venerdì 26 luglio 2013
Ansia, anoressia ed estrogeni: uno studio da prendere con le pinzze
Recentemente – stranamente attraverso Twitter! – ho scoperto un report su una recente scoperta che parrebbe mostrare come un incremento della concentrazione ematica di estrogeni riduca i livelli di ansia nelle persone affette da disturbi alimentari. A primo acchito, sembra una scoperta grandiosa: l’ansia è senz’altro un fattore molto importante nello sviluppo e nella perpetuazione dell’anoressia/bulimia, per cui riuscire a trovare qualcosa che la riduce sarebbe tanta roba!
Di per sè, il discorso non fa una piega.
Il problema è che, indagando un po’ più a fondo, salta fuori che questo studio ha poche e punte basi scientifiche, ed è viceversa molto empirico. Spiacente, ma devo rompere le uova nel paniere di chi, dopo aver letto le prime righe di questo post, si era già precipitata dal medico a farsi prescrivere millemila chili di estrogeni.
Ma lasciate che approfondisca un attimo cos’è saltato fuori da questa ricerca, cos’hanno trovato i ricercatori e (cosa più importante) cosa NON hanno trovato.
Primi due punti, giusto note a margine che mi sono venute in mente non appena ho letto l’abstract di questo “studio” (sono mie considerazioni, non hanno valenza oggettiva, prendetele per quello che sono, ma magari qualcosa di sensato c'è...):
1) Questo studio non è stato pubblicato in nessuna rivista scientifica. Sembra una sottigliezza, ed invece è importantissimo per diverse ragioni: personalmente non conosco tutti i dettagli riguardo a ciò che hanno fatto gli autori dello “studio”, quindi la mia analisi non sarà buona né completa come potrebbe essere se fossi a conoscenza di tutti i particolari. Certo è che parla di endocrinologia, quindi sarà senz’altro stato fatto valutare da degli endocrinologi: se questi ultimi non hanno dato il “via libera” alla pubblicazione, evidentemente vi hanno trovato delle cose non attendibili o comunque stonate.
2) La terapia con estrogeni e la pillola anticoncezionale non sono la stessa cosa. Leggendo alcuni dei commenti pubblicati dagli utenti di Internet in merito a questo “studio”, ho visto che alcune donne affermavano che effettivamente da quando prendevano la pillola anticoncezionale si sentivano meno ansiose. Eh certo, perché da quando prendete la pillola potete chiavare da mane a sera senza correre il rischio di restare incinta, lo credo che siete meno in ansia! (Perdonate la schiettezza, ma talvolta la gente scrive cose che mi fanno cascare le p… braccia). Vorrei peraltro far notare alle ragazzuole pronte ad affermare che da quando prendono la pillola si sentono meno in ansia, che i contraccettivi orali sono una combinazione di estrogeni + progesterone, oppure, nella maggior parte dei casi, progesterone e basta.
Detto questo, ecco come è stato condotto lo “studio”.
Un team guidato da Madhusmita Misra (medico del Massachusetts General Hospital), ha raccolto un gruppo costituito da 72 ragazze di età compresa tra i 13 e i 18 anni, cui era stata diagnosticata anoressia. Metà di queste ragazze hanno ricevuto una terapia con estrogeni, l’altra metà una terapia con placebo. Le partecipanti sono state seguite per 18 mesi. Sia all’inizio che alla fine della ricerca sono stati dati alle ragazze dei questionari da compilare per valutare le cosiddette “state and trait anxiety” (in mancanza di una traduzione letterale che renda bene in Italiano, direi che si definisce “state anxiety” quanto una persona è ansiosa di fronte ad un evento specifico, e “trait anxiety” quanto una persona è caratterialmente ed in generale ansiosa), nonché la loro percezione della propria immagine corporea.
Da notare che metà delle partecipanti hanno abbandonato lo “studio” prima della fine. Non è insolito che una certa quota delle persone con anoressia/bulimia che vengono coinvolte in degli studi scientifici inerenti la loro malattia decida di uscirne prima della conclusione per svariate ragioni (è per questo che è così difficile trovare studi scientifici completi su malattie come i DCA – i campioni che completano lo studio sono piccoli e quindi statisticamente poco significativi), ma in questo “studio” ha mollato quasi il 50% delle persone coinvolte, che già erano poche, e penso che chiunque capisca che un studio condotto su 37 persone ha una valenza ESTREMAMENTE limitata. Comunque… alla fine dello studio erano rimaste 20 ragazze trattate con estrogeni, e 17 ragazze trattate con placebo. Dunque, numero di persone più o meno equivalente in ambo i gruppi.
Dalle conclusioni tratte da coloro che hanno condotto lo “studio”, pare che le ragazze che sono state trattate con estrogeni abbiano avuto una riduzione dell’ansia maggiore rispetto a quelle trattate col placebo. Anche se, mi verrebbe da aggiungere, dato l’esiguo numero di ragazze residue, penso che non ci siano state abbastanza parteciparti per capire se sia stato un caso fortuito, o se effettivamente gli estrogeni avevano fatto effetto.
È peraltro abbastanza interessante notare come, pur teoricamente riducendo i livelli di ansia, la terapia con estrogeni NON abbia cambiato in alcun modo i comportamenti alimentari, i comportamenti in generale, o la percezione dell’immagine corporea di queste ragazze. I ricercatori sostengono che la terapia estrogenica abbia prevenuto un peggioramento della percezione dell’immagine corporea associato al recupero del peso. Però non specificano quante delle partecipanti abbiano effettivamente ripreso peso (e quanto) durante i 18 mesi dell’esperimento, e non specificano neanche quali psicoterapia e/o terapia di riabilitazione nutrizionale queste ragazze abbiano concomitantemente seguito.
“L’identificazione delle terapie che riducono l’ansia e l’insoddisfazione per il proprio corpo con l’aumento del peso, possono avere un forte impatto in merito alla riduzione delle ricadute” afferma Misra in un’intervista che ha rilasciato QUI. “Queste scoperte hanno un forte impatto sulla terapia dell’anoressia nervosa, perché è possibile iniziare una terapia ormonale con estrogeni fin da subito in ragazze che ne sono carenti”.
(mia traduzione)
[Nota a margine. TUTTE le donne con anoressia sono carenti di estrogeni: è uno dei principali motivi per cui a un certo punto sparisce il ciclo, e talora non torna neanche dopo aver recuperato peso.]
Certo, una riduzione dell’ansia può essere importante, ed è senz’altro positiva Il problema è che questo “studio” non dimostra in alcun modo che la riduzione dell’ansia sia efficace nel guarire dall’anoressia, che era l’obiettivo che lo “studio” si poneva di dimostrare. Se si riuscisse veramente a dimostrare che una riduzione dei livelli di ansia migliora anche l’aspetto DCA, sarebbe veramente una gran cosa. Bisognerebbe quantomeno ripetere lo studio su un gruppo numericamente molto più ampio, e fare un follow-up più prolungato, anche per vedere se questo presunto abbassamento del livello di ansia si traduce anche in una riduzione dei comportamenti e dei pensieri tipici del DCA. Anche l’idea che una terapia estrogenica possa ridurre numericamente le ricadute è interessante ma, di nuovo, è necessario un lungo follow-up per vedere se questo sia effettivamente vero, o soltanto un’ipotesi.
È interessante, presumibilmente anche promettente, ma per ora, a mio parere, non credo possa essere considerato un significativo passo avanti.
Di per sè, il discorso non fa una piega.
Il problema è che, indagando un po’ più a fondo, salta fuori che questo studio ha poche e punte basi scientifiche, ed è viceversa molto empirico. Spiacente, ma devo rompere le uova nel paniere di chi, dopo aver letto le prime righe di questo post, si era già precipitata dal medico a farsi prescrivere millemila chili di estrogeni.
