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lunedì 7 febbraio 2011
Vivere nella soluzione
Ieri sera guardavo in TV un programma in cui una ragazza in terapia per alcoolismo raccontava la sua storia e l’importanza dell’auto-aiuto e del supporto reciproco trovato negli Alcoolisti Anonimi. Sebbene possa quotare in pieno l’importanza del mutuo aiuto e del sostegno tra persone che si trovano a dover affrontare uno stesso problema – se non la pensassi così, questo blog non sarebbe mai nato! – è stata un’altra la frase pronunciata da questa ragazza che ha attirato la mia attenzione:
“Non c’è cura per l’alcoolismo” ha detto “ma c’è una soluzione. Ed è quella di rimanere sobri”.
E’ veramente raro trovare una combinazione di realismo e speranza in una vasta esposizione riguardo le dipendenze, ma questa frase ha rispecchiato perfettamente il mio punto di vista in merito alla strada del ricovero dall’anoressia: non c’è una cura, ma c’è una soluzione. E la soluzione è continuare a nutrirmi seguendo il “regime alimentare” che mi ha assegnato la mia dietista, mantenendo così un peso adeguato (e per “peso adeguato” intendo dire “peso fisiologico”, lasciando un attimo da parte tutti i discorsi inerenti il BMI), evitando di restringere l’alimentazione, e cercando aiuto nel momento in cui sento che sto per avere una ricaduta.
L’altra verità è che la soluzione all’alcolismo, a un DCA, o ad una qualsiasi altra forma di dipendenza, non è come la soluzione di un problema di matematica. Quando risolvi un problema di matematica, identifichi i dati utili, applichi la formula predefinita, e quello che esce è il risultato. La Risposta. Puoi aver risolto il problema correttamente o puoi aver fatto un errore di calcolo che porta il risultato a sballare, ma in ogni caso puoi procedere all’esercizio successivo. Viceversa, la soluzione all’anoressia e ai vissuti ad essa connessi, non è un qualcosa che si può trovare applicando una qualche procedura o prendendo un qualche farmaco specifico. Siamo noi stesse che ogni giorno dobbiamo elaborare una procedura che ci permetta di andare avanti, un giorno dopo l’altro, per il resto della nostra vita. Ed è una sfida difficile da affrontare. Veramente difficile. Così difficile che la scelta di una singola soluzione sembra semplicemente ridicola. Ma quando si affronta un percorso di ricovero dall’anoressia, ci sono milioni e milioni di soluzione, soluzioni che bisogna scovare e scegliere giorno dopo giorno.
Sinceramente? Quando andavo alle scuole superiori, la mia materia preferita è sempre stata la matematica. ^__^”
Per la maggior parte della gente che non ha vissuto sulla propria pelle una dipendenza, la “soluzione” appare ovvia: Non vuoi più essere tossicodipendente? Smettila di farti le pere! Non vuoi più essere depressa? Smettila di essere triste! Non vuoi più essere anoressica? Smettila di restringere l’alimentazione! Non vuoi più essere bulimica? Smettila di vomitare! Non vuoi più avere binge? Smettila di abbuffarti! Esteriorità e superfici. Quante di voi si sono sentite dire frasi del genere? Per anni ed anni ho sentito gente che mi diceva che se volevo guarire dall’anoressia dovevo semplicemente mangiare e riprendere peso. In un certo senso, poteva pure avere la sua parte di ragione, perché è ovvio che quando pesavo XX chili ero sul filo di un rasoio per quanto inerente la salute. Ma, alle persone che dicono cose del genere, io vorrei fare una domanda: Mangiare di più e recuperare il normopeso fa davvero stare meglio sotto ogni punto di vista e guarisce dall’anoressia? Secondo me, la “soluzione” non sta nel mangiare adeguatamente raggiungendo un peso decente, la “soluzione” sta nel capire cosa ci ha portato all’anoressia e di cosa abbiamo bisogno veramente per stare meglio con noi stesse e continuare a nutrirci anche quando è l’ultima cosa che vorremo fare. Trovare la “soluzione” non significa non avere più il desiderio di perdere peso di nuovo, o approcciarsi con gusto ad un pasto. Significa piuttosto riuscire ad approcciarsi al pasto.
Mi piacerebbe da pazzi che ci fosse una medicina in grado di guarire dall’anoressia, ma purtroppo non esiste. Perciò dobbiamo essere noi stesse la nostra medicina. Ci sono tante cose che ancora non sappiamo del nostro percorso di ricovero. Ma fintanto che giorno dopo giorno riusciamo a trovare una soluzione, possiamo continuare ad andare avanti lavorando su noi stesse.
