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venerdì 7 febbraio 2014
Dalla parte delle pazienti difficili
Quando ho affrontato il mio primo ricovero in una clinica specializzata per il trattamento di DCA, sono stata una vera bega per tutti: in parole povere, una rompicoglioni. Non lo dico né con vergogna e rimprovero, né con orgoglio. Ero una rompicoglioni, è semplicemente un dato di fatto. Ero ancora minorenne, e il ricovero era stato coatto, per cui io non ero assolutamente consenziente né collaborativa: non rispettavo l’ “equilibrio alimentare” che mi era stato assegnato, rispondevo in maniera maleducata ai terapeuti, facevo scherzi alla “Pranked” alle altre ragazze ricoverate, stavo sempre zitta durante la terapia di gruppo e mostravo palese disinteresse, prendevo per il culo tutti, non rispettavo le regole. Ero arrogante e strafottente. Ero convinta che avrei potuto farcela da sola a tenere testa all’anoressia, pensavo che un’alimentazione corretta fosse solo una secondarietà rispetto al trattamento psicoterapico, ho sempre tenuto un atteggiamento sgradevole e sgarbato, ero noncurante rispetto ai danni fisici dell’anoressia, e mi sentivo una straganza solo perché tra tutte le ragazze ricoverate in quel momento ero l’unica con una diagnosi di “Anoressia nervosa Sottotipo 1”, cioè prettamente restrittiva, senza mai uno sgarro, senza mai un’incrinatura al mio rigido ed egosintonico controllo.
Appunto, ero una rompicoglioni.
Ripensandoci adesso, mi dispiace di essermi comportata così nei confronti del personale della clinica, e delle altre ragazze ricoverate. Non lo meritavano. Ostentavo una gran sicurezza e sembravo la più forte e la più tosta di tutti, solo per celare il fatto che in realtà ero terrorizzata. Ero terrorizzata da tutto quanto. Mi faceva più paura l’idea di poter non avere più l’anoressia, che tutti i danni che mi procurava l’anoressia stessa. Oscillavo tra momenti in cui razionalmente riconoscevo la necessità di combattere contro l’anoressia e la consapevolezza di non poterlo fare da sola, e momenti in cui pensavo che andava bene così e che non avevo bisogno di niente e nessuno. Gli psicoterapeuti, i dietisti, le infermiere, tutto il personale della clinica, e le altre ragazze ricoverate sono rimaste prese in mezzo ad una mia guerra che era prettamente interiore. Un dietista e uno psicologo competenti ed intelligenti non la prendevano sul personale, e cercavano di tener testa alle mie stronzate. Tutti gli altri, invece, o se la sono presa perché non rientravo negli schemi e non ero collaborativa come le altre ragazze, o – suppongo – sono riuscita ad intimidirli così tanto con la mia falsa sicurezza e volitività, che mi hanno lasciata fare quello che volevo. Anoressia: 1, Veggie: 0.
Quel primo ricovero è stato sicuramente l’esperienza peggiore, tuttavia anche in seguito non sono mai stata una paziente facile, e non ho mai preteso di esserlo. Ciò detto, credo che chiunque voglia avere a che fare soltanto con “pazienti facili”, non debba lavorare nel campo dei disturbi alimentari.
Dopo quel primo disastroso ricovero, comunque, ce ne sono stati altri 4, nella medesima struttura ma dilazionati negli anni: a quel punto ero maggiorenne, e sono stata io ogni volta a richiedere il ricovero, quindi ero decisamente più collaborativa. Durante questi 4 ricoveri ho conosciuto un sacco di altre ragazze che potevano tranquillamente essere classificate come “pazienti difficili”. In effetti, conosco ben poche persone affette da un DCA che non siano state “pazienti difficili”.
I nostri modi di scatenare l’inferno, tuttavia, variano notevolmente da persona a persona. Generalizzando, ci sono ragazze apertamente difficili: quelle che si agitano, gridano, imprecano, si rifiutano di seguire le regole, dicono esplicitamente al personale di non rompere, rifiutano il cibo. Possono sembrare solo delle arroganti maleducate ma, come lo sono stata io, sono in realtà delle ragazze spaventate.
