venerdì 27 dicembre 2013
Lego House
Mi sono chiesta più e più volte, in questi giorni, cos’avrei potuto scrivere nell’ultimo post del 2013. Mi sono venute millemila idee diverse, ma nessuna mi sembrava veramente convincente. Ad un certo punto, però, mi sono trovata ad interrogarmi su cosa fosse veramente per me la fine dell’anno, ed è da questo interrogativo che ho tratto l’ispirazione per il post odierno.
Non so come la pensate voi, ma io vedo sempre il finire di ogni anno come un momento in cui concentrarsi su qualcosa di particolarmente positivo che c’è stato nei 12 mesi appena trascorsi, al fine di portare con sé quella cosa che ci ha fatte stare bene anche nel nuovo anno che si appresta ad iniziare. A ben pensarci, in questo 2013 ci sono state talmente tante cose da salvare e da portare dritte nel 2014, che se mi volessi concentrare su ognuna di esse singolarmente dovrei scrivere almeno una trentina di post. Sceglierne una sola è ben arduo, perché così facendo mi vedo costretta a tagliar fuori un sacco di cose e persone che hanno cambiato la mia vita in meglio durante quest’ultimo anno, un sacco di cose e persone che, ciascuna a loro modo, mi hanno aiutata a continuare a combattere contro l’anoressia.
Lo sport, il lavoro come istruttrice/arbitro di karate, il tirocinio in Pronto Soccorso… tutte cose che arricchiscono la mia vita e che voglio portare con me non solo nel 2014, ma anche in tutti gli anni a venire. Così come tutte le meravigliose persone che hanno incrociato la mia strada durante quest’anno. E se penso alle persone, ce n’è una in particolare che mi fa sorridere. Una persona con cui ho condiviso un sacco di esperienze e di pensieri. Una persona che mi illumina le giornate. La prima persona cui penso quando mi sveglio la mattina, e l’ultima persona cui mando un SMS di buonanotte la sera. La persona che più di ogni altra mi fa venire voglia di continuare a combattere contro l’anoressia senza mollare la presa. La persona più speciale che ci sia. Il mio migliore amico Alex.
Per cui, sì, credo proprio che quest’ultimo post del 2013 debba essere dedicato a lui.
E dunque, Alex, questo è per te.
Il cuore è un muscolo, solo questo. L’ho pensato per un sacco di tempo. Il cuore è un muscolo. Era molto più semplice vederla in questo modo, molto più conveniente. L’unico modo per non correre nessun rischio, in definitiva. Perché succede che a un certo punto i cuori interrotti, quelli le cui ferite sono aperte e sanguinano ancora, si congelano. E’ il loro modo per riprendersi e per difendersi dall’altro male che gli può essere fatto. Avere il cuore congelato ha indubbiamente dei grandi vantaggi, mi dicevo: primo fra tutti il fatto che, non riuscendo a provare niente, si evita di soffrire. Il cuore è un organo strano… in realtà è un organo di copertura, perché poi quello che noi chiamiamo cuore probabilmente lo fa la testa, e comunque sono collegati, un po’ come orecchio, naso e gola… il male che gli fai (o che gli fanno) non passa, si accuccia in un angolino e rimane lì, sempre vivo. Per la maggior parte del tempo dorme, ma poi succede che si risveglia. E quando si risveglia il male che fa è sempre uguale. Non ci sono ferite del cuore che passano. Si forma come un cerotto sopra, ma è talmente sottile che basta poco perché la ferita si riapra e ricominci a sanguinare. Quando il cuore è congelato questo non accade. Tutto tace, nel bene e nel male. Né gioia né dolore. Uno strano equilibrio che, allo stesso tempo, non fa stare bene ma non fa neanche stare male…
Ecco, per tanto tempo il mio cuore è stato questo. Solo un muscolo in definitiva. E mi andava benissimo così. Meglio non provare niente, che correre il rischio di essere ferita. Meglio non avvicinarsi a nessuno, non avere alcuna amicizia, tirare su muri contro chiunque, essere tutt’al più gentile, ma distante, mettere sempre paletti, tirarsi indietro il prima possibile. Avevo l’anoressia, e questo era quanto. E questo era tutto. Meglio seppellire quel vano sentimento dell’amicizia da qualche parte, molto in profondità. E andare avanti, a testa alta, guardando dritta davanti, concentrata sul percorso, solo l’anoressia al mio fianco, e niente più grane.
Io basto a me stessa. Pensavo così.
Tu hai interrotto il mio loop.
Tu sei stato un inciampo, ecco cosa. Ci ho pensato, è proprio così: tu sei stato un inciampo. Hai visto, proprio com’è quando s’inciampa. Ti sei messo in mezzo, così, all’improvviso, e io non ho fatto in tempo a scansarmi. Sono inciampata. Ero così fermamente convinta di avere il cuore congelato, così convinta che l’anoressia e il controllo fossero il fulcro della mia vita, e che niente e nessuno avrebbe potuto cambiare questa situazione, che non avevo proprio messo in conto la possibilità di un disgelo. Il cuore riprende a battere, le ferite si risentono e si trasformano in paura che ciò che ha fatto male possa accadere di nuovo… con altre modalità e con altre forme… ma si riprova una strana sensazione, quella di tornare a vivere. Si sente il muscolo pompare, il sangue scorrere… e rientrare in circolo. Ho preso le distanze dall’anoressia. Mi sono risvegliata. E non ero più abituata. E quando non si è abituati è facile cadere, è facile prendere dei muri a 200 all’ora contromano… Perché senza gelo intorno al cuore e senza la coperta di Linus rappresentata dall’anoressia, mi sono sentita vulnerabile. Così mi sono chiesta cosa fosse meglio: il cuore congelato o il cuore che riprende a vivere? La solitudine dell’anoressia o la possibilità di un’apertura? Prima credevo di conoscere la risposta. Ora non ho neanche più voglia di pormi la domanda.
La verità è che ho sempre avuto una paura incredibile di stare di nuovo male.
Tu sei stato un imprevisto. E, paradossalmente, hai cambiato tutto. Ero così convinta che sarei andata avanti da sola, che il controllo che mi faceva provare l’anoressia fosse l’unica cosa di cui avevo bisogno, che quando la mia strada si è incrociata con la tua, la prima cosa che ho pensato è stata che non potevo permettermi una simile distrazione. Eppure, inconsapevolmente, la mia testa aveva già cominciato a divagare. Senza volerlo, ero già entrata in una nuova misura. Senza volerlo, mi ero già voltata verso di te.
Io scrivo molto, però paradossalmente in realtà non mi piacciono granché le parole. Perché sono misere. Perché quando stanno nella tua testa, le cose sono grandi, enormi, immense… poi ti trovi a doverle mettere giù a parole, e quelle si rimpiccioliscono, si riducono a non più che grandezza naturale. A maggior ragione se si tratta di sentimenti. Come si può pensare di descrivere un sentimento a parole? Pensa all’amicizia, per esempio. Ad un amico si dice “ti voglio bene”. Sono tre parole semplici, brevi per giunta, assolutamente banali. E le si usano per esprimere un qualcosa che è tutt’altro che semplice e banale. E allora? C’è una discrepanza incredibile. Per questo non mi piacciono le parole. Perché non rendono l’idea. Per questo io “ti voglio bene” non l’ho mai detto a nessuno. Perché mi sarebbe sembrato di banalizzare, di svilire questo sentimento racchiudendolo in tre parole. Ma sai che cosa, ben pensandoci? Forse è proprio questo il bello. Che sono state inventate tre parole così semplici che riescono a dire qualcosa di davvero grande. E allora, voglio provarci anch’io.
E quindi ti voglio bene, ti voglio bene anche se non te l’ho mai detto esplicitamente face-to-face perché per me è difficile sciogliere la matassa dei sentimenti, e metterli giù a chiare lettere. Una volta mi hai detto che io sono la prima Vera Amica che hai incontrato da quando hai iniziato a frequentare Medicina. Bè, posso dirti solo che anche tu sei il migliore amico che avrei mai potuto conoscere. Se dovessi mettermi a ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me in questi anni, per come mi hai sempre supportata (e sopportata!) tuo malgrado, non mi basterebbero le prossime 10 vite. Ogni singola volta che mi hai telefonato ho esitato per un attimo a rispondere fissando il tuo nome sul display del cellulare e pensando col sorriso sulle labbra che eri troppo… troppo per me. Troppo, sì… troppo tutto per essere vero. Ma lo eri. Lo sei. E vorrei riuscire a dirti tutto questo a voce, ma lo scrivo perché so che non riuscirei a dirlo guardandoti negli occhi per più di 2 secondi senza sentirmi in difficoltà. Vorrei dirti tante cose, che è meraviglioso il semplice fatto che esisti, ma non ce la farei mai perché sarei sopraffatta dall'emozione, mi tremerebbe la voce, mi tremerebbero le mani, dovrei concentrarmi per mantenere una parvenza di normalità, e farei una fatica bestiale. Quando sono con te mi dimentico del tirocinio, del karate, di cosa devo fare nella settimana, del lavoro, dell’anoressia, del controllo, di respirare. Penso che tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata. E se mai sono riuscita a fare qualcosa per te, è niente rispetto alla gioia che ho provato nell’esserti stata vicino in questi anni: non sai quanto bene mi hai fatto. Sei stato tu a trasformarmi, Alex. Sei stato il motivo del mio primo vero sorriso dopo tanto tempo. Il solo pensiero che avrei potuto non conoscerti mi è sempre risuonato dentro come la peggiore delle minacce, perciò ringrazio la casualità che ti ha portato nella mia strada. Mi sono sempre sentita privilegiata anche solo per aver ricevuto la tua amicizia, il tuo sguardo, la possibilità di addentrarmi anche solo un po’ nel tuo mondo. Perché io non avrei mai immaginato di poter trovare un amico a cui voler bene quanto ne voglio a te.
Ma queste sono parole, e io sento che le parole adesso non bastano per descrivere la nostra amicizia, e per esprimere il bene che ti voglio. E allora, provo a dirtelo in una forma che mi è più congeniale: con un video. Io come Chloe Sullivan (interpretata da Allison Mack), tu come Clark Kent (interpretato da Tom Welling) nel telefilm “Smallville”. La nostra amicizia raccontata con le loro immagini, perché è come la loro amicizia: più forte di tutti, più forte di tutto.
(QUI per vederlo direttamente su YouTube) In fondo, posso solo dirti grazie. Grazie di tutto. Davvero. Ti voglio un bene dell’anima per la persona stupenda che sei e per tutto quello che mi hai dato da quando ci siamo conosciuti. Mi fai venir voglia di continuare a combattere e a tenere duro ogni volta che ti vedo, o anche solo ogni volta che ti penso. Mi rendi migliore.
(Graduation Day, 25/07/2013) (click sulla foto per ingrandire)
So che adesso abbiamo fatto scelte molto diverse per il nostro futuro, e dunque non potremo più stare side by side come quando andavamo a lezione insieme tutti i giorni, ed ognuno di noi s’incamminerà per la propria strada… Sono però sicura che, nonostante questo, l’amicizia che ci lega non cambierà d’una virgola. So che ci vedremo molto più raramente ma, pur con tutti i nostri rispettivi impegni, spero proprio che continueremo a trovare il modo di ritagliarci un po’ di tempo solo per noi... perché qualsiasi cosa io faccia, è molto più divertente se la faccio insieme a te.
(click sull'immagine per ingrandire)
Non so come la pensate voi, ma io vedo sempre il finire di ogni anno come un momento in cui concentrarsi su qualcosa di particolarmente positivo che c’è stato nei 12 mesi appena trascorsi, al fine di portare con sé quella cosa che ci ha fatte stare bene anche nel nuovo anno che si appresta ad iniziare. A ben pensarci, in questo 2013 ci sono state talmente tante cose da salvare e da portare dritte nel 2014, che se mi volessi concentrare su ognuna di esse singolarmente dovrei scrivere almeno una trentina di post. Sceglierne una sola è ben arduo, perché così facendo mi vedo costretta a tagliar fuori un sacco di cose e persone che hanno cambiato la mia vita in meglio durante quest’ultimo anno, un sacco di cose e persone che, ciascuna a loro modo, mi hanno aiutata a continuare a combattere contro l’anoressia.
Lo sport, il lavoro come istruttrice/arbitro di karate, il tirocinio in Pronto Soccorso… tutte cose che arricchiscono la mia vita e che voglio portare con me non solo nel 2014, ma anche in tutti gli anni a venire. Così come tutte le meravigliose persone che hanno incrociato la mia strada durante quest’anno. E se penso alle persone, ce n’è una in particolare che mi fa sorridere. Una persona con cui ho condiviso un sacco di esperienze e di pensieri. Una persona che mi illumina le giornate. La prima persona cui penso quando mi sveglio la mattina, e l’ultima persona cui mando un SMS di buonanotte la sera. La persona che più di ogni altra mi fa venire voglia di continuare a combattere contro l’anoressia senza mollare la presa. La persona più speciale che ci sia. Il mio migliore amico Alex.
Per cui, sì, credo proprio che quest’ultimo post del 2013 debba essere dedicato a lui.
E dunque, Alex, questo è per te.
Il cuore è un muscolo, solo questo. L’ho pensato per un sacco di tempo. Il cuore è un muscolo. Era molto più semplice vederla in questo modo, molto più conveniente. L’unico modo per non correre nessun rischio, in definitiva. Perché succede che a un certo punto i cuori interrotti, quelli le cui ferite sono aperte e sanguinano ancora, si congelano. E’ il loro modo per riprendersi e per difendersi dall’altro male che gli può essere fatto. Avere il cuore congelato ha indubbiamente dei grandi vantaggi, mi dicevo: primo fra tutti il fatto che, non riuscendo a provare niente, si evita di soffrire. Il cuore è un organo strano… in realtà è un organo di copertura, perché poi quello che noi chiamiamo cuore probabilmente lo fa la testa, e comunque sono collegati, un po’ come orecchio, naso e gola… il male che gli fai (o che gli fanno) non passa, si accuccia in un angolino e rimane lì, sempre vivo. Per la maggior parte del tempo dorme, ma poi succede che si risveglia. E quando si risveglia il male che fa è sempre uguale. Non ci sono ferite del cuore che passano. Si forma come un cerotto sopra, ma è talmente sottile che basta poco perché la ferita si riapra e ricominci a sanguinare. Quando il cuore è congelato questo non accade. Tutto tace, nel bene e nel male. Né gioia né dolore. Uno strano equilibrio che, allo stesso tempo, non fa stare bene ma non fa neanche stare male…
Ecco, per tanto tempo il mio cuore è stato questo. Solo un muscolo in definitiva. E mi andava benissimo così. Meglio non provare niente, che correre il rischio di essere ferita. Meglio non avvicinarsi a nessuno, non avere alcuna amicizia, tirare su muri contro chiunque, essere tutt’al più gentile, ma distante, mettere sempre paletti, tirarsi indietro il prima possibile. Avevo l’anoressia, e questo era quanto. E questo era tutto. Meglio seppellire quel vano sentimento dell’amicizia da qualche parte, molto in profondità. E andare avanti, a testa alta, guardando dritta davanti, concentrata sul percorso, solo l’anoressia al mio fianco, e niente più grane.
Io basto a me stessa. Pensavo così.
Tu hai interrotto il mio loop.
Tu sei stato un inciampo, ecco cosa. Ci ho pensato, è proprio così: tu sei stato un inciampo. Hai visto, proprio com’è quando s’inciampa. Ti sei messo in mezzo, così, all’improvviso, e io non ho fatto in tempo a scansarmi. Sono inciampata. Ero così fermamente convinta di avere il cuore congelato, così convinta che l’anoressia e il controllo fossero il fulcro della mia vita, e che niente e nessuno avrebbe potuto cambiare questa situazione, che non avevo proprio messo in conto la possibilità di un disgelo. Il cuore riprende a battere, le ferite si risentono e si trasformano in paura che ciò che ha fatto male possa accadere di nuovo… con altre modalità e con altre forme… ma si riprova una strana sensazione, quella di tornare a vivere. Si sente il muscolo pompare, il sangue scorrere… e rientrare in circolo. Ho preso le distanze dall’anoressia. Mi sono risvegliata. E non ero più abituata. E quando non si è abituati è facile cadere, è facile prendere dei muri a 200 all’ora contromano… Perché senza gelo intorno al cuore e senza la coperta di Linus rappresentata dall’anoressia, mi sono sentita vulnerabile. Così mi sono chiesta cosa fosse meglio: il cuore congelato o il cuore che riprende a vivere? La solitudine dell’anoressia o la possibilità di un’apertura? Prima credevo di conoscere la risposta. Ora non ho neanche più voglia di pormi la domanda.
La verità è che ho sempre avuto una paura incredibile di stare di nuovo male.
Tu sei stato un imprevisto. E, paradossalmente, hai cambiato tutto. Ero così convinta che sarei andata avanti da sola, che il controllo che mi faceva provare l’anoressia fosse l’unica cosa di cui avevo bisogno, che quando la mia strada si è incrociata con la tua, la prima cosa che ho pensato è stata che non potevo permettermi una simile distrazione. Eppure, inconsapevolmente, la mia testa aveva già cominciato a divagare. Senza volerlo, ero già entrata in una nuova misura. Senza volerlo, mi ero già voltata verso di te.
Io scrivo molto, però paradossalmente in realtà non mi piacciono granché le parole. Perché sono misere. Perché quando stanno nella tua testa, le cose sono grandi, enormi, immense… poi ti trovi a doverle mettere giù a parole, e quelle si rimpiccioliscono, si riducono a non più che grandezza naturale. A maggior ragione se si tratta di sentimenti. Come si può pensare di descrivere un sentimento a parole? Pensa all’amicizia, per esempio. Ad un amico si dice “ti voglio bene”. Sono tre parole semplici, brevi per giunta, assolutamente banali. E le si usano per esprimere un qualcosa che è tutt’altro che semplice e banale. E allora? C’è una discrepanza incredibile. Per questo non mi piacciono le parole. Perché non rendono l’idea. Per questo io “ti voglio bene” non l’ho mai detto a nessuno. Perché mi sarebbe sembrato di banalizzare, di svilire questo sentimento racchiudendolo in tre parole. Ma sai che cosa, ben pensandoci? Forse è proprio questo il bello. Che sono state inventate tre parole così semplici che riescono a dire qualcosa di davvero grande. E allora, voglio provarci anch’io.