“Non c’è cura per l’alcoolismo” ha detto “ma c’è una soluzione. Ed è quella di rimanere sobri”.
E’ veramente raro trovare una combinazione di realismo e speranza in una vasta esposizione riguardo le dipendenze, ma questa frase ha rispecchiato perfettamente il mio punto di vista in merito alla strada del ricovero dall’anoressia: non c’è una cura, ma c’è una soluzione. E la soluzione è continuare a nutrirmi seguendo il “regime alimentare” che mi ha assegnato la mia dietista, mantenendo così un peso adeguato (e per “peso adeguato” intendo dire “peso fisiologico”, lasciando un attimo da parte tutti i discorsi inerenti il BMI), evitando di restringere l’alimentazione, e cercando aiuto nel momento in cui sento che sto per avere una ricaduta.
L’altra verità è che la soluzione all’alcolismo, a un DCA, o ad una qualsiasi altra forma di dipendenza, non è come la soluzione di un problema di matematica. Quando risolvi un problema di matematica, identifichi i dati utili, applichi la formula predefinita, e quello che esce è il risultato. La Risposta. Puoi aver risolto il problema correttamente o puoi aver fatto un errore di calcolo che porta il risultato a sballare, ma in ogni caso puoi procedere all’esercizio successivo. Viceversa, la soluzione all’anoressia e ai vissuti ad essa connessi, non è un qualcosa che si può trovare applicando una qualche procedura o prendendo un qualche farmaco specifico. Siamo noi stesse che ogni giorno dobbiamo elaborare una procedura che ci permetta di andare avanti, un giorno dopo l’altro, per il resto della nostra vita. Ed è una sfida difficile da affrontare. Veramente difficile. Così difficile che la scelta di una singola soluzione sembra semplicemente ridicola. Ma quando si affronta un percorso di ricovero dall’anoressia, ci sono milioni e milioni di soluzione, soluzioni che bisogna scovare e scegliere giorno dopo giorno.
Sinceramente? Quando andavo alle scuole superiori, la mia materia preferita è sempre stata la matematica. ^__^”
Per la maggior parte della gente che non ha vissuto sulla propria pelle una dipendenza, la “soluzione” appare ovvia: Non vuoi più essere tossicodipendente? Smettila di farti le pere! Non vuoi più essere depressa? Smettila di essere triste! Non vuoi più essere anoressica? Smettila di restringere l’alimentazione! Non vuoi più essere bulimica? Smettila di vomitare! Non vuoi più avere binge? Smettila di abbuffarti! Esteriorità e superfici. Quante di voi si sono sentite dire frasi del genere? Per anni ed anni ho sentito gente che mi diceva che se volevo guarire dall’anoressia dovevo semplicemente mangiare e riprendere peso. In un certo senso, poteva pure avere la sua parte di ragione, perché è ovvio che quando pesavo XX chili ero sul filo di un rasoio per quanto inerente la salute. Ma, alle persone che dicono cose del genere, io vorrei fare una domanda: Mangiare di più e recuperare il normopeso fa davvero stare meglio sotto ogni punto di vista e guarisce dall’anoressia? Secondo me, la “soluzione” non sta nel mangiare adeguatamente raggiungendo un peso decente, la “soluzione” sta nel capire cosa ci ha portato all’anoressia e di cosa abbiamo bisogno veramente per stare meglio con noi stesse e continuare a nutrirci anche quando è l’ultima cosa che vorremo fare. Trovare la “soluzione” non significa non avere più il desiderio di perdere peso di nuovo, o approcciarsi con gusto ad un pasto. Significa piuttosto riuscire ad approcciarsi al pasto.
Mi piacerebbe da pazzi che ci fosse una medicina in grado di guarire dall’anoressia, ma purtroppo non esiste. Perciò dobbiamo essere noi stesse la nostra medicina. Ci sono tante cose che ancora non sappiamo del nostro percorso di ricovero. Ma fintanto che giorno dopo giorno riusciamo a trovare una soluzione, possiamo continuare ad andare avanti lavorando su noi stesse.
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martedì 11 novembre 2008
Combattere, affrontare e infine abbracciare il cibo
Lasciatemi lo spazio di questo post per parlare di cibo. Sì, avete capito bene: di cibo.
Poiché anoressiche e/o bulimiche, c’è ovviamente stato un momento nel passato di ciascuna di noi in cui ci è sembrato che controllando l’alimentazione avessimo potuto controllare ogni aspetto della nostra vita. Un momento in cui l’alimentazione ci ha fatto sentire da dio o uno schifo. C’è chi, come me, ha ristretto. C’è chi si è abbuffata. C’è chi ha digiunato. C’è chi ha vomitato. C’è chi ha usato lassativi. Ma perché ci siamo focalizzate sul cibo? Perché è questo il punto, non è vero? Perché proprio sul cibo? Perché, in fin dei conti, il cibo è come una qualsiasi altra cosa: c’è chi usa l’alcol, chi la droga, chi il gioco d’azzardo.