Ma lasciate che approfondisca un attimo cos’è saltato fuori da questa ricerca, cos’hanno trovato i ricercatori e (cosa più importante) cosa NON hanno trovato.
Primi due punti, giusto note a margine che mi sono venute in mente non appena ho letto l’abstract di questo “studio” (sono mie considerazioni, non hanno valenza oggettiva, prendetele per quello che sono, ma magari qualcosa di sensato c'è...):
1) Questo studio non è stato pubblicato in nessuna rivista scientifica. Sembra una sottigliezza, ed invece è importantissimo per diverse ragioni: personalmente non conosco tutti i dettagli riguardo a ciò che hanno fatto gli autori dello “studio”, quindi la mia analisi non sarà buona né completa come potrebbe essere se fossi a conoscenza di tutti i particolari. Certo è che parla di endocrinologia, quindi sarà senz’altro stato fatto valutare da degli endocrinologi: se questi ultimi non hanno dato il “via libera” alla pubblicazione, evidentemente vi hanno trovato delle cose non attendibili o comunque stonate.
2) La terapia con estrogeni e la pillola anticoncezionale non sono la stessa cosa. Leggendo alcuni dei commenti pubblicati dagli utenti di Internet in merito a questo “studio”, ho visto che alcune donne affermavano che effettivamente da quando prendevano la pillola anticoncezionale si sentivano meno ansiose. Eh certo, perché da quando prendete la pillola potete chiavare da mane a sera senza correre il rischio di restare incinta, lo credo che siete meno in ansia! (Perdonate la schiettezza, ma talvolta la gente scrive cose che mi fanno cascare le p… braccia). Vorrei peraltro far notare alle ragazzuole pronte ad affermare che da quando prendono la pillola si sentono meno in ansia, che i contraccettivi orali sono una combinazione di estrogeni + progesterone, oppure, nella maggior parte dei casi, progesterone e basta.
Detto questo, ecco come è stato condotto lo “studio”.
Un team guidato da Madhusmita Misra (medico del Massachusetts General Hospital), ha raccolto un gruppo costituito da 72 ragazze di età compresa tra i 13 e i 18 anni, cui era stata diagnosticata anoressia. Metà di queste ragazze hanno ricevuto una terapia con estrogeni, l’altra metà una terapia con placebo. Le partecipanti sono state seguite per 18 mesi. Sia all’inizio che alla fine della ricerca sono stati dati alle ragazze dei questionari da compilare per valutare le cosiddette “state and trait anxiety” (in mancanza di una traduzione letterale che renda bene in Italiano, direi che si definisce “state anxiety” quanto una persona è ansiosa di fronte ad un evento specifico, e “trait anxiety” quanto una persona è caratterialmente ed in generale ansiosa), nonché la loro percezione della propria immagine corporea.
Da notare che metà delle partecipanti hanno abbandonato lo “studio” prima della fine. Non è insolito che una certa quota delle persone con anoressia/bulimia che vengono coinvolte in degli studi scientifici inerenti la loro malattia decida di uscirne prima della conclusione per svariate ragioni (è per questo che è così difficile trovare studi scientifici completi su malattie come i DCA – i campioni che completano lo studio sono piccoli e quindi statisticamente poco significativi), ma in questo “studio” ha mollato quasi il 50% delle persone coinvolte, che già erano poche, e penso che chiunque capisca che un studio condotto su 37 persone ha una valenza ESTREMAMENTE limitata. Comunque… alla fine dello studio erano rimaste 20 ragazze trattate con estrogeni, e 17 ragazze trattate con placebo. Dunque, numero di persone più o meno equivalente in ambo i gruppi.
Dalle conclusioni tratte da coloro che hanno condotto lo “studio”, pare che le ragazze che sono state trattate con estrogeni abbiano avuto una riduzione dell’ansia maggiore rispetto a quelle trattate col placebo. Anche se, mi verrebbe da aggiungere, dato l’esiguo numero di ragazze residue, penso che non ci siano state abbastanza parteciparti per capire se sia stato un caso fortuito, o se effettivamente gli estrogeni avevano fatto effetto.
È peraltro abbastanza interessante notare come, pur teoricamente riducendo i livelli di ansia, la terapia con estrogeni NON abbia cambiato in alcun modo i comportamenti alimentari, i comportamenti in generale, o la percezione dell’immagine corporea di queste ragazze. I ricercatori sostengono che la terapia estrogenica abbia prevenuto un peggioramento della percezione dell’immagine corporea associato al recupero del peso. Però non specificano quante delle partecipanti abbiano effettivamente ripreso peso (e quanto) durante i 18 mesi dell’esperimento, e non specificano neanche quali psicoterapia e/o terapia di riabilitazione nutrizionale queste ragazze abbiano concomitantemente seguito.
“L’identificazione delle terapie che riducono l’ansia e l’insoddisfazione per il proprio corpo con l’aumento del peso, possono avere un forte impatto in merito alla riduzione delle ricadute” afferma Misra in un’intervista che ha rilasciato QUI. “Queste scoperte hanno un forte impatto sulla terapia dell’anoressia nervosa, perché è possibile iniziare una terapia ormonale con estrogeni fin da subito in ragazze che ne sono carenti”.
(mia traduzione)
[Nota a margine. TUTTE le donne con anoressia sono carenti di estrogeni: è uno dei principali motivi per cui a un certo punto sparisce il ciclo, e talora non torna neanche dopo aver recuperato peso.]
Certo, una riduzione dell’ansia può essere importante, ed è senz’altro positiva Il problema è che questo “studio” non dimostra in alcun modo che la riduzione dell’ansia sia efficace nel guarire dall’anoressia, che era l’obiettivo che lo “studio” si poneva di dimostrare. Se si riuscisse veramente a dimostrare che una riduzione dei livelli di ansia migliora anche l’aspetto DCA, sarebbe veramente una gran cosa. Bisognerebbe quantomeno ripetere lo studio su un gruppo numericamente molto più ampio, e fare un follow-up più prolungato, anche per vedere se questo presunto abbassamento del livello di ansia si traduce anche in una riduzione dei comportamenti e dei pensieri tipici del DCA. Anche l’idea che una terapia estrogenica possa ridurre numericamente le ricadute è interessante ma, di nuovo, è necessario un lungo follow-up per vedere se questo sia effettivamente vero, o soltanto un’ipotesi.
È interessante, presumibilmente anche promettente, ma per ora, a mio parere, non credo possa essere considerato un significativo passo avanti.
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venerdì 19 luglio 2013
Alla ricerca dei geni: La "Anorexia Nervosa Genetic Initiative"
Recentemente, il centro per DCA dell’Università del Nord Carolina ha annnunciato l’esordio dell’ANGI, acronimo che sta per Anorexia Nervosa Genetic Initative. L’obiettivo del progetto è quello di cercare di capire se e come sono coinvolti i geni nella comparsa dell’anoressia.
Quando ho letto questa cosa, mi è immediatamente venuta voglia di saperne di più. Così ho letto tutto il materiale contenuto nel sito, e penso che questo possa essere riassunto in una serie di interessantissimi punti.
1) Cos’è l’ANGI? Perchè c’è bisogno di uno studio di questo tipo?
ANGI sta per Anorexia Nervosa Genetic Initiative. Si tratta di una collaborazione internazionale volta ad identificare l’eventuale presenza di geni che possono incrementare il rischio d’insorgenza dell’anoressia, che coinvolge ricercatori americani, australiani, svedesi e danesi.
