Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 2 settembre 2011

Turning



Can’t read my, cant’ read my, no you can’t read my poker face… She’s got to love nobody.

La fine e l’inizio, il bacio di due coni.
Io e te. Perché tu sei me, ma io non sono te. Ora l’ho capito. Che tu non puoi esistere senza di me. Ma io ho tutta la capacità di andare avanti senza di te.
I can do better – without you.

Aggiungo “paranoica” alla lista dei miei difetti mentre per la quarta volta riapro la valigia per controllare se ci ho messo tutto. Sì che ci ho messo tutto, sono stata attenta, e poi ho già ampiamente ricontrollato, quindi cos’è quest’ansia che sale e mi spinge a ripassare in rassegna il contenuto del bagaglio ancora una volta? Ci ho messo tutto, avevo fatto un elenco ed ho spuntato tutte le voci, dunque non può mancare niente all’appello. Eppure poggio la valigia a terra e la apro ancora una volta per essere sicura, ma proprio sicura-sicura di aver preso ogni cosa. Passo in rassegna ogni piega, ogni tasca, ogni scomparto e, sì, c’è proprio tutto. Tutto quello che se ne verrà via con me, penso, è adesso contenuto in quella valigia e nel trolley blu che ho già portato in fondo alle scale. Non ho lasciato niente. Faccio per chiudere la valigia, poi però la riapro di nuovo mentre mi scappa un sorriso involontario perché ho improvvisamente capito la vera ragione di quel quarto controllo. Non per vedere se veramente mancasse qualcosa – già lo sapevo che c’era tutto, in fondo – ma per capire. Per capire che ci sono cose che non posso portare con me, perché otto anni di ricordi non si possono in alcun modo stipare in una valigia, e per capire che ci sono cose che non voglio portare con me.
Get out my mouth, get out my head, get out my mind: you’re nothing but trouble.

Per quanto si possa piangere o gridare a squarciagola, nessuno può fare niente per noi. Non esistono i miracoli. Il vento soffia continuamente, perciò la forza per restare in piedi dobbiamo trovarla da sole.

La prima cosa che mi è venuta in mente, e non sono riuscita a trattenere una risata di fronte all’ennesimo paradosso, è che, in fin dei conti, si trattava di due A. Buffo come due cose tanto opposte possano avere anche punti in comune, no?! Una A prima, e poi ancora una A dopo. Due A a scandire. Così diverse, così uguali. Sembra quasi un segno, non so. La prima A l’ho vista bene, per tanti anni, segnapassi costante della mia vita, così imponente e totalizzante che la seconda A è passata a lungo inosservata. Eppure ha saputo farsi strada a poco a poco, così, senza che io me ne rendessi conto. Perché avevo sempre pensato che la prima A fosse la più forte, quindi non mi ero mai neanche posta il dubbio che potesse esistere qualcosa in grado di contrastarla. Tuttavia, le cose sono lentamente cambiate, dal momento in cui è arrivata la seconda A. E allora, qual è veramente la A più forte? Prima ero sicura di conoscere la risposta. Adesso non ho nemmeno più voglia di pormi la domanda.

E’ umano amare facilmente, vero? Ma lo è altrettanto odiare.

Io sono forte, così pensavo. Così pensavo quando la prima A era l’unica costituente della mia vita. Io sono forte. Non sono una di quelle ragazze deboli che hanno bisogno di essere protette. Io non ho bisogno dell’aiuto di nessuno. Io sono forte. Me la sono cavata sempre da sola. E continuerò a farlo. Proprio così. Non ho bisogno di niente e nessuno.
Avevo la mia A, quindi non avevo bisogno di nient’altro. Bastavo a me stessa.

Ormai valigia e trolley stanno fuori dalla porta: devo solo chiudere a doppia mandata e lasciare le chiavi dietro il vaso di fiori, come da accordi. Poi prenderò l’auto e partirò. Ho fatto un conteggio approssimato, ci sto dentro coi tempi, avevamo detto a mezzogiorno, adesso sono le undici, in un’ora dovrei farcela benissimo, traffico permettendo. E chi se ne frega se il limite di velocità in autostrada è 130 Km/h… quando mai sono stata dentro al limite? Nient’altro da fare, dunque: solo chiudere la porta, caricare i bagagli in macchina, ed andare. Eppure esito ancora. Esito ancora e lancio un’ultima occhiata al corridoio spoglio, alle sue pareti bianche. Ho preso quello che mi serviva, ho messo a posto tutto il resto. Non sembra neanche più l’appartamento in cui ho abitato negli ultimi otto anni, adesso è tutto asettico, non si scorgono tracce di me. Mi mancherà nonostante tutto, mi mancherà anche se non era veramente mio, perché col tempo avevo comunque finito per abituarmici, perché in otto anni succedono tante cose, e perché la mia vita è cambiata tanto negli ultimi otto anni. E negli ultimi otto anni io ero lì, abitavo in quell’appartamento, e ogni mese, ogni settimana, ogni giorno lo trovo scandito in quelle pareti ormai spoglie ed in quell’ordine che non mi appartiene. Forse è normale esitare, è normale provare nostalgia nei confronti del posto in cui si è vissuto per un po’. Ma ora è tempo di essere nuova immagine. Chiudo la porta, giro la chiave. Do le spalle al passato. Mi incammino verso il futuro. Se voglio diventare più forte, è arrivato il momento di svegliarmi.

I was close to a fall line, heaven knows, you found me in time. Was it real? Now I feel like I'm never coming down.

Ti ricordi com’era all’inizio, quando ci siamo conosciuti, al 3° anno di università? Tu che cercavi di attaccare discorso, e io che piazzavo lo zaino sulla sedia di destra e il fonendo su quella di sinistra, affinché non ti sedessi accanto a me. Chissà cos’hai pensato di me, in quel periodo. Di certo devi aver pensato che non avevo alcuna intenzione di fare amicizia con te. Del resto, un giorno te lo dissi anche esplicitamente di andare a rompere da qualche altra parte. Eppure, che strano, non ti sei dato per vinto. Forse è per questo che, col tempo, sei riuscito a cambiarmi. Senza volerlo, poco a poco sono entrata in una nuova misura. Senza volerlo, poco a poco mi sono voltata verso di te. Non è vero che non volessi fare amicizia con te… la verità è che era solo alla prima A che non piacevi. La verità è fino a quel momento la prima A era stata la mia unica amica, e perciò avevo paura di fare amicizia con te. Non riuscivo a sostenere il tuo sguardo non perché non volessi avere a che fare con te, ma perché avevo come l’impressione che tu potessi leggermi dentro. E questo non potevo permetterlo. Non ancora.

“Sai cos’è in realtà la debolezza? E’ dire subito non ci riesco. In realtà non è vero che non ci riesci, la verità è che non ci provi neanche. Non si può dire che non si riesce a fare una cosa se non si prova a farla. Se vuoi diventare più forte, invece di scappare, accetta ogni sfida e combatti fino all’ultimo”.

Le persone non amano facilmente. E altrettanto difficilmente odiano.
Voglio credere in te… per favore, posso crederti almeno un po’?

Sono arrivata per prima, ma fortunatamente l’attesa non è troppo lunga: in capo a 10 minuti lo vedo che sbuca dall’angolo della strada e tenta di salutarmi con un cenno della testa, visto che ha entrambe le mani impegnate da due ingombranti valige. Mi raggiunge, mentre io mi frugo in tasca alla ricerca delle chiavi del portone, e sono così eccitata che quasi me le faccio scivolare di mano. Il nome della via, il numero civico, il portone: la mia nuova casa. La mia nuova avventura. La mia nuova sfida. Che stavolta non devo affrontare da sola, però, perché il mio migliore amico è qui accanto a me. Perché questo nuovo appartamento, questa casa in cui abiteremo da ora in poi, l’abbiamo affittata insieme. E mi viene in mente quel film, e mi tornano in mente quelle parole, quelle stesse parole che vorrei dire mentre fisso il portone di fronte a me: se tu abitassi qui, ora saresti a casa. Cerco di tenere ferma la mano mentre giro la chiave nella toppa: non voglio che lui possa leggere la mia emozione, non mi piace mettere a nudo quello che ho dentro. “Io sono forte e sto bene da sola” ho pensato per molto tempo. Però… in realtà… ho sempre voluto un po’ più di coraggio. Il coraggio di aspettare l’alba senza fuggire. Il coraggio di affrontare la vita. Il coraggio di credere e contare su qualcuno. L’ho sempre voluto. Ma avevo paura che mi dicessero che non avevano bisogno di me, perciò dovevo pensare “Io sono forte”. Tuttavia in realtà volevo che la Veggie che vive dentro di me si accorgesse della propria debolezza, e che smettesse di fingere di essere forte e coraggiosa.
Perciò, per favore… non mi lasciare sola adesso. Adesso che abito qui con te. E, perciò, adesso che sono a casa.

Tell me how you’ve never felt.

La nostra nuova abitazione. Abbiamo lasciato i bagagli alla rinfusa nel corridoio, e siamo entrati in soggiorno con il timore quasi reverenziale di rompere il silenzio che ci avvolge nella penombra della stanza. Non mi sembra ancora vero che tutto questo stia succedendo sul serio. Non mi sembra ancora vero che questo appartamento al primo piano sarà il posto in cui io ed Alex abiteremo nei prossimi anni. È tutto così bello che non ho parole per descriverlo. È tutto così – come dovrebbe essere. Io ho sempre considerato gli altri come dei nemici, per questo non sono mai riuscita a mostrare a nessuno i miei punti deboli. Per questo ho scelto la mia prima A, l’Anoressia. Perché, in fin dei conti, ho sempre provato una paura fortissima ed inarginabile, ed in qualche modo dovevo porle un contenitore, trovare un modo per controllarla. Ho scelto l’anoressia, e a poco a poco mi sono dannata, sotto i piedi un oceano senza fondo. In tanti allora – medici, psichiatri, psicologi, dietisti – hanno cercato di prendersi cura di me, affinché non cadessi in quell’oceano, e io mi sono spesso augurata di precipitarvi dentro, di affondare e di svanire nel nulla. Ho sempre detestato la mia incapacità di fidarmi degli altri… e di me stessa. E mi detesto perché spesso, per eccesso di paura, ferisco chi mi circonda. Del resto, mi dicevo, anche gli altri la pensano così, no?! Anche loro mi detestano, giusto?! Ma io sono forte, non ho bisogno di loro e non ho alcuna intenzione di arrendermi, in fin dei conti ho l’anoressia. Però poi è arrivata la seconda A, l’Amicizia. E tu, Alex, tu mi hai detto che non vuoi che io me ne vada. Hai detto “no”? Non vuoi vedermi scomparire? Io e te, adesso, in mezzo al soggiorno del nostro nuovo alloggio. Non vuoi vedermi scomparire? Dunque posso davvero restare qui? Ho davvero il diritto di continuare a vivere, in questa casa con te? Perché è qui che voglio restare.

Accettare i miei limiti è il primo passo che devo fare se voglio diventare più forte. Perché sono arrivata all’estremo, e mi sono rialzata. Non c’è spazio per l’autocommiserazione, ma solo per l’azione. Perché quando tutto è perduto, è allora che si progredisce.

Quasi come se ci fossimo letti nel pensiero, allunghiamo entrambi la mano e le nostre dita s’incontrano e s’intrecciano. Sei tu quello che stringe più forte, e mi viene da sorridere perché avevo pensato di essere io quella più nervosa e tu quello più saldo – tu sarai la forza mia – ma forse le cose non stanno proprio così. Siamo emozionati tutti e due, ecco cosa. E tu ti volti verso di me e mi sorridi mentre mi stringi forte la mano. Quando mi sorridi… quel tuo sorriso vorrei preservarlo per sempre. Starting from here. Cerchiamo di costruire qualcosa insieme. Perché la nostra amicizia, nel bene e nel male, è più forte di qualsiasi ostacolo che la vita potrà mai pararci di fronte.