E quindi ti voglio bene, ti voglio bene anche se non te l’ho mai detto esplicitamente face-to-face perché per me è difficile sciogliere la matassa dei sentimenti, e metterli giù a chiare lettere. Una volta mi hai detto che io sono la prima Vera Amica che hai incontrato da quando hai iniziato a frequentare Medicina. Bè, posso dirti solo che anche tu sei il migliore amico che avrei mai potuto conoscere. Se dovessi mettermi a ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me in questi anni, per come mi hai sempre supportata (e sopportata!) tuo malgrado, non mi basterebbero le prossime 10 vite. Ogni singola volta che mi hai telefonato ho esitato per un attimo a rispondere fissando il tuo nome sul display del cellulare e pensando col sorriso sulle labbra che eri troppo… troppo per me. Troppo, sì… troppo tutto per essere vero. Ma lo eri. Lo sei. E vorrei riuscire a dirti tutto questo a voce, ma lo scrivo perché so che non riuscirei a dirlo guardandoti negli occhi per più di 2 secondi senza sentirmi in difficoltà. Vorrei dirti tante cose, che è meraviglioso il semplice fatto che esisti, ma non ce la farei mai perché sarei sopraffatta dall'emozione, mi tremerebbe la voce, mi tremerebbero le mani, dovrei concentrarmi per mantenere una parvenza di normalità, e farei una fatica bestiale. Quando sono con te mi dimentico del tirocinio, del karate, di cosa devo fare nella settimana, del lavoro, dell’anoressia, del controllo, di respirare. Penso che tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata. E se mai sono riuscita a fare qualcosa per te, è niente rispetto alla gioia che ho provato nell’esserti stata vicino in questi anni: non sai quanto bene mi hai fatto. Sei stato tu a trasformarmi, Alex. Sei stato il motivo del mio primo vero sorriso dopo tanto tempo. Il solo pensiero che avrei potuto non conoscerti mi è sempre risuonato dentro come la peggiore delle minacce, perciò ringrazio la casualità che ti ha portato nella mia strada. Mi sono sempre sentita privilegiata anche solo per aver ricevuto la tua amicizia, il tuo sguardo, la possibilità di addentrarmi anche solo un po’ nel tuo mondo. Perché io non avrei mai immaginato di poter trovare un amico a cui voler bene quanto ne voglio a te.
Ma queste sono parole, e io sento che le parole adesso non bastano per descrivere la nostra amicizia, e per esprimere il bene che ti voglio. E allora, provo a dirtelo in una forma che mi è più congeniale: con un video. Io come Chloe Sullivan (interpretata da Allison Mack), tu come Clark Kent (interpretato da Tom Welling) nel telefilm “Smallville”. La nostra amicizia raccontata con le loro immagini, perché è come la loro amicizia: più forte di tutti, più forte di tutto.
(QUI per vederlo direttamente su YouTube) In fondo, posso solo dirti grazie. Grazie di tutto. Davvero. Ti voglio un bene dell’anima per la persona stupenda che sei e per tutto quello che mi hai dato da quando ci siamo conosciuti. Mi fai venir voglia di continuare a combattere e a tenere duro ogni volta che ti vedo, o anche solo ogni volta che ti penso. Mi rendi migliore.
(Graduation Day, 25/07/2013) (click sulla foto per ingrandire)
So che adesso abbiamo fatto scelte molto diverse per il nostro futuro, e dunque non potremo più stare side by side come quando andavamo a lezione insieme tutti i giorni, ed ognuno di noi s’incamminerà per la propria strada… Sono però sicura che, nonostante questo, l’amicizia che ci lega non cambierà d’una virgola. So che ci vedremo molto più raramente ma, pur con tutti i nostri rispettivi impegni, spero proprio che continueremo a trovare il modo di ritagliarci un po’ di tempo solo per noi... perché qualsiasi cosa io faccia, è molto più divertente se la faccio insieme a te.
(click sull'immagine per ingrandire)
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venerdì 20 dicembre 2013
Suggerimenti natalizi
Per alcune persone, il periodo pre-natalizio racchiude in sè un qualcosa di veramente magico: è il preludio di feste in famiglia e tra amici, progetti mirabolanti per il capodanno, scambio di regali a manetta, dolci caratteristici e musica di stagione. Ma per chi ha un DCA, che sia l’anoressia, la bulimia, il binge o un DCAnas, il Natale può rappresentare un qualcosa di piuttosto stressante.
Come ogni anno perciò, essendo questo il mio ultimo post pre-natalizio, voglio provare a scrivere alcuni suggerimenti che potrebbero aiutarvi ad alleviare la pressione del Natale, e a trascorrere con un pochina più di serenità questa giornata che può non essere proprio facilissima.
1) Organizzatevi. Se i vostri amici hanno in programma di fare qualcosa di particolare per Natale, non rinunciate a parteciparvi solo perchè ne siete ostacolate dal vostro DCA. Piuttosto, chiedete a chi ha organizzato l’evento gli orari dello stesso, cosa verrà cucinato, chi saranno i partecipanti, etc. In questo modo, saprete cosa aspettarvi e l’ansia diminuirà. In alternativa, fate la prima mossa: organizzate il ritrovo con gli amici a casa vostra, così potrete mangiare seguendo il vostro “equilibrio alimentare”, e allo stesso tempo non dovrete rinunciare alla compagnia.
2) Spostate il discorso. Spesso e volentieri durante il pranzo/la cena di Natale la gente tende a parlare di argomenti quali il cibo che state mangiando, il cibo in generale, le diete, i propositi per l’anno nuovo, etc. Quando perciò sentite che la conversazione di sta facendo triggering, provate a spostare il discorso su altri lidi, tirando in campo altri argomenti di conversazione che non abbiano niente a che fare con tutto ciò che può riecheggiare anche solo alla lontana il DCA.
3) Non rimanete a tavola. È piuttosto comune, alla fine del pasto, rimanere seduti a tavola a chiacchierare. Ma il fatto che sia tradizione, non significa che è un obbligo. Perciò, sparecchiate la tavola e continuate a chiacchierare e celebrare in un’altra stanza, magari davanti ad un videogioco o guardando un film. Questo può aiutarvi ad allontanare l’attenzione dal cibo, prendendo così le distanze dai pensieri negativi, e a divertirvi in altro modo con le persone che vi stanno intorno.
4) Fatevi dare una mano. Se insieme a voi a Natale è presente qualcuno che sa del vostro DCA, parlate con lui/lei di quelle che sono le vostre difficoltà in maniera tale che questa persona possa supportarvi ed aiutarvi durante tutto l’arco della giornata.
5) Non focalizzatevi sul cibo, focalizzatevi sulle persone. Anziché fissarvi su quello che avete nel piatto, provate a distrarvi conversando con chi vi sta accanto: in questo modo l’idea del cibo si allontanerà, e una volta finito di pranzare/cenare potrete dedicarvi a cose certo più piacevoli, che vi facciano stare bene.
6) Ignorate i menagrami. Ci sarà sempre quella cugina/zia/cognata/suocera/nonna[inserire grado di parentela] antipatica ed acida che si divertirà a calpestare la vostra sensibilità ignorando le vostre difficoltà e sbandierando ai quattro venti cose come: “Ma come mai mangi così poco/tanto?”, “Guarda come sei dimagrita/ingrassata dall’anno scorso!”, “Non vorresti un altro po’ di quello/di quell’altro?”. Okay, frasi del genere non aiutano affatto chi ha un DCA. Perciò, quando qualcuno salta fuori con commenti di questo tipo, ignoratelo. Fate finta di non aver sentito, evitate di rispondere (che tanto con persone di questo tipo qualsiasi cosa diciate sarà usata contro di voi), dirottate il discorso su altre tematiche, e ricordate sempre che chi si esprime così, oltre a mancare completamente di tatto, non dice mai niente di vero né di importante.
7) Guardate il Natale in prospettiva. Vi suggerisco di prendere un foglio di carta e, con un pennarello, dividerlo in 12 parti identiche che rappresentano i 12 mesi dell’anno. Ogni mese, dividetelo poi in settimane, ed ogni settimana dividetela in giorni. Poi prendete un pennarello evidenziatore, e colorate la casellina che corrisponde al 25 Dicembre. Sembra molto piccola, non è vero?! Così diventa decisamente più maneggevole.
8) Non dimenticate che si tratta di un solo giorno. Per quanto terribile e durissimo il vostro Natale possa essere, tenete sempre a mente che si tratta di un giorno solo. Passa e finisce. Più velocemente di quel che possiate credere. E se anche col cibo non va come vorreste, se anche non riuscite a seguire il vostro “equilibrio alimentare” (in eccesso o in difetto), non preoccupatevi: il lavoro di mesi non viene certo compromesso da un singolo giorno. Anche perché il nostro corpo è dotato di un’ottima capacità di omeostasi, per cui tende a minimizzare ogni alterazione dall’ordinario, perciò, non vi preoccupate: non succederà assolutamente niente.
Se c'è qualcos'altro che vi è stato utile per gestire bene la giornata di Natale in passato e, se vi va, aggiungete qualche altro consiglio, qualcosa che voi avete trovato utile, nei commenti… e fatemi sapere com’è andata.
BUON NATALE!!
(grazie ad Ilaria che mi ha fornito questa simpaticissima immagine natalizia!!)
Come ogni anno perciò, essendo questo il mio ultimo post pre-natalizio, voglio provare a scrivere alcuni suggerimenti che potrebbero aiutarvi ad alleviare la pressione del Natale, e a trascorrere con un pochina più di serenità questa giornata che può non essere proprio facilissima.
1) Organizzatevi. Se i vostri amici hanno in programma di fare qualcosa di particolare per Natale, non rinunciate a parteciparvi solo perchè ne siete ostacolate dal vostro DCA. Piuttosto, chiedete a chi ha organizzato l’evento gli orari dello stesso, cosa verrà cucinato, chi saranno i partecipanti, etc. In questo modo, saprete cosa aspettarvi e l’ansia diminuirà. In alternativa, fate la prima mossa: organizzate il ritrovo con gli amici a casa vostra, così potrete mangiare seguendo il vostro “equilibrio alimentare”, e allo stesso tempo non dovrete rinunciare alla compagnia.
2) Spostate il discorso. Spesso e volentieri durante il pranzo/la cena di Natale la gente tende a parlare di argomenti quali il cibo che state mangiando, il cibo in generale, le diete, i propositi per l’anno nuovo, etc. Quando perciò sentite che la conversazione di sta facendo triggering, provate a spostare il discorso su altri lidi, tirando in campo altri argomenti di conversazione che non abbiano niente a che fare con tutto ciò che può riecheggiare anche solo alla lontana il DCA.
3) Non rimanete a tavola. È piuttosto comune, alla fine del pasto, rimanere seduti a tavola a chiacchierare. Ma il fatto che sia tradizione, non significa che è un obbligo. Perciò, sparecchiate la tavola e continuate a chiacchierare e celebrare in un’altra stanza, magari davanti ad un videogioco o guardando un film. Questo può aiutarvi ad allontanare l’attenzione dal cibo, prendendo così le distanze dai pensieri negativi, e a divertirvi in altro modo con le persone che vi stanno intorno.
4) Fatevi dare una mano. Se insieme a voi a Natale è presente qualcuno che sa del vostro DCA, parlate con lui/lei di quelle che sono le vostre difficoltà in maniera tale che questa persona possa supportarvi ed aiutarvi durante tutto l’arco della giornata.
5) Non focalizzatevi sul cibo, focalizzatevi sulle persone. Anziché fissarvi su quello che avete nel piatto, provate a distrarvi conversando con chi vi sta accanto: in questo modo l’idea del cibo si allontanerà, e una volta finito di pranzare/cenare potrete dedicarvi a cose certo più piacevoli, che vi facciano stare bene.
6) Ignorate i menagrami. Ci sarà sempre quella cugina/zia/cognata/suocera/nonna[inserire grado di parentela] antipatica ed acida che si divertirà a calpestare la vostra sensibilità ignorando le vostre difficoltà e sbandierando ai quattro venti cose come: “Ma come mai mangi così poco/tanto?”, “Guarda come sei dimagrita/ingrassata dall’anno scorso!”, “Non vorresti un altro po’ di quello/di quell’altro?”. Okay, frasi del genere non aiutano affatto chi ha un DCA. Perciò, quando qualcuno salta fuori con commenti di questo tipo, ignoratelo. Fate finta di non aver sentito, evitate di rispondere (che tanto con persone di questo tipo qualsiasi cosa diciate sarà usata contro di voi), dirottate il discorso su altre tematiche, e ricordate sempre che chi si esprime così, oltre a mancare completamente di tatto, non dice mai niente di vero né di importante.
7) Guardate il Natale in prospettiva. Vi suggerisco di prendere un foglio di carta e, con un pennarello, dividerlo in 12 parti identiche che rappresentano i 12 mesi dell’anno. Ogni mese, dividetelo poi in settimane, ed ogni settimana dividetela in giorni. Poi prendete un pennarello evidenziatore, e colorate la casellina che corrisponde al 25 Dicembre. Sembra molto piccola, non è vero?! Così diventa decisamente più maneggevole.
8) Non dimenticate che si tratta di un solo giorno. Per quanto terribile e durissimo il vostro Natale possa essere, tenete sempre a mente che si tratta di un giorno solo. Passa e finisce. Più velocemente di quel che possiate credere. E se anche col cibo non va come vorreste, se anche non riuscite a seguire il vostro “equilibrio alimentare” (in eccesso o in difetto), non preoccupatevi: il lavoro di mesi non viene certo compromesso da un singolo giorno. Anche perché il nostro corpo è dotato di un’ottima capacità di omeostasi, per cui tende a minimizzare ogni alterazione dall’ordinario, perciò, non vi preoccupate: non succederà assolutamente niente.
Se c'è qualcos'altro che vi è stato utile per gestire bene la giornata di Natale in passato e, se vi va, aggiungete qualche altro consiglio, qualcosa che voi avete trovato utile, nei commenti… e fatemi sapere com’è andata.
BUON NATALE!!
(grazie ad Ilaria che mi ha fornito questa simpaticissima immagine natalizia!!)
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venerdì 13 dicembre 2013
L'ABC del ricovero dall'anoressia
A come Amicizia. Molto semplicemente perché credo che l’Amicizia sia un elemento fondamentale mentre stiamo percorrendo la strada del ricovero. Avere accanto dei veri amici che ci supportano e che sappiamo saranno lì per noi anche se li chiameremo alle 3 di notte, credo possa rappresentare un bell’incentivo a tenere duro.
B come Basta al controllo. La necessità di percepire la sensazione (illusoria) di avere un controllo totalizzante è stato l’elemento più marcatamente caratterizzante della mia anoressia, e credo che comunque, in generale, gran parte dell’anoressia si fondi sul bisogno di controllo. Perciò, per poter combattere contro l’anoressia, occorre cercare di dire “Basta” al controllo, poiché la vita è incontrollabile per antonomasia. Per quanto la sensazione di controllo trasmessa dall’anoressia possa apparire come infinitamente più rassicurante, per provare a vivere veramente occorre staccarsi dal bisogno di controllare tutto, rendendoci così conto che, se anche non programmiamo tutto al dettaglio, non succede alcuna catastrofe e, anzi, in maniera del tutto casuale possono succedere anche cose pazzescamente belle.
C come Chiedere aiuto. Che sia difficilissimo il farlo, è un indiscutibile dato di fatto. Eppure, questo è il primo passo che può veramente cambiare la vita, permettendoci di allontanarci dall’anoressia per avvicinarci a noi stesse. Chiedere aiuto significa rompere il silenzio di cui si nutre il DCA ed iniziare a combattere non più contro noi stesse, ma per noi stesse. Il non sentirsi “abbastanza malate” può rappresentare un freno al Chiedere aiuto, ma pensate a questo: cosa significa davvero essere “abbastanza malata”? Significa scendere sotto ad un certo peso? (O, nel caso della bulimia, indursi il vomito più di un certo numero di volte al giorno?) Significa mangiare meno di un certo tot? Significa fare un certo quantitativo di attività fisica compulsivamente? No, non è niente di tutto questo. Si è “abbastanza malate” ogni qualvolta si sta male con noi stesse, a prescindere dal peso perso, da cibo (non) mangiato, dall’attività fisica fatta. Perché non esistono scale di valore sulla sofferenza, che non può certo essere pesata sulla bilancia. Perciò, è sempre il momento giusto per Chiedere aiuto. È un modo per Cominciare a Combattere. Per poter così Costruire, con Coraggio, il nostro futuro.
D come Darsi da fare. Per quanto bello possa essere il sognare, non esiste nessuna bacchetta magica che ci permetterà di fare progressi come se niente fosse. Nessun incantesimo manderà in frantumi l’anoressia. E l'autocompiangimento servirà solo a rimanere ancora più impantanate. Per combattere contro l’anoressia occorre rinnovare quotidianamente il nostro impegno a stringere i denti, e seguire giorno dopo giorno l’ “equilibrio alimentare” e fare psicoterapia e non mollare anche quanto tutto sembra farsi tremendamente difficile. Darsi da fare per capire ciò che si vuole veramente dalla vita, e farlo. Perché lottare quotidianamente non sarà facile, ma è la nostra sola possibilità per non permettere al DCA di avere la meglio. Perché se si vuole veramente una cosa, nella fattispecie una vita senza l’assillo dell’anoressia, bisogna Darsi da fare e prendersela.
E come Emozioni. L’anoressia rappresenta anche, a suo modo, una sorta di armatura che ci mette al riparo dal provare Emozioni: una sorta di maschera che ci permette di rapportarci al resto del mondo. Una maschera è, in un certo senso, comoda, perché ci permette di guardare senza essere viste per quello che siamo veramente, ma solo per il personaggio che interpretiamo, cosicché se qualcuno ci critica, non ne siamo realmente ferite perché a venire disprezzata è la nostra maschera, non le Vere Noi Stesse. Però, se è pur vero che una maschera ci protegge, è altrettanto vero che, alla lunga, quella stessa maschera finisce per isolarci dal resto del mondo. Nessuno potrà odiarci per quello che siamo, ma allo stesso tempo nessuno potrà neanche volerci bene per quello che siamo. Per la paura del primo 50% negativo, ci perdiamo pire il restante 50% positivo. “They can’t love me, they can’t love what I don’t show”, come dice la canzone. E allora, ecco che la maschera finisce per soffocarci. Per questo credo che togliere la maschera e lasciare libero spazio a quelle Emozioni che ci affanniamo tanto a controllare possa rappresentare un ulteriore passo avanti sulla strada del ricovero.