È noto che l’anoressia è caratterizzata da una severa restrizione alimentare che porta ad una drastica perdita di peso, e che può essere letale. È noto anche che colpisce circa l’1% della popolazione, soprattutto di sesso femminile, ma non si sa propriamente il perché. Poiché non abbiamo una completa conoscenza dell’eziologia dell’anoressia, è difficile elaborare nuove terapie effettivamente efficaci. I ricercatori aderenti a questo progetto ritengono che se si riuscisse ad identificare l’eventuale presenza di geni che aumentano il rischio di comparsa dell’anoressia, si potrebbe capire meglio perché questa malattia si sviluppa, quali potrebbero essere le strategie di prevenzione più efficaci, quali le terapie più mirate.
Per rendere questo studio statisticamente attendibile, i ricercatori hanno deciso di avviare questo progetto quando avranno raggiunto circa 16.000 partecipanti, sia con anoressia, sia senza anoressia (in maniera tale da poter avere un gruppo di controllo, per raffronto.).
2) A quali domande potrebbe rispondere lo studio ANGI?
Il principale obiettivo di questo studio è quello di identificare aree nel genoma che potrebbero contribuire ad aumentare il rischio d’insorgenza dell’anoressia. Questa è già un’enorme domanda a cui rispondere! Quando questi geni saranno stati eventualmente scoperti, i ricercatori potranno approfondire in merito alla biologia dei DCA esaminando le modalità con cui questi geni interagiscono tra di loro e con i fattori ambientali. Potranno anche cercare di valutare in quali periodi della vita questi geni si esprimono maggiormente, che saranno poi quelli sui quali sarà opportuno focalizzare eventuali interventi di prevenzione.
3) Perchè sono necessarie così tante partecipanti?
Per l’accuratezza statistica dello studio. Quando si esaminano un numero estremamente elevato di geni contemporaneamente, può capitare che l’associazione tra 2 o più geni e una patologia sembri avere una qualche ricorrenza, ma può essere anche un fatto banalmente casuale. Per cui, tanto maggiore è il numero delle partecipanti, tanto più si aumenta la possibilità che l’associazione tra geni e patologia, se costantemente presente, sia reale. È stato fatto uno studio simile sulla schizofrenia circa 6 anni fa, ed è stato notato che tanto più si ampliava numericamente il campione studiato, tanto più si scoprivano varianti di geni che contribuivano alla comparsa della malattia. Per questo potrebbe essere molto interessante e promettente uno studio del genere condotto su larghi numeri a proposito dei DCA.
4) La maggior parte della gente non crede che i DCA possano avere influenze genetiche perché non esiste un “gene-anoressia”.
Il progetto si propone di spiegare come non debba necessariamente esistere un gene-anoressia per avere comunque delle influenze genetiche sulla comparsa dei DCA.
Durante gli ultimi 20 anni, sono stati condotti numerosissimi studi miranti a dimostrare che l’anoressia fosse una malattia ereditaria. Alcuni di questi studi facevano vedere come il rischio di una persona con anoressia di avere parenti di primo grado affette da questa malattia fosse molto più elevato rispetto a quello della popolazione generale. Il che significa, in parole povere, che se una persona ha una mamma/sorella/fratello affetta da anoressia, ha un rischio di contrarre a sua volta l’anoressia molto maggiore rispetto a chi non ha nessun familiare con questa malattia. Anche le coppie di gemelle sono state utilizzate per cercare di avvalorare quest’ipotesi. Gemelle omozigotiche (omologia genetica del 100%) sono state comparate a gemelle dizigotiche (omologia genetica del 50%). È stato visto che la possibilità che ambo le gemelle si ammalino di un DCA è maggiore nelle coppie di gemelle omozigotiche, nella fattispecie, se di 2 gemelle omozigotiche una si ammalava di anoressia, lo faceva anche l’altra nel 60% dei casi. Ma le gemelle omozigotiche hanno un DNA assolutamente uguale… e dunque, che fine fa l’altro 40%? Questa è una domanda cui gli studi fatti finora non sono riusciti a rispondere.
L’unica spiegazione plausibile è che, di fatto, non esista un “gene-anoressia” (sennò in TUTTE le coppie di gemelle omozigotiche in cui una si ammala, anche l’altra dovrebbe ammalarsi). Però si suppone che, come tutte le malattie psichiatriche, anche i DCA siano influenzati da molteplici geni, forse persino centinaia, che interagiscono in maniera complessa gli uni con gli altri, ciascuno dando il suo piccolo apporto. Riunendo tutti questi geni, ed aggiungendo l’effetto che su di essi possono avere i fattori ambientali, ci può essere un incremento significativo del rischio di comparsa dei DCA.
5) Avere delle informazioni genetiche più dettagliate può portare a migliori terapie? Se sì, come?
Ovviamente non è un qualcosa che succederà dall’oggi al domani, ma di certo avere più competenze da un punto di vista genetico permetterà di trattare i DCA in maniera migliore. Le informazioni genetiche eventualmente evinte da questo studio, potrebbero aiutare a capire chi è più a rischio di sviluppare un DCA, e di conseguenza permettere una migliore prevenzione e diagnosi precoce. Questo è un primo passo critico nella comprensione della biologia dell’anoressia. Però potrebbe essere molto utile per i futuri ricercatori nell’ambito delle neuroscienze, per sviluppare terapie più efficaci, farmacologiche e non. Sarà uno studio lungo, ma chiunque parteciperà darà sicuramente un grande contributo alla comunità scientifica.
6) Come potranno i risultati di questo studio aiutare nella prevenzione dei DCA?
I risultati di questo studio rappresenteranno una base per le future ricerche. La prevenzione è il primo passo, ed ogni passo è comunque un progresso. Se i ricercatori riusciranno ad identificare geni eventualmente connessi ad un aumento del rischio di sviluppare un DCA, sarà possibile creare un profilo di rischio genetico che può aiutare a capire chi (geneticamente parlando) ha maggiore possibilità di ammalarsi di anoressia/bulimia.
Quando ho letto questa cosa, mi è immediatamente venuta voglia di saperne di più. Così ho letto tutto il materiale contenuto nel sito, e penso che questo possa essere riassunto in una serie di interessantissimi punti.
1) Cos’è l’ANGI? Perchè c’è bisogno di uno studio di questo tipo?
ANGI sta per Anorexia Nervosa Genetic Initiative. Si tratta di una collaborazione internazionale volta ad identificare l’eventuale presenza di geni che possono incrementare il rischio d’insorgenza dell’anoressia, che coinvolge ricercatori americani, australiani, svedesi e danesi.
È noto che l’anoressia è caratterizzata da una severa restrizione alimentare che porta ad una drastica perdita di peso, e che può essere letale. È noto anche che colpisce circa l’1% della popolazione, soprattutto di sesso femminile, ma non si sa propriamente il perché. Poiché non abbiamo una completa conoscenza dell’eziologia dell’anoressia, è difficile elaborare nuove terapie effettivamente efficaci. I ricercatori aderenti a questo progetto ritengono che se si riuscisse ad identificare l’eventuale presenza di geni che aumentano il rischio di comparsa dell’anoressia, si potrebbe capire meglio perché questa malattia si sviluppa, quali potrebbero essere le strategie di prevenzione più efficaci, quali le terapie più mirate.
Per rendere questo studio statisticamente attendibile, i ricercatori hanno deciso di avviare questo progetto quando avranno raggiunto circa 16.000 partecipanti, sia con anoressia, sia senza anoressia (in maniera tale da poter avere un gruppo di controllo, per raffronto.).
2) A quali domande potrebbe rispondere lo studio ANGI?
Il principale obiettivo di questo studio è quello di identificare aree nel genoma che potrebbero contribuire ad aumentare il rischio d’insorgenza dell’anoressia. Questa è già un’enorme domanda a cui rispondere! Quando questi geni saranno stati eventualmente scoperti, i ricercatori potranno approfondire in merito alla biologia dei DCA esaminando le modalità con cui questi geni interagiscono tra di loro e con i fattori ambientali. Potranno anche cercare di valutare in quali periodi della vita questi geni si esprimono maggiormente, che saranno poi quelli sui quali sarà opportuno focalizzare eventuali interventi di prevenzione.