Anche oggi, come sempre, arriverà la notte. Ma con Alex al mio fianco, ormai non ho più paura. Grazie alla nostra amicizia, ormai non ho più paura. Non ho più paura. Voglio vivere molte cose. La luce è dentro di me.

Le valige piazzate ognuno nella propria cameretta, adesso stiamo seduti sul divano del soggiorno. Una volta tanto, non c’è bisogno di parlare. I nostri occhi dicono già tutto. Questo è l’inizio. Questa è una nuova strada che si apre. La fine e l’inizio, il bacio di due coni. E si (ri)comincia da qui. Con una sola A, la seconda. Insieme.
“Alex, ehi, Alex!”
“Dimmi”
“Indovina chi vorrei essere in questo momento, più di ogni altra persona al mondo?”
“Chi vorresti essere?”
“Me stessa”



(click sulle immagini per ingrandire)

venerdì 26 agosto 2011

10 cose che le "pro-ana/mia" non vi dicono

Premetto che non lavoro in un negozio d’abbigliamento o in una profumeria, non sono una modella, e il mio lavoro non richiede alcun peso in particolare. Non faccio parte di una qualche strana setta che venera l’aumento di peso. Non vengo pagata per quello che scrivo su questo blog. Non voglio mettere paura o fare a moralizzatrice. E studio Medicina all’università. In altre parole: non ho alcuna ragione per mentire su quello che sto per scrivervi, e ho delle conoscenze mediche di base che mi permettono di spiegare in maniera attendibile quanto scrivo. Ve lo giuro.

Dunque, vediamo di mettere in luce alcuni aspetti, ovvero 10 cose (tratte proprio da un blog pro-ana che, per ovvi motivi, non linkerò) che le ragazze che si autodefiniscono “pro-ana/mia” vogliono far passare per vere, ma che in effetti sono vere.. BUGIE!

1) Ci sono alcuni cibi che sono “ingrassanti”, ed altri no, perciò bisogna mangiare solo questi ultimi.
Magari fosse vero! La verità è che ogni cibo apporta un certo quantitativo di calorie ma, soprattutto, di nutrienti. È a questi ultimi che bisogna dare una particolare attenzione. La dieta giornaliera dev’essere bilanciata tra carboidrati (60%), proteine(30%), lipidi (10%), vitamine, fibre e sali minerali. Sono tutti necessari affinché il nostro corpo lavori correttamente. Tutti i cibi sono “ingrassanti” se assunti in dosi eccessive, e assolutamente necessari e salutari se mangiati nelle giuste quantità.

2) Bere thè (soprattutto il thè verde) accelera il metabolismo.
Il thè è indubbiamente una buona bevanda, anche perché (specie la qualità “thè verde”) contiene un discreto quantitativo di antiossidanti. Contiene teina, che è un blando eccitante, ma questo non significa che acceleri il metabolismo!

3) Bisogna cercare di perdere peso quanto più rapidamente possibile, quindi ogni giorno bisogna cercare di mangiare quanto meno possibile.
Perdere tanto peso in poco tempo comporta una perdita di massa muscolare e non di tessuto adiposo. Quello che si ottiene non è quindi DIMAGRIMENTO ma EMACIAZIONE. Il corpo, sprovvisto di cibo, inizia a nutrirsi di se stesso. Inoltre, una rapida perdita di peso sfasa il metabolismo, con il che poi basterà mangiare pochissimo per riprendere rapidamente tutto il peso perso.

4) Non bere aiuta a dimagrire più in fretta.
Non bere aiuta unicamente a disidratarsi. Comporta, oltre a rovinare la pelle, perdita di elettroliti essenziali al corretto funzionamento del nostro organismo.

5) Le conseguenze fisiche di un DCA sono reversibili nel momento in cui si ricomincia a mangiare normalmente.
Niente di più falso. E parlo per esperienza personale. Certo, alcuni aspetti possono essere reversibili, ma i danni veri e seri che la restrizione alimentare provoca al nostro corpo non tornano indietro.

6) Vomitare, usare lassativi e diuretici aiuta a tenere il peso sotto controllo.
La prima digestione comincia nella bocca. Nel momento in cui deglutite, parte di essa è già avvenuta. Quindi, nel momento in cui compiete una delle 3 azioni sopraelencate, tutt’al più eliminate un terzo, o, proprio al massimo, la metà di quello che avete ingerito. Anche perché nel momento in cui il cibo raggiunge il vostro colon, è già stato completamente digerito, per cui… tutto quello che perdete prendendo lassativi sono liquidi, acqua. Senza parlare ovviamente di tutte le altre conseguenze fisicamente deleterie che fare uso di queste tre tecniche di purging può avere. Tanto per fare un unico esempio, la disidratazione conseguente stimola ipotalamo e reni a scambiarsi una serie di segnali ormonali che inducono i tubuli renali a operare ritenzione idrica, innescando un circolo vizioso.

7) Quando vomitate, non assumete precedentemente cibi rossi, perché così non potrete capire se il rosso che vedete nel vomito è dovuto al cibo o al fatto che state sanguinando perché avete lacerato o lesionato qualche struttura fisica.
Se siete fortunate, nel momento in cui vedete del rosso nel vomito, avete appena il tempo per raggiungere il reparto di emergenza chirurgica in ospedale. Ma non c’è bisogno di vederlo per sapere che avete bisogno d’aiuto. Presenza di sangue nel vomito, comunque, per mettere i puntini sulle “i”, è in primis dovuta a lesioni a carico dell’esofago. Se la lesione è molto estesa, difficilmente avrete modo e soprattutto tempo di farci qualcosa.

8) Prendere pillole ed integratori vitaminici colma la carenza di vitamine derivante dalla restrizione alimentare.
Prendere vitamine artificialmente è un gran bello spreco di soldi e di tempo, ragazze mie. Le vitamine liposolubili per funzionare necessitano di lipidi… che, se restringete, non disponete e non state assumendo, o comunque non in quantità sufficiente. Le vitamine idrosolubili per funzionare necessitano di proteine… che, se restringete, vengono utilizzate del corpo stesso per sostenersi, “bruciando” i vostri stessi muscoli. Quindi figuriamoci se ne avanzano per utilizzare le vitamine! Morale della favola: le vitamine artificiali non sono in grado di fare niente. Non pensate che una pillolina vitaminica colorata possa annullare i danni che con la restrizione state arrecando al vostro organismo: una donna sana non ha bisogno di assumere vitamine artificialmente. Le pillole e gli integratori vitaminici NON sono in alcun modo un sostituto all’alimentazione.

9)Fate una leggera attività fisica prima di fare colazione. L'organismo ha pochissimi zuccheri in circolo da utilizzare come carburante e attinge immediatamente alle riserve di grasso intramuscolare.
No, errato. Attinge immediatamente alle riserve epatiche di glicogeno. Determinando una più o meno severa ipoglicemia che può portare anche allo svenimento. Per attingere alle "riserve di grasso intramuscolare" sarebbe necessario fare una pesante attività fisica per diverse ore... ma, a questo punto, se non avrete ancora fatto colazione, sarete già svenute da un pezzo.

10) Questi consigli non li ho inventati io, li ho trovati su un blog/fotum/sito “pro-ana”, e poiché tante ragazze li seguono con risultati soddisfacenti, non possono che essere utili. Se non ci credete, chiedete a qualche anoressica.
In bocca al lupo a quelle che decideranno di “chiedere a qualche anoressica”, perché nessun’anoressica che io conosca incoraggerebbe qualcuno a seguire tali “consigli”, visto che l’anoressia è la battaglia contro cui dovrà combatter per il resto della sua vita.

Potrei andare avanti ancora per molto, ma penso che questi 10 esempi siano sufficienti a farvi capire che sui blog pro-ana/mia girano molti luoghi comuni, ma che non racchiudono alcuna verità. L’unica verità è che contro l’anoressia bisogna combattere, bisogna scegliere ogni giorno la strada del ricovero. Ricercate la verità ed abbiate cura di voi stesse, perché nessun altro lo farà: solo voi avete tra le mani la vostra vita e potete decidere cosa farne, lottare contro l’anoressia o meno. E delle 2 scelte, solo una ha un futuro.

venerdì 19 agosto 2011

Lasciar andare il "sentirsi speciali"

Leggendo il commento che Ima Sickone ha lasciato al mio post precedente ("[...]Perchè forse per me il DCA è qualcosa che mi fa sentire speciale. Stupidamente, senza dubbio.. hai avuto anche tu la stessa impressione? [...]"), mi è tornata in mente una puntata del telefilm “Dr. House” – nella fattispecie, mi sono poi documentata, il 12° episodio della 7^ stagione. Non mi piace particolarmente questo telefilm, tuttavia in quest’episodio ho trovato un dialogo che mi ha fatto pensare esattamente alle parole scritte da Ima Sickone.

La trama (molto in breve): la paziente dell’episodio è una cameriera (Nadia) che ha una memoria assolutamente straordinaria, e il team di medici del dottor House cerca di capirne le motivazioni, e cerca di capire come questa “super-memoria” possa essere correlata agli altri sintomi presentati dalla donna. La diagnosi che viene fatta è che questa speciale memoria sia una sorta di forma di OCD (DOC) secondario ad una mutazione genetica. Dopo che la paziente è stata messa al corrente della diagnosi, uno dei dottori (Chase) entra nella sua stanza per parlare con lei. Qui si svolge il seguente dialogo:

Chase: Hai detto che non hai avuto la possibilità di scegliere di essere quel che sei. Adesso, ce l’hai. [Tira fuori un piccolo contenitore di SSRI]. Questi si sono dimostrati efficaci nel trattamento dei disturbi ossessivo-compulsivi.
Nadia: Intendi dire che assumendoli perderò la mia memoria?
Chase: Non del tutto… Avrai una memoria come quella della maggior parte della gente.
Nadia: La mia memoria è l’unica cosa che mi abbia mai resa speciale…
Chase: Sei vuoi essere speciale, sarai sempre condannata alla solitudine. [Lascia le pillole tolte dal contenitore sul vassoio ed esce dalla stanza]


E’ un sentimento che conosco molto bene – e realizzare che la cosa che ci fa sentire speciali è tanto una malattia quanto una cosa che distrugge il resto della nostra vita è una realizzazione estremamente importante.

Quando si è nel pieno dell’anoressia, è facile dimenticare che la restrizione alimentare non è un qualcosa che ci rende davvero speciali. È semplicemente un qualcosa che ci rende malate. Ma siamo solo noi a non capirlo. In fin dei conti, una delle cose più frustranti dell’anoressia è che quando si è nel pieno della malattia non ci si rende conto che questo nostro “sentirsi speciali” – l’unica cosa di cui ci si sente orgogliose, l’unica cosa che sembra essere in grado di dare un senso alla nostra vita – non è in realtà niente di così speciale. È semplicemente uno dei sintomi di una malattia.

Questo “sentirsi speciali” costituisce uno dei maggiori ostacoli all’intraprendere un percorso di ricovero. Perché pur riuscendo successivamente a razionalizzare l’anoressia come una malattia, permane sempre la sensazione che questa fosse l’unica cosa in grado di renderci speciali. In fin dei conti, web e riviste pullulano di diete che la maggior parte delle persone non riesce a seguire. E invece noi siamo brave a farlo, e questo ci illude di essere in qualche modo speciali.