Ci sono poi invece ragazze altrettanto difficili, ma in maniera più velata, meno esplicita: quelle che se hanno difficoltà a mangiare qualcosa lo nascondono nel tovagliolo e se lo mettono in tasca, quelle che se non vogliono partecipare alla terapia di gruppo fingono interesse ma in realtà pensano a tutt’altro, quelle che dicono ai terapeuti ciò che si aspettano di sentirsi dire ma poi fanno comunque quello che vogliono.
Queste ragazze danno meno nell’occhio ma alla fine, in ambo i casi, si arriva agli psicoterapeuti che dicono: “Non sappiamo come aiutarti, non sappiamo cos’è che ti fa stare male, perché non ci parli di quelli che sono i tuoi problemi?”. E di fronte a questo interrogativo, entrambe le tipologie di “pazienti difficili” rimangono sedute in silenzio. Fissano lo psicoterapeuta con aria inespressiva, e scuotono le spalle come a volersi scrollare di dosso la domanda.
Con entrambe le tipologie di “pazienti difficili”, dopo un po’ di tempo i terapeuti iniziano a sentirsi frustrati, e alla fine se ne lavano le mani. Pensano che noi, essendo “pazienti difficili”, non ne valiamo la pena. Pensano che non valga la pena di perdere energie e tempo con noi. Sentono che non riescono ad aiutarci, e ne sono imbarazzati, o provano vergogna, o semplicemente non concepiscono il fatto che tutte le loro lauree e dottorati possano non averli comunque resi in grado di entrare nella nostra mentalità e poter essere effettivamente d’aiuto. Non vogliono avere a che fare con pazienti che sembrano accondiscenti ma che poi fanno comunque come vogliono, e men che meno con pazienti che gridano, che li insultano, che fanno le arroganti, salvo poi ricevere una telefonata dal Pronto Soccorso a mezzanotte che li informa dell’ennesima prodezza (dis)alimentare delle loro assistite.
Non dimenticherò mai la psicoterapeuta che mi scaricò dicendomi: “Tu non sei malata di anoressia, l’anoressia è solo un sintomo, una manifestazione della tua vera malattia: tu sei malata di controllo, ecco qual è il vero problema. Ma se tu per prima non sei disposta a rinunciare a questo controllo, la tua patologia cronicizzerà, ed io non posso fare niente per te.”
Lei ha mollato con me. E anche altri terapeuti, successivamente.
Loro ci rinunciano, con noi “pazienti difficili”, si arrendono. Alzano bandiera bianca.
E così noi alziamo bandiera bianca con noi stesse.
Quello che tali terapeuti non hanno mai fatto è rimanere abbastanza a lungo da capire che quando ci aggrappiamo disperatamente al nostro disturbo alimentare
per paura
o rabbia
o pura testadaggine…
… quando ci aggrappiamo disperatamente ad esso contro ogni logica e razionalità, ecco, quegli psicoterapeuti che si arrendono non sapranno mai che un giorno noi ci aggrapperemo alla strada del ricovero con altrettanta fierezza.
Non fraintendetemi, non voglio dire che bisogna essere sempre entusiaste del tipo oh-percorrere-la-strada-del-ricovero-è-una-meraviglia-assoluta!, perché è ovvio che le cose non stanno così. Spesso e volentieri percorrere la strada del ricovero è tutt’altro che semplice e divertente, ed è ben arduo affrontare la lotta quotidiana contro il DCA. Pensare che una persona possa essere sempre al 100% super-iper-motivata a combattere contro l’anoressia è semplicemente sciocco.
Ma la forza che ci vincola al nostro disturbo alimentare – contro ogni parvenza di una vita normale, anche quando dilania noi stesse e le nostre relazioni con familiari ed amici, anche quando sappiamo che potremmo morire se continuiamo a seguire il DCA – è una risorsa. Perché quella forza noi la possediamo. Dobbiamo solo direzionarla nella giusta direzione: verso la strada del ricovero.