F come Fare sport. Fare sport in maniera equilibrata credo possa essere di grande aiuto nel momento in cui si sta percorrendo la strada del ricovero. Ovviamente per poter fare sport occorre essere ritornate ad un certo standard fisico, altresì può essere deleterio il praticarlo, però nel momento in cui si sta meglio, e ci si svincola da quella che è l’attività fisica eccessiva legata al DCA, si può fare sport in maniera tranquilla, corretta, salutare, magari anche insieme ad altre persone, il che può rappresentare un toccasana sia per il fisico che per l’umore.
G come Gioco di squadra. La guerra contro l’anoressia non può essere vinta se combattiamo completamente da sole. Semplicemente perché senza alcun tipo di supporto tenere duro diventa estremamente difficile, e si è più alla mercé dei pensieri deviati messi in testa dall’anoressia, che non ha contraddittorio se non la parte razionale della nostra mente, che però non sempre riesce ad opporsi. Viceversa, l’avere vicino un team di persone supportive – che siano familiari, amici, terapeuti, persone che hanno vissuto la stessa malattia and so on – può rendere la battaglia contro l’anoressia decisamente più gestibile. Del resto, da che mondo è mondo, l’unione fa la forza.
H come “Ho toppato!”. Le ricadute credo siano praticamente inevitabili durante un percorso di ricovero dall’anoressia. Direi anzi che ne sono parte integrante. Perciò, non vivetele con frustrazione e non vedetele come dei fallimenti: provate viceversa ad analizzare la ricaduta per valutare cosa vi ha spinto verso di essa, al fine di non ripetere il medesimo pattern in futuro. Ricordatevi inoltre che la vittoria in una partita di calcio si basa su quanti goal la squadra riesce a segnare al termine dei 90 minuti di gioco, non su quanti ne ha segnati nei primi 20 minuti di partita. La vostra vittoria contro l’anoressia la si vede nel lungo termine, non nell’immediato di una ricaduta. Perdere una singola battaglia non significa affatto perdere la guerra. Avrete fallito solo se dopo una ricaduta deciderete di non rialzarvi: in questo caso, sì, avrete tutte le ragioni per considerarvi un fallimento. Ma fino a che vi rialzate e ricominciate a combattere con più grinta e determinazione di prima, sarà 1 a zero per voi contro l’anoressia: finché vi date una nuova possibilità, avrete almeno una possibilità. Per dirla con le parole di Nelson Mandela: "Do not judge me by failures, judge me by how many times I fell down and got back up again."
I come Imparare nuove strategie di coping. La restrizione alimentare nell’anoressia rappresenta indubbiamente una strategia di coping, ovvero un comportamento messo in atto per far fronte ad una qualsiasi situazione stressante che si teme di non essere capaci di gestire altrimenti. Il controllo (illusorio) che si percepisce con la restrizione alimentare si estende così anche all’altro ambito della vita che si teme di non essere in grado di riuscire a controllare, in maniera tale per cui riusciamo a gestire la situazione… ma a spese della nostra salute. Perciò, per poter andare avanti sulla strada del ricovero occorre comprendere che alle medesime situazione stressanti si può far fronte anche con altre modalità che non hanno niente a che vedere con la restrizione alimentare, che non sono lesive nei confronti di noi stesse, e che ci permettono di gestire emotivamente e praticamente la situazione senza più bisogno di ricorrere al DCA.
L come Lavorare sui veri problemi. Penso sia palese che la restrizione alimentare e il peso perso rappresentano la punta di un ice-berg ben più profondo ed estremamente complesso. L’anoressia è una malattia multifattoriale, ergo alla sua insorgenza concorrono millemila concause diverse per ciascuna di noi. La perdita di peso e la restrizione alimentare costituiscono l’estrinsecazione clinica della patologia, che però in realtà è una malattia mentale che affonda le sue radici in tutt’altri problemi individuali. Sono quelle le vere problematiche che sostengono l’anoressia, l’erroneo comportamento alimentare è solo un comodo capro espiatorio che poco e niente ha a che vedere con i veri problemi che ci stanno dietro. Ed è proprio questi problemi che devono essere individuati e sui quali occorre Lavorare (ovviamente anche con l’aiuto della psicoterapia), perché è solo mettendoci face-to-face con essi, per quanto sia duro e difficile, che potremo darci la possibilità di risolverli.
M come Migliorare la propria qualità della vita. Sebbene parlare di “guarigione” possa essere, a mio parere, utopico per una malattia come l’anoressia, si può senz’ombra di dubbio parlare di remissione. Avere una remissione dell’anoressia significa che la sua vocina sta sempre da qualche parte nella nostra testa e cerca di fregarci, ma che noi siamo più forti di lei, e scegliamo scientemente di ignorare la sua voce per seguire un stile alimentare sano e fare quello che ci va, senza più assecondarla. In questo modo è possibile studiare, lavorare, fare sport, avere hobby, stare bene, uscire con gli amici e, insomma, avere una vita di qualità veramente elevata.
N come Ne vale la pena. Percorrere la strada del ricovero significa intraprendere una battaglia tosta e complessa. Significa sentirsi crollare il mondo addosso, dover stringere i denti continuamente, ed essere stanche, ed aver voglia di mollare riabbandonandoci al DCA, dove tutto sembrava più semplice. Eppure, se si tiene duro, più si va avanti e più ci si rende conto di quanto l’anoressia ci aveva tolto, e di quanto si può stare meglio se lottiamo per riconquistarcelo. I progressi non si vedono dall’oggi al domani, e sul momento può sembrare una lotta dura ed inconcludente, ma sul lungo termine, se vi guardate indietro, vi accorgerete che pian piano di progressi ne avete fatti eccome. Che vi siete poco a poco allontanate dalle ossessioni dell’anoressia, per riprendere in mano la vostra vita e riempirla di tutto ciò che vi piace davvero. E, sì, Ne vale la pena.
O come Obiettivi. Penso che, nel momento in cui si decide di intraprendere la lotta contro l’anoressia, possa essere importante fissare degli Obiettivi. Non degli Obiettivi a breve termine, che secondo me sono assolutamente deleteri perché fanno montare l’ansia da prestazione per cui non si combina nulla di buono e ci si sente da schifo per questo, bensì degli Obiettivi a lungo termine, senza scadenze temporali rigide, che rappresentano quello che vorreste ottenere dalla vostra battaglia contro l’anoressia. Possono essere Obiettivi complessi, come per esempio il ridurre le manie di controllo, o anche Obiettivi più semplici, come per esempio il riuscire a mangiare insieme a vostri amici. In ogni caso, abbiate chiari i vostri Obiettivi, ed elaborate delle strategie per raggiungerli in tutto il tempo che vi sarà necessario: l’essere riuscite a raggiungere un Obiettivo vi darà più forza, determinazione e fiducia in voi stesse.
P come Provare ad accettarsi. Io non penso che necessariamente occorra arrivare ad amarsi. Tanto meglio se una ci riesce, è evidente, ma non lo vedo come un qualcosa di necessario allo svincolarsi dall’anoressia. Penso che sia più che sufficiente riuscire ad accettarsi: ovvero riuscire ad acquisire l’oggettiva consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre potenzialità, e il focalizzarci, più che sulla nostra fisicità, su quelle che sono le cose che facciamo nella vita (lo studio, il lavoro, i rapporti con gli altri, etc…) in maniera tale da avere dei buoni risultati in questi campi, che ci consentano di vivere bene con noi stesse anche senza bisogno della stampella dell’anoressia.
Q come Quel che è altro dall’anoressia. Lo so che è come scoprire l’acqua calda, ma una delle cose che credo possa aiutare di più nella lotta quotidiana contro l’anoressia, è il trovare qualcosa che sia per noi interessante e coinvolgente come lo è stata a lungo l’anoressia stessa. In sostanza: occorre cercare di dare più importanza ad altre cose, quali che siano, e cercare poco a poco di costruirsi una vita autonoma al di là dell'anoressia, poiché nel momento in cui si arriva ad avere una vita che compendia numerosi interessi “sani” e positivi, ci si rende conto che l’anoressia non ci serve più poi così tanto.
R come Riabilitazione nutrizionale. Credo che in un percorso di Ricovero sia imprescindibile essere affiancata da una figura professionale quale un dietologo/dietista/nutrizionista che ci permetta, grazie all’elaborazione di un “equilibrio alimentare” individualizzato, di rientrare progressivamente nel nostro set-point fisiologico di peso corporeo. Banalmente, questo è di fondamentale importanza per riacquistare salute fisica… e mentale. Ma su questo argomento ci torno tra un paio di lettere.
S come Scegliere la vita. Non essere più malata e ricominciare a vivere a pieno. Affrontare quelli che sono i veri problemi che si nascondono dietro il capro espiatorio del cibo e della fisicità, e tener loro testa, uscendone vincitori. Stringere i denti tutti i giorni nella consapevolezza che le cose possono cambiare in meglio se ce la si mette tutta per. Smetterla di sopravvivere e ricominciare a vivere una vita che sia degna d’essere chiamata tale.
T come Terapia. E qui mi ricollego alla lettera “R”. Penso che la Terapia psicologica, affiancata alla riabilitazione nutrizionale, rappresenti il binomio essenziale in un percorso di ricovero dal DCA. Penso che le 2 cose debbano coesistere e procedere di pari passo nel momento in cui una persona trova il coraggio di chiedere aiuto. La riabilitazione nutrizionale è necessaria perché un corpo fortemente debilitato dalla carenza di cibo, oltre a essere ovviamente a rischio per ogni qualsiasi malattia fisica, non permette di pensare lucidamente. Anche se a noi sembra di essere lucide, quando siamo fortemente sottopeso non possiamo biologicamente esserlo: perché la carenza di alimenti non permette la sintesi di numerosi neurotrasmettitori che sono quelli che, appunto, in condizioni normali ci permettono di pensare lucidamente. Per cui, fare psicoterapia senza supporto nutrizionale serve a ben poco, perché non si ha la lucidità mentale per concretizzare a pieno e mettere in pratica i suggerimenti dello psicoterapeuta, non si è neanche realmente in grado di rifletterci. Allo stesso modo, è altrettanto inutile la riabilitazione alimentare da sola, non affiancata da psicoterapia, perché comunque essa comporta delle variazioni di peso che verranno mal tollerate se la persona non fa contemporaneamente un percorso psicologico di accettazione e di lavoro su di sé, e sarà molto più rapida e frequente la ricaduta nel DCA, perché la persona non ci ha lavorato su. Ci vogliono ambo le cose. Giusto per dirla con un esempio semplificato (colleghi medici, non me ne vogliate!), se io ho un’infezione che mi dà febbre, per guarire devo prendere la Tachipirina ed un antibiotico contemporaneamente: se prendo solo la Tachipirina, sparirà la febbre e mi sembrerà di stare bene, ma il batterio continuerà a proliferare nel mio organismo e la malattia riaffiorerà. Se prendo solo l’antibiotico, il batterio scomparirà, ma sarò sempre fiaccata dalla persistente febbre. Per guarire, c’è bisogno di assumere entrambi i farmaci. E lo stesso vale per la Terapia psicologica e per la riabilitazione nutrizionale quando si ha l’anoressia: come le due parti inscindibili di un’equazione, non possono esistere l’una senza l’altra perché si completano e si embricano vicendevolmente.
U come Un passo alla volta. La fretta è cattiva consigliera, si sa, e questo è tanto più vero quando si sta combattendo contro l’anoressia. Iniziando la terapia, credo sia spontaneo il desiderare di vedere risultati tangibili a stretto raggio, ma in questo caso le cose non vanno rapidamente. Anzi, più si cerca di spingere sull’acceleratore, più è facile inciampare in una ricaduta. Per cui, prendetevi tutto il tempo di cui sentite di avere bisogno per fare Un passo alla volta. Non mettetevi fretta. Arriverete a meta, ma ci vorrà tempo, ad ognuna il suo. Prendetevi sempre tutto il tempo di cui sentite di aver bisogno. Le cose buone arrivano per chi sa aspettare (e, nel frattempo, si impegna e ce la mette tutta per ottenerle!).
V come Volontà. Penso che la forza di Volontà rappresenti la chiave di volta nel combattere contro l’anoressia. Possiamo anche avere la disposizione la migliore equipe medica del mondo, e possiamo anche essere circondati dalle persone più comprensive e supportive del mondo, ma non servirà se noi per prime non abbiamo in noi la voglia di combattere contro l’anoressia. Certo, l’aiuto di specialisti e il supporto di chi ci vuole bene sono fondamentali per poter sostenere la battaglia contro un DCA, ma il primus movens può essere solo e soltanto la nostra forza di Volontà di combattere, di opporci alla malattia, di cambiare le cose, con tutta la determinazione di cui disponiamo. Perché Volere è potere – mai vero come quando si tratta di dar battaglia all’anoressia!
Z come Zero. Che è quello che auguro a tutte voi (a tutte NOI). Di fare piazza pulita dell’anoressia, e ricominciare da Zero. Di allontanarsi quanto più possibile dalla malattia, per poter riprendere le redini della propria vita. Perché lo so che l’anoressia più sembrare (illusoriamente) incredibilmente rassicurante, con la sua parvenza di controllo totale, a fronte di una vita che spesso e volentieri risulta essere del tutto random. Effettivamente la vita è un qualcosa che sfugge, che vuole essere inseguita, è un qualcosa di leggero e fragile, solo sfiorarle un’ala può comportare la fine del suo volo. Eppure la morte non riempie mai. Lascia un vuoto simile al buco allo stomaco. Credo che sia la vita ciò di cui si ha fame.
B come Basta al controllo. La necessità di percepire la sensazione (illusoria) di avere un controllo totalizzante è stato l’elemento più marcatamente caratterizzante della mia anoressia, e credo che comunque, in generale, gran parte dell’anoressia si fondi sul bisogno di controllo. Perciò, per poter combattere contro l’anoressia, occorre cercare di dire “Basta” al controllo, poiché la vita è incontrollabile per antonomasia. Per quanto la sensazione di controllo trasmessa dall’anoressia possa apparire come infinitamente più rassicurante, per provare a vivere veramente occorre staccarsi dal bisogno di controllare tutto, rendendoci così conto che, se anche non programmiamo tutto al dettaglio, non succede alcuna catastrofe e, anzi, in maniera del tutto casuale possono succedere anche cose pazzescamente belle.
C come Chiedere aiuto. Che sia difficilissimo il farlo, è un indiscutibile dato di fatto. Eppure, questo è il primo passo che può veramente cambiare la vita, permettendoci di allontanarci dall’anoressia per avvicinarci a noi stesse. Chiedere aiuto significa rompere il silenzio di cui si nutre il DCA ed iniziare a combattere non più contro noi stesse, ma per noi stesse. Il non sentirsi “abbastanza malate” può rappresentare un freno al Chiedere aiuto, ma pensate a questo: cosa significa davvero essere “abbastanza malata”? Significa scendere sotto ad un certo peso? (O, nel caso della bulimia, indursi il vomito più di un certo numero di volte al giorno?) Significa mangiare meno di un certo tot? Significa fare un certo quantitativo di attività fisica compulsivamente? No, non è niente di tutto questo. Si è “abbastanza malate” ogni qualvolta si sta male con noi stesse, a prescindere dal peso perso, da cibo (non) mangiato, dall’attività fisica fatta. Perché non esistono scale di valore sulla sofferenza, che non può certo essere pesata sulla bilancia. Perciò, è sempre il momento giusto per Chiedere aiuto. È un modo per Cominciare a Combattere. Per poter così Costruire, con Coraggio, il nostro futuro.
D come Darsi da fare. Per quanto bello possa essere il sognare, non esiste nessuna bacchetta magica che ci permetterà di fare progressi come se niente fosse. Nessun incantesimo manderà in frantumi l’anoressia. E l'autocompiangimento servirà solo a rimanere ancora più impantanate. Per combattere contro l’anoressia occorre rinnovare quotidianamente il nostro impegno a stringere i denti, e seguire giorno dopo giorno l’ “equilibrio alimentare” e fare psicoterapia e non mollare anche quanto tutto sembra farsi tremendamente difficile. Darsi da fare per capire ciò che si vuole veramente dalla vita, e farlo. Perché lottare quotidianamente non sarà facile, ma è la nostra sola possibilità per non permettere al DCA di avere la meglio. Perché se si vuole veramente una cosa, nella fattispecie una vita senza l’assillo dell’anoressia, bisogna Darsi da fare e prendersela.
E come Emozioni. L’anoressia rappresenta anche, a suo modo, una sorta di armatura che ci mette al riparo dal provare Emozioni: una sorta di maschera che ci permette di rapportarci al resto del mondo. Una maschera è, in un certo senso, comoda, perché ci permette di guardare senza essere viste per quello che siamo veramente, ma solo per il personaggio che interpretiamo, cosicché se qualcuno ci critica, non ne siamo realmente ferite perché a venire disprezzata è la nostra maschera, non le Vere Noi Stesse. Però, se è pur vero che una maschera ci protegge, è altrettanto vero che, alla lunga, quella stessa maschera finisce per isolarci dal resto del mondo. Nessuno potrà odiarci per quello che siamo, ma allo stesso tempo nessuno potrà neanche volerci bene per quello che siamo. Per la paura del primo 50% negativo, ci perdiamo pire il restante 50% positivo. “They can’t love me, they can’t love what I don’t show”, come dice la canzone. E allora, ecco che la maschera finisce per soffocarci. Per questo credo che togliere la maschera e lasciare libero spazio a quelle Emozioni che ci affanniamo tanto a controllare possa rappresentare un ulteriore passo avanti sulla strada del ricovero.