In realtà, però, quello che ci rende veramente speciali è la decisione d’intraprendere la strada del ricovero. L’anoressia ci impedisce di vivere a pieno, e combatterla significa darci una possibilità di relazionarci davvero con il resto del mondo e di raggiungere un equilibrio più stabile e sano. In fin dei conti, ci sono solo 2 possibilità: combattere contro l’anoressia, o morire per lo più per quelle che sono le complicanze fisiche dell’anoressia. Certo, l’illusione di essere speciali indotta dall’anoressia è molto potente e permane a lungo. Se non si restringe l’alimentazione, che resta? Ci si sente come se non valessimo più niente. E così, anche se l’anoressia alla fin fine devasta la nostra vita, si esita a fare un cambiamento perché si ha paura che si torni ad essere insignificanti, prive dell’unica cosa che pensavamo ci rendesse speciali.

Ma, ragazze, noi non siamo speciali perché abbiamo una malattia. Siamo speciali nel momento in cui decidiamo di opporci a quella malattia e al suo pattern erroneo di pensieri. Siamo speciali quando decidiamo di affrontare la nostra vita di petto, con tutte le sue difficoltà, le sue sfide… pur essendo “semplicemente” persone “normali”.


P.S.= Ringrazio di cuore tutte le meravigliose ragazze che mi hanno chiesto come sta andando la mia ricerca del nuovo appartamento... Le acque si sono notevolmente smosse in questi ultimi giorni, ma non vorrei cantare vittoria troppo presto... vi terrò informate al riguardo, ovviamente, grazie infinite per la vostra gentilezza, siete meravigliose!...

venerdì 12 agosto 2011

Il mito della motivazione

Il titolo di questo post è anche il titolo che è stato dato alla Conferenza Internazionale sui Disordini Alimentari 2010, tenuta dal clinico britannico Glenn Waller. Ho letto diversi articoli a proposito di questa conferenza, nonché visto alcuni video in cui parlava il Dottor Waller, e devo dire che, sebbene non sempre concordi col suo punto di vista, sicuramente fornisce degli input molto stimolanti.

Nella sua dissertazione, il Dottor Waller tratta anche della difficoltà di trovare la motivazione al ricovero nelle donne che stanno vivendo un DCA. È un discorso spinoso ma molto importante in questo campo, perché trovare e soprattutto mantenere nel tempo la motivazione a percorrere la strada del ricovero è un problema davvero comune con cui credo chiunque combatta contro l’anoressia si sia trovata almeno una volta a dover far fronte. È strettamente correlato alla natura intrinseca dei DCA: l’anoressia è un problema ma, paradossalmente, è anche una soluzione. È una malattia, ma è anche una cura. Arreca tanti svantaggi, ma porta anche dei vantaggi. Questa credo sia la principale ragione per cui i DCA sono così incredibilmente difficili da trattare.

Quando ho cominciato a percorrere la spirale discendente dell’anoressia, non vivevo la cosa come un problema. Anzi, mi sentivo benissimo: forte, soddisfatta, in controllo, sicura di me stessa, migliore del solito, in una parola: onnipotente. Quale mai avrebbe potuto essere, perciò, il problema? Perché mai avrei dovuto intraprendere la strada del ricovero? Come poteva l’anoressia essere una malattia? Semplice: quando non si mangia a sufficienza la salute, fisica e mentale, comincia poco a poco a risentirne. In ultima battuta, sono le limitazioni funzionali e mentali che l’anoressia a poco a poco c’impone che possono essere utilizzate in psicoterapia dai medici per aiutarci a cambiare il nostro atteggiamento.

Il problema è che la motivazione è spesso, per citare le parole del Dottor Waller, un “manifest statement”: è quel che vogliamo fare, piuttosto che quello che avremo effettivamente intenzione di fare (o siamo capaci di fare). Lui compara la dichiarazione dell’orientamento verso la strada del ricovero alle campagne politiche di promesse – non vogliono dir nulla di concreto, e restano solo parole fintanto che non vengono messe in atto. Molto spesso chi ha un DCA si comporta come un politico: alle parole non seguono i fatti.

La risposta del Dottor Waller a questo è una sorta di “aprire gli occhi”. Lui dice agli psicoterapeuti di cercare di smettere di essere parte del problema nella scarsa motivazione al ricovero puntando troppa enfasi sulle dichiarazioni d’intraprendere la strada del ricovero. Facendo così, lo psicoterapeuta ascrive importanza all’anoressia, non alla paziente. “L’anoressia aspetta soltanto che qualcuno gli dia importanza, per sopravvivere” dice il dottore, “e la motivazione d’intraprendere una psicoterapia/percorrere la strada del ricovero non eguaglia l’effettiva motivazione al cambiamento”.

Il fattore che limita maggiormente il cambiamento è l’ansia dell’ignoto. Il non lasciar la strada vecchia per la nuova, perché al DCA in fondo siamo abituate, fa male ma lo sappiamo gestire, è prevedibile, mentre una vita senza anoressia non riusciamo neppure ad immaginarla, e ci spaventa. Inoltre, soprattutto all’inizio, è difficile riconoscere di avere un problema, e questo limita ulteriormente la motivazione al cambiamento ed al ricovero.

Statistiche alla mano, è impressionante vedere quante persone iniziano un percorso di ricovero e poi abbandonano la psicoterapia. Il Dottor Waller non spiega esattamente come mai questo accada, ma io credo sia perchè il supporto ricevuto non è tale e quale alle aspettative, o perchè la troppa fretta di vedere i risultati acceca la consapevolezza che il ricovero dall’anoressia è un processo estremamente lento e fatto di tanti piccolissimi passi.

Penso che trovare e mantenere la motivazione sia un passo fondamentale del ricovero dall’anoressia. Il Dottor Waller dice che il lavoro sulla motivazione dev’essere incessante per tutta la durata della psicoterapia, e che devono essere a poco a poco acquisite strategie che consentano di mantenere autonomamente la motivazione, imparando a limitare i pensieri che ci ricatapultano dritte dritte dentro la mentalità dell’anoressia. Inoltre, aggiungerei che la motivazione è un qualcosa che, col tempo, può vacillare e addirittura scomparire del tutto, per questo non può essere trattata superficialmente e poi messa via, ma bisogna lavorarci su continuamente.

Certo, poi ci sono anche cose che il Dottor Waller ha detto e su cui io non mi trovo d’accordo, per esempio la sua convinzione che le pazienti che non decidono di fare un cambiamento, scelgono di rimanere malate. Questo può essere anche vero nella maggior parte dei casi, ma non si può fare di tutta l’erba un fascio. Talvolta può accadere che la paziente non scelga di per sé di rimanere malata, ma semplicemente non trova intorno a sé un ambiente che le fornisce un adeguato supporto al cambiamento.

A parte questo, comunque, penso che il Dottor Waller, con le sue parole, fornisca degli input molto importanti, sia a chi sta combattendo contro un DCA, sia aglio psicoterapeuti, in modo che entrambe le figure possano muoversi sinergicamente mantenendo la motivazione sulla strada del ricovero.

sabato 6 agosto 2011

Un articolo di passaggio

Un recente articolo scritto da un'adolescente alle prese con i DCA: "What I wish parents knew about eating disorders". ( <- click sopra per aprire il collegamento)

Sebbene sia scritto in Inglese, ho voluto condividerlo qui perchè penso che molte di noi possano rispecchiarcisi.

Dateci un'occhiata ragazze, genitori, amici, tutti quanti!

lunedì 1 agosto 2011

"Full Mouse, Empty Mouse": ti stimo

Quando, girovagando su Internet, in siti americani inerenti i DCA, ho scoperto che era stato scritto un libro per ragazzini/e intitolato “Full Mouse, Empty Mouse: A Tale of Food and Feelings”, la mia attenzione si è risvegliata, e l’ho immediatamente ordinato su eBay (QUI potete trovare il link se siete interessate all'acquisto).

Finalmente, dopo mesi di attesa, il libro mi è arrivato. L’ho letto, e di fronte a certe cose che vi erano scritte, mi è veramente salito un groppo in gola.

Ora, non è che questo sia un libro eccessivamente sentimentale. Quello che mi ha colpito, piuttosto, è stato il fatto che attualmente esiste un libro che, seppure scritto in Inglese, riesce a parlare ai ragazzini/e dei DCA e delle sensazioni ad essi correlate.

L’autrice del libro si chiama Dina Zeuckhausen, che è anche la fondatrice e la direttrice esecutiva dell’ Eating Disorder Information Network. Io vorrei farle un applauso perché: 1) Ha scritto questo libro; 2) Ha scritto questo libro con un’estrema sensibilità e appropriatezza per un pubblico di 10 – 14enni; 3) Ha incluso nel libro delle notazioni per i genitori e delle FAQ (sempre rivolte ai genitori di una ragazzina/o che ha un DCA), nonché gl’inidirizzi di diversi siti Internet che si occupano di DCA.

“Full Mouse, Empty Mouse: A Tale of Food and Feelings” è il miglior libro che io abbia mai letto? No. E’ utile e profondo? .

E’ un libro scritto in versi, come se fosse una sorta di lunga poesia, e anche se in alcuni punti sembra un po’ forzato (o, quantomeno, a me sembra un po’ forzato, poi è ovvio che non ho competenze inglesi tali da poter dare grandi giudizi…), in generale mi pare che riesca a comunicare molto bene con i ragazzini/e, per cui centra in pieno il suo obiettivo. Le illustrazioni (di Brian Boyd) completano splendidamente il quadro ed il messaggio.

Quello che mi è piaciuto di più di questo libro è che non è prettamente rivolto verso le ragazze (come la maggior parte di ciò che inerente i DCA), e non si focalizza unicamente sulla restrizione alimentare o sui problemi connessi al cibo. Parla di un topolino e di una topolina che si abbuffano (per arginare sentimenti/situazioni ansiogene) e restringono l’alimentazione (sempre per arginare sentimenti/situazioni ansiogene) rispettivamente.

Non vengono menzionati comportamenti di compensazione come il vomito autoindotto – e penso che questo sia molto saggio. Laddove prova ad aiutare i più giovani che hanno a che fare con un DCA, non suggerisce la possibilità di “riparare” ad un eventuale abbuffata vomitando, qualora la cosa non fosse venuta in mente al lettore/alla lettrice. Del resto, non sarebbe neanche funzionale per questo tipo di libro mettersi a spulciare ogni singolo comportamento di coping relativo ai DCA.

"Listen to your body.
It's not too hard to read.
Go inside and you will find
The answers that you need.

To find out what you're feeling,
Here's the place to start:
Understand the language
Of your Tummy and your Heart.

Speak up if you're angry,
Get a hug if you feel scared,
And if you're sad, just cry those tears,
'Cause feelings should be shared!"


[“Ascolta il tuo corpo. / Non è troppo difficile comprenderlo. / Scava dentro di te e troverai / le risposte di cui hai bisogno.
Per capire quali sono i tuoi veri sentimenti / c’è un modo per cominciare: / ascolta e separa il linguaggio / del tuo stomaco e del tuo cuore.
Grida se sei arrabbiato/a, / fatti abbracciare se hai paura, / e se sei triste, piangi tutte le tue lacrime / perché i sentimenti devono essere buttati fuori!”]

Sono rimasta piuttosto impressionata. Il libro mi è piaciuto, e se qualcuna di vuoi ne avrà la possibilità, consiglio di leggerlo – ai ragazzini/alle ragazzine che hanno un DCA, ai ragazzini/alle ragazzine che non hanno un DCA, a chi non ha ancora chiaro come possano essere intricate le dinamiche di un DCA, e anche agli adulti. E’ comunque un libro toccante. Sono molto contenta che qualcuno abbia deciso di pubblicare un libro per ragazzini/e che metta in evidenza il coraggio che ci vuole per relazionarsi con i propri sentimenti senza nascondersi dietro un DCA, che incoraggia a parlare con la famiglia delle proprie difficoltà alimentari per quanto questo possa essere estremamente difficile, che consiglia di discernere tra il sentire il corpo e il cuore, e che mostra che nessuno che combatte contro un DCA sia da solo.

mercoledì 27 luglio 2011

Freni al ricovero: Il cambiamento

Concludo con questo post la serie dei freni che l’anoressia pone all’intraprendere la strada del ricovero, poiché la lista sarebbe molto più lunga, ma ho cercato di toccare quelli che per me sono i punti principali. Ne approfitto anche per ringraziare tutte quante per i commenti ai post precedenti che trattano di quest’argomento: i vostri feedback sono estremamente preziosi per me!