3) Perchè sono necessarie così tante partecipanti?
Per l’accuratezza statistica dello studio. Quando si esaminano un numero estremamente elevato di geni contemporaneamente, può capitare che l’associazione tra 2 o più geni e una patologia sembri avere una qualche ricorrenza, ma può essere anche un fatto banalmente casuale. Per cui, tanto maggiore è il numero delle partecipanti, tanto più si aumenta la possibilità che l’associazione tra geni e patologia, se costantemente presente, sia reale. È stato fatto uno studio simile sulla schizofrenia circa 6 anni fa, ed è stato notato che tanto più si ampliava numericamente il campione studiato, tanto più si scoprivano varianti di geni che contribuivano alla comparsa della malattia. Per questo potrebbe essere molto interessante e promettente uno studio del genere condotto su larghi numeri a proposito dei DCA.
4) La maggior parte della gente non crede che i DCA possano avere influenze genetiche perché non esiste un “gene-anoressia”.
Il progetto si propone di spiegare come non debba necessariamente esistere un gene-anoressia per avere comunque delle influenze genetiche sulla comparsa dei DCA.
Durante gli ultimi 20 anni, sono stati condotti numerosissimi studi miranti a dimostrare che l’anoressia fosse una malattia ereditaria. Alcuni di questi studi facevano vedere come il rischio di una persona con anoressia di avere parenti di primo grado affette da questa malattia fosse molto più elevato rispetto a quello della popolazione generale. Il che significa, in parole povere, che se una persona ha una mamma/sorella/fratello affetta da anoressia, ha un rischio di contrarre a sua volta l’anoressia molto maggiore rispetto a chi non ha nessun familiare con questa malattia. Anche le coppie di gemelle sono state utilizzate per cercare di avvalorare quest’ipotesi. Gemelle omozigotiche (omologia genetica del 100%) sono state comparate a gemelle dizigotiche (omologia genetica del 50%). È stato visto che la possibilità che ambo le gemelle si ammalino di un DCA è maggiore nelle coppie di gemelle omozigotiche, nella fattispecie, se di 2 gemelle omozigotiche una si ammalava di anoressia, lo faceva anche l’altra nel 60% dei casi. Ma le gemelle omozigotiche hanno un DNA assolutamente uguale… e dunque, che fine fa l’altro 40%? Questa è una domanda cui gli studi fatti finora non sono riusciti a rispondere.
L’unica spiegazione plausibile è che, di fatto, non esista un “gene-anoressia” (sennò in TUTTE le coppie di gemelle omozigotiche in cui una si ammala, anche l’altra dovrebbe ammalarsi). Però si suppone che, come tutte le malattie psichiatriche, anche i DCA siano influenzati da molteplici geni, forse persino centinaia, che interagiscono in maniera complessa gli uni con gli altri, ciascuno dando il suo piccolo apporto. Riunendo tutti questi geni, ed aggiungendo l’effetto che su di essi possono avere i fattori ambientali, ci può essere un incremento significativo del rischio di comparsa dei DCA.
5) Avere delle informazioni genetiche più dettagliate può portare a migliori terapie? Se sì, come?
Ovviamente non è un qualcosa che succederà dall’oggi al domani, ma di certo avere più competenze da un punto di vista genetico permetterà di trattare i DCA in maniera migliore. Le informazioni genetiche eventualmente evinte da questo studio, potrebbero aiutare a capire chi è più a rischio di sviluppare un DCA, e di conseguenza permettere una migliore prevenzione e diagnosi precoce. Questo è un primo passo critico nella comprensione della biologia dell’anoressia. Però potrebbe essere molto utile per i futuri ricercatori nell’ambito delle neuroscienze, per sviluppare terapie più efficaci, farmacologiche e non. Sarà uno studio lungo, ma chiunque parteciperà darà sicuramente un grande contributo alla comunità scientifica.
6) Come potranno i risultati di questo studio aiutare nella prevenzione dei DCA?
I risultati di questo studio rappresenteranno una base per le future ricerche. La prevenzione è il primo passo, ed ogni passo è comunque un progresso. Se i ricercatori riusciranno ad identificare geni eventualmente connessi ad un aumento del rischio di sviluppare un DCA, sarà possibile creare un profilo di rischio genetico che può aiutare a capire chi (geneticamente parlando) ha maggiore possibilità di ammalarsi di anoressia/bulimia.
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venerdì 12 luglio 2013
A proposito del Mindfulness nel trattamento dei DCA
Sapete cos’è il “Mindfulness”? Wikipedia lo definisce come: “modalità di prestare attenzione, momento per momento, nell’hic et nunc, intenzionalmente e in modo non giudicante, al fine di risolvere (o prevenire) la sofferenza interiore e raggiungere un’accettazione di sé attraverso una maggiore consapevolezza della propria esperienza che comprende: sensazioni, percezioni, impulsi, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni.” È una modalità terapeutica di cui ho sentito molto parlare, ultimamente. Sta prendendo sempre più campo, e ci sono molteplici ricerche che cercano di dimostrare quanto questa sia utile nel trattamento di disturbi d’ansia, depressione, DOC, somatizzazioni e patologie correlate. Nessuna sorpresa dunque che il Mindfulness sia diventato popolare anche nel campo dei disturbi alimentari. Secondo questa tecnica terapeutica dovremmo cercare di imparare a “vivere il momento” e cercare di essere delle osservatrici neutre della nostra stessa vita. Personalmente (mia opinione, e dunque opinabile per antonomasia) su di me NON ho trovato utile l’applicare questa metodica terapeutica. C’è chi dice che invece sia utile eccome, sicuramente è molto utilizzata, ma gli studi scientifici che cercando di dimostrare l’efficacia di questa terapia nel trattamento dei DCA, soprattutto anoressia, sono numericamente molto limitati, condotti su piccoli campioni, e comunque parziali. Cionnonostante, sono a conoscenza del fatto (riferitomi da alcune lettrici di questo blog) che alcune cliniche utilizzano il Mindfulness come un qualcosa di perfettamente integrato al loro protocollo terapeutico. Nell’ambito dei DCA, infatti, questa tecnica consiste nel cercare di non “fuggire” mentalmente dal cibo, ma concentrarsi su quello che si ha nel piatto, senza pensare ad altro, e cercando di tenere bassi i livelli di ansia nella consapevolezza che quello che si mangia è quanto previsto dal proprio “equilibrio alimentare”.
La domanda da porsi, dunque, è: il Mindfulness funziona? E, se sì, chi può trarne beneficio?
Alcuni ricercatori si sono posti questa domanda, ed hanno impostato uno studio cercando di valutare l’efficacia delle tecniche del Mindfulness attuate sia prima che durante i pasti, su un gruppo di pazienti affette da DCA ricoverate in una clinica. In breve, hanno scoperto che il Mindfulness non è sempre una modalità efficace (né tantomeno la migliore) per aiutare le persone con un DCA durante la fase di ri-alimentazione. (Marek et al., 2013)
Spesso il termine Mindfulness viene utilizzato come se fosse un qualcosa che tutti conoscono, un qualcosa di ovvio. Non lo è, naturalmente. L’utilizzo colloquiale del termine Mindfulness non rispecchia esattamente quello che gli psicologi intendono quando utilizzano questo termine. In una non recentissima dichiarazione consensuale (Bishop et al., 2004), gli psicologi scrivono che il Mindfulness è:
“un processo che permette di regolare la propria attenzione, al fine di ottenere una consapevolezza non elaborativa dell’evento corrente, e la capacità di relazionarsi all’evento in questione con un orientamento di curiosità, apertura mentale, e accettazione. Il Mindfulness è inoltre un processo di approfondimento della conoscenza sulla natura della propria mente, e l’adozione di una prospettiva decentrata sui pensieri e sui sentimenti, in maniera tale che possano essere vissuti per quella che è la loro soggettività (VS la loro necessaria validazione) e la loro natura transitoria (VS la loro permanenza).”