F come Fare sport. Fare sport in maniera equilibrata credo possa essere di grande aiuto nel momento in cui si sta percorrendo la strada del ricovero. Ovviamente per poter fare sport occorre essere ritornate ad un certo standard fisico, altresì può essere deleterio il praticarlo, però nel momento in cui si sta meglio, e ci si svincola da quella che è l’attività fisica eccessiva legata al DCA, si può fare sport in maniera tranquilla, corretta, salutare, magari anche insieme ad altre persone, il che può rappresentare un toccasana sia per il fisico che per l’umore.
G come Gioco di squadra. La guerra contro l’anoressia non può essere vinta se combattiamo completamente da sole. Semplicemente perché senza alcun tipo di supporto tenere duro diventa estremamente difficile, e si è più alla mercé dei pensieri deviati messi in testa dall’anoressia, che non ha contraddittorio se non la parte razionale della nostra mente, che però non sempre riesce ad opporsi. Viceversa, l’avere vicino un team di persone supportive – che siano familiari, amici, terapeuti, persone che hanno vissuto la stessa malattia and so on – può rendere la battaglia contro l’anoressia decisamente più gestibile. Del resto, da che mondo è mondo, l’unione fa la forza.
H come “Ho toppato!”. Le ricadute credo siano praticamente inevitabili durante un percorso di ricovero dall’anoressia. Direi anzi che ne sono parte integrante. Perciò, non vivetele con frustrazione e non vedetele come dei fallimenti: provate viceversa ad analizzare la ricaduta per valutare cosa vi ha spinto verso di essa, al fine di non ripetere il medesimo pattern in futuro. Ricordatevi inoltre che la vittoria in una partita di calcio si basa su quanti goal la squadra riesce a segnare al termine dei 90 minuti di gioco, non su quanti ne ha segnati nei primi 20 minuti di partita. La vostra vittoria contro l’anoressia la si vede nel lungo termine, non nell’immediato di una ricaduta. Perdere una singola battaglia non significa affatto perdere la guerra. Avrete fallito solo se dopo una ricaduta deciderete di non rialzarvi: in questo caso, sì, avrete tutte le ragioni per considerarvi un fallimento. Ma fino a che vi rialzate e ricominciate a combattere con più grinta e determinazione di prima, sarà 1 a zero per voi contro l’anoressia: finché vi date una nuova possibilità, avrete almeno una possibilità. Per dirla con le parole di Nelson Mandela: "Do not judge me by failures, judge me by how many times I fell down and got back up again."
I come Imparare nuove strategie di coping. La restrizione alimentare nell’anoressia rappresenta indubbiamente una strategia di coping, ovvero un comportamento messo in atto per far fronte ad una qualsiasi situazione stressante che si teme di non essere capaci di gestire altrimenti. Il controllo (illusorio) che si percepisce con la restrizione alimentare si estende così anche all’altro ambito della vita che si teme di non essere in grado di riuscire a controllare, in maniera tale per cui riusciamo a gestire la situazione… ma a spese della nostra salute. Perciò, per poter andare avanti sulla strada del ricovero occorre comprendere che alle medesime situazione stressanti si può far fronte anche con altre modalità che non hanno niente a che vedere con la restrizione alimentare, che non sono lesive nei confronti di noi stesse, e che ci permettono di gestire emotivamente e praticamente la situazione senza più bisogno di ricorrere al DCA.
L come Lavorare sui veri problemi. Penso sia palese che la restrizione alimentare e il peso perso rappresentano la punta di un ice-berg ben più profondo ed estremamente complesso. L’anoressia è una malattia multifattoriale, ergo alla sua insorgenza concorrono millemila concause diverse per ciascuna di noi. La perdita di peso e la restrizione alimentare costituiscono l’estrinsecazione clinica della patologia, che però in realtà è una malattia mentale che affonda le sue radici in tutt’altri problemi individuali. Sono quelle le vere problematiche che sostengono l’anoressia, l’erroneo comportamento alimentare è solo un comodo capro espiatorio che poco e niente ha a che vedere con i veri problemi che ci stanno dietro. Ed è proprio questi problemi che devono essere individuati e sui quali occorre Lavorare (ovviamente anche con l’aiuto della psicoterapia), perché è solo mettendoci face-to-face con essi, per quanto sia duro e difficile, che potremo darci la possibilità di risolverli.
M come Migliorare la propria qualità della vita. Sebbene parlare di “guarigione” possa essere, a mio parere, utopico per una malattia come l’anoressia, si può senz’ombra di dubbio parlare di remissione. Avere una remissione dell’anoressia significa che la sua vocina sta sempre da qualche parte nella nostra testa e cerca di fregarci, ma che noi siamo più forti di lei, e scegliamo scientemente di ignorare la sua voce per seguire un stile alimentare sano e fare quello che ci va, senza più assecondarla. In questo modo è possibile studiare, lavorare, fare sport, avere hobby, stare bene, uscire con gli amici e, insomma, avere una vita di qualità veramente elevata.
N come Ne vale la pena. Percorrere la strada del ricovero significa intraprendere una battaglia tosta e complessa. Significa sentirsi crollare il mondo addosso, dover stringere i denti continuamente, ed essere stanche, ed aver voglia di mollare riabbandonandoci al DCA, dove tutto sembrava più semplice. Eppure, se si tiene duro, più si va avanti e più ci si rende conto di quanto l’anoressia ci aveva tolto, e di quanto si può stare meglio se lottiamo per riconquistarcelo. I progressi non si vedono dall’oggi al domani, e sul momento può sembrare una lotta dura ed inconcludente, ma sul lungo termine, se vi guardate indietro, vi accorgerete che pian piano di progressi ne avete fatti eccome. Che vi siete poco a poco allontanate dalle ossessioni dell’anoressia, per riprendere in mano la vostra vita e riempirla di tutto ciò che vi piace davvero. E, sì, Ne vale la pena.
O come Obiettivi. Penso che, nel momento in cui si decide di intraprendere la lotta contro l’anoressia, possa essere importante fissare degli Obiettivi. Non degli Obiettivi a breve termine, che secondo me sono assolutamente deleteri perché fanno montare l’ansia da prestazione per cui non si combina nulla di buono e ci si sente da schifo per questo, bensì degli Obiettivi a lungo termine, senza scadenze temporali rigide, che rappresentano quello che vorreste ottenere dalla vostra battaglia contro l’anoressia. Possono essere Obiettivi complessi, come per esempio il ridurre le manie di controllo, o anche Obiettivi più semplici, come per esempio il riuscire a mangiare insieme a vostri amici. In ogni caso, abbiate chiari i vostri Obiettivi, ed elaborate delle strategie per raggiungerli in tutto il tempo che vi sarà necessario: l’essere riuscite a raggiungere un Obiettivo vi darà più forza, determinazione e fiducia in voi stesse.
P come Provare ad accettarsi. Io non penso che necessariamente occorra arrivare ad amarsi. Tanto meglio se una ci riesce, è evidente, ma non lo vedo come un qualcosa di necessario allo svincolarsi dall’anoressia. Penso che sia più che sufficiente riuscire ad accettarsi: ovvero riuscire ad acquisire l’oggettiva consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre potenzialità, e il focalizzarci, più che sulla nostra fisicità, su quelle che sono le cose che facciamo nella vita (lo studio, il lavoro, i rapporti con gli altri, etc…) in maniera tale da avere dei buoni risultati in questi campi, che ci consentano di vivere bene con noi stesse anche senza bisogno della stampella dell’anoressia.
Q come Quel che è altro dall’anoressia. Lo so che è come scoprire l’acqua calda, ma una delle cose che credo possa aiutare di più nella lotta quotidiana contro l’anoressia, è il trovare qualcosa che sia per noi interessante e coinvolgente come lo è stata a lungo l’anoressia stessa. In sostanza: occorre cercare di dare più importanza ad altre cose, quali che siano, e cercare poco a poco di costruirsi una vita autonoma al di là dell'anoressia, poiché nel momento in cui si arriva ad avere una vita che compendia numerosi interessi “sani” e positivi, ci si rende conto che l’anoressia non ci serve più poi così tanto.
R come Riabilitazione nutrizionale. Credo che in un percorso di Ricovero sia imprescindibile essere affiancata da una figura professionale quale un dietologo/dietista/nutrizionista che ci permetta, grazie all’elaborazione di un “equilibrio alimentare” individualizzato, di rientrare progressivamente nel nostro set-point fisiologico di peso corporeo. Banalmente, questo è di fondamentale importanza per riacquistare salute fisica… e mentale. Ma su questo argomento ci torno tra un paio di lettere.
S come Scegliere la vita. Non essere più malata e ricominciare a vivere a pieno. Affrontare quelli che sono i veri problemi che si nascondono dietro il capro espiatorio del cibo e della fisicità, e tener loro testa, uscendone vincitori. Stringere i denti tutti i giorni nella consapevolezza che le cose possono cambiare in meglio se ce la si mette tutta per. Smetterla di sopravvivere e ricominciare a vivere una vita che sia degna d’essere chiamata tale.
T come Terapia. E qui mi ricollego alla lettera “R”. Penso che la Terapia psicologica, affiancata alla riabilitazione nutrizionale, rappresenti il binomio essenziale in un percorso di ricovero dal DCA. Penso che le 2 cose debbano coesistere e procedere di pari passo nel momento in cui una persona trova il coraggio di chiedere aiuto. La riabilitazione nutrizionale è necessaria perché un corpo fortemente debilitato dalla carenza di cibo, oltre a essere ovviamente a rischio per ogni qualsiasi malattia fisica, non permette di pensare lucidamente. Anche se a noi sembra di essere lucide, quando siamo fortemente sottopeso non possiamo biologicamente esserlo: perché la carenza di alimenti non permette la sintesi di numerosi neurotrasmettitori che sono quelli che, appunto, in condizioni normali ci permettono di pensare lucidamente. Per cui, fare psicoterapia senza supporto nutrizionale serve a ben poco, perché non si ha la lucidità mentale per concretizzare a pieno e mettere in pratica i suggerimenti dello psicoterapeuta, non si è neanche realmente in grado di rifletterci. Allo stesso modo, è altrettanto inutile la riabilitazione alimentare da sola, non affiancata da psicoterapia, perché comunque essa comporta delle variazioni di peso che verranno mal tollerate se la persona non fa contemporaneamente un percorso psicologico di accettazione e di lavoro su di sé, e sarà molto più rapida e frequente la ricaduta nel DCA, perché la persona non ci ha lavorato su. Ci vogliono ambo le cose. Giusto per dirla con un esempio semplificato (colleghi medici, non me ne vogliate!), se io ho un’infezione che mi dà febbre, per guarire devo prendere la Tachipirina ed un antibiotico contemporaneamente: se prendo solo la Tachipirina, sparirà la febbre e mi sembrerà di stare bene, ma il batterio continuerà a proliferare nel mio organismo e la malattia riaffiorerà. Se prendo solo l’antibiotico, il batterio scomparirà, ma sarò sempre fiaccata dalla persistente febbre. Per guarire, c’è bisogno di assumere entrambi i farmaci. E lo stesso vale per la Terapia psicologica e per la riabilitazione nutrizionale quando si ha l’anoressia: come le due parti inscindibili di un’equazione, non possono esistere l’una senza l’altra perché si completano e si embricano vicendevolmente.
U come Un passo alla volta. La fretta è cattiva consigliera, si sa, e questo è tanto più vero quando si sta combattendo contro l’anoressia. Iniziando la terapia, credo sia spontaneo il desiderare di vedere risultati tangibili a stretto raggio, ma in questo caso le cose non vanno rapidamente. Anzi, più si cerca di spingere sull’acceleratore, più è facile inciampare in una ricaduta. Per cui, prendetevi tutto il tempo di cui sentite di avere bisogno per fare Un passo alla volta. Non mettetevi fretta. Arriverete a meta, ma ci vorrà tempo, ad ognuna il suo. Prendetevi sempre tutto il tempo di cui sentite di aver bisogno. Le cose buone arrivano per chi sa aspettare (e, nel frattempo, si impegna e ce la mette tutta per ottenerle!).
V come Volontà. Penso che la forza di Volontà rappresenti la chiave di volta nel combattere contro l’anoressia. Possiamo anche avere la disposizione la migliore equipe medica del mondo, e possiamo anche essere circondati dalle persone più comprensive e supportive del mondo, ma non servirà se noi per prime non abbiamo in noi la voglia di combattere contro l’anoressia. Certo, l’aiuto di specialisti e il supporto di chi ci vuole bene sono fondamentali per poter sostenere la battaglia contro un DCA, ma il primus movens può essere solo e soltanto la nostra forza di Volontà di combattere, di opporci alla malattia, di cambiare le cose, con tutta la determinazione di cui disponiamo. Perché Volere è potere – mai vero come quando si tratta di dar battaglia all’anoressia!
Z come Zero. Che è quello che auguro a tutte voi (a tutte NOI). Di fare piazza pulita dell’anoressia, e ricominciare da Zero. Di allontanarsi quanto più possibile dalla malattia, per poter riprendere le redini della propria vita. Perché lo so che l’anoressia più sembrare (illusoriamente) incredibilmente rassicurante, con la sua parvenza di controllo totale, a fronte di una vita che spesso e volentieri risulta essere del tutto random. Effettivamente la vita è un qualcosa che sfugge, che vuole essere inseguita, è un qualcosa di leggero e fragile, solo sfiorarle un’ala può comportare la fine del suo volo. Eppure la morte non riempie mai. Lascia un vuoto simile al buco allo stomaco. Credo che sia la vita ciò di cui si ha fame.
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venerdì 6 dicembre 2013
Gestire la consapevolezza di sè
La consapevolezza di sè è un qualcosa d’interessante. Ci modella, ci rende quelle che siamo, c’insegna e ha un notevole impatto sulle nostre vite. Senza la consapevolezza di sé non possiamo imparare niente su noi stesse. Se non impariamo niente su noi stesse, non possiamo crescere interiormente. E senza crescita interiore, si rimane stagnanti nell’impasse.
La consapevolezza di sè non sempre è una cosa piacevole, e chi ha un DCA lo sa bene. Talvolta si notano cose di noi stesse che vorremmo soltanto spazzare sotto il tappeto. Altre volte scopriamo cose che ci fanno dire “A-ha!”, e delle vere e proprie rivelazioni spezzano la sofferenza indotta dal DCA. Altre volte ancora, la consapevolezza di sé è scomoda. Ci rendiamo conto, forse a malincuore... forse anche accidentalmente... e poi dobbiamo affrontare quello cui ci siamo messe faccia a faccia. Dobbiamo guardare nello specchio della nostra mente e decidere cosa farne di ciò che vediamo lì.
Per chi ha un DCA, non è sempre facile acquisire la consapevolezza di sè. Occorre impegnarsi contro le resistente poste in essere dalla malattia per riuscire a vederci veramente, a conoscere noi stesse, a capire quello che vogliamo dalla vita e come poterlo ottenere. Molto spesso, la consapevolezza di sé e l’introspezione vanno di pari passo: combattere contro l’anoressia infatti significa anche discernere quella che è la parte malata dalla parte sana e razionale di noi, e cercare di far prevalere quest’ultima.
In un certo senso, la consapevolezza di sè equivale al raccontare a noi stesse la nostra propria storia – ma senza parole smielate, senza soffermarsi sui dettagli insignificanti, e smettendola d’indossare gli occhiali dalle lenti rosa dell’anoressia. “Siediti un po’ qui, Veggie, e lascia che ti racconti la storia di te stessa in questa giornata. Lascia che ti spieghi come gli eventi t’influenzano, e cosa tutto questo potrebbe significare”. Ecco, è così che la mia mente lavora quando cerco di fare introspezione. A volte devo usare tutta la mia forza per spingere via un masso che mi ostruisce il passaggio, così da poter vedere la luce dietro di esso. A volte è come cercare di districare nodi incasinatissimi. A volte mi vedo costretta ad aprire una porta che avrei preferito tenere chiusa.
Ma la consapevolezza di sè ci rende delle persone migliori, ci rende più forti e dunque più in grado di combattere attivamente contro l’anoressia, per questo dobbiamo prenderla come se fosse un’avventura: qualche volta è piacevole, qualche volta no, ma è comunque una strada che si sta percorrendo e che ci porta avanti. Talvolta è un’arrampicata ripidissima. Talvolta è una tranquilla strada pianeggiante. E noi siamo, allo stesso tempo, le autiste e le passeggere.
Sebbene tutti i giorni la vita c’impartisca delle lezioni, è bene cercare sempre di guardare dentro noi stesse. Perché? Consapevolezza di sé. Se non possiamo essere esperte in nient’altro, possiamo almeno cercare di essere esperte di NOI STESSE.
Torniamo un attimo all’analogia della porta. “A volte mi vedo costretta ad aprire una porta che avrei preferito tenere chiusa” ho scritto. Siamo individui complessi – tutte noi, nessuna eccezione – ed è perciò perfettamente naturale, anche per le persone più sicure di se stesse, tutte d’un pezzo, o sempre allegre e sorridenti voler rifuggire dalla consapevolezza di sé, a volte. Figuriamoci quindi chi ha un DCA. Eppure, ogni piccola cosa che costituisce la nostra vita quotidiana contribuisce a costruire la nostra consapevolezza di sé. La consapevolezza di sé non deve alterare la propria vita né cambiare le proprie decisioni. Non deve neanche riguardare necessariamente i nostri problemi alimentari. Al cuore, la consapevolezza di sé riguarda più che altro la capacità di gestire le emozioni. Questo è: la capacità di gestire le emozioni.
Le emozioni alimentano le reazioni.
Le emozioni alimentano le azioni.
Le emozioni determinano l’umore.
Le emozioni possono guidare le decisioni.
Dunque, le emozioni che con l’anoressia ci affanniamo tanto a soffocare, sono in realtà estremamente importanti.
Ma a volte ci sembra che queste emozioni siano più grandi di noi. Ci sembra di non riuscire a tollerarle. Così mettiamo la maschera dell’anoressia per fingere che non esistano. Abbracciamo il nostro disturbo alimentare proprio per fuggire dalle emozioni, soprattutto da quelle che ci fanno paura. Ci sono tanti possibili scenari quante sono le emozioni stesse.