Dipendenza. Vizi. Abitudini. Modi per scaricare l’ansia. Qualsiasi cosa siano – comunque vogliate chiamarli – possono diventare distruttivi. Perciò ci vuole tempo, pazienza, forza, coraggio e volontà… ma possiamo imparare a convivere con i disturbi alimentari, senza lasciare che questi abbiano la meglio su di noi come per un certo periodo di tempo più o meno lungo ci è sicuramente successo.
Parlo per esperienza. Scaglio la prima pietra e sono dunque la prima ad ammettere che ho ristretto, che ci sono stati mesi in cui mangiavo pochissimo. Ed esercitare questo controllo sull’alimentazione, vedere che riuscivo dove molte altre ragazze fallivano, abbandonando le loro diete dopo pochi giorni o poche settimane, riuscire a restringere senza cedere mai neanche una volta, mi faceva sentire forte, soddisfatta, sicura. Restringere era una cosa in cui riuscivo straordinariamente bene, quindi una cosa che mi faceva sentire diversa dagli altri, che mi faceva sentire speciale che, in un certo senso, mi faceva sentire migliore. Perché, in fin dei conti, tutta l’essenza della restrizione è il controllo. Se senti di avere il controllo, ti senti onnipotente. E non ti accorgi che in realtà non sei tu che stai controllando l’alimentazione, ma il cibo che sta controllando te, perché hai la sensazione di avere il mondo nelle tue mani, di sapere esattamente quello che stai facendo e perché lo stai facendo. Io mi sentivo esattamente così. Nel mio piccolo mondo, nel mio simulacro di perfezione, celavo tutte le mie debolezze e le mie insicurezze dietro un controllo apparente per costruirmi una favola che era inevitabilmente destinata a fallire. Posso dire di non essermi mai sentita bene come in quel periodo, è vero, ma stavo guidando contromano in una strada senza uscita. Fino a che c’era terreno continuavo ad andare a tavoletta ed era tutto ciò che mi faceva sentire viva. Però tutto quello che mi aspettava era un muro.
Ovviamente, dunque, anche se in quel momento non me ne rendevo conto, non stavo controllando né l’alimentazione né il mio peso. Tant’è che, alla fine, la mia magrezza si è fatta così evidente che sono stata mandata da una dietista e poi da una psichiatra che ha deciso di ricoverarmi. È stato il mio primo ricovero, e non ero consenziente. Vi lascio immaginare. Mi era stato assegnato un “equilibrio alimentare”, una dieta in cui c’erano scritte le quantità di tutti i vari cibi che dovevo mangiare, e che naturalmente mi riguardavo bene di rispettare. Decisamente, avevo un pessimo rapporto con l’alimentazione in quel momento: vedevo ogni cibo come mio nemico, come un qualcosa che cercava di togliermi ogni possibilità di esercitare il mio controllo, di sentirmi forte, di sentirmi bene. Così ho continuato a restringere ed ho perso altro peso. Ma c’era già qualcosa che si era incastrato. Così mi sono guardata intorno e mi sono accorta che la vetta che credevo di aver raggiunto era in realtà il fondo di un abisso.
E così mi sono resa conto che c’erano tre cose che avrei potuto fare. Morire, il che a quel punto sarebbe stato veramente il minore dei mali, continuare a restringere e vedere quale sarebbe stato il limite minimo che mi avrebbe portato direttamente in ospedale perdendo veramente ogni possibilità di controllo, oppure scegliere volontariamente di ricoverarmi di nuovo nel centro specializzato per DCA in cui ero stata.
Dunque, mi trovavo come di fronte ad un incrocio. Non volevo che tutto mi sfuggisse dalle mani. Ma non volevo neanche mangiare e perdere la mia illusione di onnipotenza. Non volevo ricoverarmi. Ma volevo stare meglio. Non volevo far soffrire gli altri. Ma non volevo neanche essere io a soffrire. Non volevo essere prigioniera dell’anoressia. Ma non volevo neanche lasciarla perché era l’unica cosa che conoscevo, per quanto fosse distruttiva era l’unica cosa che mi aveva fatto sentire veramente bene, l’unica cosa che mi aveva dato un senso. Capivo che non era “normale”, che ci sarebbe stato molto altro che la vita sarebbe stata in grado di darmi se mi fossi distaccata dal sintomo, che quella che stavo vivendo non era una vera vita, ma non riuscivo a rinunciare al senso di controllo, di sicurezza, di forza che la restrizione mi dava. Non riuscivo a rinunciare al modo in cui mi faceva sentire speciale.