Le caratteristiche della propria personalità, come la capacità di essere una rompicoglioni, sono in genere neutre. Sono quello che sono. È il modo in cui le utilizziamo che fa la differenza. Essere una narcisista manipolatrice non vi aiuterà a farvi un sacco di amici, ma potrebbe rendervi un’ottima politica o un’ottima CEO. La paura di staccarsi da un DCA può essere poco a poco trasformata nella paura di ricadere di nuovo nel DCA. Un rifiuto ostinato a provare qualcosa di nuovo può lasciarvi bloccate nell’anoressia per decenni O può significare che la vostra abitudine di combattere contro il DCA un giorno sarà altrettanto solida.
Fin troppe ragazze vengono tacciate di essere “pazienti difficili” e vengono mollate dai terapeuti, con conseguente chiusura al trattamento, ricaduta, e infognamento ancora peggiore nel DCA a causa del senso di fallimento provato. Non metto in dubbio che possano effettivamente essere delle “pazienti difficili”. Non nego che, per gli psicoterapeuti, lavorare con una paziente malata di anoressia/bulimia/DCAnas possa essere un compito ingrato e molto difficile. Ma quando le persone cominciano a rendersi conto di quali sono le 2 facce della medaglia dell’essere rompicoglioni, possiamo cominciare ad allontanarci dal nostro DCA. Spesso e volentieri non siamo intenzionalmente “difficili” (ehm, okay, ammetto che effettivamente in certe occasioni io ho cercato di fare la difficile…), bensì siamo confuse, e spaventate, e bloccate, e arrabbiate. Chi non sarebbe “difficile” in situazioni del genere? L’essere una “paziente difficile” da trattare non giustifica gli psicoterapeuti che se ne lavano le mani. L’essere una “paziente difficile” non dovrebbe essere una scusa per gli psicoterapeuti per rinunciare. Purtroppo troppo spesso è proprio così.
Sì, io sono stata una “paziente difficile”. Sì, mi è stato detto che ero una malata di controllo, che sarei stata una paziente cronica e al di là di ogni possibile aiuto. Sì, mi sono dovuta fare un culo come un rosone per trovare la psicologa e la dietista che facessero al mio caso, e soprattutto per combattere contro l’anoressia giorno dopo giorno, cosa che sto facendo tuttora. Sì, ci ho impiegato anni, ed anni, ed anni, ed anni. Ma adesso ho davvero una buonissima qualità della vita.
“Difficile” NON è sinonimo di “Impossibile” né di “Senza speranza” – non lo dimenticate.
Appunto, ero una rompicoglioni.
Ripensandoci adesso, mi dispiace di essermi comportata così nei confronti del personale della clinica, e delle altre ragazze ricoverate. Non lo meritavano. Ostentavo una gran sicurezza e sembravo la più forte e la più tosta di tutti, solo per celare il fatto che in realtà ero terrorizzata. Ero terrorizzata da tutto quanto. Mi faceva più paura l’idea di poter non avere più l’anoressia, che tutti i danni che mi procurava l’anoressia stessa. Oscillavo tra momenti in cui razionalmente riconoscevo la necessità di combattere contro l’anoressia e la consapevolezza di non poterlo fare da sola, e momenti in cui pensavo che andava bene così e che non avevo bisogno di niente e nessuno. Gli psicoterapeuti, i dietisti, le infermiere, tutto il personale della clinica, e le altre ragazze ricoverate sono rimaste prese in mezzo ad una mia guerra che era prettamente interiore. Un dietista e uno psicologo competenti ed intelligenti non la prendevano sul personale, e cercavano di tener testa alle mie stronzate. Tutti gli altri, invece, o se la sono presa perché non rientravo negli schemi e non ero collaborativa come le altre ragazze, o – suppongo – sono riuscita ad intimidirli così tanto con la mia falsa sicurezza e volitività, che mi hanno lasciata fare quello che volevo. Anoressia: 1, Veggie: 0.