Ma, come delle avventuriere della nostra interiorità, dobbiamo resistere dall’indossare la maschera dell’anoressia, ed andare avanti. Così, decidiamo di aprire quella porta che avremmo preferito rimanesse chiusa. E la si richiude di scatto, ci si allontana da essa, non abbastanza pronte ad affrontare ciò che potremmo trovarvi dietro. Si rimane così in disparte, ascoltando quello che fingiamo di non ascoltare. O forse è il contrario - forse si fa finta di ascoltare cosa c'è dietro quella porta, per tutto il tempo in cui non ci sentiamo ancora pronte. Si continua a mantenere la distanza, ma abbiamo già aperto la porta, quindi non è come se non avessimo fatto attenzione, giusto?
Ma poi, c’è qualcosa che ci chiama. Non lo si vuole ancora affrontare, ma siamo pronte ad ascoltare. Così ci si riavvicina cautamente alla porta, e si appoggia su di essa un orecchio.
Ed ecco che ci troviamo trascinate nel viaggio. Aspettiamo, ascoltiamo, forse dialogando con noi stesse: “Mi sento davvero così?”. “No, certo che non mi sento così”. “O mi sento così?”. “Ma non è così che mi comporto!”. “Può essere vero quell che provo, allora?”. “Non voglio provare questo, ho scelto l’anoressia proprio per non dover provare più niente!”. Siamo abbastanza vicine all’avventurare la testa al di là della porta, per concedere a quello che ci attende di occupare un pezzetto della nostra mente. Ma l’anoressia ci fa ancora pensare che è ingiusto dover affrontare certe cose… perché non tutte le emozioni sono positive come sembrano quando si stringe quella coperta di Linus che è l’anoressia.
Tuttavia, alla fine, mettendoci tutto il nostro coraggio e trattenendo il fiato, ci permettiamo non solo di ascoltare ciò che si sussurra dietro la porta, ma anche di riconoscerlo, qualsiasi cosa sia. “Ci sono delle cose di me che non mi piacciono, e per coprirle sto adottando una strategia di coping che mi farà più male che bene a lunga gittata: un DCA”. “Il vero problema non è il mio aspetto fisico né cosa/quanto mangio, i veri problemi sono quelli che mi tengo dentro e che fingo d’ignorare scaricando tutte le mie preoccupazioni sul comodo capro espiatorio del comportamento alimentare errato”. “Ecco, l’anoressia mi fa pensare questa cosa e me la fa passare per vera, ma in realtà sono consapevole che si tratta di una balla bella e buona”. Così, riuscendo finalmente ad aprire gli occhi, possiamo iniziare a vedere uno spiraglio di luce.
E adesso sappiamo quel che dobbiamo fare. Cominciamo ad essere consapevoli di noi stesse e delle bugie che l’anoressia ci racconta. Abbiamo aperto la porta: siamo pronte a fronteggiare qualsiasi cosa ci aspetti al di là di essa.
Molto probabilmente quello che troveremo dietro la porta non ci farà strillare dalla gioia, ma non sarà mai così terribile come ce lo faceva immaginare l’anoressia quando la porta stava ancora chiusa. E, fissando quella porta e tutto ciò che si trova oltre essa, con 1) un po’ di fiducia in noi stesse, 2) la consapevolezza che siamo umane, e 3) il desiderio di conoscere le vere noi stesse oltre alle maschere create dall’anoressia, ci aiuta ad incrementare giorno dopo giorno la nostra consapevolezza di sé.
L’intricatissimo lavoro d’introspezione che è necessario per prendere le distanze dall’anoressia richiede tempo, attenzione, dedizione, pazienza, coraggio e cura. Non possiamo pare passi avanti sulla strada del ricovero se continuiamo ostinatamente a sbattere contro una porta che ci rifiutiamo di aprire. Dobbiamo prendere viceversa il coraggio a quattro mani, e aprirla. Buttarla giù. E, prendendoci tutto il tempo che ci è necessario, riuscire a guardare oltre quella porta senza il timore di non essere capaci di affrontare ciò che ci attende. Perché lo siamo.
La consapevolezza di sè non sempre è una cosa piacevole, e chi ha un DCA lo sa bene. Talvolta si notano cose di noi stesse che vorremmo soltanto spazzare sotto il tappeto. Altre volte scopriamo cose che ci fanno dire “A-ha!”, e delle vere e proprie rivelazioni spezzano la sofferenza indotta dal DCA. Altre volte ancora, la consapevolezza di sé è scomoda. Ci rendiamo conto, forse a malincuore... forse anche accidentalmente... e poi dobbiamo affrontare quello cui ci siamo messe faccia a faccia. Dobbiamo guardare nello specchio della nostra mente e decidere cosa farne di ciò che vediamo lì.
Per chi ha un DCA, non è sempre facile acquisire la consapevolezza di sè. Occorre impegnarsi contro le resistente poste in essere dalla malattia per riuscire a vederci veramente, a conoscere noi stesse, a capire quello che vogliamo dalla vita e come poterlo ottenere. Molto spesso, la consapevolezza di sé e l’introspezione vanno di pari passo: combattere contro l’anoressia infatti significa anche discernere quella che è la parte malata dalla parte sana e razionale di noi, e cercare di far prevalere quest’ultima.
In un certo senso, la consapevolezza di sè equivale al raccontare a noi stesse la nostra propria storia – ma senza parole smielate, senza soffermarsi sui dettagli insignificanti, e smettendola d’indossare gli occhiali dalle lenti rosa dell’anoressia. “Siediti un po’ qui, Veggie, e lascia che ti racconti la storia di te stessa in questa giornata. Lascia che ti spieghi come gli eventi t’influenzano, e cosa tutto questo potrebbe significare”. Ecco, è così che la mia mente lavora quando cerco di fare introspezione. A volte devo usare tutta la mia forza per spingere via un masso che mi ostruisce il passaggio, così da poter vedere la luce dietro di esso. A volte è come cercare di districare nodi incasinatissimi. A volte mi vedo costretta ad aprire una porta che avrei preferito tenere chiusa.
Ma la consapevolezza di sè ci rende delle persone migliori, ci rende più forti e dunque più in grado di combattere attivamente contro l’anoressia, per questo dobbiamo prenderla come se fosse un’avventura: qualche volta è piacevole, qualche volta no, ma è comunque una strada che si sta percorrendo e che ci porta avanti. Talvolta è un’arrampicata ripidissima. Talvolta è una tranquilla strada pianeggiante. E noi siamo, allo stesso tempo, le autiste e le passeggere.
Sebbene tutti i giorni la vita c’impartisca delle lezioni, è bene cercare sempre di guardare dentro noi stesse. Perché? Consapevolezza di sé. Se non possiamo essere esperte in nient’altro, possiamo almeno cercare di essere esperte di NOI STESSE.
Torniamo un attimo all’analogia della porta. “A volte mi vedo costretta ad aprire una porta che avrei preferito tenere chiusa” ho scritto. Siamo individui complessi – tutte noi, nessuna eccezione – ed è perciò perfettamente naturale, anche per le persone più sicure di se stesse, tutte d’un pezzo, o sempre allegre e sorridenti voler rifuggire dalla consapevolezza di sé, a volte. Figuriamoci quindi chi ha un DCA. Eppure, ogni piccola cosa che costituisce la nostra vita quotidiana contribuisce a costruire la nostra consapevolezza di sé. La consapevolezza di sé non deve alterare la propria vita né cambiare le proprie decisioni. Non deve neanche riguardare necessariamente i nostri problemi alimentari. Al cuore, la consapevolezza di sé riguarda più che altro la capacità di gestire le emozioni. Questo è: la capacità di gestire le emozioni.
Le emozioni alimentano le reazioni.
Le emozioni alimentano le azioni.
Le emozioni determinano l’umore.
Le emozioni possono guidare le decisioni.
Dunque, le emozioni che con l’anoressia ci affanniamo tanto a soffocare, sono in realtà estremamente importanti.
Ma a volte ci sembra che queste emozioni siano più grandi di noi. Ci sembra di non riuscire a tollerarle. Così mettiamo la maschera dell’anoressia per fingere che non esistano. Abbracciamo il nostro disturbo alimentare proprio per fuggire dalle emozioni, soprattutto da quelle che ci fanno paura. Ci sono tanti possibili scenari quante sono le emozioni stesse.
Ma, come delle avventuriere della nostra interiorità, dobbiamo resistere dall’indossare la maschera dell’anoressia, ed andare avanti. Così, decidiamo di aprire quella porta che avremmo preferito rimanesse chiusa. E la si richiude di scatto, ci si allontana da essa, non abbastanza pronte ad affrontare ciò che potremmo trovarvi dietro. Si rimane così in disparte, ascoltando quello che fingiamo di non ascoltare. O forse è il contrario - forse si fa finta di ascoltare cosa c'è dietro quella porta, per tutto il tempo in cui non ci sentiamo ancora pronte. Si continua a mantenere la distanza, ma abbiamo già aperto la porta, quindi non è come se non avessimo fatto attenzione, giusto?
Ma poi, c’è qualcosa che ci chiama. Non lo si vuole ancora affrontare, ma siamo pronte ad ascoltare. Così ci si riavvicina cautamente alla porta, e si appoggia su di essa un orecchio.
Ed ecco che ci troviamo trascinate nel viaggio. Aspettiamo, ascoltiamo, forse dialogando con noi stesse: “Mi sento davvero così?”. “No, certo che non mi sento così”. “O mi sento così?”. “Ma non è così che mi comporto!”. “Può essere vero quell che provo, allora?”. “Non voglio provare questo, ho scelto l’anoressia proprio per non dover provare più niente!”. Siamo abbastanza vicine all’avventurare la testa al di là della porta, per concedere a quello che ci attende di occupare un pezzetto della nostra mente. Ma l’anoressia ci fa ancora pensare che è ingiusto dover affrontare certe cose… perché non tutte le emozioni sono positive come sembrano quando si stringe quella coperta di Linus che è l’anoressia.
Tuttavia, alla fine, mettendoci tutto il nostro coraggio e trattenendo il fiato, ci permettiamo non solo di ascoltare ciò che si sussurra dietro la porta, ma anche di riconoscerlo, qualsiasi cosa sia. “Ci sono delle cose di me che non mi piacciono, e per coprirle sto adottando una strategia di coping che mi farà più male che bene a lunga gittata: un DCA”. “Il vero problema non è il mio aspetto fisico né cosa/quanto mangio, i veri problemi sono quelli che mi tengo dentro e che fingo d’ignorare scaricando tutte le mie preoccupazioni sul comodo capro espiatorio del comportamento alimentare errato”. “Ecco, l’anoressia mi fa pensare questa cosa e me la fa passare per vera, ma in realtà sono consapevole che si tratta di una balla bella e buona”. Così, riuscendo finalmente ad aprire gli occhi, possiamo iniziare a vedere uno spiraglio di luce.
E adesso sappiamo quel che dobbiamo fare. Cominciamo ad essere consapevoli di noi stesse e delle bugie che l’anoressia ci racconta. Abbiamo aperto la porta: siamo pronte a fronteggiare qualsiasi cosa ci aspetti al di là di essa.
Molto probabilmente quello che troveremo dietro la porta non ci farà strillare dalla gioia, ma non sarà mai così terribile come ce lo faceva immaginare l’anoressia quando la porta stava ancora chiusa. E, fissando quella porta e tutto ciò che si trova oltre essa, con 1) un po’ di fiducia in noi stesse, 2) la consapevolezza che siamo umane, e 3) il desiderio di conoscere le vere noi stesse oltre alle maschere create dall’anoressia, ci aiuta ad incrementare giorno dopo giorno la nostra consapevolezza di sé.
L’intricatissimo lavoro d’introspezione che è necessario per prendere le distanze dall’anoressia richiede tempo, attenzione, dedizione, pazienza, coraggio e cura. Non possiamo pare passi avanti sulla strada del ricovero se continuiamo ostinatamente a sbattere contro una porta che ci rifiutiamo di aprire. Dobbiamo prendere viceversa il coraggio a quattro mani, e aprirla. Buttarla giù. E, prendendoci tutto il tempo che ci è necessario, riuscire a guardare oltre quella porta senza il timore di non essere capaci di affrontare ciò che ci attende. Perché lo siamo.
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venerdì 29 novembre 2013
Una critica costruttiva
Tra i commenti al post precedente, decontestualizzata da esso, ho ricevuto una critica costruttiva da parte di Katniss-L., cui voglio dedicare il post di oggi per 2 motivi:
1) Quello che Katniss-L. ha scritto, seppure in chiave critica, è interessante e ragionato, e mi sembrava perciò limitativo il ridurlo ad una mera risposta ad un commento, anche perché vengono sollevate delle tematiche che potrebbero essere condivise anche da altre/i lettrici/lettori del mio blog, per cui così facendo posso rispondere a chiunque stesse pensando le medesime cose che Katniss-L. mi ha scritto.
2) Ho delle idee ben precise in merito a questa critica costruttiva che mi è stata rivolta, perché il mio modus operandi su questo blog è coerente e motivato, e mi sembra corretto espletarlo. Qui ho la possibilità di spiegare il perché. Inoltre, trattandosi di una critica, non volevo “nasconderla” tra i commenti glissando con una rapida risposta, ma condividere con tutte voi il mio pensiero al riguardo.
Ringrazio comunque Katniss-L. per la sua critica costruttiva, perché ovviamente mi fa sempre piacere ricevere apprezzamenti per quello che scrivo sul blog (e a chi non fa piacere ricevere opinioni positive?!...), ma apprezzo molto anche l’onestà di chi, con correttezza ed educazione, mi spiega il suo punto di vista che può pure contrastare il mio. Del resto, le opinioni sono opinabili per antonomasia, quindi è ovvio che ognuno la veda a suo modo, perché la soggettività interindividuale è innegabile ed è quello che ci rende uniche. Perciò, ben vengano anche i pareri contrastanti: la luce è tale solo e soltanto se esiste anche l’ombra.
E arriviamo dunque al fatidico commento di Katniss-L.:
“Cara Veggie, leggo da molto tempo il tuo blog, ma non ho mai commentato finora. Premettendo che apprezzo moltissimo il “lavoro” che stai facendo su questo blog, vorrei comunque esprimere alcune mie perplessità.
Mi sono laureata in psicologia da alcuni mesi, e proprio in virtù del percorso di studi che ho fatto e del lavoro che andrò a svolgere, leggendo il tuo blog mi sono talvolta sorpresa a pensare a quanto possa essere difficile per te scegliere cosa scrivere nei post, ma soprattutto “cosa” rispondere alle persone che ti commentano quando ti espongono la loro situazione e ti chiedono cosa fare.
Tu hai affermato più volte che non dai giudizi né suggerimenti perché non ti compete in quanto non professionista. Questa affermazione mi sorprende, perché nelle risposte che scrivi ai vari commenti, dai sempre dei consigli, che talvolta sono molto chiare e nette. Mi riferisco, per esempio, a quando scrivi (cito le tue testuali parole copiate da alcune tue risposte a dei commenti): “Non so se sei seguita da una dietista e/o da una psicologa, in ogni caso ti consiglio vivamente di rivolgerti a queste figure professionali”, oppure: “Quando ti assalgono i pensieri propri del DCA, anziché agirli, cerca di fare qualsiasi altra cosa per distrarti”, oppure: “Cerca di mangiare tutto quello che è previsto dal tuo “equilibrio alimentare”, pensando che il cibo adesso è la tua medicina” oppure: “Prima chiedi aiuto, meglio sarà, per cui non esitare a farlo”; giusto per citare alcuni esempi. A me queste sembrano delle indicazioni molto nette. Oppure in un’altra occasione scrivi: “Mi sembra che il tuo problema principale in questo momento sia che stai aggravando la tua patologia di base piangendoti addosso in maniera incredibile”, e questo mi “puzza” molto di giudizio. Allora, quello che mi chiedo è: non è un tantino azzardato da parte tua scrivere su un blog risposte a domande di persone sconosciute sulla base di ciò che affermano?
A me capita di pensare alle storie che ascolto dai pazienti mentre svolgo il mio tirocinio come a un intreccio complicatissimo, non fosse altro che il punto di vista del soggetto narrante, ammesso in buona fede ma deformato da meccanismi inconsapevoli, è solo una fioca luce nella ricerca non certo della “verità”, ma di una interpretazione plausibile e verosimile di ciò che emerge nella relazione di coppia psicoterapeuta-paziente.
Quindi, quando sul blog ti vengono fatte certe domande o dette certe cose, tu sei chiamata a muoverti sulle sabbie mobili nel momento in cui rispondi. E data la precisione delle domande che talora ti vengono rivolte, come un giudice non puoi esimerti dal prendere una posizione.
In definitiva, mi interrogo sull’opportunità di dare delle risposte a commenti di persone sconosciute, sulla base di una manciata d’indizi, che peraltro chi scrive sceglie accuratamente.”
Cara Katniss-L., le cose che scrivi sono tutt’altro che sciocche, ma converrai con me in merito alla constatazione che chi mi scrive è abbastanza intelligente da sapere che non sarò io, con le mie poche parole di risposta, a risolvere le loro problematiche (alimentari e non), poiché problemi seri la cui gestione richiede – come spesso e volentieri consiglio, è vero, e qui lo ribadisco – l’intervento di specialisti.
Credo che molte delle ragazze che commentano il mio blog scrivano per rompere un silenzio con se stesse, per raccontarsi come si farebbe con quell’amica, quell’amico, cui non si riescono a rivelare problematiche così importanti e pervasive come un DCA. Diciamo che i commenti che ricevo – e le risposte che do – sono una specie di specchio che riflette le persone, le loro verità, le loro bugie, le loro sofferenze, le loro difficoltà, le loro speranze, le loro illusioni, etc. E’ chi commenta i miei post a guardarsi in quello specchio, che le aiuta a capire non solo ciò che sta succedendo, ma ciò che si nascondono, che si inventano.
Io so di non rispondere a delle persone del tutto vere ed autentiche, ma soltanto a quello che loro vogliono apparire a me e a se stesse. Per questo bastano gli indizi “scelti”, come dici tu, ma non sempre accuratamente, dico io.
Io non ho mai pensato di esercitare un potere più o meno salvifico, ma come semplice blogger, di condividere la mia esperienza di vita con l’anoressia, di esprimere il mio punto di vista, di creare un piccolo spazio virtuale di condivisione e sostegno reciproco nella lotta contro i DCA, di chiacchierare con persone sconosciute che proprio per questo si raccontano come vogliono, rimanendo aderenti alla loro realtà oppure inventandosi.