E sono stata ferma di fronte a questo incrocio per più di 5 anni. Non andavo avanti né tornavo indietro, ero bloccata lì in mezzo. 5 anni di ricoveri, un continuo dentro-fuori dettato dal fatto che continuavo a preferire la parola alla destra del trattino e dalla mia non completa convinzione a volermi distaccare dall’anoressia. Passavo qualche mese in clinica, e mi sembrava di stare meglio, di essere più motivata, ma come uscivo, nel giro di poche settimane riprendevo a fare gli stessi errori. Non era veramente cambiato niente, perché io non ero veramente convinta di volere che le cose cambiassero. Non riuscivo a vedere l’anoressia come un qualcosa di negativo, dati tutti i sentimenti positivi che, bene o male, era riuscita a farmi provare. A volte ci penso ancora. Ma ad un certo punto mi sono guardata allo specchio e mi sono accorta che non ero più l’adolescente alla ricerca della vera se stessa o di quello che potevo mai stare cercando. Che dovevo smetterla di far finta che la mia vita non fosse ancora cominciata. La verità era che ne avevo già consumata almeno il 25%. Mi ero già bevuta la panna.
Inoltre, mi sono accorta di un’altra cosa estremamente importante. Che non avrei potuto fare niente di tutto quello che mi ero prefissa se prima non mi fossi distaccata dalla restrizione. Che non avrei potuto guarire nessuno se non ero in grado di curare neanche me stessa. Che sarei stata veramente disonesta e presuntuosa nel cercare di guarire persone quando ero io la prima a stare male e a rifiutare ostinatamente ogni cura. È come quando un fumatore dice ad un altro di smettere di fumare: che credito si può dare a una persona che dice che fumare fa male e bisogna smettere di farlo, quando lei per prima si brucia un pacchetto al giorno? Non solo la credibilità di questa persona è meno che zero, ma essa diventa anche incredibilmente patetica. Dunque, io mi trovavo nella stessa situazione. Come potevo pretendere d’indossare un camice bianco e di dire agli altri cosa fare per guarire stando io per prima orgogliosamente seduta su un lettino d’ospedale?
Così ho deciso di provare seriamente a migliorare la mia relazione con il cibo. A mettere veramente in discussione tutte le illusioni che con la restrizione mi ero creata. Ho cominciato a seguire davvero le dosi prescritte dall’ “equilibrio alimentare”. Certo, all’inizio è stato maledettamente difficile. Continuavo a ripetermi che dovevo pensare al cibo come a una medicina, un qualcosa la cui assunzione è sgradevole ma che poi farà stare meglio. E, a poco a poco, ho imparato a mettere a punto strategie su cui lavorare per non cedere di nuovo alle lusinghe della restrizione. Ho imparato a prendere le distanze dal cibo senza considerarlo più il mio peggior nemico. Ho imparato a chiudere gli occhi e a mandare giù. Può sembrare semplice, ma richiede tanto lavoro e tanta forza di volontà. Non è un percorso che si può iniziare essendo “mah, abbastanza convinta” – come lo ero io dopo i miei svariati ricoveri – ma bisogna volerlo al 200%. E fa male mettersi davanti al piatto e dire: “Okay, adesso devo magiare tutto ciò che c’è qua sopra”, ve lo posso assicurare. Ma nel momento in cui siete riuscite a mangiare tutto e sapete di aver fatto la cosa giusta, nel momento in cui non avete ceduto all’impulso della restrizione dicendo “NO” forte e chiaro ad ogni tentazione anoressica, allora vi potrete sentire forti. Forti davvero. Molto più forti di quanto vi sentivate restringendo.
E poi, una valvola di sfogo. Sì, una valvola di sfogo che non sia il cibo. Ognuna trova la propria. Per me sono state la scrittura, il disegno e il karate. Che mi hanno aiutata, mi hanno salvata, mi hanno incanalata nella giusta direzione e mi ci hanno mantenuta. Mi hanno aiutato a non restringere ancora. Beninteso, non sono perfetta, qualche strappo alla regola l’ho fatto e tuttora può capitarmi, ma cerco di fare del mio meglio. Ho provato a smettere di considerare il cibo come mio nemico, mi sono messa ad affrontarlo, ed ho tentato di abbracciarlo. Sto ancora tentando di farlo. Ed è difficile. Mi fa paura. Non mi piace.
