Come gli alchimisti trasformavano il ferro in oro… voi potete trasformare l’oscurità in luce. Siete tutte benvenute.

venerdì 29 novembre 2013

Una critica costruttiva

Tra i commenti al post precedente, decontestualizzata da esso, ho ricevuto una critica costruttiva da parte di Katniss-L., cui voglio dedicare il post di oggi per 2 motivi:

1) Quello che Katniss-L. ha scritto, seppure in chiave critica, è interessante e ragionato, e mi sembrava perciò limitativo il ridurlo ad una mera risposta ad un commento, anche perché vengono sollevate delle tematiche che potrebbero essere condivise anche da altre/i lettrici/lettori del mio blog, per cui così facendo posso rispondere a chiunque stesse pensando le medesime cose che Katniss-L. mi ha scritto.

2) Ho delle idee ben precise in merito a questa critica costruttiva che mi è stata rivolta, perché il mio modus operandi su questo blog è coerente e motivato, e mi sembra corretto espletarlo. Qui ho la possibilità di spiegare il perché. Inoltre, trattandosi di una critica, non volevo “nasconderla” tra i commenti glissando con una rapida risposta, ma condividere con tutte voi il mio pensiero al riguardo.

Ringrazio comunque Katniss-L. per la sua critica costruttiva, perché ovviamente mi fa sempre piacere ricevere apprezzamenti per quello che scrivo sul blog (e a chi non fa piacere ricevere opinioni positive?!...), ma apprezzo molto anche l’onestà di chi, con correttezza ed educazione, mi spiega il suo punto di vista che può pure contrastare il mio. Del resto, le opinioni sono opinabili per antonomasia, quindi è ovvio che ognuno la veda a suo modo, perché la soggettività interindividuale è innegabile ed è quello che ci rende uniche. Perciò, ben vengano anche i pareri contrastanti: la luce è tale solo e soltanto se esiste anche l’ombra.

E arriviamo dunque al fatidico commento di Katniss-L.:

“Cara Veggie, leggo da molto tempo il tuo blog, ma non ho mai commentato finora. Premettendo che apprezzo moltissimo il “lavoro” che stai facendo su questo blog, vorrei comunque esprimere alcune mie perplessità. 

Mi sono laureata in psicologia da alcuni mesi, e proprio in virtù del percorso di studi che ho fatto e del lavoro che andrò a svolgere, leggendo il tuo blog mi sono talvolta sorpresa a pensare a quanto possa essere difficile per te scegliere cosa scrivere nei post, ma soprattutto “cosa” rispondere alle persone che ti commentano quando ti espongono la loro situazione e ti chiedono cosa fare. 

Tu hai affermato più volte che non dai giudizi né suggerimenti perché non ti compete in quanto non professionista. Questa affermazione mi sorprende, perché nelle risposte che scrivi ai vari commenti, dai sempre dei consigli, che talvolta sono molto chiare e nette. Mi riferisco, per esempio, a quando scrivi (cito le tue testuali parole copiate da alcune tue risposte a dei commenti): “Non so se sei seguita da una dietista e/o da una psicologa, in ogni caso ti consiglio vivamente di rivolgerti a queste figure professionali”, oppure: “Quando ti assalgono i pensieri propri del DCA, anziché agirli, cerca di fare qualsiasi altra cosa per distrarti”, oppure: “Cerca di mangiare tutto quello che è previsto dal tuo “equilibrio alimentare”, pensando che il cibo adesso è la tua medicina” oppure: “Prima chiedi aiuto, meglio sarà, per cui non esitare a farlo”; giusto per citare alcuni esempi. A me queste sembrano delle indicazioni molto nette. Oppure in un’altra occasione scrivi: “Mi sembra che il tuo problema principale in questo momento sia che stai aggravando la tua patologia di base piangendoti addosso in maniera incredibile”, e questo mi “puzza” molto di giudizio. Allora, quello che mi chiedo è: non è un tantino azzardato da parte tua scrivere su un blog risposte a domande di persone sconosciute sulla base di ciò che affermano? 

A me capita di pensare alle storie che ascolto dai pazienti mentre svolgo il mio tirocinio come a un intreccio complicatissimo, non fosse altro che il punto di vista del soggetto narrante, ammesso in buona fede ma deformato da meccanismi inconsapevoli, è solo una fioca luce nella ricerca non certo della “verità”, ma di una interpretazione plausibile e verosimile di ciò che emerge nella relazione di coppia psicoterapeuta-paziente. 

Quindi, quando sul blog ti vengono fatte certe domande o dette certe cose, tu sei chiamata a muoverti sulle sabbie mobili nel momento in cui rispondi. E data la precisione delle domande che talora ti vengono rivolte, come un giudice non puoi esimerti dal prendere una posizione. 

In definitiva, mi interrogo sull’opportunità di dare delle risposte a commenti di persone sconosciute, sulla base di una manciata d’indizi, che peraltro chi scrive sceglie accuratamente.” 

Cara Katniss-L., le cose che scrivi sono tutt’altro che sciocche, ma converrai con me in merito alla constatazione che chi mi scrive è abbastanza intelligente da sapere che non sarò io, con le mie poche parole di risposta, a risolvere le loro problematiche (alimentari e non), poiché problemi seri la cui gestione richiede – come spesso e volentieri consiglio, è vero, e qui lo ribadisco – l’intervento di specialisti.

Credo che molte delle ragazze che commentano il mio blog scrivano per rompere un silenzio con se stesse, per raccontarsi come si farebbe con quell’amica, quell’amico, cui non si riescono a rivelare problematiche così importanti e pervasive come un DCA. Diciamo che i commenti che ricevo – e le risposte che do – sono una specie di specchio che riflette le persone, le loro verità, le loro bugie, le loro sofferenze, le loro difficoltà, le loro speranze, le loro illusioni, etc. E’ chi commenta i miei post a guardarsi in quello specchio, che le aiuta a capire non solo ciò che sta succedendo, ma ciò che si nascondono, che si inventano.

Io so di non rispondere a delle persone del tutto vere ed autentiche, ma soltanto a quello che loro vogliono apparire a me e a se stesse. Per questo bastano gli indizi “scelti”, come dici tu, ma non sempre accuratamente, dico io.

Io non ho mai pensato di esercitare un potere più o meno salvifico, ma come semplice blogger, di condividere la mia esperienza di vita con l’anoressia, di esprimere il mio punto di vista, di creare un piccolo spazio virtuale di condivisione e sostegno reciproco nella lotta contro i DCA, di chiacchierare con persone sconosciute che proprio per questo si raccontano come vogliono, rimanendo aderenti alla loro realtà oppure inventandosi.

Tu dici che non è vero che io non esprimo consigli o giudizi: premesso che gli esempi che tu hai citato riguardo a ciò che ho scritto sono completamente decontestualizzati e quindi un po’ fuorvianti per come li presenti tu rispetto a come suonavano nell’originale, quando erano inseriti nel relativo commento, in quanto ai consigli, sono come tali soggettivi perché provenienti da un essere umano (non a caso, premetto sempre “Secondo me”, “Io penso che”, “A mio parere”, etc), e dunque passibili di valutazione da parte di chi li riceve, e di sciente decisione su cosa fare a prescindere da quello che io posso aver scritto. In quanto ai giudizi, diciamo che se li do, non è sulla persona che scrive (che ovviamente non conosco, e dunque non mi permetterei mai), ma unicamente su quello che scrive (che è quello che la persona mi vuol far arrivare).
Questo mi toglie dalle responsabilità che invece, giustamente, tu hai in quanto psicoterapeuta.

Quelli che scrivo non sono ordini da eseguire né verità assolute, ma semplice condivisione di quello che mi ha aiutata, in un passato più o meno remoto, a stare meglio nella mia lotta contro l'anoressia, nella speranza che possa essere d’aiuto anche a chi mi legge.

venerdì 22 novembre 2013

Lasciar andare l'idea della perfetta guarigione

Se avete mai sentito in qualche programma televisivo qualcuno che ha un DCA parlare di come immagina possa essere una sua futura guarigione, siete perdonate per aver pensato che quel qualcuno stesse cercando di convincervi ad acquistare uno stock di pentole in una telepromozione.

A volte in TV o su Internet capita di vedere video (o di leggere post) di persone che dicono come pensano che sarà la loro vita una volta che saranno guarite dal DCA. Sono persone che dicono cose come: “Si guarisce dall’anoressia quando si riesce ad amare se stesse. Quando si riesce ad amare il proprio corpo e ad accettare tutte le proprie imperfezioni. Quando si arriva a questo, ci si rende conto che la vita è bellissima, è meravigliosa. Si riescono a raggiungere le radici del proprio DCA. E non ci si ricade mai, mai, mai, MAI più. Si guarisce del tutto, e questo è per sempre.”

Ecco, quando sento cose del genere, mi sembra un po’ di stare a sentire una telepromozione che ti vuol vendere qualche cosa. O l’inno di una setta segreta con una parola d’ordine e una divisa contraddistintiva.

Okay, credo che la maggior parte delle persone che hanno vissuto/vivono un DCA, abbiano la consapevolezza che non esiste una guarigione perfetta. Ma stando a quello che dicono alcune persone quando parlano di come immaginano la loro vita post-DCA, a me sembra che tendano a dipingere la cosiddetta guarigione come una forma idealizzata di Come-La-Vita-Sarà-Da-Ora-In-Poi-Sempre-Nel-Persempre-Amen. Non è in questo che consiste la strada del ricovero, secondo me. Se decidete d’iniziare a combattere contro il vostro DCA, e vi rendete conto che la dura realtà consta nel doversi opporre all’anoressia giorno dopo giorno, con fatica, con difficoltà, i discorsi sull’utopica perfetta guarigione non cominciano a sembravi un pochino fake?

Certo, a chi non piace pensare che dall’anoressia si possa guarire in toto, senza alcun residuato psicofisico, e che la vita senza il DCA possa essere perfetta? Ritrovare un’alimentazione completamente spontanea, amare il cibo, amare la propria fisicità. E poi svegliarsi ogni mattina, alzarsi da letto, guardarsi allo specchio e vedere quant’è sexy il riflesso che rimanda. Niente più giornatacce passate in preda a manie di controllo, niente più ansie. Soltanto autonomia, sicurezza di sé, e felicità. Penso che chiunque di noi possa aver immaginato, anche solo per un momento, qualcosa del genere pensando ad un futuro senza più anoressia.

Per quel che mi riguarda, percorrendo la strada del ricovero mi sono accorta che le cose non stavano così. E quindi, ho regolato il tiro. Ma non abbassandolo. Non mi sono detta: “No, non è così che andranno le cose, non ci sperare neanche”, bensì mi sono detta: “Non guardare al risultato, focalizzati sul processo.”. Se infatti mi fossi concentrata su un’utopica prospettiva di perfetta guarigione, e poi mi fossi accorta che la necessità di controllo permaneva, e che la vita presentava comunque tutte le sue difficoltà, mi sarei buttata giù ed avrei mollato, perché mi sarei sentita incapace di raggiungere quell’obiettivo, e dunque una fallita. Invece, concentrandomi su quello che potevo fare concretamente, giorno dopo giorno, per migliorare la qualità della mia vita, mi sono accorta che potevo muovere dei piccoli passi avanti per cercare di fare in modo che pian piano la mia situazione fosse migliore rispetto a prima. Tuttora, se guardo oggettivamente al punto in cui mi trovo (da qualche parte lungo la strada del ricovero), mi rendo conto che la mia vita non è rose e fiori, e non somiglia a quella che dicono di voler avere le persone che immaginano una completa guarigione dal proprio DCA, però sono comunque riuscita a ripristinare una elevata qualità della mia vita e continuerò ad impegnarmi per ottenere ulteriori miglioramenti in futuro.