Comunque.

L’anoressia è familiare

Come ho scritto nel post precedente, l’anoressia per certi versi semplifica la vita; ma anche le cose difficili possono diventare relativamente più semplici se le ripetiamo abbastanza a lungo. Più che un “semplificatore”, in effetti, l’anoressia finisce per diventare familiare. Io stessa, entrata nell’anoressia quando avevo circa 14 anni, non riesco a capire come facessi, prima, a mangiare senza pensieri. Non me lo ricordo proprio. E penso che questo valga non soltanto per me. Penso che molte si chiedano come facessero a mangiare, prima. Come fosse la routine senza la restrizione alimentare o l’attività fisica compulsiva. E più che l’anoressia reitera, più diventa routinaria, più si fa difficile staccarsene. Perché, per quanto possa essere limitante, distruttiva, per quanto possa avere anche i suoi lati negativi, è un qualcosa cui siamo abituate, un qualcosa che, anche nel male, è ordinaria, abituale, la si può prevedere, e ciò che è prevedibile, in un certo senso, tranquillizza.

È un cambiamento. Il ricovero è un cambiamento. Decidere di percorrere la strada del ricovero significa fare un salto nel buio. Rompere gli schemi. Decidere di lasciare la strada vecchia per la nuova. Questo può essere terrorizzante, se paragonato a un’anoressia che, per quanto distruttiva, è comunque routinaria. Nella crisalide dell’anoressia, ogni accenno di cambiamento fa paura, è destabilizzante. Ci si rifiuta di ascoltare ogni segnale che ci può cambiare anche perché poi si ha paura di quello che dovrebbe succedere se dovessimo sentirci comunque uguali. L’anoressia è predicibile. Si sa quello che si deve dire e fare. Siamo le attrici consumate che recitano una parte sul palcoscenico del mondo. L’applauso finale ce lo facciamo da sole. Dato che programmiamo la vita minuto per minuto, l’ansia svanisce e finiamo per trovare il DCA a suo modo confortevole e familiare.

Ovviamente non è l’anoressia in sè che è un abitudine, però possono diventarlo molti degli atteggiamenti e dei comportamenti legati all’anoressia. Il checking, per esempio. Oppure lo svolgere una determinata attività fisica per un determinato lasso di tempo. Oppure il pesarsi più volte al giorno, o il non pesarsi mai. Oppure il redigere “piani di restrizione alimentare” giornalieri. E la strada del ricovero inizia proprio col rompere questi circoli viziosi: dare un taglio a tutti i comportamenti che reiterano i tipici pensieri dell’anoressia. È ben comprensibile come tutto questo possa essere terrorizzante, e come possiamo cercare scuse di fronte a noi stesse per rimandare.

Salvo gli aspetti emotivi gratificanti, alla lunga l’anoressia è un inferno. Ma è un inferno familiare. È un inferno col quale abbiamo imparato a rapportarci, con il che le fiamme non sono più poi così calde. È un inferno che ha un suo certo ritmo, una ragion d’essere e (posso dirlo?) una sua funzionalità. La restrizione alimentare non è un peso perché ci fa sentire forti e in controllo. E i deficit fisici che la restrizione comporta non sono poi così terribili quando ci abituiamo. Perché un qualcosa di obiettivamente distruttivo come l’anoressia fa provare sentimenti così positivi? Dov’è che l’ingranaggio s’incastra e comincia a girare, come impazzito, verso l’oscurità? L’oscurità fa meno paura del sole, in fin dei conti: dopo un po’ ci si abitua, anche se non si vedono le cose comunque s’intravedono le forme, e non si corre il rischio che la luce possa ferire gli occhi.

Percorrere la strada del ricovero significa intraprendere la strada della luce. Ci vuole un sacco di tempo per capire se questo sia piacevole o meno, è non è sempre facile essere positive al 100% quando si cammina su una strada così difficile. Quello che ci deve mantenere in carreggiata è la consapevolezza che l’altra strada – quella dell’anoressia – è in realtà un vicolo cieco: prima o poi si finisce comunque per sbattere contro un muro. Intraprendere la strada del ricovero significa darsi una possibilità. E nessuno può dire cosa questa possibilità ci possa riservare. Magari il tempo per dedicarci a qualcosa che ci appassiona veramente. Magari la capacità di sederci sul divano e guardare un film dall’inizio alla fine senza avere l’ansia di dover fare ancora un po’ di attività fisica.
Questo è il ricovero. Non tutto il ricovero, ovviamente, ma parte di esso.

Il cambiamento non è necessariamente un qualcosa di negativo. Siamo molto più forti di quello che crediamo, ed abbiamo tutta la capacità di affrontare a testa alta le difficoltà che la vita ci pone davanti anche senza bisogno di ricorrere all’appoggio dell’anoressia. Perché siamo più forti SENZA l’anoressia.

P.S.= E' stata istituita una petizione on-line per istituire una giornata nazionale sui DCA: per firmarla, potete andare a questo link:
Petizione DCA
Io ho già firmato... e voi che aspettate a farlo? Ogni singola firma può essere preziosa! Aggiungetevi alla lista e fate girare la notizia!
Grazie a chiunque lo farà...!

mercoledì 20 luglio 2011

Freni al ricovero: E' complicato

La vita è incredibilmente complicata. Ci sono le relazioni interpersonali (amici, familiari, colleghi di lavoro, compagni di scuola, etc…), c’è il lavoro, c’è la scuola, c’è lo sport, e ci sono comunque un sacco di variabili sulle quali in realtà non possiamo avere alcun controllo. Sebbene l’anoressia non sia solo ed unicamente sinonimo di “controllo”, trovo che la necessità di avere il controllo sia uno dei leit-motive di ogni DCA.

Molto spesso, quando si percorre la strada del ricovero, sebbene non si provi esattamente la “mancanza dei bei tempi andati” quando eravamo completamente in balia dell’anoressia, quando sentiamo la mancanza del DCA sono proprio i momenti in cui la vita sembra farsi più difficile, ed allora sentiamo la mancanza della semplicità connessa all’anoressia. E questo può essere un ulteriore blocco al ricovero.

L'anoressia semplifica la vita

Quando si è nel pieno dell’anoressia, le cose che c’interessano sono essenzialmente 3: perseguire la restrizione alimentare, continuare a provare il senso di controllo e di soddisfazione che ci dà la restrizione alimentare, cercare di nascondere al resto del mondo quello che stiamo facendo. Possiamo anche avere qualche difficoltà nel lavoro o nella scuola – ma va bene comunque, perchè stiamo restringendo l’alimentazione. Possiamo anche avere difficoltà a preparare una gara sportiva – ma va bene comunque, perchè ci sentiamo soddisfatte di noi stesse, sentiamo di avere il controllo e che, perciò, possiamo controllare qualsiasi ambito della nostra vita. Possiamo anche aver litigato con la nostra migliore amica – ma va bene comunque, perché siamo state brave a raccontare bugie e nessuno ha fatto caso a quanto poco anche oggi abbiamo mangiato. Ta-dah! E’ semplice, no?! Fintanto che continuniamo ad esercitare il nostro ferreo controllo alimentare, la vita diventa tremendamente semplice perchè nient’altro conta.

E poiché più si prosegue la restrizione alimentare, più sono gravi le carenze dell’aminoacido triptofano, minore è la produzione di serotonina, peggiore è la neurotrasmissione, maggiore è l’ossessività dei pensieri inerenti il DCA, la semplicità diventa poco a poco sempre più pronunciata. Perché, letteralmente, l’unica cosa cui si diviene capaci di pensare è la restrizione alimentare. Anche se si volesse, anche se si avesse bisogno di pensare a qualcosa di diverso, non ci si riesce. Tutto va a ruotare intorno alla restrizione e al senso di controllo e di soddisfazione che ne derivano. Ci sembra di avere la nostra vita tanto più in mano quanto più ci sta sfuggendo. Certo, la ginnastica mentale che bisogna fare per perseguire la restrizione alimentare è tutt’altro che semplice. Ci si sforza continuamente d’immaginare quali circostanze potrebbero limitare la possibilità di restringere l’alimentazione, e in quale modo fare la cresta a quel che mangiamo. Nonostante questo, tale ginnastica mentale è comunque più semplice di tutte le altre sfide che la vita ci porrebbe davanti se non avessimo lo schermo dell’anoressia. Così s’impara a negare, a isolarci, a mentire, a nascondere, per preservare l’anoressia e l’apparente semplicità e controllo che questa pare, in un primo momento, apportare.

Quando si è nel pieno dell’anoressia, non si è molto preoccupate relativamente a quello che sarà il futuro lontano – non si pensa neanche, per esempio, che l’anoressia possa ucciderci. Non si pensa minimamente ai danni che l’anoressia lascerà sul nostro corpo anche se dovessimo sopravviverle. Fintanto che l’anoressia rimane il nostro asso nella manica, fintanto che quel poco che mangiamo basta a mantenerci in vita, non si dà grande importanza al futuro. Non gli si dà grande peso.

Restrizione alimentare. Controllo. Attività fisica. Queste cose sono molto più facili rispetto a tutto il resto, rispetto alle relazioni interpersonali, al lavoro, allo studio. La vita richiede che ci mettiamo tutte noi stesse per giocare in ruoli differenti, cavarcela in situazioni diverse, rapportarci a persone differenti. E’ difficile. Quando riceviamo un invito a cena da un’amica, dobbiamo determinare come quest’invito possa essere incastrato con i nostri impegni e le nostre responsabilità: dove queste responsabilità possono venire meno, se c’è bisogno di noi a casa, se possiamo organizzare gli altri impegni in modo da farci rientrare anche la cena. Quando si ha un DCA, tutti questi problemi non esistono: si declina l’invito e basta, in quanto cena = cibo = mangiare di fronte ad altri. Egoista, se vogliamo, ma definitivamente semplice.

Percorrere la strada del ricovero significa accettare la vita con tutti i suoi problemi, difficoltà e “catastrofi”. Significa giocare tutte le parti, e le cose non andranno sempre come vorremmo. Significa relazionarsi con le persone correndo il rischio di essere ferite. Significa accettare le nostre imperfezioni, e assumersi la responsabilità di provare a vivere davvero. Ma io credo che ne valga la pena. Che ne valga la pena comunque. Che valga la pena alzare la campana di vetro dell’anoressia, anche solo per respirare un attimo.

mercoledì 13 luglio 2011

Freni al ricovero: L'unica da sola

La solitudine, l’isolamento è un qualcosa con cui chiunque abbia un DCA si ritrova a doversi rapportare. A prescindere dall’effettivo numero di amici posseduti, spesso ci sentiamo come se nessuno potesse capire quello che stiamo provando: siamo in mezzo alla gente, ma ci sentiamo comunque sole. Nessuno che ci capisce, e nessuno che voglia capirci – continuiamo a ripeterci – agli altri non piacciamo, semplicemente ci tollerano. Sommando questi pensieri alla scarsa autostima di base, si fa presto a sentirci outsider. Questa consapevolezza fa male, e quel che è peggio è che molto spesso è accompagnata dal pensiero che non ci si possa far nulla. Siamo noi quelle strane, e questo è tutto.

L’allontanarsi dagli altri per via della sensazione di essere incomprese o sbagliate, porta a riempire i vuoti con la lettura, lo studio, il lavoro, lo sport, senza però permetterci di coltivare rapporti autentici con le persone che ci stanno intorno: tutti schermati dal DCA stesso che costruisce tutt’intorno a noi un muro. Anche se le nostre vite sono superimpegnate ed implicano lo stare in mezzo alla gente, ciò non vuol dire che non siamo comunque sole. Ed ecco che l’anoressia ha un ruolo importantissimo.