Però, andando avanti, mi sono accorta di una cosa: che più la terapia prosegue, più mi dimentico del cibo. Mi focalizzo piuttosto su tutti quegli aspetti dell’anoressia che non sono strettamente collegati al cibo. Perché il problema alimentare non è che la punta dell’ice-berg. I miei veri problemi vanno molto oltre il cibo. Che non può, quindi, distruggermi. E che, dunque, non ha il potere di distruggere nessuna di voi.
Leggendomi dentro con oggettività ed onestà, sono riuscita a capire molto cose di me stessa. E così ho iniziato a sentirmi meglio. Ho smesso automaticamente di focalizzarmi sul cibo, senza neanche rendermene contro, perché la mia testa era impegnata a fronteggiare altri problemi ben più seri ed importanti. Ho cercato di smettere di fare checking. E all’inizio è stato estremamente difficile perché sentivo di avere bisogno di fare checking. Ma poi mi sono accorta che, dicendomi “NO!” ogni volta che mi veniva voglia di farlo, e quindi non facendolo, ho iniziato a pensarci sempre meno e la tentazione se n’è andata da sola. Niente di che, ma un primo passo. Mi va bene così. Non mi sveglio cantando, però mi sveglio. È un inizio.
E sono assolutamente sicura che tutte voi possiate riuscire a fare quello che ho fatto io – a fare persino molto meglio di me! – ma dovete lavorarci su. Dovete cercare di essere forti e di non permettervi di cedere. E, col passare del tempo, vedrete che sarà sempre più facile e che le cose andranno a posto spontaneamente. Non sarete sempre schiave dei disturbi alimentari, se non lo volete. E lasciate che ve lo dica: senza le mani o una bilancia che vi dicano come sentirvi, potrete veramente iniziare ad ascoltare voi stesse. E vi conoscerete come non vi siete mai conosciute prima. E vi sentirete bene. E vi sentirete libere. E vi accorgerete che è una felicità diversa da quella che vi dava la restrizione, ma che è comunque una bella felicità. E vi sentirete vive.
Adesso io mangio seguendo il mio “equilibrio alimentare”. E cerco di non pensarci troppo. Non è divertente, ma è necessario. Non è poi così terribile se non ci penso troppo. Certo, ci sono momenti in cui provo tanta ansia, preoccupazione, panico, momenti di stress e momenti in cui mi sento a disagio col mio corpo, ma tiro avanti. Forse io e il cibo non siamo ancora amici. Ma non siamo neanche acerrimi nemici.
Cammino a fatica, ho paura di ricadere, di poter rifare gli stessi errori, eppure anche se guadagno peso mi accorgo che non è così terribile come mi sembrava fosse nei primi tempi. Il mio riflesso allo specchio si normalizza, non è più così terrificante. Non posso dire che mi piaccio, ma posso dire che non mi detesto. È un corpo diverso da quello che avevo TOT chili in meno fa, ma è comunque il mio corpo. Perciò devo cercare di sfruttarlo nel miglior modo possibile. Mi sento come una persona diversa, ma non in negativo. E ne sono contenta.
Cerco di non concentrarmi troppo su ciò che gli altri potrebbero dire e pensare di me, e lo trovo difficile ma ci sto provando. Forse, per quello che è il mio carattere, non riuscirò mai a fregarmene del tutto di ciò che gli altri possono pensare di me, ma posso provare a pensare che, in realtà, si tratta per lo più di mie costruzioni mentali, di pensieri che sono io ad attribuire agli altri, perché in realtà loro pensano a me molto meno di quello che credo. Anzi, in realtà non ci pensano quasi mai, questa è la verità. Forse perché sono troppo concentrati su quello che io potrei pensare di loro.
Sto facendo un passo dopo l’altro. Sto cercando di abbracciare il cibo. Di mangiarlo non perché devo, ma perché voglio. Per nutrirmi. Per essere in salute.
Perciò anche voi potete avere una relazione positiva coll’alimentazione. Come? Ve l’ho appena scritto. Ma le parole non sono fatti, e i fatti sono molto più complicati e duri delle parole. Dovete solo volerlo veramente. E ricordate che non è un qualcosa che succede dall’oggi al domani, ma che per vincere un disturbo alimentare ci vogliono anni ed anni. Forse tutta la vita. Ma l’importante è continuare a lottare.
Dovete combattere per voi stesse… quando vi sentirete pronte a farlo… Io posso dirvi solo una cosa: ne vale la pena.