Anche leggendo su Internet narrazioni di ragazze che raccontano la propria vita con il DCA, mi rendo conto che queste storie si ripartiscono per la maggior parte in 2 grani filoni: quelle che concludono “Penso che il DCA rimarrà comunque un vissuto che mi segnerà e mi condizionerà per il resto della mia vita, sia nel mio rapporto nei confronti del cibo, che di me stessa, che degli altri”, e quelle che concludono con le telepromozioni succitate. Il problema è che, a mio avviso, ambo le mentalità conducono al fallimento. Nel primo caso, perché una persona si abitua al DCA a tal punto da rassegnarsi ad una sorta di convivenza più o meno passiva, e perde così la reattività che serve per riconquistare giorno dopo giorno una vita migliore; nel secondo caso, perché viene idealizzata a tal punto l’idea della guarigione, che non potrà mai concretizzarsi con quelle modalità, che la delusione che ne consegue porterà inevitabilmente ad avere delle ricadute.

Spesso ricevo e-mail da parte di ragazze che mi chiedono cosa mi ha fatto decidere di combattere contro l’anoressia, qual è stato il mio punto di svolta, cosa mi ha convinto a cercare di stare meglio e tornare a mangiare normalmente. Mi dispiace sempre rispondere loro che non è così che per me sono andate le cose. È vero, c’è stato un live delle t.A.T.u. che mi ha dato una bella spinta nella giusta direzione, ma questo è stato un input: sarebbe rimasto passivo e fine a se stesso se io non lo avessi agito. Non c’è stato nella mia vita un epocale cambiamento, una qualche epifania, un qualche evento che dall’oggi al domani mi ha fatto cambiare completamente idea e combattere fervidamente contro l’anoressia. Il mio è stato un percorso lento, costellato di ricadute. Però mi sono rialzata ogni volta, ho stretto i denti, ho tenuto duro, ho ricominciato a combattere. È possibile che ci siano persone alle quali succede una qualche cosa, un qualche epico evento, e da lì in poi sfrecciano sulla strada del ricovero senza mai deragliare… ma questo non è l’unico modo, secondo me, per percorrere questa strada.

E, tra l’altro, percorrere la strada del ricovero non è una passeggiata. Talvolta su certi Tumblr leggo frasi come: “The worst day in recovery is still better than the best day in relapse(“Il giorno peggiore mentre percorri la strada del ricovero è comunque meglio del giorno migliore di una ricaduta”). Onestamente? Se mi è concesso di dirlo, talvolta non è così. Talvolta la vita quotidiana è così difficile da affrontare, con tutti i suoi millemila imprevisti e difficoltà, che la sensazione di controllo che fa (illusoriamente) provare l’anoressia ti fa sentire molto meglio che il combattere l’anoressia stessa. Non è nel mio interesse né nei miei progetti un’ulteriore ricaduta nell’anoressia, ma sono consapevole che essendo stata l’anoressia una strategia di coping estremamente funzionale, è possibile che in futuro le difficoltà della vita mi porteranno ad un punto tale da mettermi nella necessità di riadottarla. Del resto, non ho scelto la restrizione alimentare perché volevo essere magra. Ho scelto la restrizione alimentare perché mi permetteva di provare quella sensazione di controllo che tanto anelavo poiché la vita – incontrollabile per antonomasia – mi sembrava così più facile da gestire.

Le difficoltà non cessano all’istante quando s’intraprende la strada del ricovero. I problemi che prima nascondevamo dietro al DCA restano, e ci si trova di fronte al difficile compito di affrontarli. E spesso sono schiaccianti. È dura. È veramente dura. Bisogna lavorarci su con la psicoterapia, perchè affrontare quei problemi è pure l’unico modo che abbiamo a disposizione per andare avanti.

Niente arcobaleni ed unicorni, qui. La strada del ricovero che sto percorrendo non è l’utopia della perfetta guarigione. Ma è un qualcosa che lentamente e gradualmente mi permette di stare meglio, e ce la metterò tutta per mantenere la rotta. Sì, ci sono state ricadute in passato, e non posso escludere l’eventualità che ce ne saranno in futuro. Sì, dovrò lavorare ancora tanto sulla mia necessità di controllo. Sì, molto probabilmente rimarrò vulnerabile all’anoressia per il resto della mia vita. Ma sapete cosa? Mi va bene così. Perchè potrò comunque arrivare ad avere un’ottima qualità della vita, anche se la vocina dell’anoressia rimarrà da qualche parte. Ma posso non agirla. E così le cose andranno meglio.

In conclusione: io non credo che si possa “guarire” dall’anoressia nel senso proprio del termine, e credo che qualcosa del DCA nella nostra mente rimarrà sempre. Ma credo anche che possa rimanerci in maniera passiva, senza più influenzare i nostri comportamenti, in maniera tale da permetterci di avere un’ottima qualità della vita. Credo fermamente infatti che sia possibile avere una remissione dell’anoressia, e che questa remissione possa protrarsi vita natural durante. Un po’ come l’acoolista, che avrà sempre la tentazione di bere, ma che razionalmente riuscirà sempre ad impedirsi di farlo, e nonostante la vocina nella sua testa riuscirà dunque comunque a vivere una vita di qualità elevata. Ecco, credo che lo stesso valga per l’anoressia.

Perciò, siate contente della grinta con cui ogni giorno riuscite ad affrontare la strada del ricovero, anche se non va tutto alla perfezione, anche se avete ancora l’impulso di restringere l’alimentazione, anche se avete ancora voglia di controllare tutto. I giorni di merda ci saranno comunque, ci saranno periodi che potranno comunque andare da schifo, perché così è la vita. Ma al di là di tutto questo, di tutte le follie, di tutti i casini, se continuiamo a combattere contro il DCA potremo trovare altre strategie di coping che non passino per la distruzione fisica e mentale, e potremo tornare ad avere una qualità della vita veramente elevata.

Ma questo succederà solo quando lasceremo andare l’idea della perfetta guarigione, la telepromozione della vita perfetta senza anoressia, e cominceremo a concentrarci sui nostri piccoli-grandi progressi quotidiani, cominciando ad abbracciare le piccole-grandi conquiste per le quali abbiamo lavorato così duramente.

venerdì 15 novembre 2013

Sottotipi di anoressia basati sulla personalità

Come, ne sono certa, la maggior parte di voi che mi leggete saprà, il DSM distingue 2 sottotipi di anoressia. Citando detto manuale:

Sottotipo 1: con restrizioni (restricting type). Nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto non ha presentato regolarmente episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o clisteri) 
Sottotipo 2: con abbuffate/condotte di eliminazione (binge eating/purging type). Nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o clisteri).

Per abbreviare, il sottotipo 1 viene indicato come AN-R (Anorexia Nervosa – Restricting) e il sottotipo 2 come AN-BP (Anorexia Nervosa – Binge/Purging) – dato che gli psichiatri sembrano amare gli acronimi tanto quanto amano chiedervi del vostro rapporto con la vostra mamma. Da un punto di vista comportamentale, questa sottoclassificazione pare scontata. Ma in realtà lo è meno di quanto sembri.

Nuove ricerche, infatti, stanno mostrando che questi 2 sottotipi comportamentali non sono il miglior modo per distinguere tra le varie tipologie di anoressia. Difatti un numero sempre maggiore di psicoterapeuti stanno facendo notare come le differenze caratteriali, di personalità, tra le persone affette da anoressia siano ad oggi più significative rispetto alla dicotomia AN-R e AN-BP, come è stato notato in uno studio condotto da Wildes et, al nel 2011.

 Alcuni studi longitudinali hanno dimostrato infatti che ci sono delle differenze tra AN-R e AN-BP sia riguardo all’efficacia delle varie tecniche terapeutiche, sia riguardo al tempo necessario per fare passi avanti sulla strada del ricovero, sia rispetto alla frequenza delle ricadute, sia in merito alla mortalità. Inoltre è stato osservato come una certa percentuale di soggetti AN-R, tenda a sviluppare dopo un lasso di tempo più o meno lungo AN-BP, mentre la restante percentuale rimane fissa sull’AN-R.

Volendo riassumere lo studio di cui vi parlavo: i ricercatori hanno studiato i profili di personalità di numerose persone affette da DCA, ed utilizzando queste differenti caratteristiche caratteriali, hanno diviso le persone affette da anoressia e da bulimia in 3 principali gruppi.

Tratti di personalità nei 3 gruppi: 

Supercontrollatrici (termine originario: Overcontrolled): Le supercontrollatrici estendono la loro necessità di controllo ben al di là del meno cibo, cercando di riuscire virtualmente a controllare ogni qualsiasi ambito della loro vita. Tendono ad essere rigide, affidabili, ottime leader, ma non hanno in realtà idea di cosa vorrebbero veramente per se stesse e dalla loro vita.
Sottocontrollatrici (termine originario: Undercontrolled – perdonate le pessime traduzioni, ma non credo esistano parole equivalenti in italiano): Le sottocontrollatrici hanno frequenti perdite di controllo che riguardano non solo l’ambito alimentare. Le persone appartenenti a questo gruppo sono spesso impulsive, emotive, molto sensibili, fortemente empatiche e dotate di una brillante intelligenza, ma tendono a soffocare la propria rabbia nei confronti degli altri rivolgendola su se stesse.
Perfezioniste (termine originario: Perfectionistic): Al di là dell’ovvio perfezionismo connesso al nome stesso della categoria, le appartenenti al gruppo delle perfezioniste sono persone molto precise, corrette, puntuali, propositive, gentili ed educate, ma con una certa tendenza alla depressione.
 (Suddivisione tratta da Westen & Harnden-Fischer, 2011) 

In questo studio iniziale lo scopo non era semplicemente quello di valutare le differenze di personalità nei DCA, ma anche quello di capire come questi tratti caratteriali potessero influenzare e quindi predire l’efficacia del trattamento. Credo che non vi sorprenderà il sapere che le persone che miglioravano più rapidamente dopo l’inizio di psicoterapia + riabilitazione nutrizionale erano le perfezioniste, seguite dalle supercontrollatrici, ed infine le sottocontrollatrici. In ogni caso, questo è semplicemente un esempio, e lo studio in questione peraltro era uno studio retrospettivo.

Viceversa, i ricercatori erano interessati ad uno studio prospettivo, per cercare di capire come questi tratti caratteriali influenzassero il percorso di ricovero, e come si modificassero nel corso dello stesso.

Alcune settimane fa, dei ricercatori hanno pubblicato il loro studio su “Behaviour Research and Therapy”. Questo studio si è basato su 116 donne affette da anoressia (alcune con AN-R, altre con AN-BP) che seguivano una psicoterapia e una riabilitazione nutrizionale di tipo ambulatoriale, per valutare la relazione tra la loro personalità e i sintomi clinici presentati (Lavender et al., 2013) Per prima cosa, i ricercatori hanno somministrato a queste donne una batteria di test di personalità e di questionari sui DCA. Dopo 2 settimane di terapia, hanno chiesto a queste donne come si sentissero in quel momento, e quali fossero stati gli eventuali cambiamenti nei comportamenti tipici del loro DCA, in 6 diversi momenti del giorno. Le partecipanti allo studio, in base alla loro personalità, erano state divise in supercontrollatrici (14,7%), sottocontrollatrici (47,4%) e perfezioniste (37,9%).

Le componenti dei 3 sottogruppi di personalità non differivano in termini di età, B.M.I., epoca della diagnosi di DCA. Le persone affette da AN-BP non differivano neanche per numero delle abbuffate, induzione del vomito, iperattività fisica giornaliera. Non sorprendentemente, le ragazze appartenenti al gruppo delle perfezioniste avevano quasi tutte comorbidità quali disturbi d’ansia, DOC o depressione, le persone con AN-BP appartenevano quasi tutte al gruppo delle sottocontrollatrici, le persone con AN-R quasi tutte al gruppo delle supercontrollatrici.

Gli autori hanno concluso:

“[…] Questi risultati suggeriscono che possa essere utile sottosuddividere le persone con un DCA ina base alla loro personalità per poter tipizzare il trattamento, e che le differenze di personalità possono rappresentare una valida strategia di classificazione delle persone affette da disturbi alimentari.” 
(mia traduzione) 

In soldoni: la propria personalità, il proprio carattere, ha molto a che fare con il modo in cui una persona si comporta, ben più dell’attuale sottotipizzazione diagnostica basata esclusivamente sui sintomi. D’altro canto, la tipologia di personalità non permette di distinguere i vari pattern di DCA in maniera tanto schematica da permettere una diagnosi secondo i dettami del DSM. L’importanza di questa suddivisione basata sulla personalità sta nel fatto che varia la risposta ai diversi approcci terapeutici, e quindi è possibile scegliere delle terapie più mirate sulla base del carattere del singolo.