(mia traduzione)
Considerato che la maggior parte delle persone con un DCA tendono fortemente a giudicare se stesse (penso di essere il CEO di questo club!) nonché tentano disperatamente di controllare i propri sentimenti e il modo in cui gli eventi esterni le influenzano (perché c’è quella sensazione che se si riesce a controllare allora non succederà niente di male, o di ansiogeno... di questo club sono il CEO dei CEO!!), il Mindfulness teoricamente potrebbe essere visto come un ottimo modo per arginare questi sintomi. Finora, la maggior parte del lavoro che è stato fatto col Mindfulness si è concentrato sulla bulimia e sul binge. Immagino che questo sia successo perché credo che (ma vado a naso, perché non mi è mai successo, quindi se a qualcuna è successo ed è diverso da quello che sto per scrivere, mi smentisca pure!) durante un’abbuffata la persona bulimica/con binge non è concentrata e lucidamente consapevole di quello che sta mangiando e delle sensazioni che sta provando (giusto??). E immagino che questo sia un punto molto importante per chi ha questo tipo di DCA.
Sempre in linea teorica, se una persona con bulimia/binge attuasse il Mindfulness, sarebbe meno propensa ad abbuffarsi, e forse non si sentirebbe troppo in colpa dopo averlo fatto (immagino, poi non so). Anche se gli studi scientifici al riguardo forniscono dati imprecisi, e spesso i campioni utilizzati sono troppo piccoli per poter parlare di statistica efficace, pare che i trattamenti in cui è integrato il Mindfulness siano promettenti soprattutto per la bulimia e il binge. Pare che questa metodica terapeutica sia efficace anche per persone con problemi di obesità. Ma i risultati ottenuti non ci dicono comunque che il Mindfulness sia assolutamente sempre efficace per ogni qualsiasi tipo di DCA, e per ogni qualsiasi persona.
Cos’hanno trovato i ricercatori?
In uno studio coinvolgente 17 donne affette da DCA ricoverate in una clinica, e 23 donne-controllo, ovvero donne senza DCA, Ryan Marek e i suoi colleghi hanno diviso ciascun gruppo circa a metà. Metà delle persone di ciascun gruppo è stata sottoposta a distrazioni durante il pasto. L’altra metà invece è stata sottoposta a Mindfulness. Alle partecipanti allo studio è stato anche chiesto di rispondere ad un questionario relativo al proprio umore (per esempio: tristezza, paura, vergogna, serenità, disgusto, depressione, ansia, rabbia, emozione) e alle proprie sensazioni di fame/sazietà. Inoltre, dovevano scrivere delle annotazioni relativamente a cosa ne pensassero (quanto gradissero o meno) quel tipo di trattamento.
Delle 17 pazienti affette da DCA, una aveva l’anoressia, 8 la bulimia, e 8 dei DCAnas. A tutte le partecipanti allo studio è stata fatta mangiare una fetta di torta ai mirtilli e al caffè, e gli è stato fatto compilare il questionario sull’umore prima e dopo averla mangiata. Questo è stato fatto per due volte.
Per il gruppo di controllo (quello formato da ragazze senza DCA) il Mindfulness riduceva significativamente le eventuali sensazioni negative post-pasto. Per il gruppo delle ragazze con DCA, invece, l’effetto era più scarso: coloro che erano state sottoposte a Mindfulness provavano più ansia, tristezza, depressione e senso di colpa post-pasto rispetto a quelle che erano state sottoposte a distrazioni. Le ragazze con DCA, inoltre, scrivevano di aver gradito il Mindfulness molto meno rispetto a quanto fosse stato gradito dalle ragazze senza DCA.
Gli autori hanno scritto:
“Dato che il Mindfulness è stato applicato su pazienti che hanno una forte ansia a fronte dell’idea di dover mangiare, nonché alterate sensazioni di fame/sazietà, quello che è venuto fuori forse non è sorprendente. Poiché molte delle pazienti affette da DCA sono malnutrite da molto tempo, le loro sensazioni di fame/sazietà non sono più biologiche. Consequenzialmente, esse riferiscono eccessiva pienezza, gonfiore, dolore addominale anche dopo aver consumato piccole quantità di cibo. Per cui, non si può dire che il Mindfulness sia inefficace nelle pazienti che hanno un DCA, ma semplicemente che dovrebbe essere una tecnica applicata più a lungo, affinchè le pazienti possano padroneggiarla, e quindi trovarla funzionale.”
(mia traduzione)
Come la penso io?
Per quello che mi riguarda personalmente, le distrazioni sono sempre state e sono tuttora un toccasana quando devo mangiare. Più mi concentro su quello che sto mangiando e sulle sensazioni che sto provando, più mi si chiude lo stomaco e non riesco più a mangiare. Se mi ci dovessi concentrare ad ogni pasto per prenderci l’abitudine, comincerei immediatamente di nuovo a restringere. Per questo mentre mangio preferisco leggere un libro o guardare la TV.
Ovviamente, la distrazione durante il pasto non dev’essere considerata una stampella perenne e assoluta. Non c’è niente di sbagliato nel pensare a quello che si sta mangiando, magari per qualcuna di voi può essere anche utile per sapere che sta mangiando quanto deve, e non si sta abbuffando. Ma se il pensiero dev’essere puntato su quante calorie contiene l’alimento che si ha nel piatto, su quanta attività fisica dovrebbe essere fatta per smaltirlo, su quanto sarebbe bello poter restringere, allora il rimedio diventa peggiore del male. Meglio allora lasciar perdere il Mindfulness, e invitare a pranzo un amico con cui fare due chiacchiere.
E voi, come la pensate?
La domanda da porsi, dunque, è: il Mindfulness funziona? E, se sì, chi può trarne beneficio?
Alcuni ricercatori si sono posti questa domanda, ed hanno impostato uno studio cercando di valutare l’efficacia delle tecniche del Mindfulness attuate sia prima che durante i pasti, su un gruppo di pazienti affette da DCA ricoverate in una clinica. In breve, hanno scoperto che il Mindfulness non è sempre una modalità efficace (né tantomeno la migliore) per aiutare le persone con un DCA durante la fase di ri-alimentazione. (Marek et al., 2013)
Spesso il termine Mindfulness viene utilizzato come se fosse un qualcosa che tutti conoscono, un qualcosa di ovvio. Non lo è, naturalmente. L’utilizzo colloquiale del termine Mindfulness non rispecchia esattamente quello che gli psicologi intendono quando utilizzano questo termine. In una non recentissima dichiarazione consensuale (Bishop et al., 2004), gli psicologi scrivono che il Mindfulness è:
“un processo che permette di regolare la propria attenzione, al fine di ottenere una consapevolezza non elaborativa dell’evento corrente, e la capacità di relazionarsi all’evento in questione con un orientamento di curiosità, apertura mentale, e accettazione. Il Mindfulness è inoltre un processo di approfondimento della conoscenza sulla natura della propria mente, e l’adozione di una prospettiva decentrata sui pensieri e sui sentimenti, in maniera tale che possano essere vissuti per quella che è la loro soggettività (VS la loro necessaria validazione) e la loro natura transitoria (VS la loro permanenza).”