Poiché anoressiche e/o bulimiche, c’è ovviamente stato un momento nel passato di ciascuna di noi in cui ci è sembrato che controllando l’alimentazione avessimo potuto controllare ogni aspetto della nostra vita. Un momento in cui l’alimentazione ci ha fatto sentire da dio o uno schifo. C’è chi, come me, ha ristretto. C’è chi si è abbuffata. C’è chi ha digiunato. C’è chi ha vomitato. C’è chi ha usato lassativi. Ma perché ci siamo focalizzate sul cibo? Perché è questo il punto, non è vero? Perché proprio sul cibo? Perché, in fin dei conti, il cibo è come una qualsiasi altra cosa: c’è chi usa l’alcol, chi la droga, chi il gioco d’azzardo.
Dipendenza. Vizi. Abitudini. Modi per scaricare l’ansia. Qualsiasi cosa siano – comunque vogliate chiamarli – possono diventare distruttivi. Perciò ci vuole tempo, pazienza, forza, coraggio e volontà… ma possiamo imparare a convivere con i disturbi alimentari, senza lasciare che questi abbiano la meglio su di noi come per un certo periodo di tempo più o meno lungo ci è sicuramente successo.
Parlo per esperienza. Scaglio la prima pietra e sono dunque la prima ad ammettere che ho ristretto, che ci sono stati mesi in cui mangiavo pochissimo. Ed esercitare questo controllo sull’alimentazione, vedere che riuscivo dove molte altre ragazze fallivano, abbandonando le loro diete dopo pochi giorni o poche settimane, riuscire a restringere senza cedere mai neanche una volta, mi faceva sentire forte, soddisfatta, sicura. Restringere era una cosa in cui riuscivo straordinariamente bene, quindi una cosa che mi faceva sentire diversa dagli altri, che mi faceva sentire speciale che, in un certo senso, mi faceva sentire migliore. Perché, in fin dei conti, tutta l’essenza della restrizione è il controllo. Se senti di avere il controllo, ti senti onnipotente. E non ti accorgi che in realtà non sei tu che stai controllando l’alimentazione, ma il cibo che sta controllando te, perché hai la sensazione di avere il mondo nelle tue mani, di sapere esattamente quello che stai facendo e perché lo stai facendo. Io mi sentivo esattamente così. Nel mio piccolo mondo, nel mio simulacro di perfezione, celavo tutte le mie debolezze e le mie insicurezze dietro un controllo apparente per costruirmi una favola che era inevitabilmente destinata a fallire. Posso dire di non essermi mai sentita bene come in quel periodo, è vero, ma stavo guidando contromano in una strada senza uscita. Fino a che c’era terreno continuavo ad andare a tavoletta ed era tutto ciò che mi faceva sentire viva. Però tutto quello che mi aspettava era un muro.
Ovviamente, dunque, anche se in quel momento non me ne rendevo conto, non stavo controllando né l’alimentazione né il mio peso. Tant’è che, alla fine, la mia magrezza si è fatta così evidente che sono stata mandata da una dietista e poi da una psichiatra che ha deciso di ricoverarmi. È stato il mio primo ricovero, e non ero consenziente. Vi lascio immaginare. Mi era stato assegnato un “equilibrio alimentare”, una dieta in cui c’erano scritte le quantità di tutti i vari cibi che dovevo mangiare, e che naturalmente mi riguardavo bene di rispettare. Decisamente, avevo un pessimo rapporto con l’alimentazione in quel momento: vedevo ogni cibo come mio nemico, come un qualcosa che cercava di togliermi ogni possibilità di esercitare il mio controllo, di sentirmi forte, di sentirmi bene. Così ho continuato a restringere ed ho perso altro peso. Ma c’era già qualcosa che si era incastrato. Così mi sono guardata intorno e mi sono accorta che la vetta che credevo di aver raggiunto era in realtà il fondo di un abisso.
E così mi sono resa conto che c’erano tre cose che avrei potuto fare. Morire, il che a quel punto sarebbe stato veramente il minore dei mali, continuare a restringere e vedere quale sarebbe stato il limite minimo che mi avrebbe portato direttamente in ospedale perdendo veramente ogni possibilità di controllo, oppure scegliere volontariamente di ricoverarmi di nuovo nel centro specializzato per DCA in cui ero stata.
Dunque, mi trovavo come di fronte ad un incrocio. Non volevo che tutto mi sfuggisse dalle mani. Ma non volevo neanche mangiare e perdere la mia illusione di onnipotenza. Non volevo ricoverarmi. Ma volevo stare meglio. Non volevo far soffrire gli altri. Ma non volevo neanche essere io a soffrire. Non volevo essere prigioniera dell’anoressia. Ma non volevo neanche lasciarla perché era l’unica cosa che conoscevo, per quanto fosse distruttiva era l’unica cosa che mi aveva fatto sentire veramente bene, l’unica cosa che mi aveva dato un senso. Capivo che non era “normale”, che ci sarebbe stato molto altro che la vita sarebbe stata in grado di darmi se mi fossi distaccata dal sintomo, che quella che stavo vivendo non era una vera vita, ma non riuscivo a rinunciare al senso di controllo, di sicurezza, di forza che la restrizione mi dava. Non riuscivo a rinunciare al modo in cui mi faceva sentire speciale.