Tu dici che non è vero che io non esprimo consigli o giudizi: premesso che gli esempi che tu hai citato riguardo a ciò che ho scritto sono completamente decontestualizzati e quindi un po’ fuorvianti per come li presenti tu rispetto a come suonavano nell’originale, quando erano inseriti nel relativo commento, in quanto ai consigli, sono come tali soggettivi perché provenienti da un essere umano (non a caso, premetto sempre “Secondo me”, “Io penso che”, “A mio parere”, etc), e dunque passibili di valutazione da parte di chi li riceve, e di sciente decisione su cosa fare a prescindere da quello che io posso aver scritto. In quanto ai giudizi, diciamo che se li do, non è sulla persona che scrive (che ovviamente non conosco, e dunque non mi permetterei mai), ma unicamente su quello che scrive (che è quello che la persona mi vuol far arrivare).
Questo mi toglie dalle responsabilità che invece, giustamente, tu hai in quanto psicoterapeuta.
Quelli che scrivo non sono ordini da eseguire né verità assolute, ma semplice condivisione di quello che mi ha aiutata, in un passato più o meno remoto, a stare meglio nella mia lotta contro l'anoressia, nella speranza che possa essere d’aiuto anche a chi mi legge.
1) Quello che Katniss-L. ha scritto, seppure in chiave critica, è interessante e ragionato, e mi sembrava perciò limitativo il ridurlo ad una mera risposta ad un commento, anche perché vengono sollevate delle tematiche che potrebbero essere condivise anche da altre/i lettrici/lettori del mio blog, per cui così facendo posso rispondere a chiunque stesse pensando le medesime cose che Katniss-L. mi ha scritto.
2) Ho delle idee ben precise in merito a questa critica costruttiva che mi è stata rivolta, perché il mio modus operandi su questo blog è coerente e motivato, e mi sembra corretto espletarlo. Qui ho la possibilità di spiegare il perché. Inoltre, trattandosi di una critica, non volevo “nasconderla” tra i commenti glissando con una rapida risposta, ma condividere con tutte voi il mio pensiero al riguardo.
Ringrazio comunque Katniss-L. per la sua critica costruttiva, perché ovviamente mi fa sempre piacere ricevere apprezzamenti per quello che scrivo sul blog (e a chi non fa piacere ricevere opinioni positive?!...), ma apprezzo molto anche l’onestà di chi, con correttezza ed educazione, mi spiega il suo punto di vista che può pure contrastare il mio. Del resto, le opinioni sono opinabili per antonomasia, quindi è ovvio che ognuno la veda a suo modo, perché la soggettività interindividuale è innegabile ed è quello che ci rende uniche. Perciò, ben vengano anche i pareri contrastanti: la luce è tale solo e soltanto se esiste anche l’ombra.
E arriviamo dunque al fatidico commento di Katniss-L.:
“Cara Veggie, leggo da molto tempo il tuo blog, ma non ho mai commentato finora. Premettendo che apprezzo moltissimo il “lavoro” che stai facendo su questo blog, vorrei comunque esprimere alcune mie perplessità.
Mi sono laureata in psicologia da alcuni mesi, e proprio in virtù del percorso di studi che ho fatto e del lavoro che andrò a svolgere, leggendo il tuo blog mi sono talvolta sorpresa a pensare a quanto possa essere difficile per te scegliere cosa scrivere nei post, ma soprattutto “cosa” rispondere alle persone che ti commentano quando ti espongono la loro situazione e ti chiedono cosa fare.
Tu hai affermato più volte che non dai giudizi né suggerimenti perché non ti compete in quanto non professionista. Questa affermazione mi sorprende, perché nelle risposte che scrivi ai vari commenti, dai sempre dei consigli, che talvolta sono molto chiare e nette. Mi riferisco, per esempio, a quando scrivi (cito le tue testuali parole copiate da alcune tue risposte a dei commenti): “Non so se sei seguita da una dietista e/o da una psicologa, in ogni caso ti consiglio vivamente di rivolgerti a queste figure professionali”, oppure: “Quando ti assalgono i pensieri propri del DCA, anziché agirli, cerca di fare qualsiasi altra cosa per distrarti”, oppure: “Cerca di mangiare tutto quello che è previsto dal tuo “equilibrio alimentare”, pensando che il cibo adesso è la tua medicina” oppure: “Prima chiedi aiuto, meglio sarà, per cui non esitare a farlo”; giusto per citare alcuni esempi. A me queste sembrano delle indicazioni molto nette. Oppure in un’altra occasione scrivi: “Mi sembra che il tuo problema principale in questo momento sia che stai aggravando la tua patologia di base piangendoti addosso in maniera incredibile”, e questo mi “puzza” molto di giudizio. Allora, quello che mi chiedo è: non è un tantino azzardato da parte tua scrivere su un blog risposte a domande di persone sconosciute sulla base di ciò che affermano?
A me capita di pensare alle storie che ascolto dai pazienti mentre svolgo il mio tirocinio come a un intreccio complicatissimo, non fosse altro che il punto di vista del soggetto narrante, ammesso in buona fede ma deformato da meccanismi inconsapevoli, è solo una fioca luce nella ricerca non certo della “verità”, ma di una interpretazione plausibile e verosimile di ciò che emerge nella relazione di coppia psicoterapeuta-paziente.
Quindi, quando sul blog ti vengono fatte certe domande o dette certe cose, tu sei chiamata a muoverti sulle sabbie mobili nel momento in cui rispondi. E data la precisione delle domande che talora ti vengono rivolte, come un giudice non puoi esimerti dal prendere una posizione.
In definitiva, mi interrogo sull’opportunità di dare delle risposte a commenti di persone sconosciute, sulla base di una manciata d’indizi, che peraltro chi scrive sceglie accuratamente.”
Cara Katniss-L., le cose che scrivi sono tutt’altro che sciocche, ma converrai con me in merito alla constatazione che chi mi scrive è abbastanza intelligente da sapere che non sarò io, con le mie poche parole di risposta, a risolvere le loro problematiche (alimentari e non), poiché problemi seri la cui gestione richiede – come spesso e volentieri consiglio, è vero, e qui lo ribadisco – l’intervento di specialisti.
Credo che molte delle ragazze che commentano il mio blog scrivano per rompere un silenzio con se stesse, per raccontarsi come si farebbe con quell’amica, quell’amico, cui non si riescono a rivelare problematiche così importanti e pervasive come un DCA. Diciamo che i commenti che ricevo – e le risposte che do – sono una specie di specchio che riflette le persone, le loro verità, le loro bugie, le loro sofferenze, le loro difficoltà, le loro speranze, le loro illusioni, etc. E’ chi commenta i miei post a guardarsi in quello specchio, che le aiuta a capire non solo ciò che sta succedendo, ma ciò che si nascondono, che si inventano.
Io so di non rispondere a delle persone del tutto vere ed autentiche, ma soltanto a quello che loro vogliono apparire a me e a se stesse. Per questo bastano gli indizi “scelti”, come dici tu, ma non sempre accuratamente, dico io.
Io non ho mai pensato di esercitare un potere più o meno salvifico, ma come semplice blogger, di condividere la mia esperienza di vita con l’anoressia, di esprimere il mio punto di vista, di creare un piccolo spazio virtuale di condivisione e sostegno reciproco nella lotta contro i DCA, di chiacchierare con persone sconosciute che proprio per questo si raccontano come vogliono, rimanendo aderenti alla loro realtà oppure inventandosi.
Tu dici che non è vero che io non esprimo consigli o giudizi: premesso che gli esempi che tu hai citato riguardo a ciò che ho scritto sono completamente decontestualizzati e quindi un po’ fuorvianti per come li presenti tu rispetto a come suonavano nell’originale, quando erano inseriti nel relativo commento, in quanto ai consigli, sono come tali soggettivi perché provenienti da un essere umano (non a caso, premetto sempre “Secondo me”, “Io penso che”, “A mio parere”, etc), e dunque passibili di valutazione da parte di chi li riceve, e di sciente decisione su cosa fare a prescindere da quello che io posso aver scritto. In quanto ai giudizi, diciamo che se li do, non è sulla persona che scrive (che ovviamente non conosco, e dunque non mi permetterei mai), ma unicamente su quello che scrive (che è quello che la persona mi vuol far arrivare).
Questo mi toglie dalle responsabilità che invece, giustamente, tu hai in quanto psicoterapeuta.
Quelli che scrivo non sono ordini da eseguire né verità assolute, ma semplice condivisione di quello che mi ha aiutata, in un passato più o meno remoto, a stare meglio nella mia lotta contro l'anoressia, nella speranza che possa essere d’aiuto anche a chi mi legge.
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venerdì 22 novembre 2013
Lasciar andare l'idea della perfetta guarigione
Se avete mai sentito in qualche programma televisivo qualcuno che ha un DCA parlare di come immagina possa essere una sua futura guarigione, siete perdonate per aver pensato che quel qualcuno stesse cercando di convincervi ad acquistare uno stock di pentole in una telepromozione.
A volte in TV o su Internet capita di vedere video (o di leggere post) di persone che dicono come pensano che sarà la loro vita una volta che saranno guarite dal DCA. Sono persone che dicono cose come: “Si guarisce dall’anoressia quando si riesce ad amare se stesse. Quando si riesce ad amare il proprio corpo e ad accettare tutte le proprie imperfezioni. Quando si arriva a questo, ci si rende conto che la vita è bellissima, è meravigliosa. Si riescono a raggiungere le radici del proprio DCA. E non ci si ricade mai, mai, mai, MAI più. Si guarisce del tutto, e questo è per sempre.”
Ecco, quando sento cose del genere, mi sembra un po’ di stare a sentire una telepromozione che ti vuol vendere qualche cosa. O l’inno di una setta segreta con una parola d’ordine e una divisa contraddistintiva.
Okay, credo che la maggior parte delle persone che hanno vissuto/vivono un DCA, abbiano la consapevolezza che non esiste una guarigione perfetta. Ma stando a quello che dicono alcune persone quando parlano di come immaginano la loro vita post-DCA, a me sembra che tendano a dipingere la cosiddetta guarigione come una forma idealizzata di Come-La-Vita-Sarà-Da-Ora-In-Poi-Sempre-Nel-Persempre-Amen. Non è in questo che consiste la strada del ricovero, secondo me. Se decidete d’iniziare a combattere contro il vostro DCA, e vi rendete conto che la dura realtà consta nel doversi opporre all’anoressia giorno dopo giorno, con fatica, con difficoltà, i discorsi sull’utopica perfetta guarigione non cominciano a sembravi un pochino fake?
Certo, a chi non piace pensare che dall’anoressia si possa guarire in toto, senza alcun residuato psicofisico, e che la vita senza il DCA possa essere perfetta? Ritrovare un’alimentazione completamente spontanea, amare il cibo, amare la propria fisicità. E poi svegliarsi ogni mattina, alzarsi da letto, guardarsi allo specchio e vedere quant’è sexy il riflesso che rimanda. Niente più giornatacce passate in preda a manie di controllo, niente più ansie. Soltanto autonomia, sicurezza di sé, e felicità. Penso che chiunque di noi possa aver immaginato, anche solo per un momento, qualcosa del genere pensando ad un futuro senza più anoressia.
Per quel che mi riguarda, percorrendo la strada del ricovero mi sono accorta che le cose non stavano così. E quindi, ho regolato il tiro. Ma non abbassandolo. Non mi sono detta: “No, non è così che andranno le cose, non ci sperare neanche”, bensì mi sono detta: “Non guardare al risultato, focalizzati sul processo.”. Se infatti mi fossi concentrata su un’utopica prospettiva di perfetta guarigione, e poi mi fossi accorta che la necessità di controllo permaneva, e che la vita presentava comunque tutte le sue difficoltà, mi sarei buttata giù ed avrei mollato, perché mi sarei sentita incapace di raggiungere quell’obiettivo, e dunque una fallita. Invece, concentrandomi su quello che potevo fare concretamente, giorno dopo giorno, per migliorare la qualità della mia vita, mi sono accorta che potevo muovere dei piccoli passi avanti per cercare di fare in modo che pian piano la mia situazione fosse migliore rispetto a prima. Tuttora, se guardo oggettivamente al punto in cui mi trovo (da qualche parte lungo la strada del ricovero), mi rendo conto che la mia vita non è rose e fiori, e non somiglia a quella che dicono di voler avere le persone che immaginano una completa guarigione dal proprio DCA, però sono comunque riuscita a ripristinare una elevata qualità della mia vita e continuerò ad impegnarmi per ottenere ulteriori miglioramenti in futuro.
Anche leggendo su Internet narrazioni di ragazze che raccontano la propria vita con il DCA, mi rendo conto che queste storie si ripartiscono per la maggior parte in 2 grani filoni: quelle che concludono “Penso che il DCA rimarrà comunque un vissuto che mi segnerà e mi condizionerà per il resto della mia vita, sia nel mio rapporto nei confronti del cibo, che di me stessa, che degli altri”, e quelle che concludono con le telepromozioni succitate. Il problema è che, a mio avviso, ambo le mentalità conducono al fallimento. Nel primo caso, perché una persona si abitua al DCA a tal punto da rassegnarsi ad una sorta di convivenza più o meno passiva, e perde così la reattività che serve per riconquistare giorno dopo giorno una vita migliore; nel secondo caso, perché viene idealizzata a tal punto l’idea della guarigione, che non potrà mai concretizzarsi con quelle modalità, che la delusione che ne consegue porterà inevitabilmente ad avere delle ricadute.
Spesso ricevo e-mail da parte di ragazze che mi chiedono cosa mi ha fatto decidere di combattere contro l’anoressia, qual è stato il mio punto di svolta, cosa mi ha convinto a cercare di stare meglio e tornare a mangiare normalmente. Mi dispiace sempre rispondere loro che non è così che per me sono andate le cose. È vero, c’è stato un live delle t.A.T.u. che mi ha dato una bella spinta nella giusta direzione, ma questo è stato un input: sarebbe rimasto passivo e fine a se stesso se io non lo avessi agito. Non c’è stato nella mia vita un epocale cambiamento, una qualche epifania, un qualche evento che dall’oggi al domani mi ha fatto cambiare completamente idea e combattere fervidamente contro l’anoressia. Il mio è stato un percorso lento, costellato di ricadute. Però mi sono rialzata ogni volta, ho stretto i denti, ho tenuto duro, ho ricominciato a combattere. È possibile che ci siano persone alle quali succede una qualche cosa, un qualche epico evento, e da lì in poi sfrecciano sulla strada del ricovero senza mai deragliare… ma questo non è l’unico modo, secondo me, per percorrere questa strada.
E, tra l’altro, percorrere la strada del ricovero non è una passeggiata. Talvolta su certi Tumblr leggo frasi come: “The worst day in recovery is still better than the best day in relapse” (“Il giorno peggiore mentre percorri la strada del ricovero è comunque meglio del giorno migliore di una ricaduta”). Onestamente? Se mi è concesso di dirlo, talvolta non è così. Talvolta la vita quotidiana è così difficile da affrontare, con tutti i suoi millemila imprevisti e difficoltà, che la sensazione di controllo che fa (illusoriamente) provare l’anoressia ti fa sentire molto meglio che il combattere l’anoressia stessa. Non è nel mio interesse né nei miei progetti un’ulteriore ricaduta nell’anoressia, ma sono consapevole che essendo stata l’anoressia una strategia di coping estremamente funzionale, è possibile che in futuro le difficoltà della vita mi porteranno ad un punto tale da mettermi nella necessità di riadottarla. Del resto, non ho scelto la restrizione alimentare perché volevo essere magra. Ho scelto la restrizione alimentare perché mi permetteva di provare quella sensazione di controllo che tanto anelavo poiché la vita – incontrollabile per antonomasia – mi sembrava così più facile da gestire.
Le difficoltà non cessano all’istante quando s’intraprende la strada del ricovero. I problemi che prima nascondevamo dietro al DCA restano, e ci si trova di fronte al difficile compito di affrontarli. E spesso sono schiaccianti. È dura. È veramente dura. Bisogna lavorarci su con la psicoterapia, perchè affrontare quei problemi è pure l’unico modo che abbiamo a disposizione per andare avanti.
Niente arcobaleni ed unicorni, qui. La strada del ricovero che sto percorrendo non è l’utopia della perfetta guarigione. Ma è un qualcosa che lentamente e gradualmente mi permette di stare meglio, e ce la metterò tutta per mantenere la rotta. Sì, ci sono state ricadute in passato, e non posso escludere l’eventualità che ce ne saranno in futuro. Sì, dovrò lavorare ancora tanto sulla mia necessità di controllo. Sì, molto probabilmente rimarrò vulnerabile all’anoressia per il resto della mia vita. Ma sapete cosa? Mi va bene così. Perchè potrò comunque arrivare ad avere un’ottima qualità della vita, anche se la vocina dell’anoressia rimarrà da qualche parte. Ma posso non agirla. E così le cose andranno meglio.
In conclusione: io non credo che si possa “guarire” dall’anoressia nel senso proprio del termine, e credo che qualcosa del DCA nella nostra mente rimarrà sempre. Ma credo anche che possa rimanerci in maniera passiva, senza più influenzare i nostri comportamenti, in maniera tale da permetterci di avere un’ottima qualità della vita. Credo fermamente infatti che sia possibile avere una remissione dell’anoressia, e che questa remissione possa protrarsi vita natural durante. Un po’ come l’acoolista, che avrà sempre la tentazione di bere, ma che razionalmente riuscirà sempre ad impedirsi di farlo, e nonostante la vocina nella sua testa riuscirà dunque comunque a vivere una vita di qualità elevata. Ecco, credo che lo stesso valga per l’anoressia.
Perciò, siate contente della grinta con cui ogni giorno riuscite ad affrontare la strada del ricovero, anche se non va tutto alla perfezione, anche se avete ancora l’impulso di restringere l’alimentazione, anche se avete ancora voglia di controllare tutto. I giorni di merda ci saranno comunque, ci saranno periodi che potranno comunque andare da schifo, perché così è la vita. Ma al di là di tutto questo, di tutte le follie, di tutti i casini, se continuiamo a combattere contro il DCA potremo trovare altre strategie di coping che non passino per la distruzione fisica e mentale, e potremo tornare ad avere una qualità della vita veramente elevata.