(mia traduzione)
Considerato che la maggior parte delle persone con un DCA tendono fortemente a giudicare se stesse (penso di essere il CEO di questo club!) nonché tentano disperatamente di controllare i propri sentimenti e il modo in cui gli eventi esterni le influenzano (perché c’è quella sensazione che se si riesce a controllare allora non succederà niente di male, o di ansiogeno... di questo club sono il CEO dei CEO!!), il Mindfulness teoricamente potrebbe essere visto come un ottimo modo per arginare questi sintomi. Finora, la maggior parte del lavoro che è stato fatto col Mindfulness si è concentrato sulla bulimia e sul binge. Immagino che questo sia successo perché credo che (ma vado a naso, perché non mi è mai successo, quindi se a qualcuna è successo ed è diverso da quello che sto per scrivere, mi smentisca pure!) durante un’abbuffata la persona bulimica/con binge non è concentrata e lucidamente consapevole di quello che sta mangiando e delle sensazioni che sta provando (giusto??). E immagino che questo sia un punto molto importante per chi ha questo tipo di DCA.
Sempre in linea teorica, se una persona con bulimia/binge attuasse il Mindfulness, sarebbe meno propensa ad abbuffarsi, e forse non si sentirebbe troppo in colpa dopo averlo fatto (immagino, poi non so). Anche se gli studi scientifici al riguardo forniscono dati imprecisi, e spesso i campioni utilizzati sono troppo piccoli per poter parlare di statistica efficace, pare che i trattamenti in cui è integrato il Mindfulness siano promettenti soprattutto per la bulimia e il binge. Pare che questa metodica terapeutica sia efficace anche per persone con problemi di obesità. Ma i risultati ottenuti non ci dicono comunque che il Mindfulness sia assolutamente sempre efficace per ogni qualsiasi tipo di DCA, e per ogni qualsiasi persona.
Cos’hanno trovato i ricercatori?
In uno studio coinvolgente 17 donne affette da DCA ricoverate in una clinica, e 23 donne-controllo, ovvero donne senza DCA, Ryan Marek e i suoi colleghi hanno diviso ciascun gruppo circa a metà. Metà delle persone di ciascun gruppo è stata sottoposta a distrazioni durante il pasto. L’altra metà invece è stata sottoposta a Mindfulness. Alle partecipanti allo studio è stato anche chiesto di rispondere ad un questionario relativo al proprio umore (per esempio: tristezza, paura, vergogna, serenità, disgusto, depressione, ansia, rabbia, emozione) e alle proprie sensazioni di fame/sazietà. Inoltre, dovevano scrivere delle annotazioni relativamente a cosa ne pensassero (quanto gradissero o meno) quel tipo di trattamento.
Delle 17 pazienti affette da DCA, una aveva l’anoressia, 8 la bulimia, e 8 dei DCAnas. A tutte le partecipanti allo studio è stata fatta mangiare una fetta di torta ai mirtilli e al caffè, e gli è stato fatto compilare il questionario sull’umore prima e dopo averla mangiata. Questo è stato fatto per due volte.
Per il gruppo di controllo (quello formato da ragazze senza DCA) il Mindfulness riduceva significativamente le eventuali sensazioni negative post-pasto. Per il gruppo delle ragazze con DCA, invece, l’effetto era più scarso: coloro che erano state sottoposte a Mindfulness provavano più ansia, tristezza, depressione e senso di colpa post-pasto rispetto a quelle che erano state sottoposte a distrazioni. Le ragazze con DCA, inoltre, scrivevano di aver gradito il Mindfulness molto meno rispetto a quanto fosse stato gradito dalle ragazze senza DCA.
Gli autori hanno scritto:
“Dato che il Mindfulness è stato applicato su pazienti che hanno una forte ansia a fronte dell’idea di dover mangiare, nonché alterate sensazioni di fame/sazietà, quello che è venuto fuori forse non è sorprendente. Poiché molte delle pazienti affette da DCA sono malnutrite da molto tempo, le loro sensazioni di fame/sazietà non sono più biologiche. Consequenzialmente, esse riferiscono eccessiva pienezza, gonfiore, dolore addominale anche dopo aver consumato piccole quantità di cibo. Per cui, non si può dire che il Mindfulness sia inefficace nelle pazienti che hanno un DCA, ma semplicemente che dovrebbe essere una tecnica applicata più a lungo, affinchè le pazienti possano padroneggiarla, e quindi trovarla funzionale.”
(mia traduzione)
Come la penso io?
Per quello che mi riguarda personalmente, le distrazioni sono sempre state e sono tuttora un toccasana quando devo mangiare. Più mi concentro su quello che sto mangiando e sulle sensazioni che sto provando, più mi si chiude lo stomaco e non riesco più a mangiare. Se mi ci dovessi concentrare ad ogni pasto per prenderci l’abitudine, comincerei immediatamente di nuovo a restringere. Per questo mentre mangio preferisco leggere un libro o guardare la TV.
Ovviamente, la distrazione durante il pasto non dev’essere considerata una stampella perenne e assoluta. Non c’è niente di sbagliato nel pensare a quello che si sta mangiando, magari per qualcuna di voi può essere anche utile per sapere che sta mangiando quanto deve, e non si sta abbuffando. Ma se il pensiero dev’essere puntato su quante calorie contiene l’alimento che si ha nel piatto, su quanta attività fisica dovrebbe essere fatta per smaltirlo, su quanto sarebbe bello poter restringere, allora il rimedio diventa peggiore del male. Meglio allora lasciar perdere il Mindfulness, e invitare a pranzo un amico con cui fare due chiacchiere.
E voi, come la pensate?
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venerdì 5 luglio 2013
ACT: una nuova possibile terapia per l'anoressia
[Innanzitutto, vi ringrazio per aver risposto al P.S. del mio post precedente. Riassumendo per grandi linee, le tematiche che più v’interessano sono relative alle nuove scoperte e ai nuovi studi (anche relativamente all’aspetto genetico) che vengono fatti sull’anoressia, alle novità terapeutiche per i DCA, alle strategie di auto-aiuto, agli adattamenti del nostro organismo alla restrizione alimentare, nonché alla mia esperienza personale. Okay, prometto che toccherò tutti questi punti nei prossimi post… cominciando da quello che mi sta più a cuore, ovvero le novità relativamente alla terapia dei DCA. (Dato che fare prevenzione è d’estrema difficoltà, diagnosi precoce e terapia sono le principali armi che dovrebbero essere affinate contro i DCA…)]
Per molte malattie – fisiche e psichiche – ad oggi esiste una terapia ben precisa e validata da tutto il mondo scientifico. Ciò non vale per l’anoressia: attualmente non si conosce alcuna terapia (né farmacologica ne psicologica) che permetta in maniera mirata di guarire dall’anoressia. Esistono molti approcci differenti, che consentono di fare dei passi avanti sulla strada del ricovero, ma nessuna terapia univocamente efficace. Pertanto, numerose sono le ricerche tuttora in atto per cercare di trovare approcci terapeutici sempre più efficaci ai DCA. Tra quelle che ho letto, la prospettiva terapeutica che mi pare più promettente ed interessante è la cosiddetta “AC-Therapy” (Acceptance and Commitment Therapy). Come la DBT (Dialectical Behavioral Therapy), anche la ACT è in un certo senso un derivato della terapia cognitivo-comportamentale (che, a me personalmente, non piace granchè come approccio ai DCA – mia opinione personale), rispetto alla quale presenta però diverse importanti differenze.
Sono da poco usciti 2 nuovi studi (uno pubblicato in una rivista scientifica americana, l’altro presentato alla “London Conference on Eating Disorders") che comparano la ACT ai più comuni approcci terapeutici all’anoressia. Nessuno dei 2 studi rivela che la ACT porti ad una significativa riduzione dei pensieri e di comportamenti tipici dei DCA, sebbene venga evidenziato che la ACT riduce significativamente le ricadute durante i 6 mesi successivi ad un ricovero.