E sono stata ferma di fronte a questo incrocio per più di 5 anni. Non andavo avanti né tornavo indietro, ero bloccata lì in mezzo. 5 anni di ricoveri, un continuo dentro-fuori dettato dal fatto che continuavo a preferire la parola alla destra del trattino e dalla mia non completa convinzione a volermi distaccare dall’anoressia. Passavo qualche mese in clinica, e mi sembrava di stare meglio, di essere più motivata, ma come uscivo, nel giro di poche settimane riprendevo a fare gli stessi errori. Non era veramente cambiato niente, perché io non ero veramente convinta di volere che le cose cambiassero. Non riuscivo a vedere l’anoressia come un qualcosa di negativo, dati tutti i sentimenti positivi che, bene o male, era riuscita a farmi provare. A volte ci penso ancora. Ma ad un certo punto mi sono guardata allo specchio e mi sono accorta che non ero più l’adolescente alla ricerca della vera se stessa o di quello che potevo mai stare cercando. Che dovevo smetterla di far finta che la mia vita non fosse ancora cominciata. La verità era che ne avevo già consumata almeno il 25%. Mi ero già bevuta la panna.
Inoltre, mi sono accorta di un’altra cosa estremamente importante. Che non avrei potuto fare niente di tutto quello che mi ero prefissa se prima non mi fossi distaccata dalla restrizione. Che non avrei potuto guarire nessuno se non ero in grado di curare neanche me stessa. Che sarei stata veramente disonesta e presuntuosa nel cercare di guarire persone quando ero io la prima a stare male e a rifiutare ostinatamente ogni cura. È come quando un fumatore dice ad un altro di smettere di fumare: che credito si può dare a una persona che dice che fumare fa male e bisogna smettere di farlo, quando lei per prima si brucia un pacchetto al giorno? Non solo la credibilità di questa persona è meno che zero, ma essa diventa anche incredibilmente patetica. Dunque, io mi trovavo nella stessa situazione. Come potevo pretendere d’indossare un camice bianco e di dire agli altri cosa fare per guarire stando io per prima orgogliosamente seduta su un lettino d’ospedale?
Così ho deciso di provare seriamente a migliorare la mia relazione con il cibo. A mettere veramente in discussione tutte le illusioni che con la restrizione mi ero creata. Ho cominciato a seguire davvero le dosi prescritte dall’ “equilibrio alimentare”. Certo, all’inizio è stato maledettamente difficile. Continuavo a ripetermi che dovevo pensare al cibo come a una medicina, un qualcosa la cui assunzione è sgradevole ma che poi farà stare meglio. E, a poco a poco, ho imparato a mettere a punto strategie su cui lavorare per non cedere di nuovo alle lusinghe della restrizione. Ho imparato a prendere le distanze dal cibo senza considerarlo più il mio peggior nemico. Ho imparato a chiudere gli occhi e a mandare giù. Può sembrare semplice, ma richiede tanto lavoro e tanta forza di volontà. Non è un percorso che si può iniziare essendo “mah, abbastanza convinta” – come lo ero io dopo i miei svariati ricoveri – ma bisogna volerlo al 200%. E fa male mettersi davanti al piatto e dire: “Okay, adesso devo magiare tutto ciò che c’è qua sopra”, ve lo posso assicurare. Ma nel momento in cui siete riuscite a mangiare tutto e sapete di aver fatto la cosa giusta, nel momento in cui non avete ceduto all’impulso della restrizione dicendo “NO” forte e chiaro ad ogni tentazione anoressica, allora vi potrete sentire forti. Forti davvero. Molto più forti di quanto vi sentivate restringendo.
E poi, una valvola di sfogo. Sì, una valvola di sfogo che non sia il cibo. Ognuna trova la propria. Per me sono state la scrittura, il disegno e il karate. Che mi hanno aiutata, mi hanno salvata, mi hanno incanalata nella giusta direzione e mi ci hanno mantenuta. Mi hanno aiutato a non restringere ancora. Beninteso, non sono perfetta, qualche strappo alla regola l’ho fatto e tuttora può capitarmi, ma cerco di fare del mio meglio. Ho provato a smettere di considerare il cibo come mio nemico, mi sono messa ad affrontarlo, ed ho tentato di abbracciarlo. Sto ancora tentando di farlo. Ed è difficile. Mi fa paura. Non mi piace.