Fortunatamente, questa ricerca è stata ripetuta su 154 ragazze ricoverate in una clinica per DCA (lo studio di Wildes cui avevo accennato). In questo caso i ricercatori hanno valutato tramite opportuni test la personalità delle ragazze al momento dell’ammissione in clinica. L’età media delle partecipanti allo studio era di 25 anni, e l’età media della durata di malattia era di 8 anni.

Anche in questo caso, i ricercatori hanno suddiviso le pazienti nei 3 gruppi di personalità: supercontrollatrici (20,8%), sottocontrollatrici (42,9%) e perfezioniste (36,4%). Di nuovo, anche in questo caso le partecipanti allo studio erano simili tra loro per età, B.M.I., anni di durata della malattia, ad indicare che i tratti della personalità non sono predittivi rispetto alla severità o alla durata di un DCA.

Tuttavia, i 3 gruppi hanno avuto, dopo il ricovero, risultati significativamente differenti. Le perfezioniste sono quelle che se la sono cavata meglio, le sottocontrollatrici quelle che hanno avuto i risultati peggiori: esito sfavorevole alla dimissione, dimissione contro il parere medico, più frequenti ricadute durante i successivi 3 mesi di follow-up. Nella fattispecie, il gruppo delle sottocontrollatrici aveva una probabilità di esito sfavorevole della terapia 3,56 volte maggiore rispetto alle supercontrollatrici, e addirittura 11,23 volte maggiore rispetto alle perfezioniste.

Quando i ricercatori hanno invece analizzato i risultati basandosi sulla suddivisione proposta dal DSM tra persone AN-R e persone AN-BP, è risultato soltanto che al momento della dimissione le ragazze con AN-BP avevano raggiunto risultati peggiori rispetto a quelle con AN-R, ma non c’erano differenze al termine dei 3 mesi di follow-up. Non proprio la stessa cosa, no?!

Dunque, cosa significa tutto questo per noi che abbiamo un DCA? 

Per prima cosa, c’è da considerare che questa suddivisione in 3 gruppi è basata su cluster di personalità. Sebbene alcune persone abbiano tratti caratteriali che le fanno rientrare perfettamente in uno di questi 3 sottogruppi, altre possono avere tratti di personalità comuni a 2 o addirittura a tutti e 3 i sottogruppi. I ricercatori hanno diviso le ragazze sulla base di quale gruppo rispecchiasse maggiormente il loro carattere, ma ovviamente non c’era un’aderenza assolutamente perfetta. Un altro aspetto da considerare è che i questionari schematizzano la personalità di una persona, ma non la rappresentano in toto, e soprattutto fotografano la personalità di una ragazza nel preciso momento in cui essa si sottopone al test. Non tengono conto del fatto che la personalità di quella ragazza possa essere stata ampiamente modificata dal DCA. Sebbene certamente alcuni aspetti basilari del nostro carattere rimangano invariati per tutta la nostra vita, ci sono tratti caratteriali che sono più malleabili, per cui non solo cambiano con l’arrivo del DCA, ma cambiano anche in funzione della nostra crescita e delle nostre esperienze di vita.

Inoltre, c’è da considerare anche il fatto che la risposta immediata ad un ricovero in clinica non è direttamente proporzionale all’entità della remissione dall’anoressia che il singolo può conseguire nel corso della propria vita. Infatti Wildes scrive:

“[…] una possibile spiegazione è che quei fattori che permettono di predire, inizialmente, la risposta alla terapia, differiscono da quelli associate ai risultati a lungo termine. Per esempio, una personalità supercontrollatrice consente di tollerare meglio l’ambiente della clinica rispetto ad una sottocontrollatrice, che avrà più difficoltà a far fronte ai propri impulsi. Tuttavia, nel lungo termine, una personalità supercontrollatrice mal tollera il controllo esercitato dall’esterno, e quindi è più facile che abbia delle ricadute per la sua spasmodica necessità di riacquisire quello che percepisce come il proprio controllo. […]” 
(mia traduzione) 

Il che ricalca perfettamente la mia esperienza personale. Il gruppo delle supercontrollatrici mi calza a pennello, in quanto a personalità (e, non a caso, il mio disturbo alimentare è AN-R). Tralasciando il mio primo ricovero, coatto perchè ero minorenne e quindi totalmente improduttivo, durante gli altri 4 ricoveri sono riuscita ad avere buoni risultati nell’immediato, riuscendo a seguire senza particolare fatica od ansia lo schema alimentare che mi veniva somministrato, e riuscendo a limitare le mie manie di controllo su tutto. Ma questi progressi si esaurivano rapidamente dopo la dimissione. È per questo che ho avuto una montagna di ricadute. Percepivo il controllo su tutto come talmente necessario che riuscire a ridurlo è stata un’impresa che mi ha richiesto un sacco di tempo e di fatica, e su cui comunque sto ancora lavorando.

Ma io credo che la nostra personalità non sia frutto del destino. Scegliere un’Università che mi piaceva e trovare un lavoro che ho fin da subito adorato, sebbene non abbia arrestato le ricadute, mi è stato comunque estremamente d’aiuto per smorzare certi sintomi. Grazie alla psicoterapia, inoltre, sto cercando di lavorare sulla mia personalità, e credo che questa possa essere una cosa utile a chiunque abbia un DCA: cercare di lavorare su se stesse, per cambiare quegli aspetti di noi che perpetrano il disturbo alimentare. Okay, ho sempre una spiccata tendenza a voler controllare le cose, e probabilmente questo tratto di personalità mi accompagnerà sempre, ma ci sto lavorando su per fare in modo che non sia questo controllo a finire per controllarmi la vita.

venerdì 8 novembre 2013

Quando ti senti sul punto di mollare...

1. …focalizzati sul perchè hai iniziato a combattere. Su quali erano le tue motivazioni nel momento in cui hai deciso d’intraprendere il tuo percorso di ricovero contro l’anoressia. Su qual era la “scintilla” che ti ha spinto ad intraprendere una determinata direzione, e su tutte le cose che in questo momento possono servirti da ispirazione e da supporto positivo per continuare a combattere.

2. …scrivi una lista dei motivi per cui vale la pena continuare a percorrere la strada del ricovero, e concentrati su quelli. Datti degli obiettivi generali e a lungo termine, e cerca ogni giorno di muovere anche un solo minuscolo passo in avanti. Rammenta sempre che tu hai tutto quel che serve per raggiungere ogni traguardo che vuoi.

3. …datti il permesso di farlo, se è quello che veramente vuoi. Ma non dev’essere una presa per sfinimento, dev’essere una tua scelta cosciente e senziente. Devi essere tu che, consapevole delle conseguenze, decidi di mollare. Questo ti ricorderà che sei comunque tu che controlli tutto quello che fai nella tua vita, nel bene e nel male: che scegli di ricadere perché vuoi ricadere. E che, se hai la capacità e la volontà di scegliere questo, allora hai anche tutta la volontà e la capacità di scegliere di rialzarti e combattere.

4. …stila una lista dei “pro” e dei “contro” relativi al continuare a combattere – già questo dovrebbe decentrare la tua attenzione dalla voglia di mollare, e farti razionalizzare su quello che c’è di positivo nel perseguire la tua lotta contro l’anoressia. Cosa ci guadagni se continui a combattere? Quali saranno i “pro” di questa scelta? Come ti sentirai quando ti sarai lasciata alle spalle almeno un pochino l’anoressia, e avrai ricominciato almeno un pochino a vivere, e non solo a sopravvivere?

5. …anziché concentrarti su ciò che in questo momento ti fa stare male e ti fa venire voglia di arrenderti, anziché pensare a tutto ciò che rende difficile il combattere contro l’anoressia, utilizza le energie che investiresti in questi pensieri vani per escogitare delle soluzioni che possano consentirti di andare avanti a combattere senza cedimenti.

6. …sii consapevole del fatto che percorrere la strada del ricovero da un DCA non è semplice, non è rapido, non è divertente, non è scevro da ricadute, non ti fa sentire bene nell’immediato, è ansiogeno, è estremamente complicato. Per quanto tu possa andare avanti, per quanti passi avanti su possa fare, l’anoressia sarà sempre lì, acquattata nella tua testa, pronta a reimpossessarsi dei tuoi pensieri quando meno te l’aspetti. Tenere quotidianamente a bada l’anoressia sarà sempre un duro lavoro, se però ci riuscite sarà anche una vittoria. E, come dice la canzone, “no pain, no gain”. O, se preferite, come dicono nel telefilm Scrubs: “Nothing in this world that's worth having comes easy."

venerdì 1 novembre 2013

Lasciar andare l'idea del "peso corporeo ideale"

(Premessa: quanto segue deriva in parte dai miei studi, ma in altra parte dai miei ragionamenti e dalla mia opinione personale. Sono assolutamente convinta di ciò che scrivo in merito alla mia opinione, ma questo non la rende comunque ovviamente verità assoluta.) 

Leggendo qualsiasi cosa riguardi i DCA – soprattutto l’anoressia – dagli studi scientifici alla letteratura, sembra impossibile riuscire ad evitare le frasi “peso corporeo ideale” e “peso corporeo previsto”. Spesso e volentieri i pesi sono espressi in percentuale rispetto al peso corporeo ideale/previsto. Lo stesso DSM pone come criterio diagnostico per l’anoressia: “peso corporeo al di sotto dell'85% rispetto a quanto previsto”. E anche l’efficacia dei trattamenti viene valutata sulla capacità di ritornare all’ 85%/90%/95% (scegliete quello che preferite) del peso corporeo ideale/previsto.

Posso essere molto terra-terra? “Peso corporeo ideale/previsto” è una frase che DETESTO.

In molti studi i ricercatori calcolano il “peso corporeo ideale” sulla base del 50° percentile del B.M.I. rispetto all’età. Avete presente i percentili su cui si valuta la crescita dei neonati? Ecco, sostanzialmente la stessa cosa. Data una certa età di una persona, e data la sua altezza, è possibile calcolare il “peso corporeo ideale” di un individuo. Questo “peso corporeo ideale” viene spesso considerato il peso che chi è affetta da un DCA dovrebbe raggiungere… perché, cavolo, lo dice il nome stesso che è “ideale”!!

Okay, allora, ragioniamoci un attimo su. Il 50° percentile per il peso o per il B.M.I. è in realtà “ideale” solo per quell’ 1% della popolazione che fisiologicamente, naturalmente, senza aver mai avuto un DCA né problemi di alcun tipo con l’alimentazione, cade su quel percentile. Per il restante 99% della popolazione, il 50° percentile rappresenta una sovra o una sottostima del proprio peso.

Ora, so benissimo che viene fatto un sacco di lavoro da parte dei medici quando si tratta di definire appropriati obiettivi di recupero del peso corporeo per una persona che ha un DCA, e stimare che una persona debba raggiungere il 50° percentile di peso (rispetto alla sua età e alla sua altezza) può essere un punto di partenza non del tutto negativo, in mancanza di altri dati… Ma possiamo almeno ammettere che questa è solo una stima generica, e non un “ideale”?!

Tanto più che il “peso corporeo ideale” corrisponde ad una cifra. Ad un numero ben preciso. Il che è stupido. Basti pensare al fatto che il peso di una qualsiasi donna può variare da alcuni etti finanche ad alcuni chili durante il ciclo mestruale. Inoltre, il peso corporeo di una qualsiasi persona (uomo o donna che sia) può variare in base allo stato di idratazione, al periodo dell’anno, all’assetto ormonale, alla vicinanza dall’ultimo pasto rispetto alla pesata, al fatto di aver svuotato o meno vescica ed intestino… e un sacco di altre cose.