L’anoressia è una “cura” per la solitudine

Un DCA è colmo di paradossi e di ironia, e il “fattore solitudine” è parte di ciò. Se ci pensate, infatti, l’anoressia ci isola più che mai: si smettono di fare tante cose con gli altri, perché altrimenti poi avremmo troppo da mentire per giustificare, e di controcanto gli altri, vedendo che noi ci ritiriamo, si allontanano a loro volta, il che ci isola ulteriormente. In sostanza: un circolo vizioso.

Eppure, sebbene siamo più sole che mai, l’anoressia ci fa credere che quella solitudine sia il top. Meglio non avere amici, così non si corre il rischio di essere ferite, non si deve giustificare quello che (non) mangiamo, non bisogna impegnarci in relazioni che potrebbero correre i rischio di farci male. Meglio non avere amici, così nessuno c’inviterà mai a prendere un gelato per merenda, e potremo restringere l’alimentazione senza che nessuno ci dica niente. Sembra proprio ganzo. In un certo senso, lo è veramente.

Ecco perchè l’anoressia rende la solitudine meno pesante, anzi, desiderabile. Capite? Nessuno può farci notare esplicitamente che ci stiamo facendo del male, nessuno può giudicare o commentare quello che facciamo, nessuno può ferirci, nessuno può farci sentire sbagliate. L’anoressia diventa così la nostra unica “amica”. L’ironia in tutto questo è che si finisce per allontanare anche quelle poche vere amicizie che abbiamo, perché non vogliamo correre il rischio di perdere in maniera dolorosa coloro ai quali vogliamo bene. È molto facile arrivare a questo, un po’ per la natura stessa dei DCA (gli altri capirebbero subito che c’è qualcosa che non va, se ci frequentassero abitualmente) un po’ perché il DCA rende più facile l’allontanamento costruendo muri tra le persone. Ma quando si è dentro l’anoressia, tutto questo non c’interessa: abbiamo l’anoressia stessa, del resto, di cos’altro mai potremmo avere bisogno??

Ovviamente, nel momento in cui si decide d’intraprendere un percorso di ricovero, bisogna affrontare il sentimento della solitudine. Sebbene nel ricovero si possa essere meno sole che nel pieno dell’anoressia (facendo una stima delle interazioni con i familiari e con gli amici), ci si sente peggio perché non c’è più l’anoressia a “giustificare” il senso di solitudine che si prova nel momento in cui ci si rende conto che le persone che ci stanno intorno, non avendo vissuto l’anoressia sulla propria pelle, non possono capire realmente quel che proviamo. E allora si prova il desiderio di ritornare all’anoressia perché per lo meno quella ci aveva fatte sentire meno sole. Ma se ci pensate, in realtà, non è che l’anoressia ci rende meno sole: fa solo pesare di meno la solitudine. Certo, riprecipitare nel DCA è piuttosto facile – in parte perché certe cose le abbiamo vissute da così tanti anni che sono diventate abituali, in parte perché ci sono comunque sensazioni positive correlate – ma i momenti in cui percorrere la strada del ricovero diventa più agevole, sono proprio quelli in cui abbiamo vicino persone che possano sostenerci in questo difficile percorso. Non so esattamente quale relazione intercorra tra le amicizie e il percorrere la strada del ricovero, ma ho notato senz’ombra di dubbio che riaprirsi agli altri facilita la lotta contro l’anoressia.

Il ricovero inoltre implica uno slittamento nel modo in cui percepiamo noi stesse. La negatività dell’anoressia si ripercuote inevitabilmente sulla nostra autostima, e non avendo feedback esterni non c’è niente che riesca a cambiare la nostra visione negativa di noi stesse. Relazionaci con gli altri, invece, implica uno scambio, un confronto, che a volte può essere pure doloroso, ma su lunga gittata diventa inevitabilmente costruttivo.

Inoltre, è necessario rendersi conto di due cose: innanzitutto che non siamo le uniche a percorrere la strada del ricovero, e che non siamo da sole, perchè in questo momento ci sono tante alt ragazze che stanno cercando di fare esattamente quel che stiamo cercando di fare noi. In secondo luogo, anche le persone che non hanno un DCA possono sentirsi sole, e sarebbe sciocco credere che percorrere la strada del ricovero significhi che non ci sentiremo mai più sole (anche se questo non sarà bello…). Si sentirà sempre la mancanza di come l’anoressia riusciva a rimuovere il senso di vuoto e di solitudine riempiendolo con le sue ossessioni, ma adesso possiamo essere consapevoli che ci sono anche tante altre cose che possono riempire quel vuoto.

mercoledì 6 luglio 2011

Freni al ricovero: Valium virtuale

Penso che l’ansia, più o meno marcata, sia un vissuto comune a chiunque stia alle prese con l’anoressia. L’ansia rende irritabili, e peggiora ulteriormente le cose che temiamo, un po’ come un serpente che si morde la coda.

Si comincia a star meglio quando ci si rende conto di quanto l’ansia possa pervadere la vita. Questo è il primo passo. Poi però bisogna imparare a mettere in atto strategie di coping contro l’ansia. Ed è proprio questo che mette un freno al percorrere la strada del ricovero:

L’anoressia è un ansiolitico

L’anoressia è una strategia di coping che permette di limitare l’ansia grazie alla sensazione di (illusorio) controllo che fornisce. L’ansia deriva infatti per lo più dal timore che qualcosa non vada come vorremmo, che esca dalla nostra sfera di controllo. L’anoressia sembra fornire la chiave del controllo. Ecco quindi che la malattia diventa la cura. Se possiamo controllare le cose (questo è ciò che l’anoressia ci fa credere), allora possiamo farle andare come vogliamo, ed evitare sorprese indesiderate, quindi possiamo contenere l’ansia. E se proprio, pur controllando l’andamento delle cose, il risultato non fosse conforme alle nostre aspettative, poiché detto risultato deriva comunque dal nostro indirizzamento controllato dei fatti, siamo in grado successivamente di adottare un’altra strategia (sempre controllata!) che ci permetta di dirigere le cose in un’altra maniera, pervenendo ai risultati desiderati.

Se sale il controllo, cala l’ansia. In tal senso, l’anoressia è meglio del Valium. Possiamo controllare le cose, e ci sentiamo bene quando restringiamo l’alimentazione: quale migliore accoppiata potremmo desiderare?

Anche durante le ricadute, si è consapevoli che il ritorno all’anoressia non avrà un lieto fine, e che prima o poi saremo comunque costrette a ricominciare a seguire l’ “equilibrio alimentare” e a riprendere peso. Eppure, ogni volta ci sentiamo raggelate. E non soltanto per il peso da riprendere o per la paura del cambiamento, ma soprattutto per l’aumento dell’ansia che arriva spontaneo quando si rinuncia al “controllo” dell’anoressia. Ci sembra di non essere capaci di gestire quell’ansia senza ricorrere al DCA. Nel pieno dell’anoressia, ci sembra di sapere perfettamente quello che vogliamo: restringere l’alimentazione. In questo frangente, l’ansia si riduce notevolmente perché abbiamo per lo meno un’incrollabile certezza. Il fatto addizionale che l’anoressia sia un ottimo asso nella manica, riduce i livelli di ansia sostanzialmente a zero. Perché anche se tutto andasse a puttane, l’anoressia resta sempre, no?!

Iniziare il percorso di ricovero significa abbandonare tutto questo. Significa rinunciare al nostro Valium virtuale ed imparare ad adottare altre strategie di coping non disfunzionali nei confronti dell’ansia. Il ricovero di per sé – ahimè! – non riduce l’ansia. Ci si sente ansiose come prima e, anzi, forse sembra pure peggio perché siamo appena reduci da un qualcosa che aveva fatto scomparire l’ansia totalmente. Ci sono millemila strategie di coping nei confronti dell’ansia, dallo yoga, alla meditazione, al masticare chewing-gum, al prendere una camomilla, al ricamare, al cercare di distrarsi… e ce ne vogliono a milioni, di queste strategie, perché non tutte sono funzionali per le differenti situazioni. Ovviamente non posso mettermi a prendere una camomilla se sono nel bel mezzo di una gara, ma posso respirare a fondo e dire a me stessa di rimanere concentrata su ciò che sto facendo per impedire alla mia testa di divagare ed essere facile preda dell’ansia. Inoltre, bisogna imparare ad accettare il fatto che la vita non si può controllare, e che quindi l’ansia non potrà mai essere eliminata del tutto, ma che non è così insormontabile da doverla tamponare con l’anoressia. Perciò, quando vi trovate a provare particolare ansia nel percorrere la strada del ricovero e vi viene voglia di rituffarvi nell’anoressia, prendetevi un attimo per pensare: “Quest’ansia l’ho già vissuta, e non ne sono morta. L’anoressia può essere un Valium, un palliativo, ma non la risolve. Perciò, tutto quello che posso fare, è affrontare quest’ansia tal quale. L’ansia non mi ha mai uccisa, quindi ce la posso fare anche stavolta”.

mercoledì 29 giugno 2011

Freni al ricovero: Quando la fame (non) colpisce

Sebbene non sempre presente, nello scrivere questa serie di post mi sono resa conto che anche questo freno può avere un ruolo rilevante nel bloccare il percorso sulla strada del ricovero.

(Non) sentirsi affamate

Talvolta, soprattutto quando si studia sodo o si lavora, non conta molto quante ore si va avanti senza mangiare. Non si sente comunque la fame. Molti fattori possono concorrere a questo, per esempio la concentrazione mentale, il fatto che magari si debba stare sedute, e così via. Quando smettiamo di studiare o di lavorare, solo allora ci accorgiamo di aver fame. Ma mentre stiamo studiando o lavorando? Non abbiamo fame. Proprio non ne abbiamo.

Questo può rendere estremamente difficile il seguire l’ “equilibrio alimentare”, perchè per chi sta combattendo contro un DCA non è facile mangiare, e lo è ancora meno il farlo quando non ha fame. Eppure, bisogna razionalizzare. Perché in certe situazioni non ci viene fame? Forse perché qualcuno potrebbe vederci mangiare, e questo c’infastidisce. Forse perché non vogliamo unirci a mensa coi nostri colleghi. O forse perché scatta il richiamo dell’anoressia che ci dice che se ignoriamo la fame, allora siamo più forti (ma più forti di cosa?), e forse non abbiamo neanche bisogno di mangiare e possiamo tranquillamente saltare quel pasto. In fin dei conti, davvero non abbiamo fame! Quindi, perché mangiare? La risposta è: per non farci fregare di nuovo dall’anoressia. Perché dandogliela vita si entra in un trip di pensieri distorti dai quali uscire è sempre più difficile.

Comunque, cosa succede all’appetito, dunque?

Facile dire: “Un DCA altera il metabolismo è il senso di fame/sazietà, perchè quest’aspetto viene completamente controllato dalla testa”, ma non è questo il punto. Il punto è che un DCA fa perdere quello che ogni essere vivente possiede come istinto naturale, fin dalla nascita: l’alimentazione intuitiva (“Intuitive eating”). Non so se sapete di cosa sto parlando (ho trattato l’argomento in QUESTO POST), in ogni caso, per farla estremamente breve, è una cosa del tipo: mangia quando hai fame, smetti quando ti senti piena. Ho sentito diverse dietiste dire alle loro pazienti, che erano terrorizzate all’idea di riprendere peso, di seguire l’alimentazione intuitiva: se avessero mangiato quando erano affamate e avessero smesso quando si sentivano piene, non avrebbero preso peso.