Però, andando avanti, mi sono accorta di una cosa: che più la terapia prosegue, più mi dimentico del cibo. Mi focalizzo piuttosto su tutti quegli aspetti dell’anoressia che non sono strettamente collegati al cibo. Perché il problema alimentare non è che la punta dell’ice-berg. I miei veri problemi vanno molto oltre il cibo. Che non può, quindi, distruggermi. E che, dunque, non ha il potere di distruggere nessuna di voi.
Leggendomi dentro con oggettività ed onestà, sono riuscita a capire molto cose di me stessa. E così ho iniziato a sentirmi meglio. Ho smesso automaticamente di focalizzarmi sul cibo, senza neanche rendermene contro, perché la mia testa era impegnata a fronteggiare altri problemi ben più seri ed importanti. Ho cercato di smettere di fare checking. E all’inizio è stato estremamente difficile perché sentivo di avere bisogno di fare checking. Ma poi mi sono accorta che, dicendomi “NO!” ogni volta che mi veniva voglia di farlo, e quindi non facendolo, ho iniziato a pensarci sempre meno e la tentazione se n’è andata da sola. Niente di che, ma un primo passo. Mi va bene così. Non mi sveglio cantando, però mi sveglio. È un inizio.
E sono assolutamente sicura che tutte voi possiate riuscire a fare quello che ho fatto io – a fare persino molto meglio di me! – ma dovete lavorarci su. Dovete cercare di essere forti e di non permettervi di cedere. E, col passare del tempo, vedrete che sarà sempre più facile e che le cose andranno a posto spontaneamente. Non sarete sempre schiave dei disturbi alimentari, se non lo volete. E lasciate che ve lo dica: senza le mani o una bilancia che vi dicano come sentirvi, potrete veramente iniziare ad ascoltare voi stesse. E vi conoscerete come non vi siete mai conosciute prima. E vi sentirete bene. E vi sentirete libere. E vi accorgerete che è una felicità diversa da quella che vi dava la restrizione, ma che è comunque una bella felicità. E vi sentirete vive.
Adesso io mangio seguendo il mio “equilibrio alimentare”. E cerco di non pensarci troppo. Non è divertente, ma è necessario. Non è poi così terribile se non ci penso troppo. Certo, ci sono momenti in cui provo tanta ansia, preoccupazione, panico, momenti di stress e momenti in cui mi sento a disagio col mio corpo, ma tiro avanti. Forse io e il cibo non siamo ancora amici. Ma non siamo neanche acerrimi nemici.
Cammino a fatica, ho paura di ricadere, di poter rifare gli stessi errori, eppure anche se guadagno peso mi accorgo che non è così terribile come mi sembrava fosse nei primi tempi. Il mio riflesso allo specchio si normalizza, non è più così terrificante. Non posso dire che mi piaccio, ma posso dire che non mi detesto. È un corpo diverso da quello che avevo TOT chili in meno fa, ma è comunque il mio corpo. Perciò devo cercare di sfruttarlo nel miglior modo possibile. Mi sento come una persona diversa, ma non in negativo. E ne sono contenta.
Cerco di non concentrarmi troppo su ciò che gli altri potrebbero dire e pensare di me, e lo trovo difficile ma ci sto provando. Forse, per quello che è il mio carattere, non riuscirò mai a fregarmene del tutto di ciò che gli altri possono pensare di me, ma posso provare a pensare che, in realtà, si tratta per lo più di mie costruzioni mentali, di pensieri che sono io ad attribuire agli altri, perché in realtà loro pensano a me molto meno di quello che credo. Anzi, in realtà non ci pensano quasi mai, questa è la verità. Forse perché sono troppo concentrati su quello che io potrei pensare di loro.
Sto facendo un passo dopo l’altro. Sto cercando di abbracciare il cibo. Di mangiarlo non perché devo, ma perché voglio. Per nutrirmi. Per essere in salute.
Perciò anche voi potete avere una relazione positiva coll’alimentazione. Come? Ve l’ho appena scritto. Ma le parole non sono fatti, e i fatti sono molto più complicati e duri delle parole. Dovete solo volerlo veramente. E ricordate che non è un qualcosa che succede dall’oggi al domani, ma che per vincere un disturbo alimentare ci vogliono anni ed anni. Forse tutta la vita. Ma l’importante è continuare a lottare.
Dovete combattere per voi stesse… quando vi sentirete pronte a farlo… Io posso dirvi solo una cosa: ne vale la pena.
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