Ma questo succederà solo quando lasceremo andare l’idea della perfetta guarigione, la telepromozione della vita perfetta senza anoressia, e cominceremo a concentrarci sui nostri piccoli-grandi progressi quotidiani, cominciando ad abbracciare le piccole-grandi conquiste per le quali abbiamo lavorato così duramente.
A volte in TV o su Internet capita di vedere video (o di leggere post) di persone che dicono come pensano che sarà la loro vita una volta che saranno guarite dal DCA. Sono persone che dicono cose come: “Si guarisce dall’anoressia quando si riesce ad amare se stesse. Quando si riesce ad amare il proprio corpo e ad accettare tutte le proprie imperfezioni. Quando si arriva a questo, ci si rende conto che la vita è bellissima, è meravigliosa. Si riescono a raggiungere le radici del proprio DCA. E non ci si ricade mai, mai, mai, MAI più. Si guarisce del tutto, e questo è per sempre.”
Ecco, quando sento cose del genere, mi sembra un po’ di stare a sentire una telepromozione che ti vuol vendere qualche cosa. O l’inno di una setta segreta con una parola d’ordine e una divisa contraddistintiva.
Okay, credo che la maggior parte delle persone che hanno vissuto/vivono un DCA, abbiano la consapevolezza che non esiste una guarigione perfetta. Ma stando a quello che dicono alcune persone quando parlano di come immaginano la loro vita post-DCA, a me sembra che tendano a dipingere la cosiddetta guarigione come una forma idealizzata di Come-La-Vita-Sarà-Da-Ora-In-Poi-Sempre-Nel-Persempre-Amen. Non è in questo che consiste la strada del ricovero, secondo me. Se decidete d’iniziare a combattere contro il vostro DCA, e vi rendete conto che la dura realtà consta nel doversi opporre all’anoressia giorno dopo giorno, con fatica, con difficoltà, i discorsi sull’utopica perfetta guarigione non cominciano a sembravi un pochino fake?
Certo, a chi non piace pensare che dall’anoressia si possa guarire in toto, senza alcun residuato psicofisico, e che la vita senza il DCA possa essere perfetta? Ritrovare un’alimentazione completamente spontanea, amare il cibo, amare la propria fisicità. E poi svegliarsi ogni mattina, alzarsi da letto, guardarsi allo specchio e vedere quant’è sexy il riflesso che rimanda. Niente più giornatacce passate in preda a manie di controllo, niente più ansie. Soltanto autonomia, sicurezza di sé, e felicità. Penso che chiunque di noi possa aver immaginato, anche solo per un momento, qualcosa del genere pensando ad un futuro senza più anoressia.
Per quel che mi riguarda, percorrendo la strada del ricovero mi sono accorta che le cose non stavano così. E quindi, ho regolato il tiro. Ma non abbassandolo. Non mi sono detta: “No, non è così che andranno le cose, non ci sperare neanche”, bensì mi sono detta: “Non guardare al risultato, focalizzati sul processo.”. Se infatti mi fossi concentrata su un’utopica prospettiva di perfetta guarigione, e poi mi fossi accorta che la necessità di controllo permaneva, e che la vita presentava comunque tutte le sue difficoltà, mi sarei buttata giù ed avrei mollato, perché mi sarei sentita incapace di raggiungere quell’obiettivo, e dunque una fallita. Invece, concentrandomi su quello che potevo fare concretamente, giorno dopo giorno, per migliorare la qualità della mia vita, mi sono accorta che potevo muovere dei piccoli passi avanti per cercare di fare in modo che pian piano la mia situazione fosse migliore rispetto a prima. Tuttora, se guardo oggettivamente al punto in cui mi trovo (da qualche parte lungo la strada del ricovero), mi rendo conto che la mia vita non è rose e fiori, e non somiglia a quella che dicono di voler avere le persone che immaginano una completa guarigione dal proprio DCA, però sono comunque riuscita a ripristinare una elevata qualità della mia vita e continuerò ad impegnarmi per ottenere ulteriori miglioramenti in futuro.
Anche leggendo su Internet narrazioni di ragazze che raccontano la propria vita con il DCA, mi rendo conto che queste storie si ripartiscono per la maggior parte in 2 grani filoni: quelle che concludono “Penso che il DCA rimarrà comunque un vissuto che mi segnerà e mi condizionerà per il resto della mia vita, sia nel mio rapporto nei confronti del cibo, che di me stessa, che degli altri”, e quelle che concludono con le telepromozioni succitate. Il problema è che, a mio avviso, ambo le mentalità conducono al fallimento. Nel primo caso, perché una persona si abitua al DCA a tal punto da rassegnarsi ad una sorta di convivenza più o meno passiva, e perde così la reattività che serve per riconquistare giorno dopo giorno una vita migliore; nel secondo caso, perché viene idealizzata a tal punto l’idea della guarigione, che non potrà mai concretizzarsi con quelle modalità, che la delusione che ne consegue porterà inevitabilmente ad avere delle ricadute.
Spesso ricevo e-mail da parte di ragazze che mi chiedono cosa mi ha fatto decidere di combattere contro l’anoressia, qual è stato il mio punto di svolta, cosa mi ha convinto a cercare di stare meglio e tornare a mangiare normalmente. Mi dispiace sempre rispondere loro che non è così che per me sono andate le cose. È vero, c’è stato un live delle t.A.T.u. che mi ha dato una bella spinta nella giusta direzione, ma questo è stato un input: sarebbe rimasto passivo e fine a se stesso se io non lo avessi agito. Non c’è stato nella mia vita un epocale cambiamento, una qualche epifania, un qualche evento che dall’oggi al domani mi ha fatto cambiare completamente idea e combattere fervidamente contro l’anoressia. Il mio è stato un percorso lento, costellato di ricadute. Però mi sono rialzata ogni volta, ho stretto i denti, ho tenuto duro, ho ricominciato a combattere. È possibile che ci siano persone alle quali succede una qualche cosa, un qualche epico evento, e da lì in poi sfrecciano sulla strada del ricovero senza mai deragliare… ma questo non è l’unico modo, secondo me, per percorrere questa strada.
E, tra l’altro, percorrere la strada del ricovero non è una passeggiata. Talvolta su certi Tumblr leggo frasi come: “The worst day in recovery is still better than the best day in relapse” (“Il giorno peggiore mentre percorri la strada del ricovero è comunque meglio del giorno migliore di una ricaduta”). Onestamente? Se mi è concesso di dirlo, talvolta non è così. Talvolta la vita quotidiana è così difficile da affrontare, con tutti i suoi millemila imprevisti e difficoltà, che la sensazione di controllo che fa (illusoriamente) provare l’anoressia ti fa sentire molto meglio che il combattere l’anoressia stessa. Non è nel mio interesse né nei miei progetti un’ulteriore ricaduta nell’anoressia, ma sono consapevole che essendo stata l’anoressia una strategia di coping estremamente funzionale, è possibile che in futuro le difficoltà della vita mi porteranno ad un punto tale da mettermi nella necessità di riadottarla. Del resto, non ho scelto la restrizione alimentare perché volevo essere magra. Ho scelto la restrizione alimentare perché mi permetteva di provare quella sensazione di controllo che tanto anelavo poiché la vita – incontrollabile per antonomasia – mi sembrava così più facile da gestire.
Le difficoltà non cessano all’istante quando s’intraprende la strada del ricovero. I problemi che prima nascondevamo dietro al DCA restano, e ci si trova di fronte al difficile compito di affrontarli. E spesso sono schiaccianti. È dura. È veramente dura. Bisogna lavorarci su con la psicoterapia, perchè affrontare quei problemi è pure l’unico modo che abbiamo a disposizione per andare avanti.
Niente arcobaleni ed unicorni, qui. La strada del ricovero che sto percorrendo non è l’utopia della perfetta guarigione. Ma è un qualcosa che lentamente e gradualmente mi permette di stare meglio, e ce la metterò tutta per mantenere la rotta. Sì, ci sono state ricadute in passato, e non posso escludere l’eventualità che ce ne saranno in futuro. Sì, dovrò lavorare ancora tanto sulla mia necessità di controllo. Sì, molto probabilmente rimarrò vulnerabile all’anoressia per il resto della mia vita. Ma sapete cosa? Mi va bene così. Perchè potrò comunque arrivare ad avere un’ottima qualità della vita, anche se la vocina dell’anoressia rimarrà da qualche parte. Ma posso non agirla. E così le cose andranno meglio.
In conclusione: io non credo che si possa “guarire” dall’anoressia nel senso proprio del termine, e credo che qualcosa del DCA nella nostra mente rimarrà sempre. Ma credo anche che possa rimanerci in maniera passiva, senza più influenzare i nostri comportamenti, in maniera tale da permetterci di avere un’ottima qualità della vita. Credo fermamente infatti che sia possibile avere una remissione dell’anoressia, e che questa remissione possa protrarsi vita natural durante. Un po’ come l’acoolista, che avrà sempre la tentazione di bere, ma che razionalmente riuscirà sempre ad impedirsi di farlo, e nonostante la vocina nella sua testa riuscirà dunque comunque a vivere una vita di qualità elevata. Ecco, credo che lo stesso valga per l’anoressia.
Perciò, siate contente della grinta con cui ogni giorno riuscite ad affrontare la strada del ricovero, anche se non va tutto alla perfezione, anche se avete ancora l’impulso di restringere l’alimentazione, anche se avete ancora voglia di controllare tutto. I giorni di merda ci saranno comunque, ci saranno periodi che potranno comunque andare da schifo, perché così è la vita. Ma al di là di tutto questo, di tutte le follie, di tutti i casini, se continuiamo a combattere contro il DCA potremo trovare altre strategie di coping che non passino per la distruzione fisica e mentale, e potremo tornare ad avere una qualità della vita veramente elevata.
Ma questo succederà solo quando lasceremo andare l’idea della perfetta guarigione, la telepromozione della vita perfetta senza anoressia, e cominceremo a concentrarci sui nostri piccoli-grandi progressi quotidiani, cominciando ad abbracciare le piccole-grandi conquiste per le quali abbiamo lavorato così duramente.
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venerdì 15 novembre 2013
Sottotipi di anoressia basati sulla personalità
Come, ne sono certa, la maggior parte di voi che mi leggete saprà, il DSM distingue 2 sottotipi di anoressia. Citando detto manuale:
“Sottotipo 1: con restrizioni (restricting type). Nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto non ha presentato regolarmente episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o clisteri)
Sottotipo 2: con abbuffate/condotte di eliminazione (binge eating/purging type). Nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o clisteri).”
Per abbreviare, il sottotipo 1 viene indicato come AN-R (Anorexia Nervosa – Restricting) e il sottotipo 2 come AN-BP (Anorexia Nervosa – Binge/Purging) – dato che gli psichiatri sembrano amare gli acronimi tanto quanto amano chiedervi del vostro rapporto con la vostra mamma. Da un punto di vista comportamentale, questa sottoclassificazione pare scontata. Ma in realtà lo è meno di quanto sembri.
Nuove ricerche, infatti, stanno mostrando che questi 2 sottotipi comportamentali non sono il miglior modo per distinguere tra le varie tipologie di anoressia. Difatti un numero sempre maggiore di psicoterapeuti stanno facendo notare come le differenze caratteriali, di personalità, tra le persone affette da anoressia siano ad oggi più significative rispetto alla dicotomia AN-R e AN-BP, come è stato notato in uno studio condotto da Wildes et, al nel 2011.
Alcuni studi longitudinali hanno dimostrato infatti che ci sono delle differenze tra AN-R e AN-BP sia riguardo all’efficacia delle varie tecniche terapeutiche, sia riguardo al tempo necessario per fare passi avanti sulla strada del ricovero, sia rispetto alla frequenza delle ricadute, sia in merito alla mortalità. Inoltre è stato osservato come una certa percentuale di soggetti AN-R, tenda a sviluppare dopo un lasso di tempo più o meno lungo AN-BP, mentre la restante percentuale rimane fissa sull’AN-R.
Volendo riassumere lo studio di cui vi parlavo: i ricercatori hanno studiato i profili di personalità di numerose persone affette da DCA, ed utilizzando queste differenti caratteristiche caratteriali, hanno diviso le persone affette da anoressia e da bulimia in 3 principali gruppi.
Tratti di personalità nei 3 gruppi:
• Supercontrollatrici (termine originario: Overcontrolled): Le supercontrollatrici estendono la loro necessità di controllo ben al di là del meno cibo, cercando di riuscire virtualmente a controllare ogni qualsiasi ambito della loro vita. Tendono ad essere rigide, affidabili, ottime leader, ma non hanno in realtà idea di cosa vorrebbero veramente per se stesse e dalla loro vita.
• Sottocontrollatrici (termine originario: Undercontrolled – perdonate le pessime traduzioni, ma non credo esistano parole equivalenti in italiano): Le sottocontrollatrici hanno frequenti perdite di controllo che riguardano non solo l’ambito alimentare. Le persone appartenenti a questo gruppo sono spesso impulsive, emotive, molto sensibili, fortemente empatiche e dotate di una brillante intelligenza, ma tendono a soffocare la propria rabbia nei confronti degli altri rivolgendola su se stesse.
• Perfezioniste (termine originario: Perfectionistic): Al di là dell’ovvio perfezionismo connesso al nome stesso della categoria, le appartenenti al gruppo delle perfezioniste sono persone molto precise, corrette, puntuali, propositive, gentili ed educate, ma con una certa tendenza alla depressione.
(Suddivisione tratta da Westen & Harnden-Fischer, 2011)
In questo studio iniziale lo scopo non era semplicemente quello di valutare le differenze di personalità nei DCA, ma anche quello di capire come questi tratti caratteriali potessero influenzare e quindi predire l’efficacia del trattamento. Credo che non vi sorprenderà il sapere che le persone che miglioravano più rapidamente dopo l’inizio di psicoterapia + riabilitazione nutrizionale erano le perfezioniste, seguite dalle supercontrollatrici, ed infine le sottocontrollatrici. In ogni caso, questo è semplicemente un esempio, e lo studio in questione peraltro era uno studio retrospettivo.
Viceversa, i ricercatori erano interessati ad uno studio prospettivo, per cercare di capire come questi tratti caratteriali influenzassero il percorso di ricovero, e come si modificassero nel corso dello stesso.
Alcune settimane fa, dei ricercatori hanno pubblicato il loro studio su “Behaviour Research and Therapy”. Questo studio si è basato su 116 donne affette da anoressia (alcune con AN-R, altre con AN-BP) che seguivano una psicoterapia e una riabilitazione nutrizionale di tipo ambulatoriale, per valutare la relazione tra la loro personalità e i sintomi clinici presentati (Lavender et al., 2013) Per prima cosa, i ricercatori hanno somministrato a queste donne una batteria di test di personalità e di questionari sui DCA. Dopo 2 settimane di terapia, hanno chiesto a queste donne come si sentissero in quel momento, e quali fossero stati gli eventuali cambiamenti nei comportamenti tipici del loro DCA, in 6 diversi momenti del giorno. Le partecipanti allo studio, in base alla loro personalità, erano state divise in supercontrollatrici (14,7%), sottocontrollatrici (47,4%) e perfezioniste (37,9%).
Le componenti dei 3 sottogruppi di personalità non differivano in termini di età, B.M.I., epoca della diagnosi di DCA. Le persone affette da AN-BP non differivano neanche per numero delle abbuffate, induzione del vomito, iperattività fisica giornaliera. Non sorprendentemente, le ragazze appartenenti al gruppo delle perfezioniste avevano quasi tutte comorbidità quali disturbi d’ansia, DOC o depressione, le persone con AN-BP appartenevano quasi tutte al gruppo delle sottocontrollatrici, le persone con AN-R quasi tutte al gruppo delle supercontrollatrici.
Gli autori hanno concluso:
“[…] Questi risultati suggeriscono che possa essere utile sottosuddividere le persone con un DCA ina base alla loro personalità per poter tipizzare il trattamento, e che le differenze di personalità possono rappresentare una valida strategia di classificazione delle persone affette da disturbi alimentari.”
(mia traduzione)
In soldoni: la propria personalità, il proprio carattere, ha molto a che fare con il modo in cui una persona si comporta, ben più dell’attuale sottotipizzazione diagnostica basata esclusivamente sui sintomi. D’altro canto, la tipologia di personalità non permette di distinguere i vari pattern di DCA in maniera tanto schematica da permettere una diagnosi secondo i dettami del DSM. L’importanza di questa suddivisione basata sulla personalità sta nel fatto che varia la risposta ai diversi approcci terapeutici, e quindi è possibile scegliere delle terapie più mirate sulla base del carattere del singolo.
Fortunatamente, questa ricerca è stata ripetuta su 154 ragazze ricoverate in una clinica per DCA (lo studio di Wildes cui avevo accennato). In questo caso i ricercatori hanno valutato tramite opportuni test la personalità delle ragazze al momento dell’ammissione in clinica. L’età media delle partecipanti allo studio era di 25 anni, e l’età media della durata di malattia era di 8 anni.
Anche in questo caso, i ricercatori hanno suddiviso le pazienti nei 3 gruppi di personalità: supercontrollatrici (20,8%), sottocontrollatrici (42,9%) e perfezioniste (36,4%). Di nuovo, anche in questo caso le partecipanti allo studio erano simili tra loro per età, B.M.I., anni di durata della malattia, ad indicare che i tratti della personalità non sono predittivi rispetto alla severità o alla durata di un DCA.
Tuttavia, i 3 gruppi hanno avuto, dopo il ricovero, risultati significativamente differenti. Le perfezioniste sono quelle che se la sono cavata meglio, le sottocontrollatrici quelle che hanno avuto i risultati peggiori: esito sfavorevole alla dimissione, dimissione contro il parere medico, più frequenti ricadute durante i successivi 3 mesi di follow-up. Nella fattispecie, il gruppo delle sottocontrollatrici aveva una probabilità di esito sfavorevole della terapia 3,56 volte maggiore rispetto alle supercontrollatrici, e addirittura 11,23 volte maggiore rispetto alle perfezioniste.
Quando i ricercatori hanno invece analizzato i risultati basandosi sulla suddivisione proposta dal DSM tra persone AN-R e persone AN-BP, è risultato soltanto che al momento della dimissione le ragazze con AN-BP avevano raggiunto risultati peggiori rispetto a quelle con AN-R, ma non c’erano differenze al termine dei 3 mesi di follow-up. Non proprio la stessa cosa, no?!