Non penso che quest’affermazione sia del tutto sbagliata, in certi frangenti può essere pure valida, ma credo che non si possa fare di tutta l’erba un fascio, e che questa asserzione non sia applicabile a chi sta cercando di combattere contro un DCA. Perché molto spesso noi ci troviamo a dover mangiare anche se non siamo affamate, per seguire l’ “equilibrio alimentare”. Prima dell’esordio dell’anoressia, non ci si preoccupa particolarmente di quanto o cosa si mangi, ma dopo le cose cambiano radicalmente. È per questo che si ha bisogno di una rieducazione da un punto di vista alimentare, di un riassestamento del metabolismo, di seguire delle linee-guida senza farci giudare unicamente dal nostro istinto. Bisogna lavorare col e sul nostro corpo. E questo significa anche mangiare quando non siamo affamate, e rispettare con rigore l’ “equilibrio alimentare”.

Parte del percorso consiste nel rompere le rigide regole alimentari che ci eravamo auto-imposte per anni ed anni. È difficile relazionarsi al fatto che il nostro corpo non è in grado di darci segnali veritieri su quando abbiamo fame e quando siamo sazie, ed è per questo che l’ “equilibrio alimentare” è estremamente utile: è un sistema che ci permette di mangiare quando ne abbiamo bisogno, ed è abbastanza flessibile da adattarsi alla nostra vita quotidiana.

giovedì 23 giugno 2011

Freni al ricovero: Endorfine

Quel che sto per scrivere non sorprenderà affatto chi ha un DCA, ma forse potrà stupire chi non ha mai vissuto l’anoressia sulla propria pelle: quando si percorre la strada del ricovero si sente la mancanza dell’elevato livello di endorfine che consegue alla restrizione alimentare. Si sente la mancanza del senso di forza, controllo e soddisfazione che solo l’anoressia è in grado di conferire in quel modo particolare. Si sente la mancanza di quel senso di onnipotenza. Se ne sente la mancanza.

Ovviamente, l’anoressia non è solo sensazioni positive: alla lunga finisce per dare più problemi di quanti sembra toglierne. Ma il nostro cervello – studi scientifici alla mano – è bravo a rimuovere le cose negative conservando invece quelle positive. E quindi, quello che rimane è in definitiva la mancanza delle endorfine, la mancanza della sensazione di forza, controllo e benessere che l’anoressia sembrava conferire. Ci manca un sacco. Ma proprio tanto. Non sentiamo la mancanza del fatto che magari a volte non avevamo abbastanza fiato, o abbiamo collassato. Questo non ha importanza, perché non è che la conseguenza della restrizione alimentare. Questo certo non ci manca. Ma quei momenti in cui ci sembrava di essere migliori degli altri, qui momenti in cui riuscivamo a restringere nonostante le pressioni circostanti, quei momenti in cui ci sentivamo forti, soddisfatte, quei momenti in cui ci sembrava di poter controllare tutto, quei momenti in cui sentivamo di avere tutta la vita nelle nostre mani… ecco, quelli ci mancano da morire.

Sebbene le endorfine non siano uno dei maggiori freni al percorso di ricovero, sicuramente possono giocarci la loro parte. Quando si recupera il peso fisiologico, ci si sente sicuramente meglio – da un punto di vista oggettivo – sia fisicamente che mentalmente. Ma il problema di fondo rimane: non si riesce a trovare più niente che ci faccia stare bene quanto ci ha fatte stare bene l’anoressia. Niente che faccia liberare così tante endorfine. All’Università ho studiato che l’unica cosa che faccia rilasciare tante endorfine quante la restrizione alimentare nell’anoressia, è l’utilizzo di droghe. Del resto, penso che gli stupefacenti e l’anoressia abbiano tantissimo in comune. Anche l’anoressia, a suo modo, è una droga: dà dipendenza, assuefazione fisica e mentale, fa sentire “migliori”, conferisce una sensazione di forza, controllo, soddisfazione, onnipotenza. Certo, percorrendo la strada del ricovero ci si rende conto che ci sono tante altre cose belle nella vita: lo sport, gli hobby, le amiche, il lavoro, ma questi non fanno da rimpiazzo alle sensazioni che l’anoressia ci faceva provare. Non stimolano il rilascio di altrettante endorfine.

Da una parte, penso che dovremmo semplicemente smetterla di cercare di trovare un rimpiazzo all’anoressia. Purtroppo il problema è il bisogno di avere quell’elevato livello di endorfine pur non utilizzando mezzi autodistruttivi. Molto, molto arduo. E forse, a ben pensarci, l’anoressia ci faceva sentire così bene proprio perché tutto il resto sembrava andare terribilmente male.

Recentemente, mi sono ritrovata a pensare a cose che ho fatto quand’ero piccola. Per esempio, quando passavo Estati su Estati a giocare a calcio su un campetto che è stato ad oggi spianato per costruire una casa. Oppure quando mi arrampicavo su un ciliegio che è stato poi abbattuto. Oppure quando facevo le “esplorazioni” in un palazzo disabitato che è stato successivamente trasformato in un albergo. Oppure quando ho fatto le mie prime gare di karate, mettendomi la cintura gialla anche se ero ancora cintura bianca. Inizialmente, ripensando a cose di questo tipo, mi è venuta un po’ di nostalgia. Poi però mi sono detta: “Bè, sono state cose davvero divertenti, però adesso sono cresciuta e sono altre le cose che voglio fare” e i pensieri sono a poco a poco sfumati.

Chissà, forse un giorno succederà qualcosa del genere anche per l’anoressia… Saremo in grado di guardare al periodo della restrizione alimentare e dirci: “Sì, è stato grandioso, mi ha fatto sentire speciale, ed è stato bello finché è durato, ma questo è il mio passato, e davanti a me ho un futuro che voglio provare a costruire in maniera differente”.


P.S.= Chiedo un consiglio a chi ci è passata... Alla fine di Agosto mi scadrà il contratto dell'appartamento in affitto in cui abito adesso, e dovrò traslocare... Se vi è capitata una cosa del genere, come avete fatto a trovare un nuovo appartamento? Vi siete rivolte alle agenzie immobiliari? Avete cercato tramite Internet? Avete cercato un "passaparola" tra conoscenti?... Qual è secondo voi il modo migliore in cui procedere per trovare casa in affitto senza perdere troppo tempo?...

venerdì 17 giugno 2011

Freni al ricovero: Sentirsi normali

Continuando la serie di post che parlano di ciò che ci frena nel percorrere la strada del ricovero, quello che sto per scrivere è abbastanza strettamente correlato al mio ultimo post, ma non è proprio analogo, insomma, è abbastanza differente da meritare un post a se' stante.

Senza l’anoressia, ci si sente semplicemente “normali”

Nella maggior parte dei casi, la nostra altezza è normale. Prima di entrare nella spirale dell’anoressia, molto spesso anche il nostro peso è normale. Il che va benissimo, salvo il fatto che una delle principali ragioni che spinge nelle braccia di un DCA è proprio il fatto che non vogliamo sentirci “normali”. Vorremmo essere piuttosto speciali.

Come molti degli aspetti correlati all’anoressia, gran parte di questo processo inizia ben prima che il DCA tal quale abbia esordito. La maggior parte di noi, infatti, già dai tempi in cui andava a scuola elementare, sente il bisogno di essere “la migliore” quantomeno in ambito scolastico. Non per narcisismo, quanto piuttosto per competitività. Non c’è niente di male, in sé per sé, ad essere competitive, salvo che molto spesso questa competitività diventa “patologica” nel momento in cui, se non si è “le migliori”, allora ci si sente un fallimento totale e si rinuncia a tutto. Lo so perché l’ho vissuto sulla mia pelle. Ricordo che da qualche parte avevo letto una frase che recitava: “Solo una persona può essere la migliore”, e ogni volta che mi dovevo sottoporre ad una prova di qualche tipo, mi chiedevo: “E dunque, perché quella persona non potrei essere IO?”.

Giusto qualche esempio personale per rendere meglio l’idea.

Per entrare a Medicina, la facoltà universitaria che frequento, è necessario passare un test d’ammissione, perché è a numero chiuso: nell’ateneo che frequento ci sono 200 posti, e quindi soltanto le 200 persone che ottengono i punteggi più alti vengono ammesse. Facendo questo test, realizzai 58.50 punti, e fui ammessa: 28esima nella graduatoria d’ammissione (anche se sono passati diversi anni, me lo ricordo ancora benissimo!). 28esima classificata. Per me fu devastante. Per settimane tutto quello a cui riuscii a pensare fu che ben 27 persone erano riuscite a fare il test d’ammissione meglio di me, ottenendo punteggi più elevati. Non aveva nessuna importanza il fatto che gli iscritti al test d’ammissione fossero circa 3000, e che quindi ci fossero state circa 2972 persone che avevano fatto peggio di me. Il punto era solo che io non ero stata la migliore. E quindi, nella mia distorta equazione mentale, significava che se non ero stata la migliore, allora non valevo niente.

Altro esempio, in ambito sportivo. Qualche anno fa, io e gli altri ragazzi che fanno karate insieme a me, facemmo una “gara interna” di kumite (combattimento). Sebbene questa gara non avesse alcuna valenza (era giusto “un’amichevole”, per intendersi), e sebbene tutti i miei compagni di squadra fossero brave persone, e che sapevo già non avrebbero fatto pesare a nessuno la sconfitta, io ero comunque terrorizzata dall’idea di non poter vincere. Non lo feci, in effetti. Mi classificai seconda, ci rimasi estremamente male, ed andai nello spogliatoio pienamente convinta che solo un colpo di fortuna mi avesse salvato dall’arrivare ultima. Non avevo vinto, questo era tutto ciò su cui ero focalizzata, tutto ciò che importava. Bianco o nero. Mentalità dicotomica.

Quello che ci succede nel DCA, in definitiva, è un qualcosa di estremamente simile: quello che ci spinge a vincere non è la gioia della vittoria, ma la paura della sconfitta. E questo è una diretta conseguenza del perfezionismo strettamente correlato all’anoressia stessa. Ovviamente l’anoressia non è solo perfezionismo – ma le due cose sono spesso fortemente legate tra loro.

Ecco, l’anoressia ci fa sentire speciali, in un certo qual modo. Ci fa sentire come se fossimo “le migliori” quando riusciamo a restringere l’alimentazione, perché è un qualcosa che la stragrande maggioranza della gente non riesce a fare. Se qualsiasi cosa va storta, ci barrichiamo in una restrizione ancora più serrata. Per dimostrare (a noi stesse??!) che c’è comunque un campo in cui possiamo far andare tutto dritto perchè siamo “le migliori”, lì. Perché ci sembra che, se non ci fosse l’anoressia, saremo semplicemente “normali”. E la normalità è una qualcosa che non correla bene con una mentalità di tipo perfezionistico e competitivo. La ricerca dell’anoressia non ha molto a che fare con la ricerca della magrezza, è piuttosto una ricerca del sentirsi speciali. Perché se si riesce a controllare tutto – come l’anoressia c’illude di poter fare – allora questo vuol dire “per forza” che siamo speciali.