Okay, ma in che cosa consiste questa ACT?, vi starete chiedendo.
La ACT è una terapia il cui obiettivo primario, diversamente dalle terapie più frequentemente applicate, non è quello di ridurre i sintomi dell’anoressia/bulimia. Piuttosto che ridurre i sintomi in se, la ACT ritiene che la riduzione dei comportamenti patologici possa essere la conseguenza spontanea dell’essere riusciti a ridurre l’ansia sottostante. Come? Accettando le cose che non possiamo controllare, e cercando di cambiare quello che possiamo cambiare. Osservare e considerare se stesse e il mondo circostante nel presente è uno degli elementi-chiave di questo tipo di terapia, che si basa sul dare priorità a ciò che per la persona è veramente importante nella vita, a prescindere da ciò che l’anoressia le suggerisce. Per esempio, se noi consideriamo l’amicizia come una priorità nella nostra vita, e un amico c’invita ad andare a mangiare una pizza insieme, noi dovremmo andarci, senza validare la voce dell’anoressia che ci dice di restare a casa per poter continuare a restringere l’alimentazione, o per non derogare dall’ “equilibrio alimentare”. Questo significa accettare il fatto che andare a mangiare quella pizza ci farà sentire in ansia e sarà psicologicamente stressante, ma validare l’importanza dell’amicizia. Scrivono gli autori dello studio che ho menzionato prima e che è stato pubblicato poche settimane fa su “Behavior Modification” (Juarascio et al., 2013)
“L’evitamento, ovvero il cercare di negare e rimuovere le esperienze dolore vissute, nonché il sottrarsi a certe situazioni, anche quando il farlo è inefficace o riduce la capacità d’impegnarsi in comportamenti desiderati, si pensa stia alla base di molta sofferenza psicologica (Hayes et al., 2004). In definitiva, la priorità di evitare pensieri angoscianti, sentimenti ansiogeni, o eventi che mettono in difficoltà, riduce la capacità di adottare misure comportamentali che sono necessarie per vivere una vita degna. Pertanto, la ACT insegna alle pazienti come ottenere distanza psicologica da esperienze dolorose interne, chiarire quali sono veramente le cose che ognuno considera come prioritarie nella propria vita oltre il DCA, e creare obiettivi che possono aiutare le pazienti a vivere la propria vita più appagante, ad avere una vita piena di significato, e aumentare la volontà di sperimentare esperienze interne negative al fine di ottenere risultati che possono comunque migliorare la qualità della vita.
Poichè l’evitamento (di persone, situazioni, cibi, etc…) è un qualcosa con cui le persone affette da anoressia hanno frequentemente a che fare (è uno dei nodi focali dei DCA, in effetti), questo spiega come mai la ACT possa essere una buona terapia per i disturbi alimentari.”
(mia traduzione)
Cos’hanno scoperto i ricercatori?
In breve, i ricercatori hanno reclutato 140 donne affette da DCA, che erano state ricoverate al “The Renfrew Center” di Philadelphia, e hanno comparato il normale trattamento ricevuto in questo centro, con lo stesso normale trattamento a cui erano state aggiunti 2 incontri ogni settimana di terapia ACT di gruppo. Circa metà delle donne erano affette da anoressia, l’altra metà da bulimia. Età per lo più intorno ai 26 – 27 anni, la più giovane una 18enne, la più grande una 55enne. I ricercatori hanno valutato le variazioni del B.M.I. tanto quanto le variazioni dei comportamenti e dei pensieri tipici dei DCA, nonché la capacità di riuscire a prendere le distanze dai pensieri ansiogeni, l’accettazione del venir meno del senso di controllo, e la regolarizzazione delle emozioni.
Le donne che erano state sottoposte alla terapia ACT, avevano fatto 6 incontri di gruppo (per un totale di 3 settimane di durata della terapia, facendo 2 incontri ogni settimana). Il che mi fa pensare ad un uso non particolarmente forte di questa terapia. 6 incontri? Tutto qui? Secondo me non si può neanche propriamente parlare di terapia, se il tutto si riduce a 6 incontri. È come guardare uno spot pubblicitario sulle vacanze alle Bahamas, e poi dire che ci si è state.
Comunque, al di là della mia opinione personale sulla durata della terapia, entrambi i gruppi (sia quello che non era stato sottoposto alla ACT, sia quello che c’era stato sottoposto) avevano mostrato miglioramenti significativi rispetto alla patologia. Questo però non sorprende, visto che la valutazione era stata fatta rispetto ai comportamenti che queste donne presentavano al momento dell’ingresso in clinica, per cui è abbastanza ovvio che dopo il ricovero ci fosse stata una riduzione della restrizione alimentare, del vomito auto-indotto, delle abbuffate, anche se la terapia in se fosse stata inefficace. Non c’era stata una riduzione superiore di questi comportamenti nelle donne che avevano seguito anche la ACT. Tuttavia, queste ultime riuscivano a gestire meglio la propria alimentazione dopo la dimissione dalla clinica, e avevano un tasso di ricadute decisamente inferiore (3,5% contro il 18%). E questo mi sembra un dato decisamente importante e significativo.
Altri aspetti sono stati considerati “trending towards statistical significance”, il che significa che hanno avuto una certa rilevanza, ma statisticamente parlando non abbastanza. Questo potrebbe voler dire sia che lo studio dovrebbe essere ripetuto su un numero maggiore di partecipanti per incrementarne la rilevanza statistica, sia che i ricercatori hanno cercato di glissare su dati che non corrispondevano propriamente alle loro aspettative.
Nell’altro studio, quello presentato alla “London Eating Disorder Conference” diretta da Ata Ghaderi, i ricercatori hanno randomizzato 43 donne affette da anoressia sottoponendole o a terapia tradizionale, o ad ACT, in ambo i casi facendo 19 sedute, e affiancandole con psicoterapia settimanale, corretto regime alimentare, e controlli medici occasionali. I ricercatori hanno poi comparato B.M.I., qualità della vita, strategie di coping, e pensieri e comportamenti tipici del DCA tra i 2 gruppi al termine del trattamento. (Piccola precisazione: solo il 58% delle partecipanti ha portato a termine lo studio.)
Entrambi i gruppi hanno mostrato un più o meno equivalente incremento del B.M.I. durante il trattamento, ma la frequenza delle ricadute post-trattamento è stata un po’ inferiore nelle donne che avevano seguito la ACT.
In conclusione, mi sa tanto che la ACT non è la terapia rivoluzionaria e risolutiva per guarire sempre e definitivamente dall’anoressia… del resto, ma quale terapia lo è? Penso però che sia un buon punto di partenza, la trovo una terapia valida, e credo che dovrebbe essere condotto un maggior numero di studi scientifici al riguardo, più che altro per capire quale tipologia di pazienti potrebbero giovare maggiormente di questo tipo di terapia, e se potesse essere utile l’impiegarla in associazione ad altri tipi di terapia tuttora già in uso per il trattamento dei DCA.
Per molte malattie – fisiche e psichiche – ad oggi esiste una terapia ben precisa e validata da tutto il mondo scientifico. Ciò non vale per l’anoressia: attualmente non si conosce alcuna terapia (né farmacologica ne psicologica) che permetta in maniera mirata di guarire dall’anoressia. Esistono molti approcci differenti, che consentono di fare dei passi avanti sulla strada del ricovero, ma nessuna terapia univocamente efficace. Pertanto, numerose sono le ricerche tuttora in atto per cercare di trovare approcci terapeutici sempre più efficaci ai DCA. Tra quelle che ho letto, la prospettiva terapeutica che mi pare più promettente ed interessante è la cosiddetta “AC-Therapy” (Acceptance and Commitment Therapy). Come la DBT (Dialectical Behavioral Therapy), anche la ACT è in un certo senso un derivato della terapia cognitivo-comportamentale (che, a me personalmente, non piace granchè come approccio ai DCA – mia opinione personale), rispetto alla quale presenta però diverse importanti differenze.