Parlando con alcune ragazze che sono state ricoverate in una clinica specializzata nel trattamento per DCA (della quale non faccio il nome per ovvi motivi), mi è stato detto che al momento del ricovero veniva assegnato loro un “peso corporeo ideale” da raggiungere: quello corrispondente, in funzione della loro altezza, ad un B.M.I. = 19. Cioè, seriamente?? E io che pensavo che fossero le persone con un DCA quelle fissate con il controllo di tutto, oppure quelle fissate con gli obiettivi di peso e di B.M.I. da raggiungere… e pensavo che, viceversa, il compito di una clinica fosse quello di permettere alla persona di fare introspezione e di sviscerare le sue vere problematiche, svincolandosi e mettendo in secondo piano cibo e peso… E invece mi sbagliavo, a quanto pare non solo chi ha un DCA, ma anche alcune cliniche si focalizzano su numeri, peso e B.M.I..

Commento soltanto: BAH.

Inoltre, quando si parla di qualcosa come il “peso corporeo ideale”, trovo veramente ironico l’utilizzo della parola “ideale”. Perché, di quale “ideale” siamo parlando, esattamente? Gli ideali culturali? (Ma non fatemi ridere…) Gli ideali matematici? Gli ideali statistici? Gli ideali di salute? Forse. Ma, nuovamente, non esiste un peso specifico e ben preciso che corrisponde alla “salute”. Ogni persona ha un certo range di peso che per lei può essere comunque considerato associato ad uno stato di salute “ideale”.

Una volta una psichiatra con cui avevo da poco intrapreso un percorso psicoterapeutico mi propose di impostare il mio obiettivo di peso da raggiungere (poiché in quel periodo ero piuttosto sottopeso, in quanto reduce da una ricaduta) chiedendo a me quanto volessi pesare, quale peso fossi stata disposta a raggiungere, considerandolo come se fosse il mio “peso corporeo ideale”. Hmmm, chiedere ad una persona affetta da anoressia restrittiva quanto vorrebbe idealmente pesare mi sembra quantomeno miope, per non dire di peggio. (Per la cronaca: ovviamente mollai questa psicoterapia dopo il quarto incontro o giù di lì.)

Un altro genio assoluto (una nutrizionista, nella fattispecie) era convinta che il “peso corporeo ideale” che avrei dovuto raggiungere era quello previsto dal B.M.I., per cui il target sarebbe stato quello di raggiungere un valore di B.M.I. almeno pari a 18,5. (Sì, ho mollato anche questa nutrizionista, naturalmente.) Certamente il B.M.I. può essere considerato un buon range nella valutazione del peso corporeo, perchè ci sono studi scientifici che dimostrano che le persone che hanno una maggiore aspettativa di vita e una minore incidenza delle malattie, sono effettivamente quelle che hanno un B.M.I. compreso tra 18,5 e 25. Ma questo non è comunque un assoluto, è solo una statistica, e il peso del singolo non risponde alla statistica, bensì risponde al proprio patrimonio genetico. Il set-point di peso corporeo è una cosa assolutamente individualizzata, e sebbene in molti casi cada in quello che il B.M.I. definisce “normopeso”, nulla vita che possa cadere anche sopra o sotto questo range, e che la persona sia comunque in salute, perché è fisiologicamente geneticamente settata su un peso al di fuori del normopeso stimato col B.M.I..

Inoltre, quando si fa una valutazione sul peso di una persona che ha un DCA, credo sia di fatto estremamente difficile determinare quale sia il “peso corporeo ideale” che essa dovrebbe raggiungere. Può infatti sorgere spontaneo il pensiero: il mio “peso corporeo ideale” è quello che avevo prima di ammalarmi di anoressia. Okay… ma questo è solo parzialmente vero. Perché se una ragazza si ammala di anoressia a 10 anni, avrebbe ancora un bel po’ di sviluppo da fare… e – annuncio di pubblico servizio – non è generalmente salutare per una donna pesare quanto pesava quando era una 10enne. Poi, certo, se una si ammala a 25 anni, allora il discorso del tornare al peso precedente alla malattia ha un senso… ma occorre non farci fuorviare da questa considerazione.

Il problema è che l’idea di “peso corporeo ideale” è veicolata da un enorme bagaglio culturale. Fortunatamente, ultimamente mi è capitato di leggere su Internet che ci sono diversi professionisti nel campo dei DCA che cercano di spiegare e di far passare l’idea che si può essere in salute anche se si indossano taglie diverse, che c’è più da puntare sulla terapia degli aspetti mentali dell’anoressia, e non limitarsi a valutare solamente l’aspetto della rialmentazione… e questo mi dà un po’ di speranza, perché vedo che c’è gente che finalmente apre gli occhi.

E dunque, se non usiamo “peso corporeo ideale”, qual è l’alternativa? Peso target? Forse… ma per le adolescenti, in pieno periodo di crescita e sviluppo, i target non sono stazionari. Perciò, penso che dovremo lasciar andare l’idea di “peso corporeo ideale/previsto”, e focalizzarsi invece (oltre che, ovviamente, sugli aspetti mentali della malattia) su qual è il set-point di peso biologico di ciascuna paziente. Fare un discorso assolutamente individualizzato, lasciando perdere le generalizzazioni. Ognuna di noi discende da una certa famiglia, ha la propria genetica, il proprio morfotipo, le proprie peculiarità costituzionali. Ogni persona ha un suo proprio range di peso corporeo che è biologicamente appropriato per lei stessa. Niente a che vedere con i target o con l’idealità, bensì con la genetica, la biologia, e il set-point di ciascuna di noi. Questa è la realtà.

Occorre smetterla di pensare che esista un valore univoco di B.M.I. che definisce lo stato di salute o il “peso corporeo ideale” delle persone. Occorre smetterla di pensare che essere sottopeso sia solo e soltanto sinonimo di avere un B.M.I. < 18,5. Non è così. Ognuna di noi ha il suo set-point fisiologico di peso corporeo, un suo proprio range di “normalità”: si è sottopeso se si scende al disotto di quel proprio ed individuale range. Ma questo range non necessariamente corrisponde a quello del B.M.I.. Per quanto la maggior parte delle persone abbia effettivamente un set-point fisiologico ascrivibile ad un B.M.I. compreso tra 18,5 e 25, ci sono alcune persone che per stare bene hanno bisogno di un peso che corrisponde ad un B.M.I. > 25, e alcune altre persone che sono perfettamente in salute pur con un B.M.I. < 18,5. È la variabilità interindividuale, quella che non può essere assoggettata a nessuna statistica. Per cui, se per esempio c’è una ragazza il cui set-point di peso fisiologico corrisponde ad un B.M.I. = 26, e poi il suo peso cala fino ad arrivare ad un B.M.I. = 23, la statistica dice che è meglio, perché la ragazza è passata da un sovrappeso ad un normopeso… ma, in realtà, rispetto al suo standard fisiologico, la ragazza in questione non è normopeso, bensì sottopeso! E, per lei, quella non rappresenta perciò una situazione di salute. Ragionare per numeri aiuta senz’altro a schematizzare, ma non dimentichiamo che le statistiche non possono trascendere l’individualità. Dobbiamo dunque essere consapevoli del fatto che alcune persone hanno set-point di peso biologicamente appropriati che sono anche al di sopra di B.M.I. = 25, o al di sotto di B.M.I. = 18,5. E va bene così.

In un mondo di circa 7 miliardi d’individui, non esiste alcun assoluto “peso corporeo ideale”. È un qualcosa di assolutamente variabile e soggettivo. Prima accetteremo questo dato di fatto, meglio staremo tutti quanti.

venerdì 25 ottobre 2013

Suggerimenti su come parlare a qualcuno che ha un DCA

Questo post è per i genitori/familiari/amici/colleghi/compagni di squadra di chi ha un DCA.

Parlare con chi ha un DCA è spesso e volentieri molto difficile, e non esistono ricette universali per garantire una buona comunicazione, perché ogni persona che ha un DCA è diversa dalle altre; per cui ciò che può rivelarsi funzionale nei confronti di una certa persona, può non esserlo affatto per qualcun altro.

Io non ho competenze psicologiche, e non ne so granché sulle tecniche comunicative. Perciò, credo che la prima cosa che dovrebbero fare i famigliari di una persona che ha un DCA, sarebbe quella di rivolgersi al terapeuta che la segue, al fine di elaborare una strategia comportamentale concertata con una persona professionalmente competente, che dunque è mirata sulla singola paziente, poiché ogni persona è diversa dall’altra, e quindi non per tutte vanno bene le stesse cose.

Però penso che, al di là dell’importantissimo consulto con lo psicoterapeuta, ci siano alcune semplici cose che sia possibile mettere in atto, al fine di permettere a genitori, familiari e amici di stare vicino ad una persona che ha un DCA.

Per cui, ecco quali “consigli comunicativi” darei a chi ha a che fare con una persona affetta da anoressia/bulimia/binge/DCAnas:

1. Prendete il comando. Se conoscete una persona che ha un DCA, se le siete vicino, non abbiate timore a chiederle come sta. Forse questa persona avrà voglia di rispondervi sinceramente e ve ne parlerà, forse non ne avrà voglia e si limiterà ad un sorriso stereotipato e ad un “Va tutto bene” di circostanza. Non importa. Quello che importa è che le avrete fatto capire sia che voi vi interessate a come vanno le cose, sia che nel momento in cui avesse voglia di parlarne, voi ci siete per ascoltarla.

2. Evitate i cliché. Esistono un sacco e una sporta di luoghi comuni sui disturbi alimentari. Bè, sappiate che sono solo e soltanto luoghi comuni: non racchiudono neanche un minimo di verità. Per cui, quando vi avvicinate ad una persona con anoressia/bulimia, spogliate la mente di tutti i preconcetti sui disturbi alimentati che i mass-media vi hanno finora inculcato. Evitate le frasi fatte e fini a se stesse, del tipo: “E’ solo una fase, vedrai che prima o poi passa!”, oppure “Cerca di mangiare normalmente, così vedrai che le cose vanno meglio!”. Ancora peggio, evitate di dire cose che possano suscitare sensi di colpa (“Mi stai avvelenando la vita con tutte le tue stupide fisime”), nonché simil-ricatti (“Mangia, dai, fallo per me”): lasciano assolutamente il tempo che trovano.

3. Fate attenzione al linguaggio del corpo. Non si comunica solo con le parole: a volte uno sguardo, un gesto, un movimento, comunicano più di millemila discorsi. Quando parlate con una persona che ha un DCA cercate di essere rilassati, sereni, di mostrarvi aperti al dialogo, senza dare alcun giudizio, ma semplicemente essendo proni all’ascolto e alla conversazione.

4. Chiedete in che modo potete essere d’aiuto. Ogni persona che ha un DCA è diversa dalle altre, per cui persone diverse possono avere esigenze differenti. Non solo: anche una stessa persona può avere esigenze differenti nei vari momenti del suo percorso di ricovero. Perciò, chiedete alla persona che ha un DCA in quale modo potreste esserle d’aiuto: sarà lei ad indicarvi come preferirebbe vi comportaste, e cosa preferirebbe faceste. E questo può esserle d’aiuto.

5. Non parlate sempre e solo dell’anoressia/bulimia. In quanto genitori/familiari/amici preoccupati, immagino che possa venirvi spontaneo, nel momento in cui vi relazionate ad una persona che ha un DCA, cercare d’incentrare la conversazione sulla patologia, sulle problematiche, su tutto ciò che è inerente il DCA stesso… perché sviscerare la patologia è un qualcosa che vi serve per tenere a bada l’ansia che si scaturisce dal dover vivere vicino ad una persona che sta male. Ma ricordatevi che l’anoressia/la bulimia, rappresenta solo una malattia, e dunque una minuscola parte della persona affetta. Nessuno può essere definito semplicemente dalla propria patologia, perché siamo ben altro e molto di più di una mera malattia, per cui reiterare a parlare sempre del DCA può essere controproducente. Cercate allora piuttosto altri lidi di conversazione, in maniera tale da distrarre la persona dai suoi pensieri fissi del DCA, e da farle vedere che esiste molto altro oltre il disturbo alimentare.