Percorrere la strada del ricovero, ovviamente, significa in prima battuta mangiare correttamente e riprendere peso. Significa cercare di distaccarsi dai pensieri distorti che l’anoressia mette in testa. Ed è qui che il gioco si fa duro. Perchè l’anoressia ti convince che quello che dice è la verità. Perché non è affatto facile staccarsi di dosso la sensazione di “specialità” che l’anoressia conferiva. Perché liberarsi di un asso nella manica formidabile come l’anoressia, di un qualcosa che per la prima volta nella nostra vita ci ha fatto sentire davvero speciali, per ripiombare in quella normalità che avevamo proprio con l’anoressia cercato di evadere? È estremamente difficile accettare il nostro essere “normali”, e che quest’essere “normale” va comunque bene, dopo aver trascorso anni ed anni con la convinzione che o si è “le migliori”, o non si è niente. Certo, razionalmente sappiamo benissimo che non è essere “la migliore” che ci rende speciali, e non lo è nemmeno la restrizione alimentare… si è speciali perché siamo noi stesse, uniche ed irripetibili, anche se si è “normali”. Emotivamente, però, accettare la cosa richiede molto più tempo. Eppure, è proprio l’essere “normali” che ci rende speciali: perché combattere contro l’anoressia ed accettare il rischio di ricominciare a vivere giorno dopo giorno pur essendo persone “normali”, è davvero un qualcosa di speciale. Del resto, è quando il gioco si fa duro che le dure iniziano a giocare, no?!

sabato 11 giugno 2011

Freni al ricovero: L'asso nella manica

Molte di voi, scrivendomi tramite e-mail, mi hanno chiesto come mai scegliere d’intraprendere la strada del ricovero sia così difficile, come mai sia così difficile seguirla, e come mai l’anoressia rappresenta comunque una calamita così potente da determinare numerose ricadute; come mai è così difficile staccarsene, e come poterci riuscire. Pertanto, ho deciso di scrivere una serie di post cercando in ognuno di essi di mettere in luce quali sono gli aspetti che ci tengono legate all’anoressia di modo che, prendendone più apertamente coscienza, possiamo essere in grado di contrastarli, dandoci ulteriori chances di percorrere la strada del ricovero. Paragonando il ricovero ad una strada che si percorre in auto, vediamo quali ne sono i freni.

Tanto per cominciare, quindi, il primo ed estremamente importante freno al ricovero, che è:

L’anoressia è un asso nella manica

Cosa intendo dire con questo? Quello che accade con l’anoressia (come ho anche detto sul video che ho fatto per MTVnews, e che, se non l'avete già visto, potete trovare QUI) è un qualcosa del tipo: siamo brave a restringere l’alimentazione senza sgarrare, da questo punto di vista teniamo tutto sotto controllo – cosa che la stragrande maggioranza della gente non sa fare – e, cosa più importante, ne siamo consapevoli. Non c’è bisogno che qualcuno ce lo dica. Certo, sappiamo anche di essere intelligenti, sensibili, brave nello sport o in ambito scolastico o lavorativo, ma lo sappiamo solo nel momento in cui gli altri ce lo dicono, nel momento in cui riceviamo una lode, e comunque non ci fidiamo mai al 100% della sincerità di chi ci dice cose del genere. Lo sappiamo, ma non ne siamo consapevoli, non è una cosa che ci viene da dentro, dobbiamo avere una conferma esterna. Perciò, quando ci si rende conto da sole che siamo brave a restringere l’alimentazione controllandola, per la prima volta la nostra autostima risale e ci rendiamo pienamente conto di possedere almeno un’abilità. Un qualcosa che sembra renderci diverse dagli altri, e speciali. Per la prima volta si trova qualcosa rispetto alla quale non nutriamo alcun dubbio di potercela fare, e sentiamo di possedere una vita.

L’’ironia, ovviamente, sta nel fatto che l’anoressia in realtà distrugge la vita, e ci rende ancora più insicure in merito a tutte le altre nostre abilità. Ma siamo comunque brave a restringere l’alimentazione. Siamo comunque più brave di chiunque altro nel controllare – ci sembra – ogni aspetto della nostra vita. Siamo comunque brave a tirare avanti fino al limite estremo. Ecco perché l’anoressia diventa il nostro asso nella manica. Dunque, il DCA distrugge la nostra già scarsa sicurezza in ogni qualsiasi nostra abilità, eccetto il fatto che siamo di gran lunga migliori degli altri nel controllo. Per dirla in un modo che anche le ragazze pro-ana/mia apprezzerebbero, siamo le Dee del Controllo.

Ovvio quindi che s’inizia ad utilizzare l’anoressia come un anestetico, una strategia di coping, un qualcosa per sentirci meglio quando tutto nella nostra vita sembra andare storto. Si prende un brutto voto ad un compito/interrogazione/esame? Vabbè – vorrà dire che oggi non faremo merenda. Si fa un colloquio di lavoro e non si viene scelte? Okay – abbiamo mangiato solo 3 biscotti e mezzo bicchiere di latte a colazione: fanculo il lavoro. Si ricevono critiche da pare di genitori/amici/colleghi di lavoro/superiori? Pazienza – siamo riuscite a restringere l’alimentazione in ogni singolo pasto della giornata, e questo ci fa stare in pace col mondo. Non importa quanto le cose possano andare storte, non contano i disastri che possono accadere, pazienza!, in fin dei conti, abbiamo comunque l’anoressia. E l’anoressia sorregge e sostiene quel poco che è rimasto della nostra sconquassata e lacerata autostima. In altre parole, l’anoressia funziona davvero come un asso nella manica: rende tutto il resto scarsamente importante di fronte ad essa stessa.

Ora, ovviamente, la domanda è: nel momento in cui si decide di percorrere la strada del ricovero e di combattere contro l’anoressia, come possiamo andare avanti senza il nostro asso nella manica? Come possiamo relazionarci con tutte le cose che ci feriscono senza la protezione dell’anoressia?

Una risposta ovvia è: imparare ad adottare altre strategie di coping non disfunzionali, che ci consentano di relazionarci e di interagire costruttivamente con quello che attualmente ci fa stare male.

Un’altra risposta è: lavorare sulla nostra scarsa autostima, per renderci conto che se qualcosa va storto non è necessariamente colpa nostra, perché non possiamo controllare tutto di tutto; e il fatto che qualcosa non vada come vorremmo non significa che noi siamo delle persone cattive, incapaci, o che tutto ci andrà male per sempre.

Un altro freno alla strada del ricovero in tal senso è che si sente la mancanza dell’anoressia. Ci si sente prive della nostra coperta di Linus, del nostro asso della manica. Ci manca la sensazione di forza, di potenza, di controllo, di soddisfazione che ci derivava dall’intima consapevolezza di essere capaci di fare qualcosa in maniera migliore di tutti gli altri. L’anoressia era, in fin dei conti, la nostra via d’uscita, il nostro getaway, e non c’è modo migliore di fuggire dalla vita che viverne il simulacro che il DCA ci propone, scollegandoci dal resto del mondo. L’anoressia era, dopotutto, il nostro paracadute, il nostro Piano B. C’illudeva con vera maestria convincendoci che con lei la nostra vita sarebbe stata migliore, e ci avrebbe aiutato a far fronte a tutti i nostri problemi. Ma l’anoressia non è una soluzione. Può sembralo, o al più pure esserlo, a breve termine. Ma su lunga gittata, finisce per diventare essa stessa Il Problema. E resta comunque qui, al nostro fianco.

L’anoressia ci accompagna sempre nel nostro percorso di vita. Non scompare semplicemente perché un bel giorno decidiamo di combattere intraprendendo la strada del ricovero, perché le bacchette magiche non esistono, non nella realtà. Rimane sempre la consapevolezza che siamo più brave di chiunque altro a restringere senza sgarrare e a mantenere, da questo punto di vista, il controllo. E perciò, rimane comunque estremamente difficile distinguere quelle che sono le illusioni e le bugie che ci racconta l’anoressia e trovare qualcosa che possa rimpiazzarla. Ma percorrere la strada del ricovero è anche questo: capire che l’anoressia è una bugia e un’illusione, ed è a questo che bisogna rinunciare: all’illusione.

sabato 4 giugno 2011

"Diglielo"

Un video che io ed Aisling abbiamo realizzato per tutte voi.

Diglielo.
A tua figlia.
A tua sorella.
Alla tua amica.
A tua nipote.
Alla tua collega.
Ad ogni bambina che conosci.
Ad ogni ragazza che conosci.
Ad ogni donna che conosci.
A chiunque stia combattendo contro l’anoressia.
Diglielo.



La soundtrack del video è la base musicale di “Black Star”, di cui vi riporto il testo tradotto.

“Stella cadente, (credi di essere una) stella cadente,
ma sarai sempre una stella splendente, stella splendente.
E potrai essere tutto ciò che vorrai,
anche una vincente, una vincente.
Tu non sarai per sempre una stella cadente, stella cadente,
stella cadente, stella cadente, stella cadente, stella cadente…”

sabato 28 maggio 2011

Tutto da perdere... e da riprendere

Cos’è che l’anoressia ci fa perdere?

Ci fa perdere la possibilità di raggiungere quello che avremo potuto raggiungere.
Ci fa perdere la salute fisica (e mentale).
Ci fa perdere il nostro amore per le cose che ci piaceva fare.
Ci fa perdere il corpo “perfetto” che avevamo prima d’introdurci nella spirale discendente dell’anoressia.
Ci fa perdere energia.
Ci fa perdere speranza.
Ci fa perdere integrità e identità.
Ci fa perdere l’amicizia.
Ci fa perdere molte esperienze.
Ci fa perdere anni di studio/lavoro.
Ci fa perdere opportunità.
Ci fa perdere rispetto per noi stesse.
Ci fa perdere autostima.
Ci fa perdere il controllo.
Ci fa perdere la fiducia nel futuro.
Ci fa perdere il desiderio di cambiare le cose.
Ci fa perdere tempo.
Ci fa perdere l’innocenza.
Ci fa perdere la serenità.
Ci fa perdere la capacità di accettarci ed apprezzarci per quello che siamo.
Ci fa perdere la volontà di vivere.
Ci fa perdere una corretta percezione della bellezza.
Ci fa perdere sogni ed obiettivi.
Ci fa perdere la concentrazione.
Ci fa perdere ogni direzione.
Ci fa perdere il desiderio di vivere spensieratamente e in modo divertente.
Ci fa perdere di vista quello che conta veramente nella vita.
Ci fa perdere noi stesse.

Io ci sono passata. Sto ancora combattendo. Ho perso talmente tanto me stessa, nel tentativo di essere quella che non ero, che quando ho ottenuto quello che desideravo mi sono accorta che non era ciò di cui avrei avuto veramente bisogno. E che quindi, in definitiva, avevo perso tutto senza ottenere niente.

Se abbracciate ancora la vostra anoressia e non volete lottare, preparatevi a perdere molto, MOLTO più che qualche semplice chilo. Preparatevi a perdere TUTTO. Preparatevi a perdere. Poiché è questo che è in realtà l’anoressia: una scelta a perdere.

Se invece state combattendo insieme a me, ragazze, bè, allora considerate che tutto quello che l’anoressia si è presa non ce lo renderà indietro… ma che, se lottiamo, giorno dopo giorno, noi possiamo provare a ricostruire qualcosa di nuovo. Qualcosa di veramente nostro. La libertà.

sabato 21 maggio 2011

Vivere con/senza l'anoressia

L’anoressia e la bulimia finiscono, a poco a poco, per invadere ogni singolo aspetto della nostra vita, devastando tutto. Così finiscono per farci dimenticare che cosa significhi vivere davvero, intrappolandoci nella nostra stessa mente.

Nel momento in cui s’inizia a percorrere la strada del ricovero, perciò, penso venga spontaneo chiedersi che cosa significhi vivere veramente.

Di certo non significa lottare costantemente contro il cibo, inquadrandolo come un nemico. Non significa fare attività fisica compulsiva mentre si è sopraffatte dall’angoscia per cercare di bruciare presunte calorie assunte in eccesso. Non significa pesarsi tutti i giorni e lasciare che sia il numero che si legge sulla bilancia a dirci quanto valiamo e ad influenzare l’umore quotidiano. Non significa basare la nostra autovalutazione e la nostra autostima sulla taglia di jeans che indossiamo. Non significa evitare ogni qualsiasi rapporto sociale perché non riusciamo a frenare l’ansia conseguente al dover mangiare mente gli altri ci guardano. Non significa piangersi addosso, autocommiserarsi, perpetrare comportamenti distruttivi raccontando a noi stesse la scusa che non abbiamo altra scelta e speranza. Non significa trascorrere più tempo a pensare al corpo che alle amiche. Non significa avere pensieri ossessivi. Non significa essere preoccupate di essere abbastanza magre (ovvero abbastanza malate) per essere notate. Non significa avere segreti e bugie nei confronti di tutte le persone che ci circondano. Non significa pianificare e seguire rigidamente la restrizione alimentare. Non significa perdere così tanto peso da non essere nemmeno più in grado di pensare con chiarezza. Non significa mutilare i nostri sogni e le nostre aspirazioni.