Sono da poco usciti 2 nuovi studi (uno pubblicato in una rivista scientifica americana, l’altro presentato alla “London Conference on Eating Disorders") che comparano la ACT ai più comuni approcci terapeutici all’anoressia. Nessuno dei 2 studi rivela che la ACT porti ad una significativa riduzione dei pensieri e di comportamenti tipici dei DCA, sebbene venga evidenziato che la ACT riduce significativamente le ricadute durante i 6 mesi successivi ad un ricovero.
Okay, ma in che cosa consiste questa ACT?, vi starete chiedendo.
La ACT è una terapia il cui obiettivo primario, diversamente dalle terapie più frequentemente applicate, non è quello di ridurre i sintomi dell’anoressia/bulimia. Piuttosto che ridurre i sintomi in se, la ACT ritiene che la riduzione dei comportamenti patologici possa essere la conseguenza spontanea dell’essere riusciti a ridurre l’ansia sottostante. Come? Accettando le cose che non possiamo controllare, e cercando di cambiare quello che possiamo cambiare. Osservare e considerare se stesse e il mondo circostante nel presente è uno degli elementi-chiave di questo tipo di terapia, che si basa sul dare priorità a ciò che per la persona è veramente importante nella vita, a prescindere da ciò che l’anoressia le suggerisce. Per esempio, se noi consideriamo l’amicizia come una priorità nella nostra vita, e un amico c’invita ad andare a mangiare una pizza insieme, noi dovremmo andarci, senza validare la voce dell’anoressia che ci dice di restare a casa per poter continuare a restringere l’alimentazione, o per non derogare dall’ “equilibrio alimentare”. Questo significa accettare il fatto che andare a mangiare quella pizza ci farà sentire in ansia e sarà psicologicamente stressante, ma validare l’importanza dell’amicizia. Scrivono gli autori dello studio che ho menzionato prima e che è stato pubblicato poche settimane fa su “Behavior Modification” (Juarascio et al., 2013)
“L’evitamento, ovvero il cercare di negare e rimuovere le esperienze dolore vissute, nonché il sottrarsi a certe situazioni, anche quando il farlo è inefficace o riduce la capacità d’impegnarsi in comportamenti desiderati, si pensa stia alla base di molta sofferenza psicologica (Hayes et al., 2004). In definitiva, la priorità di evitare pensieri angoscianti, sentimenti ansiogeni, o eventi che mettono in difficoltà, riduce la capacità di adottare misure comportamentali che sono necessarie per vivere una vita degna. Pertanto, la ACT insegna alle pazienti come ottenere distanza psicologica da esperienze dolorose interne, chiarire quali sono veramente le cose che ognuno considera come prioritarie nella propria vita oltre il DCA, e creare obiettivi che possono aiutare le pazienti a vivere la propria vita più appagante, ad avere una vita piena di significato, e aumentare la volontà di sperimentare esperienze interne negative al fine di ottenere risultati che possono comunque migliorare la qualità della vita.
Poichè l’evitamento (di persone, situazioni, cibi, etc…) è un qualcosa con cui le persone affette da anoressia hanno frequentemente a che fare (è uno dei nodi focali dei DCA, in effetti), questo spiega come mai la ACT possa essere una buona terapia per i disturbi alimentari.”
(mia traduzione)
Cos’hanno scoperto i ricercatori?
In breve, i ricercatori hanno reclutato 140 donne affette da DCA, che erano state ricoverate al “The Renfrew Center” di Philadelphia, e hanno comparato il normale trattamento ricevuto in questo centro, con lo stesso normale trattamento a cui erano state aggiunti 2 incontri ogni settimana di terapia ACT di gruppo. Circa metà delle donne erano affette da anoressia, l’altra metà da bulimia. Età per lo più intorno ai 26 – 27 anni, la più giovane una 18enne, la più grande una 55enne. I ricercatori hanno valutato le variazioni del B.M.I. tanto quanto le variazioni dei comportamenti e dei pensieri tipici dei DCA, nonché la capacità di riuscire a prendere le distanze dai pensieri ansiogeni, l’accettazione del venir meno del senso di controllo, e la regolarizzazione delle emozioni.
Le donne che erano state sottoposte alla terapia ACT, avevano fatto 6 incontri di gruppo (per un totale di 3 settimane di durata della terapia, facendo 2 incontri ogni settimana). Il che mi fa pensare ad un uso non particolarmente forte di questa terapia. 6 incontri? Tutto qui? Secondo me non si può neanche propriamente parlare di terapia, se il tutto si riduce a 6 incontri. È come guardare uno spot pubblicitario sulle vacanze alle Bahamas, e poi dire che ci si è state.
Comunque, al di là della mia opinione personale sulla durata della terapia, entrambi i gruppi (sia quello che non era stato sottoposto alla ACT, sia quello che c’era stato sottoposto) avevano mostrato miglioramenti significativi rispetto alla patologia. Questo però non sorprende, visto che la valutazione era stata fatta rispetto ai comportamenti che queste donne presentavano al momento dell’ingresso in clinica, per cui è abbastanza ovvio che dopo il ricovero ci fosse stata una riduzione della restrizione alimentare, del vomito auto-indotto, delle abbuffate, anche se la terapia in se fosse stata inefficace. Non c’era stata una riduzione superiore di questi comportamenti nelle donne che avevano seguito anche la ACT. Tuttavia, queste ultime riuscivano a gestire meglio la propria alimentazione dopo la dimissione dalla clinica, e avevano un tasso di ricadute decisamente inferiore (3,5% contro il 18%). E questo mi sembra un dato decisamente importante e significativo.
Altri aspetti sono stati considerati “trending towards statistical significance”, il che significa che hanno avuto una certa rilevanza, ma statisticamente parlando non abbastanza. Questo potrebbe voler dire sia che lo studio dovrebbe essere ripetuto su un numero maggiore di partecipanti per incrementarne la rilevanza statistica, sia che i ricercatori hanno cercato di glissare su dati che non corrispondevano propriamente alle loro aspettative.
Nell’altro studio, quello presentato alla “London Eating Disorder Conference” diretta da Ata Ghaderi, i ricercatori hanno randomizzato 43 donne affette da anoressia sottoponendole o a terapia tradizionale, o ad ACT, in ambo i casi facendo 19 sedute, e affiancandole con psicoterapia settimanale, corretto regime alimentare, e controlli medici occasionali. I ricercatori hanno poi comparato B.M.I., qualità della vita, strategie di coping, e pensieri e comportamenti tipici del DCA tra i 2 gruppi al termine del trattamento. (Piccola precisazione: solo il 58% delle partecipanti ha portato a termine lo studio.)
Entrambi i gruppi hanno mostrato un più o meno equivalente incremento del B.M.I. durante il trattamento, ma la frequenza delle ricadute post-trattamento è stata un po’ inferiore nelle donne che avevano seguito la ACT.
In conclusione, mi sa tanto che la ACT non è la terapia rivoluzionaria e risolutiva per guarire sempre e definitivamente dall’anoressia… del resto, ma quale terapia lo è? Penso però che sia un buon punto di partenza, la trovo una terapia valida, e credo che dovrebbe essere condotto un maggior numero di studi scientifici al riguardo, più che altro per capire quale tipologia di pazienti potrebbero giovare maggiormente di questo tipo di terapia, e se potesse essere utile l’impiegarla in associazione ad altri tipi di terapia tuttora già in uso per il trattamento dei DCA.
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