6. Non evitare i vissuti. Se una persona con un DCA viene da voi per parlarne, non tagliate corto perché si tratta di un qualcosa di cui è difficile discutere, e che fa male. Datele la libertà di parlarne, e fatele capire che quando avrà bisogno di voi (per parlare o per qualsiasi cosa), potrà sempre contare sul vostro supporto.

7. Datele tempo. Ci possono volere anni affinché una persona malata di anoressia/bulimia sia in grado di parlare della propria patologia. E c’è chi può preferire scrivervi una lettera, o mandarvi una e-mail, o telefonarvi, piuttosto che parlarvene faccia-a-faccia. Rispettate la sua modalità comunicativa, e rispondetele utilizzando lo stesso mezzo: l’importante è che la persona sappia che siete disposti a starle vicino e a “parlare” con lei anche attraverso altre vie rispetto alla parola verbale. In qualsiasi momento.

8. Non focalizzatevi sul cibo. L’alimentazione è la punta dell’ice-berg di un DCA. I veri problemi sono ben più importanti e profondi, e ben altro rispetto al cibo. Per cui, evitare scaramucce su quanto/cosa mangiare, e cercate di interagire con le vostre figlie/nipoti/sorelle/amiche tentando di andare un po’ più in profondità, rispetto a quelle che potrebbero essere le vere problematiche sottostanti il comportamento alimentare erroneo, al fine di capire anche come potete essere, a tal proposito, di supporto.

Chiunque abbia qualche altro consiglio da aggiungere alla lista, è caldamente pregata di farlo nei commenti.

venerdì 18 ottobre 2013

Il NEDIC l'ha toppata di brutto

Il “National Eating Disorders Information Centre” (“NEDIC”) del Canada, ha recentemente prodotto un poster per la sua nuova campagna nazionale d’informazione sui DCA. Mi riferisco a questo:


Dettaglio di una fotografia tratta da: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10151610273296861&set=a.436431326860.223788.267097966860&type=1&theater 

Hmmmm… c-cosa??

A parte il fatto che quel disegnino col cuore fa sembrare i DCA come una sciocca cottarella tra adolescenti, è semplicemente… Io non… MA CHE DIAMINE STAVANO PENSANDO QUANDO HANNO FATTO UNA COSA DEL GENERE?? 

Il NEDIC afferma che l’obiettivo di questa campagna è far sì che le persone parlino di DCA. Bè, okay… ma a me sembra che il target di questo poster non sia rappresentato dalle persone che già sanno di avere un DCA, e magari stanno pure tentando di combatterlo. Piuttosto, mi sembra che il target di questo poster sia la gente in generale, e coloro che hanno qualche difficoltà con l’alimentazione, ma non un disturbo alimentare vero e proprio.

Dunque, per prima cosa, se vuoi che le persone ne parlino, cerca di fare in modo che parlino delle cose giuste. Che parlino della vera matrice mentale del DCA, non delle solite due cavolatine sull’alimentazione, che ne rappresentano la parte più superficiale, la punta dell’ice-berg, continuando ad ignorare le ben più gravi problematiche che hanno portato allo sviluppo del DCA stesso.

In secondo luogo, per voler essere proprio materialista e terra-terra, le persone con un DCA sono coloro che fanno lavorare il NEDIC. E prenderle in giro con un poster del genere che non rappresenta niente di quello che è veramente un DCA, mi sembra come minimo scorretto. Un’idea tutt’altro che geniale, insomma.

Cose del genere mi fanno veramente storcere il naso. Esattamente come, a suo tempo, mi fece storcere il naso il poster realizzato dal fotografo Olivero Toscani con la collaborazione della modella – purtroppo attualmente deceduta – Isabelle Caro. Immagino lo conosciate tutte, comunque mi riferisco a questo:


Immagine tratta dal sito: www.giornalettismo.com 

Ora, la domanda che mi (vi) faccio è: cosa suscita nell’osservatore la visione di questo poster? Se provo a mettermi nei panni di una persona qualsiasi che non ha mai avuto un DCA e che si trova posta di fronte a quest’immagine, io credo che le prime impressioni suscitate siano pena, ribrezzo ed indifferenza.

Questo poster, a suo modo, realizza quello che io definisco l’ “Effetto Biafra”.
Pensate alle fotografie sui volantini per la richiesta di offerte per le popolazioni africane povere: mostrano quasi sempre un bambinetto/a pelle e ossa, che regge l’anima con i denti, con gli zigomi sporgenti e gli occhi enormi, e lo sguardo perso nel vuoto e colmo di tristezza.
Quali emozioni risveglia una fotografia di questo tipo?
Pena, ribrezzo ed indifferenza, a mio avviso.
Le persone più sensibili che si commuovono facilmente di fronte alle disgrazie, provando pena per quei poveri bambini decidono pure di spedire qualche euro al conto corrente indicato. Chi invece si limita al ribrezzo e/o all’indifferenza, straccerà il volantino e lo getterà nella raccolta differenziata della carta.

Okay, ammetto che nel caso di questo poster la situazione è un po’ diversa. Però, data l’immagine, io credo che la prima reazione dell’ “italiano medio”, che non ha mai avuto a che fare con i DCA, e che non sia neanche una persona particolarmente sensibile ed empatica, sia quella di pensare: “Ecco un’altra ragazzetta viziata con la fissa della dieta perché vuole somigliare alle modelle! Beata lei che ha tutto dalla vita e può concedersi di sprecarla dietro queste stupidaggini, si vede che a differenza di me non ha mai avuto problemi di cassa integrazione!”

E dunque ecco che si rimane nella più mera superficialità. Lo stereotipo (falso!!) dell'anoressia per antonomasia.

Quando questo poster di Oliviero Toscani venne alla ribalta, per un certo periodo di tempo ne è stato parlato tantissimo, sia in TV, che sui giornali, che su Internet. È stato un qualcosa che ha suscitato un discreto clamore mediatico, un argomento su cui un sacco di gente voleva esporre la propria opinione.

Ma, guarda caso, la maggior parte di questa gente era rappresentata da persone che non avevano mai vissuto un DCA, che neanche conoscevano persone con un DCA, e che quindi parlavano giusto per sentito dire alla lontana. Tante discussioni, insomma, ma giusto per discutere, fini a se stesse, buone solo ad alzare un bel polverone. Scommetto che se avesse voluto parlare una ragazza effettivamente affetta da un disturbo alimentare, l’avrebbero subito tacitata o esaurita in pochi minuti, perché la realtà della malattia implica meccanismi mentali complessi, che se narrati a parole non colpiscono in maniera immediata come un’immagine, e che quindi non fanno audience perché non attirano l’attenzione degli ebeti di turno.

A dimostrazione di ciò che sto scrivendo, pensate al fatto che le rare volte che in TV si parla di disturbi alimentari, viene spesso fuori l’anoressia, e molto più raramente la bulimia. Perché succede questo? Perché le televisioni mostrano immagini di ragazze con l’anoressia ma non quelle di persone con la bulimia? Ragazze, qui secondo me è perché si torna all’ “Effetto Biafra”. Il corpo di una ragazza con bulimia, per quel che ho potuto vedere conoscendo persone con questa patologia, è tutto sommato un corpo normopeso, che non colpisce. Viceversa, vedere l’immagine di una ragazza nel periodo peggiore dell’anoressia, quando è estremamente emaciata, genera un grosso impatto che incolla la gente al televisore. Ed è questo che ai mass-media importa, non la malattia in sé.

Allora, non raccontatemi cavolate sul fatto che poster come quello del NEDIC o quello di Oliviero Toscani hanno come finalità solo quella di far discutere dei DCA, perché mi sembra un po’ una presa per i fondelli.

A cosa diamine serve attirare l’attenzione sempre e solo sulla fisicità, sull’apparenza? Soltanto a confermare il falso luogo comune che i disturbi alimentari siano effettivamente malattie centrate unicamente sull’erroneo rapporto col cibo e col peso, e dunque che basti riacquisire un peso decente per essere guarite definitivamente. Ma tutta questa gente che si concentra solo sull’esteriorità, ha mai provato a permeare un po’ più sotto alla superficie? Oppure si ferma ad osservare un corpo emaciato, scavato, con un senso di fascino dell’orrido pari a quello che durante un incidente per strada ti fa fermare per vedere se qualcuno c’è rimasto secco?!

Nell’anoressia l’esteriorità è così peculiare che la stragrande maggioranza della gente si ferma lì. Guarda le ossa, le forme che spariscono, il volto tirato… che è esattamente quello che si guarda nella fotografia di Isabelle Caro. E, così facendo, non si va oltre.

Purtroppo è parte della natura umana il vedere qualcosa di palesemente anomalo, rimanere lì per qualche minuto a fissarlo con aria shockata, dopodiché voltare le spalle e continuare a pensare agli affari propri.

Con poster come quello di Oliviero Toscani e quello del NEDIC, a mio avviso, non si aiutano affatto le persone malate, ma si fanno soldi sfruttando la curiosità morbosa ma superficiale propria della natura umana e, alla fine, più che parlare della malattia si fa parlare di coloro che hanno realizzato simili poster.
Quest’impostazione, io la trovo completamente sbagliata. E mi stupisce il fatto che persino un ente come il NEDIC, che dovrebbe conoscere benissimo la problematica, si fermi a fare un poster del genere che ti fa solo cascare le p…braccia.

Voi cosa ne pensate del poster del NEDIC? Fatemelo sapere nei commenti, se vi va.

venerdì 11 ottobre 2013

Perchè non amo il mio corpo, e non penso sia importante il farlo

Amare il proprio corpo rappresenta una sorta di Sacro Graal per chi ha un DCA. Messaggi sull’importanza dell’imparare ad amare il proprio corpo bombardano le persone che hanno un disturbo alimentare da ogni dove. Amare il proprio corpo e la propria fisicità è visto sia come la chiave per prevenire l’insorgenza dei DCA, sia come un obiettivo di cruciale importanza da raggiungere per poter “guarire” dall’anoressia.

Adesso vi svelerò un segreto: Io sto percorrendo la strada del ricovero, e non amo il mio corpo.

Ecco. L’ho detto. Non amo il mio corpo e non mi piace la mia fisicità, ma ho comunque fatto grandi passi avanti sulla strada del ricovero, e ora come ora le cose mi stanno andando bene, grazie mille.

Io non ho mai avuto il desiderio di essere magra perché, banalmente, io sono sempre stata magra. La mia principale spinta verso l’anoressia è stata il bisogno di avere tutto sotto controllo. Io volevo avere il controllo assoluto. Su tutto. Su ogni singolo aspetto della mia vita. La cosa è partita da ambiti diversi dall’alimentazione e poi, in un formidabile colpo di coda, anche il versante alimentare è stato tirato dentro questo mio bisogno di programmare – e dunque controllare – ogni singolo secondo delle mie giornate.
Volevo “semplicemente” avere sotto controllo ogni singolo respiro della mia vita, e questo controllo ad un certo punto ha iniziato a passare anche attraverso il canale alimentare. L’obiettivo della mia restrizione, in effetti era proprio questo: elaborare una forma di controllo su quello che mangiavo. Il dimagrimento è stata l’ovvia conseguenza, ma non mi ha mai fatto particolarmente piacere, anzi, mi metteva a disagio, non avrei voluto (anche perché comprometteva le mie prestazioni sportive, e al tempo ero a buon livello), ma avevo bisogno del controllo, e se “il prezzo da pagare” era quello di perdere chili, allora andava bene tutto, allora accettavo il compromesso, pur di non abbandonare la sensazione di sicurezza e di forza che quel(l’illusorio) controllo mi faceva provare.

Ho sempre avuto quest’abnorme bisogno di sentire che avevo tutto sotto controllo. Per quanto, vista dall’esterno, la cosa possa sembrare (ed essere a tutti gli effetti) patologica, sul momento io me ne fregavo, perché non mi rendevo conto di quanto il mio bisogno di controllo fosse eccessivo. Non mi ponevo il problema, perché per me non era un problema.