Alla domanda “Che cosa significa vivere?”, di certo ognuna di noi avrà una risposta peculiare e personale da dare; ma sicuramente vivere non significa fare una qualsiasi delle cose indotte dal DCA.

Ragazze, cercate la vostra ragione per vivere. Cercate quello che volete veramente dalla vita. E poi metteteci tutte voi stesse per realizzare il vostro progetto. Continuate sempre ad andare avanti. Rialzatevi dopo ogni ricaduta, e non permettete alla sconfitta di oggi di offuscare la vittoria di domani. Cercate di ascoltare le Vere Voi Stesse, la vostra vera voce, non quella dell’anoressia. Abbiate cura di voi. Prendetevi con ironia. Ridete. Fate scelte e non abbiate rimpianti. Continuate ad imparare. Tenete stretti per mano i vostri amici. Fate quello che amate fare.

Lottate sempre contro l’anoressia, come se ne andasse della vostra stessa vita… perché, in effetti, è proprio così.


P.S.= Per chi fosse interessata, sul sito www.mtvnews.it , sotto l'etichetta "Storie", c'è il topic "Anoressia" in cui, oltre al mio video che ho linkato nel post precedente, potete trovare altri 4 video di persone che raccontano la loro storia e la loro esperienza...

sabato 14 maggio 2011

On stage...

MTV news, 13 Maggio 2011

Per me, per voi... per tutte noi.

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sabato 7 maggio 2011

Smetterla di contare le calorie: alcuni trucchi

Fortunatamente, nonostante la mia anoressia, quello di contare le calorie non è mai stato un mio problema perché non l’ho mai fatto. Tuttavia, parlando durante i miei vari ricoveri con altre ragazze nella mia stessa condizione, mi sono accorta che il conteggio ossessivo delle calorie è un problema che riguarda molte ragazze anoressiche.

Trovo perciò che un primo fondamentale passo per straccarsi da quelle che sono le compulsioni che in alcuni casi possono essere proprie dell’anoressia, un primo step per rompere il circolo vizioso in cui l’anoressia ingabbia, possa essere, per chi soffre di questo problema, quello di smetterla di contare le calorie. Questa può diventare infatti un’abitudine ossessiva di cui è difficile liberarsi, ma che non fa altro che reiterare il loop distorto del DCA.

Penso che il percorso di ricovero preveda il provare a riavvicinarsi al cibo sforzandosi di non vederlo come un “mucchietto di calorie”, ma come un qualcosa che ci cerve per nutrirci – e quindi per prenderci cura di noi stesse.

Voglio perciò provare a darvi qualche consiglio su come riuscire a smettere di contare le calorie. Ovvio, nessuna pretesa di soluzioni a prova di bomba. Solo un tentativo che spero possa esservi utile.

1 – Bevete latte/succhi di frutta/etc… da bicchieri di differente forma e volume. Usate un bicchiere di cui non conoscete il volume, e riempitelo secondo quanto avete sete, senza pensare a quante calorie possa contenere quel TOT di bevanda.

2 – Togliete le etichette informative non appena comprate il cibo, scegliendolo secondo i vostri gusti e non secondo l’ammontare delle calorie scritto sull’etichetta. Non conoscere le calorie di quello che si assume non ne cambia l’apporto, e aiuta un sacco da un punto di vista psicologico. Provare per credere!

3 – Cucinate cibo in abbondanza in modo che vi sia sufficiente per alcuni giorni, senza stare a misurare gli ingredienti. Quando il tutto è pronto, fate delle porzioni a occhio e mettetele nel frigorifero. Così saprete più o meno quello che mangiate, senza però conoscerne l’esatto ammontare calorico.

4 – Chiedete a una vostra amica di cucinarvi qualcosa che lei mangia abitualmente. Questo può far paura, lo riconosco, ma se poi mangiate insieme questo può darvi un idea di cosa significhi tornare a mangiare “normalmente”, e la presenza di un’altra persona può distrarvi dall’ansia.

5 – Il cibo non è un nemico. Pensate al cibo come se fosse la vostra medicina: calorie, nutrienti, vitamine e sali minerali vi aiuteranno a riparare il danno che l’anoressia ha inflitto al vostro corpo.
Per esempio: il calcio rinforza le ossa; i carboidrati sono la primaria fonte di energia; i lipidi sono necessari per la protezione termica, per la riserva di energia, per sostenere gli organi, per avere il ciclo, e per migliorare il tono della pelle; etc…

6 – Ricordate che comunque il calcolo delle calorie nelle etichette informative è sempre inaccurato, e che questo può portarvi a fare scelte alimentari scorrette e illogiche. Inoltre 100 calorie di carne non equivalgono a 100 calorie di burro.

7 – Se anche avete imparato a mente le tabelle nutrizionali e conoscete le calorie associate ad ogni singolo alimento che ingerite, la cosa più importante da fare è non sommarle per calcolare il totale. Se vi rendete conto che lo state facendo, cercate di distogliere immediatamente l’attenzione concentrandovi su una qualsiasi altra cosa. Per esempio, un segnale di STOP.

8 – Quando vi vengono dei pensieri relativi alle calorie del cibo e provate ansia, dite a voi stesse: “Ho il diritto di nutrirmi (senza pensare all’apporto calorico!) e di non farmi del male”.

Ragazze, avete sempre una scelta. Fate la scelta giusta, che purtroppo non è mai quella più facile, ma è inevitabilmente quella necessaria. Per smettere di contare le calorie. E per smettere di contare sull’anoressia.

domenica 1 maggio 2011

Educazione e prevenzione (?)

In quanto protomedico, sono una decisa fautrice della prevenzione, che ritengo sia uno strumento d’importanza fondamentale onde limitare l’insorgenza di determinate malattie. Eppure, non ritengo quest’arma particolarmente efficace nel ridurre i casi di anoressia.

E’ bello cullarsi nell’idea di poter prevenire i DCA. Non sto dicendo che non lo dovremmo fare o che non potremmo provare, mi chiedo soltanto come, insegnando alle bambine ad “amare il proprio corpo” e illustrando loro la pericolosità, i danni fisici e mentali che l’anoressia può apportare, si possa effettivamente evitare la comparsa di un DCA.

Recentemente ho letto un articolo scritto dalla terapeuta Judith Brisman, in cui scrive:

* E’ importante parlare a proposito dei DCA e della loro pericolosità. Parlarne nello stesso modo in cui si parla della pericolosità del fumo in quanto adiuvante di neoplasie polmonari – o della possibilità di fare incidenti se ci si mette alla giuda ubriachi. Un DCA è altrettanto pericoloso, non può essere ignorato.

* Aiutate i vostri figli a fare attenzione alla loro vita interiore. Quali sentimenti provano quando mangiano un gelato, o quando saltano la colazione o il pranzo? Siate genuinamente curiosi in merito alle loro paure, sentimenti e timore in merito al loro corpo. Ed educateli al riguardo: insegnategli che saltare pasti alla lunga distrugge il loro metabolismo.

* Insegnate ai vostri figli ad avere un alimentazione responsabile. Questo non significa non permettergli di mangiare snack. Per esempio, può andar bene mangiare della torta – ma quante volte al giorno? E quanta? Parlatene, mostrate curiosità, e fate attenzione. I bambini devono sapere che se entreranno in un DCA non avranno più la possibilità di concentrarsi sullo studio o di fare sport con buoni risultati. I bambini devono temere un DCA come una tossicodipendenza, un alcoolismo cronico. Devono inoltre sapere che ci sono molti supporti che possono fin da subito ricevere, se dicono di avere dei problemi col proprio corpo e con l’alimentazione.


Okay, non penso che ciò che dice questa terapeuta sia sbagliato al 100%. Anzi, la comunicazione tra genitori e figli è molto importante per ogni qualsiasi cosa, ed è ovvio che un genitore debba insegnare ai propri figli come alimentarsi correttamente, così come deve fargli notare quanto possa essere sbagliato fumare o abusare di alcool e stupefacenti.

Ma la mia domanda è: tutto questo potrebbe veramente servire a prevenire l’insorgenza di un DCA?

Credo che la stragrande maggioranza delle ragazze che sviluppa l’anoressia abbia una conoscenza, ovviamente teorica, al riguardo. Io sapevo benissimo che la restrizione alimentare era pericolosa per il mio organismo nel momento in cui ho deciso di adottare questo comportamento, ma questa consapevolezza non mi ha certo fermata: primo, perché l’idea era che comunque tutte quelle complicanze e quei danni fisici non sarebbero toccati proprio a me, secondo, perché le sensazioni positive (in termini di senso di controllo, forza, soddisfazione, sicurezza, etc…) che la restrizione alimentare mi dava, sul momento mi sembravano più importanti e necessarie della consapevolezza che il mio comportamento alimentare, alla lunga, avrebbe potuto essere molto dannoso.

Penso certamente che molte bambine (e donne!) dovrebbero essere messe al corrente dei danni fisici che una restrizione alimentare “fai-da-te” può provocare, e di come invece affidarsi ad una dietista/nutrizionista qualificata possa permettere di perdere ugualmente peso ma in maniera sana, graduale ed equilibrata. Penso che dovrebbero essere date dritte su quale dovrebbe essere un’alimentazione corretta. E vorrei certamente che molte più persone avessero idee più precise sull’attivista fisica – troppa/troppo poca che sia. Penso che tutto questo, in un certo qual modo, potrebbe aiutare.

Ma spiegare a qualcuno quanto l’anoressia possa essere dannosa, non credo ne prevenga l’insorgenza in quei soggetti che, comunque, per quello che è il loro background, vi sono predisposti. Semplicemente perché la prevenzione di cui io sono tanto fautrice è quella inerente le malattie fisiche... ma l’anoressia è una malattia mentale. Sarebbe come dire che se si informa la gente che la depressione può essere pericolosa perchè compromette la qualità della vita, le relazioni sociali, il lavoro, e può portare anche al suicidio, allora il numero di casi di depressione nel mondo si riduce drasticamente. Sarebbe una bella cosa, ma non è così che la depressione funziona. E lo stesso vale per l’anoressia.

I DCA sono sconcertanti e, in un certo senso, terrorizzanti, e probabilmente è bello pensare che se facciamo un po’ di informazione e se diciamo alle piccole Pinca e Pallina che l’anoressia può uccidere, allora sicuramente loro non saranno così stupide da iniziare una restrizione alimentare. Ma non è così. Dopotutto, una volta mi è stato detto (ed in tutta serietà) che nessuno avrebbe mai pensato che sarei diventata anoressica perché ero troppo intelligente per fare una cosa del genere. Perciò, se sapevo che era una cosa sbagliata e pericolosa, e se ero così intelligente, perché ho comunque percorso la strada dell’anoressia?

Perché non sapevo di stare percorrendo la strada dell’anoressia. Quello che si sceglie è il sintomo, la restrizione alimentare, non la malattia, l’anoressia. Non si vuole diventare anoressiche quando si decide di restringere l’alimentazione, ci si vuole sentire forti, in controllo, soddisfatte, sicure di noi stesse. Ci può essere tutta l’educazione alimentare e la consapevolezza razionale del mondo – ed è giusto che ci sia, se fatta adeguatamente – ma questo non previene comunque l’insorgenza dell’anoressia. Perché la scelta dell’anoressia non è una scelta logica. E’ una scelta malata.
 
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