Quel primo ricovero è stato sicuramente l’esperienza peggiore, tuttavia anche in seguito non sono mai stata una paziente facile, e non ho mai preteso di esserlo. Ciò detto, credo che chiunque voglia avere a che fare soltanto con “pazienti facili”, non debba lavorare nel campo dei disturbi alimentari.
Dopo quel primo disastroso ricovero, comunque, ce ne sono stati altri 4, nella medesima struttura ma dilazionati negli anni: a quel punto ero maggiorenne, e sono stata io ogni volta a richiedere il ricovero, quindi ero decisamente più collaborativa. Durante questi 4 ricoveri ho conosciuto un sacco di altre ragazze che potevano tranquillamente essere classificate come “pazienti difficili”. In effetti, conosco ben poche persone affette da un DCA che non siano state “pazienti difficili”.
I nostri modi di scatenare l’inferno, tuttavia, variano notevolmente da persona a persona. Generalizzando, ci sono ragazze apertamente difficili: quelle che si agitano, gridano, imprecano, si rifiutano di seguire le regole, dicono esplicitamente al personale di non rompere, rifiutano il cibo. Possono sembrare solo delle arroganti maleducate ma, come lo sono stata io, sono in realtà delle ragazze spaventate.
Ci sono poi invece ragazze altrettanto difficili, ma in maniera più velata, meno esplicita: quelle che se hanno difficoltà a mangiare qualcosa lo nascondono nel tovagliolo e se lo mettono in tasca, quelle che se non vogliono partecipare alla terapia di gruppo fingono interesse ma in realtà pensano a tutt’altro, quelle che dicono ai terapeuti ciò che si aspettano di sentirsi dire ma poi fanno comunque quello che vogliono.
Queste ragazze danno meno nell’occhio ma alla fine, in ambo i casi, si arriva agli psicoterapeuti che dicono: “Non sappiamo come aiutarti, non sappiamo cos’è che ti fa stare male, perché non ci parli di quelli che sono i tuoi problemi?”. E di fronte a questo interrogativo, entrambe le tipologie di “pazienti difficili” rimangono sedute in silenzio. Fissano lo psicoterapeuta con aria inespressiva, e scuotono le spalle come a volersi scrollare di dosso la domanda.
Con entrambe le tipologie di “pazienti difficili”, dopo un po’ di tempo i terapeuti iniziano a sentirsi frustrati, e alla fine se ne lavano le mani. Pensano che noi, essendo “pazienti difficili”, non ne valiamo la pena. Pensano che non valga la pena di perdere energie e tempo con noi. Sentono che non riescono ad aiutarci, e ne sono imbarazzati, o provano vergogna, o semplicemente non concepiscono il fatto che tutte le loro lauree e dottorati possano non averli comunque resi in grado di entrare nella nostra mentalità e poter essere effettivamente d’aiuto. Non vogliono avere a che fare con pazienti che sembrano accondiscenti ma che poi fanno comunque come vogliono, e men che meno con pazienti che gridano, che li insultano, che fanno le arroganti, salvo poi ricevere una telefonata dal Pronto Soccorso a mezzanotte che li informa dell’ennesima prodezza (dis)alimentare delle loro assistite.
Non dimenticherò mai la psicoterapeuta che mi scaricò dicendomi: “Tu non sei malata di anoressia, l’anoressia è solo un sintomo, una manifestazione della tua vera malattia: tu sei malata di controllo, ecco qual è il vero problema. Ma se tu per prima non sei disposta a rinunciare a questo controllo, la tua patologia cronicizzerà, ed io non posso fare niente per te.”
Lei ha mollato con me. E anche altri terapeuti, successivamente.
Loro ci rinunciano, con noi “pazienti difficili”, si arrendono. Alzano bandiera bianca.