Sebbene la parvenza di controllo che mi pareva di esercitare con l’anoressia mi abbia probabilmente aiutata a sedare delle ansie sottostanti, non mi sono mai curata particolarmente della mia fisicità. Sapevo di essere una ragazza magra, ma era una constatazione fine a se stessa. E anche quando sono entrata nell’anoressia, ero consapevole che stavo perdendo peso, ma anche questa era una considerazione fine a se stessa. Il mio cervello non registrava veramente la perdita di peso: io volevo sentire che avevo il controllo, non m’importava quale fosse il mio peso (difatti non mi sono mai pesata). Io mi sentivo in controllo, quindi non riuscivo a capire come mai le persone che mi circondavano fossero così preoccupate per me.

Mi arrivavano barlumi di consapevolezza sul fatto che avessi un problema (sebbene, certo, razionalmente sapessi benissimo che mi stavo alimentando in maniera insufficiente) quando per qualche motivo succedevano cose che sfuggivano alle mie pretese di controllo. Quando succedeva qualcosa che non avevo programmato, andavo veramente ai pazzi. E restringevo l’alimentazione come se, per contrappasso, questo tipo di controllo potesse andare a compensare quelle aree della mia vita (la vasta gamma dei cosiddetti “imprevisti”) in cui invece non potevo avere per definizione alcun controllo.

Quando sono stata ricoverata in una clinica per la prima volta (ero minorenne, ed è stato un ricovero coatto) ho veramente sclerato. Io non ero assolutamente pronta né consenziente, quindi ovviamente quel ricovero è stato un completo insuccesso. Mi sentivo dilaniata dal fatto che la mia routine fosse scandita dagli impegni organizzati dalla clinica, e che la mia alimentazione fosse gestita da un dietista: in questo modo non avevo più alcun controllo, e questo per me era intollerabile. Non potevo più controllare niente, e non potevo neanche alleviare l’ansia e la rabbia che da ciò mi derivavano restringendo l’alimentazione. È in questo periodo che è nato l’altro mio problema, quello dell’autolesionismo, che ho iniziato ad adottare come nuova strategia di coping, non potendo più ricorrere alla restrizione alimentare. Il mio corpo cambiava, e io non potevo sopportarlo, non per il peso in sé per sé, di quello me ne fregava poco e niente, come del resto sempre poco e niente me n’era fregato, bensì perché quei cambiamenti del mio corpo non li stavo decidendo io, non li stavo controllando io. Il riprendere peso lo vivevo come sinonimo del non avere più controllo, ed era questo che non riuscivo a sopportare: il fatto che qualcuno mi avesse strappato via il mio “amato” controllo. Non m’importava del peso in sé, ma mi spezzava la sensazione di non poter più controllare niente. Il mio corpo non mi piaceva semplicemente perché era la materiale dimostrazione del fatto che non esercitavo più il controllo.

Inutile aggiungere che quando ho terminato questo ricovero ho avuto immediatamente una ricaduta, eh?! Comunque il tempo è passato, io ho fatto altri ricoveri, stavolta per mia scelta, e a poco a poco, molto lentamente, le cose hanno iniziato a migliorare (anche se ho comunque avuto delle ulteriori ricadute). Nel momento in cui ho ricominciato ad alimentarmi regolarmente senza più restringere, a poco a poco la mia testa ha cominciato a funzionare meglio, e quindi anche quest’assoluta necessità di controllo (che era comunque rinforzata dalla restrizione alimentare in uno dei quei famosi serpenti che si mordono la coda) si è lentamente attenuata sempre di più.

Ma non se n’è mai andata. Non del tutto.

Eccomi qua, oggi, per lo più priva dei comportamenti alimentari tipici dell’anoressia (okay, ogni tanto mi capita ancora di fare la cresta a qualche pasto, lo ammetto, ma è un evento veramente occasionale), con un residuo e persistente certo bisogno di controllo, e tuttora non amo la mia fisicità. E con ciò?

Col tempo, ho imparato a far prevalere la razionalità sull’illogico bisogno di controllo, e sui suoi riflessi sulla mia fisicità. Sono più consapevole del fatto che è impossibile che io riesca a controllare ogni singolo aspetto della mia vita. So che quando mi trovo in difficoltà tendo sempre ad utilizzare la restrizione alimentare come surrogato di controllo, e so che questo non ha un senso logico. So anche che il mio peso o la mia fisicità non rispecchiano in alcun modo il controllo che riesco ad avere o meno sulla mia vita. E so che adesso che ho sostanzialmente raggiunto il mio set-point di peso corporeo, rimarrò più o meno qui, salvo un paio di chili in più o in meno come margine d’oscillazione. Evidentemente, il mio bisogno di controllo non ha niente a che fare con il mio corpo.

Inoltre, ho imparato a separare il mio bisogno di controllo sia dalla mia fisicità che dalla mia autostima. Come dicevo prima, al di là dell’anoressia, non ho mai prestato particolare interesse alla mia fisicità. Non mi sono mai giudicata per la mia apparenza esteriore. Mi sono sempre giudicata molto, molto di più per le mie capacità scolastiche e sportive, e cose di questo genere. Certo, l’anoressia ha cambiato qualcosa, nel senso che ho utilizzato la mia fisicità come marker della presenza o meno del controllo: fintanto che restringevo l’alimentazione, ero in controllo. Ma sono adesso consapevole che questo in realtà non esprime in alcun modo niente della persona che sono.

Da un punto di vista prettamente fisico, quello che cerco di fare è lavorare sull’accettazione del mio corpo. Non mi piace la mia fisicità, e non credo che debba necessariamente piacermi. Ma è necessario che io abbia un certo peso per riuscire a tener dietro a tutte le mie attività della vita quotidiana, e per riuscire ad avere una buona qualità della vita.

Ho parlato con la psicologa che mi segue relativamente a questa presunta necessità di amare il proprio corpo, e mi veniva da ridere al pensiero di dovermi mettere davanti ad uno specchio ripetendo mantra quali “Sono davvero sexy” e “Amo il mio corpo”. Non fa per me, inutile mentire a me stessa. Così, anziché lavorare sull’imparare ad amare il mio corpo, abbiamo iniziato a lavorare sull’accettazione. Sulla consapevolezza che non mi piace la mia fisicità, e probabilmente non mi piacerà mai, ma che devo imparare ad accettare un certo standard corporeo, anche se non rispecchia la mia idea di “dimostrazione di controllo”, perché è quello che mi permettere di vivere una vita degna, concentrandomi invece sulle cose che veramente rappresentano i miei punti di forza, e valorizzandoli.

E questo, pian piano, sta facendo la differenza. Il mio corpo non mi piace, e il bisogno di controllo è sempre lì, ma faccio quello che c’è bisogno di fare (mangio seguendo l’ “equilibrio alimentare” che mi ha prescritto la dietista, e non cedo all’impulso di restringere) e questo mi consente di dedicarmi a quelle cose (sport, lavoro, tirocinio post-laurea, amicizie…) che nella vita mi piacciono e m’interessano realmente. Anziché pensare che se non restringo l’alimentazione allora non ho il controllo della mia vita, penso che grazie al non essere così ossessiva nell’espletare il mio controllo e al non restringere l’alimentazione, posso reggere tranquillamente un turno di 12 ore (la notte, 20 – 8) in Pronto Soccorso senza rischiare di svenire da un momento all’altro. E il turno di notte in Pronto Soccorso è una vera meraviglia, ve lo assicuro.

Ho raggiunto una condizione ideale? Non lo so. Ma ho trovato un equilibrio. E da qui andrò avanti, in quest'equilibrio. Mi viene da dirlo in Inglese, con una frase rubata ad una canzone, ma che rende moltissimo: it works for me. Non ho bisogno di amare il mio corpo. Non ho bisogno di trovare gradevole la mia fisicità. È un’inezia, a fronte della persona che sono. Piuttosto che prendermela perché una parte del mio corpo non è come la vorrei, mi preoccupo per la mia capacità di essere un medico capace, una buona istruttrice ed arbitro imparziale di karate, una buona amica, una persona corretta, una persona in grado di realizzare i propri obiettivi nella vita.

Dunque no, non amo il mio corpo. E allora?

venerdì 4 ottobre 2013

Combattere contro l'anoressia: tips & tricks

Oggi ecco a voi uno dei grandi classici di questo blog, ovvero: consigli di auto-aiuto per combattere quotidianamente contro l’anoressia.

Sono piccole cose, ma possono essere utili. Assolutamente NON sostitutive alla psicoterapia, che è di fondamentale importanza nel trattamento dei DCA, ritengo possano comunque rappresentare una buona integrazione – nel loro piccolo – della stessa nel quotidiano.

Voglio proporvi soltanto delle idee estremamente semplici e d’immediata applicazione. E se poi avete qualche altro suggerimento da aggiungere alla lista, siete caldamente incoraggiate ad aggiungerlo nei commenti.  

Distogliete l’attenzione dal cibo/peso. Quando vi accorgete che state pensando al cibo/peso, fate virare immediatamente i vostri pensieri su altri lidi. Pensate a qualsiasi altra cosa, anche a quella apparentemente più sciocca, purché vi allontani dal pensiero originario.

Mangiate sempre seguendo l’ “equilibrio alimentare” che vi ha prescritto la vostra dietista. Al di là di quello che l’anoressia può farvi pensare, razionalizzate il fatto che il vostro schema alimentare è l’unica cosa giusta per gestire adeguatamente la vostra alimentazione.  

Evitate come la peste riviste o siti Internet che parlano di diete.  

Mettete per iscritto quali sono i traguardi che vi piacerebbe raggiungere mentre percorrete la strada del ricovero… ed immaginate come potreste fare a conseguirli.  

Quando vi trovate di fronte ad una difficoltà nell’alimentarvi, cercate di fare introspezione e di capire qual è in realtà il problema sottostante che vi spinge ad avere un comportamento alimentare errato. E una volta che avrete centrato il vero problema, elaborate possibili strategie per affrontarlo.

Quando sentire che il DCA sta prendendo il sopravvento, prendetevi il tempo di respirare a fondo e calmarvi. E poi fare la cosa giusta per non riadottare i comportamenti tipici del DCA stesso.

Trascorrete più tempo insieme ai vostri amici. Nelle ore in cui non sapete cosa fare, e che probabilmente verrebbero riempiti dai soliti pensieri dell’anoressia, uscite con i vostri amici.  

Provate a mangiare in compagnia dei vostri familiari o dei vostri amici: questo può sia aiutarvi ad essere più aderenti al vostro “equilibrio alimentare”, sia permettervi di distrarvi durante il pasto e non farlo pesare troppo.  

Circondatevi di persone che hanno una relazione sana con il cibo e con la fisicità. Evitate chi parla continuamente di diete, chi fa confronti fisici, chi vi spinge alla competizione.  

Quando vi viene qualche pensiero in testa, chiedetevi sempre: “Questo è un mio pensiero, o è un pensiero dell’anoressia?”. Se la risposta è che si tratta di un pensiero indotto dall’anoressia, contraddicetelo o ignoratelo. Non vale più la pena perdere tempo ad ascoltare quello che suggerisce il DCA. Non identificatevi nella malattia e nei suoi pensieri, perché voi non siete il vostro disturbo alimentare. Perché un DCA è un qualcosa che si HA, non un qualcosa che si E’.

Non isolatevi. La solitudine è il miglior terreno affinché l’anoressia possa attecchire.

Leggete e/o scrivete su dei Post-It che poi attaccherete alla pin-board della vostra cameretta, delle frasi positive e propositive. Più e più volte.

Ogni giorno fate almeno un gesto gentile nei confronti di voi stesse.

Cercate di capire quello che per voi può rappresentare un trigger perché vi tira verso il DCA, e tentate sempre di evitarlo.

Quando sentite che state attraversando un momento di particolare difficoltà e non ce la fate da sole, alzate il telefono e chiedete aiuto. Chiamate il vostro psicoterapeuta, un vostro familiare, un vostro amico… chiunque vi possa ascoltare, aiutare, supportare. Parlatene con qualcuno. Perché il sintomo più letale dell’anoressia è il silenzio.  

