
Anche se personalmente non penso che le ragazze originariamente effettivamente sovrappeso che si mettono a dieta debbano essere automaticamente considerate come soggetti a basso rischio di sviluppo di un DCA (poiché io credo che se la persona ha dei vissuti emotivi pesanti o delle manie di controllo, è comunque ad alto rischio, quale che sia il suo peso di partenza), penso che comunque i risultati di questo studio siano importanti ed interessanti, perché mostrano che, appunto, l’anoressia non è la mera conseguenza di una dieta finita male, ma è piuttosto successiva a problematiche psicologiche d’altro tipo. Inoltre questo studio permette, sebbene ovviamente in maniera approssimativa, di valutare sulla base delle motivazioni alla dieta, se la ragazza è effettivamente a rischio di sviluppare un DCA, o se la sua dieta è sostanzialmente innocua.
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