E così noi alziamo bandiera bianca con noi stesse.
Quello che tali terapeuti non hanno mai fatto è rimanere abbastanza a lungo da capire che quando ci aggrappiamo disperatamente al nostro disturbo alimentare
per paura
o rabbia
o pura testadaggine…
… quando ci aggrappiamo disperatamente ad esso contro ogni logica e razionalità, ecco, quegli psicoterapeuti che si arrendono non sapranno mai che un giorno noi ci aggrapperemo alla strada del ricovero con altrettanta fierezza.
Non fraintendetemi, non voglio dire che bisogna essere sempre entusiaste del tipo oh-percorrere-la-strada-del-ricovero-è-una-meraviglia-assoluta!, perché è ovvio che le cose non stanno così. Spesso e volentieri percorrere la strada del ricovero è tutt’altro che semplice e divertente, ed è ben arduo affrontare la lotta quotidiana contro il DCA. Pensare che una persona possa essere sempre al 100% super-iper-motivata a combattere contro l’anoressia è semplicemente sciocco.
Ma la forza che ci vincola al nostro disturbo alimentare – contro ogni parvenza di una vita normale, anche quando dilania noi stesse e le nostre relazioni con familiari ed amici, anche quando sappiamo che potremmo morire se continuiamo a seguire il DCA – è una risorsa. Perché quella forza noi la possediamo. Dobbiamo solo direzionarla nella giusta direzione: verso la strada del ricovero.
Le caratteristiche della propria personalità, come la capacità di essere una rompicoglioni, sono in genere neutre. Sono quello che sono. È il modo in cui le utilizziamo che fa la differenza. Essere una narcisista manipolatrice non vi aiuterà a farvi un sacco di amici, ma potrebbe rendervi un’ottima politica o un’ottima CEO. La paura di staccarsi da un DCA può essere poco a poco trasformata nella paura di ricadere di nuovo nel DCA. Un rifiuto ostinato a provare qualcosa di nuovo può lasciarvi bloccate nell’anoressia per decenni O può significare che la vostra abitudine di combattere contro il DCA un giorno sarà altrettanto solida.
Fin troppe ragazze vengono tacciate di essere “pazienti difficili” e vengono mollate dai terapeuti, con conseguente chiusura al trattamento, ricaduta, e infognamento ancora peggiore nel DCA a causa del senso di fallimento provato. Non metto in dubbio che possano effettivamente essere delle “pazienti difficili”. Non nego che, per gli psicoterapeuti, lavorare con una paziente malata di anoressia/bulimia/DCAnas possa essere un compito ingrato e molto difficile. Ma quando le persone cominciano a rendersi conto di quali sono le 2 facce della medaglia dell’essere rompicoglioni, possiamo cominciare ad allontanarci dal nostro DCA. Spesso e volentieri non siamo intenzionalmente “difficili” (ehm, okay, ammetto che effettivamente in certe occasioni io ho cercato di fare la difficile…), bensì siamo confuse, e spaventate, e bloccate, e arrabbiate. Chi non sarebbe “difficile” in situazioni del genere? L’essere una “paziente difficile” da trattare non giustifica gli psicoterapeuti che se ne lavano le mani. L’essere una “paziente difficile” non dovrebbe essere una scusa per gli psicoterapeuti per rinunciare. Purtroppo troppo spesso è proprio così.
Sì, io sono stata una “paziente difficile”. Sì, mi è stato detto che ero una malata di controllo, che sarei stata una paziente cronica e al di là di ogni possibile aiuto. Sì, mi sono dovuta fare un culo come un rosone per trovare la psicologa e la dietista che facessero al mio caso, e soprattutto per combattere contro l’anoressia giorno dopo giorno, cosa che sto facendo tuttora. Sì, ci ho impiegato anni, ed anni, ed anni, ed anni. Ma adesso ho davvero una buonissima qualità della vita.
“Difficile” NON è sinonimo di “Impossibile” né di “Senza speranza” – non lo dimenticate.
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