Avete qualche altro consiglio per combattere contro l’anoressia che vorreste aggiungere alla lista? Cosa vi è utile nella vostra battaglia quotidiana?

venerdì 27 settembre 2013

Il trauma di avere un DCA

Pochi giorni fa, una lettrice di questo blog (che preferisce rimanere anonima) che mi ha dato il permesso di scrivere questo post utilizzando una parte di una e-mail che mi ha scritto, mi ha raccontato di un incubo ricorrente che la perseguita da alcune settimane. Riprendendo dunque quel che mi ha scritto:  

“[…] in sostanza sogno di essere ritornata al punto di partenza. Non succedono chissà quali disgrazie, chissà quali tragedie, ma provo una fortissima ansia poichè in questo sogno ci sono io che sono ricoverata nel reparto di psichiatria dell’ospedale della mia città, laddove ho svolto il mio primo ricovero. Ho toccato il fondo di nuovo. Ho avuto una ricaduta, anche se non saprei dire come o perché. So solo che mi sogno di nuovo in quella camera d’ospedale, con il personale che mi dice cosa, quando e quanto mangiare, che mi segue se vado in bagno, che si accerta costantemente che non faccia movimento, che dice a me, donna ventiseienne, quando andare a letto. Sempre lo stesso incubo, notte dopo notte. Mi sento intrappolata in quell’ospedale, completamente priva di speranza, e poi mi sveglio in preda all’ansia. Mi dovrei preoccupare? […]”

Un disturbo alimentare generalmente non viene considerato un Trauma-con-la-T-maiuscola. Perché è comunque in qualcosa cui possiamo opporci, contro cui possiamo combattere, che possiamo allontanare sempre un po’ di più dalle nostre vite, in funzione della nostra volontà, con adeguato supporto terapeutico. Dunque un DCA non rappresenta un trauma nel senso canonico del termine. Eppure, a suo modo, io credo che lo sia. No, non genera un disturbo post-traumatico da stress (DPTS), questo è vero, ma ciò non significa che una persona con un DCA non stia vivendo comunque un’esperienza traumatica.

Se cercate su Internet qualsiasi cosa metta in relazione l’anoressia/la bulimia con i traumatismi, vedrete che tutta la letteratura si concentra sul DPTS e sugli eventi traumatici che possono aver rappresentato la matrice di un DCA. Questa correlazione può essere assolutamente vera, e vale la pena che vengano condotti studi al riguardo, ma tutto ciò non risponde ad una domanda: quanto i DCA stessi possono essere considerati un evento traumatico?

Una persona che viene ricoverata o seguita ambulatorialmente deve mangiare quando non vorrebbe farlo, e mangiare alimenti che non vorrebbe assumere. Viene violato il suo bisogno di controllo assoluto. Ci sono medici pronti a pesarla, valutarla, rivoltarla come un calzino. Ci sono i ricoveri in ospedali o cliniche, ci sono i millemila commenti da parte di genitori, parenti, amici, colleghi, e completi estranei. C’è la perdita di anni di scuola o di lavoro, la perdita della possibilità di fare sport. La perdita di amicizie. E così via. Per alcune persone tutto questo rappresenta un Trauma-con-la-T-maiuscola, che conseguentemente genera un DPTS. Per altre persone, questo è soltanto un trauma-con-la-t-minuscola. Si trovano in difficoltà sul momento, ma non ne risentono particolarmente a lungo termine.

E questo non vale solo per chi vive l’esperienza dell’anoressia/bulimia, ma anche per i familiari: mi è capitato di parlare con i genitori di ragazze con un DCA, ed è venuto fuori che diversi di loro presentavano un DPTS in conseguenza del timore che avevano avuto di perdere le loro figlie, delle lotte quotidiane contro il loro rifiuto di alimentarsi adeguatamente, delle difficoltà della psicoterapia familiare.

Uno psichiatra, Mark Epstein, ha pubblicato un articolo sul “New York Times”relativo al “Trauma del sopravvissuto”.  

“Mentre noi siamo avvezzi a pensare ai traumatismi come inevitabile conseguenza di grandi sconvolgimenti,” scrive lo psichiatra “la vita quotidiana è piena di infiniti piccoli traumi. Le cose si rompono. Le persone possono ferire. Le zecche provocano la malattia di Lyme. Gli animali domestici scappano. Gli amici si ammalano, e talora possono anche morire.

Un trauma non è semplicemente il risultato di una serie di tragedie e disastri. Non colpisce solo una ristretta gamma di persone. Una corrente sotterranea di piccoli traumi è presente nella vita di tutti i giorni, e questi colpiscono in maniera subdola ma s’impregnano a fondo nelle persone. Mi piace dire che se non stiamo tutti soffrendo di un disturbo da stress post-traumatico, allora stiamo soffrendo di un disturbo da stress pre-traumatico. È impossibile vivere senza avere la consapevolezza di tutti i potenziali disastri. In un modo o nell’altro, la morte (o i suoi parenti: l’anzianità, la malattia, gli incidenti, le perdite, le separazioni…) incombe su tutti noi. Nessuno ne è immune. Il nostro mondo è instabile e imprevedibile, e funziona – in larga misura e nonostante l’incredibile progresso scientifico – senza che noi abbiamo alcuna possibilità di controllarlo.”
(mia traduzione) 

Capire che un DCA in sè per sè può essere un trauma, è un qualcosa che può richiedere anni. Perché non sembra un qualcosa di così grosso da poter essere definito, ipso fasto, traumatico. Certo, avere un DCA può essere apparentemente meno terribile rispetto ad altre esperienze (come per esempio la perdita di una persona cara), ma questo non significa che non lasci cicatrici.

Avere l’anoressia/la bulimia e vivere un ricovero, e dover combattere giorno dopo giorno è, a suo modo, profondamente traumatizzante, e non c’è poi granché altro da aggiungere. Non è un trauma come quelli che ci sono stati inculcati essere tali (stupro, violenza, abuso, perdita…), per cui tendiamo a non configurarlo come tale. Ma resta il fatto che, come l’e-mail che ho ricevuto da parte di questa ragazza conferma, alcune persone che pure sono ad un buon punto nella loro strada del ricovero dall’anoressia/bulimia, hanno comunque delle memorie traumatiche. È un qualcosa di reale, e le persone che lo vivono necessitano di aiuto esattamente come chi ha vissuto ogni qualsiasi altro tipo di traumatismo.

venerdì 20 settembre 2013

Quando ad avere un DCA è una mamma

Uno dei (falsi) luoghi comuni più diffusi a proposito dei DCA, è che queste patologie colpiscano soltanto le adolescenti. Certo, è vero che in molti casi l’esordio di un disturbo alimentare coincide proprio con l’età adolescenziale, ma la vita non si esaurisce nell’adolescenza. E allora, cosa succede quando queste adolescenti crescono? Il DCA non sparisce magicamente, e così la ragazzina continua a tirarsi dietro la patologia all’università, dopo la laurea, nell’età adulta, nelle relazioni, nella convivenza e durante un’eventuale gravidanza. Già, anche durante la gravidanza. Se c’è qualcuno che sta pensando che mettere al mondo un figlio trasformi istantaneamente una donna in una madre, mi sa tanto che si sbaglia di grosso. Ci sono alcune persone in cui l’esperienza di una gravidanza aiuta a combattere il DCA, altre in cui invece peggiora la situazione.

Dunque, cosa succede quando una donna torna a casa dall’ospedale insieme al suo partner, a suo figlio, e al suo DCA?

Prima di mettermi a scrivere questo post ho dato un’occhiata agli articoli che parlano di anoressia e gravidanza, e mi sono così accorta che nella maggior parte dei casi le donne incinta con un DCA vengono considerate delle egoiste. La premessa è che sono queste stesse donne che scelgono di essere malate, e quindi dovrebbero concentrarsi sul loro DCA e non pensare ad avere un figlio.

Okay, diciamo come la penso io: sì, una madre è responsabile della salute e della sicurezza dei propri figli; ma una donna non è soltanto una madre dal momento in cui partorisce. È una PERSONA, con tutti i suoi ghiribizzi e idiosincrasie e tutto quello che una persona può avere, per cui non deve sembrare una cosa così egoista e fuori dal mondo che una persona con figli possa avere anche un DCA.

Altra cosa: potremmo per favore smetterla con l’idea che le persone scelgano scientemente di quale malattia mentale ammalarsi, e di rimanere malate? Anche basta, eh.

E dunque, tra tutti questi falsi miti sulla femminiltà, maternità, e disturbi alimentari, com’è che si sente veramente una madre che ha un DCA? Dato che io non sono (né sarò) madre, per rispondere a questa domanda ho trovato un interessante articolo scritto dagli psicologi australiani Stitt e Reupert, che hanno intervistato 9 madri affette da DCA, per capire come possa essere barcamenarsi tra figli, lavoro, vita e una malattia mentale potenzialmente letale.

Cominciamo dal titolo. Il titolo mi ha fatto storcere il naso parecchio, però devo dire che il resto dell’articolo era interessante. Il titolo recita: “Madri con un disturbo alimentare: il cibo viene prima di tutto”. Quando l’ho letto, mi è venuto l’impulso di prendere a testate il monitor del computer. Ma che diamine… Certo, sicuramente il cibo condiziona la vita di una persona che ha un disturbo alimentare, ne altera le relazioni sociali e interferisce nella relazione madre-figli, ma non è in alcun modo totalmente rappresentativo di una persona che ha un DCA. Anzi, immagino che una madre con un DCA faccia di tutto per cercare di tener testa all’anoressia/bulimia/binge/DCAnas, nasconderla agli occhi dei propri figli, e cercare di conservare un’apparenza normale.

A parte questa considerazione sul titolo, l’articolo mi è piaciuto perché vengono intervistate queste madri, e credo che le esperienze di vita in presa diretta siano veramente utili ed importanti per documentare una realtà e farla comprendere.

Di queste 9 donne intervistate, 4 sono affette da anoressia, 4 da bulimia e 1 da DCAnas. Hanno tra 1 e 4 figli e tutte in passato hanno in qualche modo cercato di curare il loro DCA ricercando un aiuto professionale.

Ci sono 6 punti principali che vengono toccati nelle interviste:

• L’impatto che il DCA della madre ha sui figli
• Il modello proposto ai figli di un’alimentazione disturbata
• La priorità che il DCA riveste nella vita delle madri
• La motivazione al ricovero che può dare il fatto di avere dei figli
• La segretezza che circoscrive il DCA
• I trattamenti necessari

Tutte le donne dichiarano di avere difficoltà a stabilire dei limiti tra il loro DCA, i loro figli, e le loro relazioni sociali.

Una di queste donne dice: “Ho speso un sacco di tempo dietro alle ossessioni sempre presenti nella mia testa, tempo che ho rubato alla possibilità di fare cose insieme ai miei figli. Mi chiedo quanto tempo ho realmente perso, quante attenzioni gli ho sottratto, quante volte sono stata una madre assente?”

Tutte le donne intervistate, inoltre, dichiarano di sperare che il DCA non colpisca anche i loro figli, ma allo stesso tempo tutte ammettono che sono preoccupate all’idea che i loro figli possano copiare i loro erronei comportamenti alimentari.

Una mamma dice: “La mia più grande paura è cosa potrebbe succedere se mia figlia mi copiasse… Il DCA è la mia strategia di coping, e sono terrorizzata all’idea che lei possa rendersene conto e pensare qualcosa come: “Okay, la mamma fa così quando si trova di fronte a certe situazioni, quindi lo faro anch’io””.

Sebbene i figli accrescano le ansie materne per come possono influenzarli col loro DCA, è anche vero che per alcune di loro essi rappresentano una motivazione per mettercela tutta nel combattere contro il proprio DCA.

“Non voglio che le mie figlie crescano con una madre che sia in qualche modo disfunzionale” dice una delle intervistate “Sto cercando di combattere contro il DCA proprio per questo. Vorrei stare meglio per permettere alle mie figlie di crescere in un ambiente sano. Se non fosse stato per loro, onestamente o sarei morta, o sarei alle prese con una ricaduta dietro l’altra.”

Ci sono tuttavia delle difficoltà per queste madri per ricevere un trattamento adeguato: la maggior parte di esse nota come la stragrande maggioranza dei servizi offerti sia diretto alle adolescenti, a chi non ha una propria famiglia, e quanto sia difficile trovare un appuntamento per una donna che ha dei figli e lavora, e quindi ha dei tempi diversi rispetto a quelli di una ragazzina.

Una donna dice: “I terapeuti spesso non si rendono conto che non tutti hanno una babysitter, e che quindi la possibilità di seguire costantemente una terapia è condizionata dale necessità dei figli. Uno psicoterapeuta mi ha detto: “Se non puoi venire almeno una volta alla settimana, non si può lavorare in maniera efficace”. Io gli ho risposto: “Ci provo, ma se i miei figli sono malati e devo stare con loro, che ci posso fare?””

La conclusione dell’articolo (conclusione che, come il titolo, non mi piace) è che le donne con un DCA non riescono a gestire adeguatamente ed efficacemente né il loro DCA, né il loro ruolo di madre.

Penso che questa conclusione sia molto superficiale, e che sarebbe necessario andare più in profondità.

Per quanto le 9 madri intervistate riconoscano l’impatto avverso che un DCA può avere sui loro figli/e, alcune lo minimizzano. Tuttavia, è interessante notare come una di queste madri sottolinei il fatto che questa minimizzazione fa parte del proprio diniego relativo al DCA stesso. La vergogna associata all’avere un DCA in età adulta, e la conseguente necessità di nascondere il proprio disturbo alimentare agli occhi dei propri figli, è forse associato a questo diniego. Alcune madri sentono che per certe cose il DCA è prioritario ai loro figli ma, allo stesso tempo, trovano nei figli la spinta per continuare a combattere contro il DCA. Questo significa che queste madri cercando di destreggiarsi tra le richieste del DCA e quelle dei propri figli, e vengono sballottate dalle une alle altre, il che rende molto difficile uscire dall’impasse. Eppure, credo sia proprio su questa ambivalenza che gli psicoterapeuti potrebbero proprio efficacemente lavorare.

Pur non avendo vissuto in prima persona quest’esperienza, io credo che una madre con un DCA faccia del suo meglio per gestire sia il suo DCA, sia la sua responsabilità in quanto genitore. E il fatto che persista il falso luogo comune che le madri malate di anoressia/bulimia siano infantili, capricciose, egoiste, prive di voglia di guarire, non aiuta proprio per niente. Le madri con un DCA avrebbero bisogno di un trattamento costruito sulle loro necessità, sui loro tempi ridotti, sulla necessità di gestire lavoro, partner, figli, vita, contemporaneamente. Vivere con un DCA è estremamente difficile, sia per la persona malata, sia per i suoi familiari, ed è troppo facile scaricare la colpa su chi ne soffre. Un genitore con un disturbo alimentare ha un grosso impatto sui propri figli, e questo non può e non dev’essere ignorato. Una madre con un DCA sta male, e non dovrebbe essere indicata a dito come esempio di egoismo, ma aiutata. (Così come i suoi figli, non sto cercando di minimizzare le sofferenze di un figlio/a di una persona che ha un DCA, che certo si trova a dover sostenere una situazione difficilissima.) Penso che, a tal proposito, potrebbe essere molto utile la creazione di centri di terapia di gruppo sia per le madri che hanno un DCA, sia per i loro figli che risentono della situazione.

Ci vorrebbe più comprensione e supporto, e meno luoghi comuni e giudizi.

venerdì 13 settembre 2013

Perchè chi ha un DCA è (generalmente) un disastro nell'alimentazione intuitiva

Come ho scritto nel post di Venerdì scorso, credo che tutte le persone che hanno un DCA abbiano problemi con la corretta percezione delle sensazioni di pienezza/sazietà. Penso che ci siano molteplici fattori che rendono ragione di ciò, non ultimo il fatto che il DCA sia parte della propria vita da molto tempo. Ma immagino che questa non sia l’unica ragione.

Per cui, benvenute nello strano mondo dell’ “interocezione compromessa”. Per chi se lo stesse chiedendo, l’interocezione è la percezione dello stato interno del nostro corpo, della nostra interiorità. Comprende sensazioni come la fame, la stanchezza, l’emozione, il dolore, il disgusto, etc, ed è generalmente processata ed integrata in una regione del nostro cervello chiamata insula.

Vi riporto una breve descrizione dell’interocezione e dell’insula tratta da “Scientific American Mind”:  

“Siamo consapevoli se si è affamati o sazi, se ci fa caldo o freddo, se abbiamo prurito o sentiamo dolore quando i recettori presenti sulla pelle, sui muscoli e negli organi interni mandano segnali ad una regione del cervello chiamata insula. Questa piccola porzione di tessuto neurale è localizzata in una profonda piega del tessuto cerebrale più esterno, vicino alle orecchie. Essa coltiva al consapevolezza dello stato del corpo e, così facendo, riveste un importante ruolo nella consapevolezza di sé e nell’esperienza emotiva. I dati interocettivi si combinano a livello dell’insula con le informazioni che provengono dall’esterno dell’organismo: quest’area cerebrale, per esempio, connette il dolore acuto che proviamo quando tocchiamo una pentola incandescente, con il segno dell’ustione che compare sul palmo della mano”.
(mia traduzione) 

Numerosi studi hanno connesso l’ “interocezione compromessa” con lo sviluppo e il mantenimento di anoressia/bulimia. Uno studio recente pubblicato sulla rivista “Appetite”, ha scoperto che l’interocezione è correlata alla capacità che ha una persona di riuscire con successo nell’alimentazione intuitiva (“intuitive eating” – forse ne avete sentito parlare con questo nome). Migliore è la propria interocezione, migliore è la propria capacità di alimentarsi intuitivamente. (Herbert et al., 2013)

Il che spiega molto bene perché la stragrande maggioranza delle persone con un DCA (io in prima fila) sono un disastro con l’alimentazione intuitiva.

Personalmente, non ho mai formalmente messo alla prova la mia capacità di interocezione (sebbene esista un test per farlo – ve ne parlerò tra qualche minuto. Se conoscete il numero delle vostre pulsazioni cardiache a riposo perché praticate qualche sport a livello agonistico, e quindi fate spesso dei controlli per le visite medico-sportive (cosa che io faccio per lavoro), il risultato del test vi verrà falsato. Ma se non le conoscete, allora potrebbe essere divertente fare questo test.) ma conoscendo la mia generale incapacità in questo genere di cose, posso facilmente immaginare come la mia interocezione faccia più o meno schifo.

Comunque, tornando allo studio di cui vi accennavo, ecco cos’hanno scoperto i ricercatori.

Sono state valutate 111 studentesse universitarie della University of Tubingen, valutando la loro attitudine all’alimentazione intuitiva, i loro livelli di ansia nell’immediato e a lungo termine, e la loro interocezione. L’alimentazione intuitiva, per chi non lo sapesse, è definita come la capacità di: mangiare in risposta alla sensazione fisica (e non emotiva!!) di fame, scegliere liberamente cosa mangiare, e smettere di mangiare nel momento in cui si avverte la sensazione di sazietà. La cosiddetta “Intuitive Eating Scale” misura proprio questi 3 specifici aspetti dell’alimentazione intuitiva:

• permesso incondizionato a mangiare quando viene percepita la sensazione di fame qualsiasi cibo sia desiderato
• capacità di mangiare per fame fisica e non emotiva
• dipendenza da stimoli interni della fame su quando e quanto mangiare

È evidente che la corretta percezione degli stimoli interocettivi quali fame/sazietà è un elemento-chiave dell’alimentazione intuitiva. Ma nessuno prima d’ora aveva misurato la connessione tra le due cose.

Per testare l’interocezione, i ricercatori utilizzano il “Test del Battito Cardiaco” dove la persona che vi si sottopone è chiamata a sentire le proprie pulsazioni cardiache, senza misurarle formalmente. Le persone che hanno una buona consapevolezza interocettiva realizzano ottimi risultati riuscendo a valutare con ottima approssimazione il loro numero di battiti cardiaci al minuto, perché riescono in qualche modo a sentire il tu-tum del proprio cuore. Studi condotti in precedenza avevano svelato che il “Test del Battito Cardiaco” era molto buono per valutare i molti aspetti dell’interocezione come le sensazioni di fame/sazietà (Herbert et al., 2012), e che le persone affette da anoressia ottenevano a questo test risultati significativamente peggiori di tutte le altre donne (Pollatos et al., 2008).  

Testa la tua interocezione!! 

Gentile lettrice/lettore, questo è un semplice test che ti consentirà di valutare la tua capacità interocettiva – ovvero la tua capacità di valutare la tua fame, il tuo dolore, la tua temperatura corporea, etc. Per eseguirlo ti servono un cronometro (i cellulari hanno spesso questa funzione) e una calcolatrice. Adesso siediti su una comoda poltrona e respira profondamente. Quando ti senti rilassata, dai il via al cronometro e conta i tuoi battiti cardiaci per un minuto cercando semplicemente di sentirne il ritmo. (Non cercare il polso radiale o il polso carotideo toccandoti il polso o il collo, sennò non vale!) Scrivi su un foglio il numero di pulsazioni cardiache che ti pare di aver sentito in un minuto.

Poi, misura le tue pulsazioni cardiache al minuto normalmente: sentendoti il polso oppure appoggiando le dita sul collo. Aspetta 2 minuti, poi fai un’altra misurazione di questo tipo. Fai la media tra le 2 misurazioni ottenute in questo modo.

Calcola la differenza tra i battiti cardiaci al minuto che avevi stimato sentendoli, e quelli che hai effettivamente misurato. Prendi il valore assoluto di questa differenza, e dividilo per i battiti cardiaci al minuto effettivamente misurati. Togli da 1 il risultato ottenuto.
La formula è questa:

1 – ( |battiti cardiaci al minuto stimati – battiti cardiaci al minuto effettivi| / battiti cardiaci al minuto effettivi)  

Interpretazione del tuo risultato

Se il tuo risultato è maggiore o uguale a 0,80, la tua abilità interocettiva è molto buona.
Un risultato compreso tra 0,60 e 0,79 indica una moderata capacità interocettiva.
Un risultato inferiore a 0,59 è sinonimo di una scarsa capacità interocettiva.

Gli studi di cui vi parlavo prima hanno documentato che le persone capaci di ottenere buoni risultati al “Test del Battito Cardiaco” erano le stesse persone che se la cavavano bene con l’alimentazione intuitiva e ottenevano ottime prestazioni in termini di: mangiare per fame fisica e non emotiva, e capacità di rispondere agli stimoli interni.

Non sorprendentemente, le persone che riuscivano peggio nell’alimentazione intuitive erano le persone con un B.M.I. particolarmente basso o particolarmente alto. Il che correla molto bene con l’idea che le persone affette da un DCA che altera significativamente il loro peso corporeo sono le meno capaci di ascoltare i segnali di fame/sazietà del proprio corpo e che, viceversa, le persone che non hanno un DCA (e che, generalmente, hanno un B.M.I. compreso tra 18 e 25) e che mangiano quanto/quando hanno fame, mantengono più o meno il proprio peso anche se non ci pensano.

La capacità di realizzare un’alimentazione intuitiva viene spesso e volentieri vista come una sorta di apogeo nella “guarigione” da un DCA. Io penso invece che la flessibilità nell’alimentarsi sia una buona cosa, come può esserlo il cercare di capire quando si sia più o meno affamate/sazie, ma che una persona con anoressia/bulimia abbia bisogno di un aiuto un po’ maggiore di quello che l’alimentazione intuitiva potrebbe offrire naturalmente. È vero che sarebbe bello ricominciare ad alimentarsi con naturalezza però, nel momento in cui non ci riusciamo, penso sia giusto affidarsi ad un dietista/nutrizionista, che ci fornisca uno schema alimentare che ci consenta di mangiare in maniera adeguata senza far mancare niente al nostro organismo, sia in termini di energia che in termini di nutrienti.  

Voi cosa ne pensate?
 
Clicky Web Analytics Licenza Creative Commons
Anoressia: after dark by Veggie is licensed under a Creative Commons Attribution-NoDerivs 3.0 Unported License.