Dunque, cosa significa tutto questo per noi che abbiamo un DCA?
Per prima cosa, c’è da considerare che questa suddivisione in 3 gruppi è basata su cluster di personalità. Sebbene alcune persone abbiano tratti caratteriali che le fanno rientrare perfettamente in uno di questi 3 sottogruppi, altre possono avere tratti di personalità comuni a 2 o addirittura a tutti e 3 i sottogruppi. I ricercatori hanno diviso le ragazze sulla base di quale gruppo rispecchiasse maggiormente il loro carattere, ma ovviamente non c’era un’aderenza assolutamente perfetta. Un altro aspetto da considerare è che i questionari schematizzano la personalità di una persona, ma non la rappresentano in toto, e soprattutto fotografano la personalità di una ragazza nel preciso momento in cui essa si sottopone al test. Non tengono conto del fatto che la personalità di quella ragazza possa essere stata ampiamente modificata dal DCA. Sebbene certamente alcuni aspetti basilari del nostro carattere rimangano invariati per tutta la nostra vita, ci sono tratti caratteriali che sono più malleabili, per cui non solo cambiano con l’arrivo del DCA, ma cambiano anche in funzione della nostra crescita e delle nostre esperienze di vita.
Inoltre, c’è da considerare anche il fatto che la risposta immediata ad un ricovero in clinica non è direttamente proporzionale all’entità della remissione dall’anoressia che il singolo può conseguire nel corso della propria vita. Infatti Wildes scrive:
“[…] una possibile spiegazione è che quei fattori che permettono di predire, inizialmente, la risposta alla terapia, differiscono da quelli associate ai risultati a lungo termine. Per esempio, una personalità supercontrollatrice consente di tollerare meglio l’ambiente della clinica rispetto ad una sottocontrollatrice, che avrà più difficoltà a far fronte ai propri impulsi. Tuttavia, nel lungo termine, una personalità supercontrollatrice mal tollera il controllo esercitato dall’esterno, e quindi è più facile che abbia delle ricadute per la sua spasmodica necessità di riacquisire quello che percepisce come il proprio controllo. […]”
(mia traduzione)
Il che ricalca perfettamente la mia esperienza personale. Il gruppo delle supercontrollatrici mi calza a pennello, in quanto a personalità (e, non a caso, il mio disturbo alimentare è AN-R). Tralasciando il mio primo ricovero, coatto perchè ero minorenne e quindi totalmente improduttivo, durante gli altri 4 ricoveri sono riuscita ad avere buoni risultati nell’immediato, riuscendo a seguire senza particolare fatica od ansia lo schema alimentare che mi veniva somministrato, e riuscendo a limitare le mie manie di controllo su tutto. Ma questi progressi si esaurivano rapidamente dopo la dimissione. È per questo che ho avuto una montagna di ricadute. Percepivo il controllo su tutto come talmente necessario che riuscire a ridurlo è stata un’impresa che mi ha richiesto un sacco di tempo e di fatica, e su cui comunque sto ancora lavorando.
Ma io credo che la nostra personalità non sia frutto del destino. Scegliere un’Università che mi piaceva e trovare un lavoro che ho fin da subito adorato, sebbene non abbia arrestato le ricadute, mi è stato comunque estremamente d’aiuto per smorzare certi sintomi. Grazie alla psicoterapia, inoltre, sto cercando di lavorare sulla mia personalità, e credo che questa possa essere una cosa utile a chiunque abbia un DCA: cercare di lavorare su se stesse, per cambiare quegli aspetti di noi che perpetrano il disturbo alimentare. Okay, ho sempre una spiccata tendenza a voler controllare le cose, e probabilmente questo tratto di personalità mi accompagnerà sempre, ma ci sto lavorando su per fare in modo che non sia questo controllo a finire per controllarmi la vita.
“Sottotipo 1: con restrizioni (restricting type). Nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto non ha presentato regolarmente episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o clisteri)
Sottotipo 2: con abbuffate/condotte di eliminazione (binge eating/purging type). Nell’episodio attuale di Anoressia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente episodi di abbuffate o condotte di eliminazione (per es. vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o clisteri).”
Per abbreviare, il sottotipo 1 viene indicato come AN-R (Anorexia Nervosa – Restricting) e il sottotipo 2 come AN-BP (Anorexia Nervosa – Binge/Purging) – dato che gli psichiatri sembrano amare gli acronimi tanto quanto amano chiedervi del vostro rapporto con la vostra mamma. Da un punto di vista comportamentale, questa sottoclassificazione pare scontata. Ma in realtà lo è meno di quanto sembri.
Nuove ricerche, infatti, stanno mostrando che questi 2 sottotipi comportamentali non sono il miglior modo per distinguere tra le varie tipologie di anoressia. Difatti un numero sempre maggiore di psicoterapeuti stanno facendo notare come le differenze caratteriali, di personalità, tra le persone affette da anoressia siano ad oggi più significative rispetto alla dicotomia AN-R e AN-BP, come è stato notato in uno studio condotto da Wildes et, al nel 2011.
Alcuni studi longitudinali hanno dimostrato infatti che ci sono delle differenze tra AN-R e AN-BP sia riguardo all’efficacia delle varie tecniche terapeutiche, sia riguardo al tempo necessario per fare passi avanti sulla strada del ricovero, sia rispetto alla frequenza delle ricadute, sia in merito alla mortalità. Inoltre è stato osservato come una certa percentuale di soggetti AN-R, tenda a sviluppare dopo un lasso di tempo più o meno lungo AN-BP, mentre la restante percentuale rimane fissa sull’AN-R.
Volendo riassumere lo studio di cui vi parlavo: i ricercatori hanno studiato i profili di personalità di numerose persone affette da DCA, ed utilizzando queste differenti caratteristiche caratteriali, hanno diviso le persone affette da anoressia e da bulimia in 3 principali gruppi.
Tratti di personalità nei 3 gruppi:
• Supercontrollatrici (termine originario: Overcontrolled): Le supercontrollatrici estendono la loro necessità di controllo ben al di là del meno cibo, cercando di riuscire virtualmente a controllare ogni qualsiasi ambito della loro vita. Tendono ad essere rigide, affidabili, ottime leader, ma non hanno in realtà idea di cosa vorrebbero veramente per se stesse e dalla loro vita.
• Sottocontrollatrici (termine originario: Undercontrolled – perdonate le pessime traduzioni, ma non credo esistano parole equivalenti in italiano): Le sottocontrollatrici hanno frequenti perdite di controllo che riguardano non solo l’ambito alimentare. Le persone appartenenti a questo gruppo sono spesso impulsive, emotive, molto sensibili, fortemente empatiche e dotate di una brillante intelligenza, ma tendono a soffocare la propria rabbia nei confronti degli altri rivolgendola su se stesse.
• Perfezioniste (termine originario: Perfectionistic): Al di là dell’ovvio perfezionismo connesso al nome stesso della categoria, le appartenenti al gruppo delle perfezioniste sono persone molto precise, corrette, puntuali, propositive, gentili ed educate, ma con una certa tendenza alla depressione.
(Suddivisione tratta da Westen & Harnden-Fischer, 2011)
In questo studio iniziale lo scopo non era semplicemente quello di valutare le differenze di personalità nei DCA, ma anche quello di capire come questi tratti caratteriali potessero influenzare e quindi predire l’efficacia del trattamento. Credo che non vi sorprenderà il sapere che le persone che miglioravano più rapidamente dopo l’inizio di psicoterapia + riabilitazione nutrizionale erano le perfezioniste, seguite dalle supercontrollatrici, ed infine le sottocontrollatrici. In ogni caso, questo è semplicemente un esempio, e lo studio in questione peraltro era uno studio retrospettivo.
Viceversa, i ricercatori erano interessati ad uno studio prospettivo, per cercare di capire come questi tratti caratteriali influenzassero il percorso di ricovero, e come si modificassero nel corso dello stesso.
Alcune settimane fa, dei ricercatori hanno pubblicato il loro studio su “Behaviour Research and Therapy”. Questo studio si è basato su 116 donne affette da anoressia (alcune con AN-R, altre con AN-BP) che seguivano una psicoterapia e una riabilitazione nutrizionale di tipo ambulatoriale, per valutare la relazione tra la loro personalità e i sintomi clinici presentati (Lavender et al., 2013) Per prima cosa, i ricercatori hanno somministrato a queste donne una batteria di test di personalità e di questionari sui DCA. Dopo 2 settimane di terapia, hanno chiesto a queste donne come si sentissero in quel momento, e quali fossero stati gli eventuali cambiamenti nei comportamenti tipici del loro DCA, in 6 diversi momenti del giorno. Le partecipanti allo studio, in base alla loro personalità, erano state divise in supercontrollatrici (14,7%), sottocontrollatrici (47,4%) e perfezioniste (37,9%).
Le componenti dei 3 sottogruppi di personalità non differivano in termini di età, B.M.I., epoca della diagnosi di DCA. Le persone affette da AN-BP non differivano neanche per numero delle abbuffate, induzione del vomito, iperattività fisica giornaliera. Non sorprendentemente, le ragazze appartenenti al gruppo delle perfezioniste avevano quasi tutte comorbidità quali disturbi d’ansia, DOC o depressione, le persone con AN-BP appartenevano quasi tutte al gruppo delle sottocontrollatrici, le persone con AN-R quasi tutte al gruppo delle supercontrollatrici.
Gli autori hanno concluso:
“[…] Questi risultati suggeriscono che possa essere utile sottosuddividere le persone con un DCA ina base alla loro personalità per poter tipizzare il trattamento, e che le differenze di personalità possono rappresentare una valida strategia di classificazione delle persone affette da disturbi alimentari.”
(mia traduzione)
In soldoni: la propria personalità, il proprio carattere, ha molto a che fare con il modo in cui una persona si comporta, ben più dell’attuale sottotipizzazione diagnostica basata esclusivamente sui sintomi. D’altro canto, la tipologia di personalità non permette di distinguere i vari pattern di DCA in maniera tanto schematica da permettere una diagnosi secondo i dettami del DSM. L’importanza di questa suddivisione basata sulla personalità sta nel fatto che varia la risposta ai diversi approcci terapeutici, e quindi è possibile scegliere delle terapie più mirate sulla base del carattere del singolo.
Fortunatamente, questa ricerca è stata ripetuta su 154 ragazze ricoverate in una clinica per DCA (lo studio di Wildes cui avevo accennato). In questo caso i ricercatori hanno valutato tramite opportuni test la personalità delle ragazze al momento dell’ammissione in clinica. L’età media delle partecipanti allo studio era di 25 anni, e l’età media della durata di malattia era di 8 anni.
Anche in questo caso, i ricercatori hanno suddiviso le pazienti nei 3 gruppi di personalità: supercontrollatrici (20,8%), sottocontrollatrici (42,9%) e perfezioniste (36,4%). Di nuovo, anche in questo caso le partecipanti allo studio erano simili tra loro per età, B.M.I., anni di durata della malattia, ad indicare che i tratti della personalità non sono predittivi rispetto alla severità o alla durata di un DCA.
Tuttavia, i 3 gruppi hanno avuto, dopo il ricovero, risultati significativamente differenti. Le perfezioniste sono quelle che se la sono cavata meglio, le sottocontrollatrici quelle che hanno avuto i risultati peggiori: esito sfavorevole alla dimissione, dimissione contro il parere medico, più frequenti ricadute durante i successivi 3 mesi di follow-up. Nella fattispecie, il gruppo delle sottocontrollatrici aveva una probabilità di esito sfavorevole della terapia 3,56 volte maggiore rispetto alle supercontrollatrici, e addirittura 11,23 volte maggiore rispetto alle perfezioniste.
Quando i ricercatori hanno invece analizzato i risultati basandosi sulla suddivisione proposta dal DSM tra persone AN-R e persone AN-BP, è risultato soltanto che al momento della dimissione le ragazze con AN-BP avevano raggiunto risultati peggiori rispetto a quelle con AN-R, ma non c’erano differenze al termine dei 3 mesi di follow-up. Non proprio la stessa cosa, no?!
Dunque, cosa significa tutto questo per noi che abbiamo un DCA?
Per prima cosa, c’è da considerare che questa suddivisione in 3 gruppi è basata su cluster di personalità. Sebbene alcune persone abbiano tratti caratteriali che le fanno rientrare perfettamente in uno di questi 3 sottogruppi, altre possono avere tratti di personalità comuni a 2 o addirittura a tutti e 3 i sottogruppi. I ricercatori hanno diviso le ragazze sulla base di quale gruppo rispecchiasse maggiormente il loro carattere, ma ovviamente non c’era un’aderenza assolutamente perfetta. Un altro aspetto da considerare è che i questionari schematizzano la personalità di una persona, ma non la rappresentano in toto, e soprattutto fotografano la personalità di una ragazza nel preciso momento in cui essa si sottopone al test. Non tengono conto del fatto che la personalità di quella ragazza possa essere stata ampiamente modificata dal DCA. Sebbene certamente alcuni aspetti basilari del nostro carattere rimangano invariati per tutta la nostra vita, ci sono tratti caratteriali che sono più malleabili, per cui non solo cambiano con l’arrivo del DCA, ma cambiano anche in funzione della nostra crescita e delle nostre esperienze di vita.
Inoltre, c’è da considerare anche il fatto che la risposta immediata ad un ricovero in clinica non è direttamente proporzionale all’entità della remissione dall’anoressia che il singolo può conseguire nel corso della propria vita. Infatti Wildes scrive:
“[…] una possibile spiegazione è che quei fattori che permettono di predire, inizialmente, la risposta alla terapia, differiscono da quelli associate ai risultati a lungo termine. Per esempio, una personalità supercontrollatrice consente di tollerare meglio l’ambiente della clinica rispetto ad una sottocontrollatrice, che avrà più difficoltà a far fronte ai propri impulsi. Tuttavia, nel lungo termine, una personalità supercontrollatrice mal tollera il controllo esercitato dall’esterno, e quindi è più facile che abbia delle ricadute per la sua spasmodica necessità di riacquisire quello che percepisce come il proprio controllo. […]”
(mia traduzione)
Il che ricalca perfettamente la mia esperienza personale. Il gruppo delle supercontrollatrici mi calza a pennello, in quanto a personalità (e, non a caso, il mio disturbo alimentare è AN-R). Tralasciando il mio primo ricovero, coatto perchè ero minorenne e quindi totalmente improduttivo, durante gli altri 4 ricoveri sono riuscita ad avere buoni risultati nell’immediato, riuscendo a seguire senza particolare fatica od ansia lo schema alimentare che mi veniva somministrato, e riuscendo a limitare le mie manie di controllo su tutto. Ma questi progressi si esaurivano rapidamente dopo la dimissione. È per questo che ho avuto una montagna di ricadute. Percepivo il controllo su tutto come talmente necessario che riuscire a ridurlo è stata un’impresa che mi ha richiesto un sacco di tempo e di fatica, e su cui comunque sto ancora lavorando.
Ma io credo che la nostra personalità non sia frutto del destino. Scegliere un’Università che mi piaceva e trovare un lavoro che ho fin da subito adorato, sebbene non abbia arrestato le ricadute, mi è stato comunque estremamente d’aiuto per smorzare certi sintomi. Grazie alla psicoterapia, inoltre, sto cercando di lavorare sulla mia personalità, e credo che questa possa essere una cosa utile a chiunque abbia un DCA: cercare di lavorare su se stesse, per cambiare quegli aspetti di noi che perpetrano il disturbo alimentare. Okay, ho sempre una spiccata tendenza a voler controllare le cose, e probabilmente questo tratto di personalità mi accompagnerà sempre, ma ci sto lavorando su per fare in modo che non sia questo controllo a finire per controllarmi la vita.
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venerdì 8 novembre 2013
Quando ti senti sul punto di mollare...
1. …focalizzati sul perchè hai iniziato a combattere. Su quali erano le tue motivazioni nel momento in cui hai deciso d’intraprendere il tuo percorso di ricovero contro l’anoressia. Su qual era la “scintilla” che ti ha spinto ad intraprendere una determinata direzione, e su tutte le cose che in questo momento possono servirti da ispirazione e da supporto positivo per continuare a combattere.
2. …scrivi una lista dei motivi per cui vale la pena continuare a percorrere la strada del ricovero, e concentrati su quelli. Datti degli obiettivi generali e a lungo termine, e cerca ogni giorno di muovere anche un solo minuscolo passo in avanti. Rammenta sempre che tu hai tutto quel che serve per raggiungere ogni traguardo che vuoi.
3. …datti il permesso di farlo, se è quello che veramente vuoi. Ma non dev’essere una presa per sfinimento, dev’essere una tua scelta cosciente e senziente. Devi essere tu che, consapevole delle conseguenze, decidi di mollare. Questo ti ricorderà che sei comunque tu che controlli tutto quello che fai nella tua vita, nel bene e nel male: che scegli di ricadere perché vuoi ricadere. E che, se hai la capacità e la volontà di scegliere questo, allora hai anche tutta la volontà e la capacità di scegliere di rialzarti e combattere.
4. …stila una lista dei “pro” e dei “contro” relativi al continuare a combattere – già questo dovrebbe decentrare la tua attenzione dalla voglia di mollare, e farti razionalizzare su quello che c’è di positivo nel perseguire la tua lotta contro l’anoressia. Cosa ci guadagni se continui a combattere? Quali saranno i “pro” di questa scelta? Come ti sentirai quando ti sarai lasciata alle spalle almeno un pochino l’anoressia, e avrai ricominciato almeno un pochino a vivere, e non solo a sopravvivere?
5. …anziché concentrarti su ciò che in questo momento ti fa stare male e ti fa venire voglia di arrenderti, anziché pensare a tutto ciò che rende difficile il combattere contro l’anoressia, utilizza le energie che investiresti in questi pensieri vani per escogitare delle soluzioni che possano consentirti di andare avanti a combattere senza cedimenti.
6. …sii consapevole del fatto che percorrere la strada del ricovero da un DCA non è semplice, non è rapido, non è divertente, non è scevro da ricadute, non ti fa sentire bene nell’immediato, è ansiogeno, è estremamente complicato. Per quanto tu possa andare avanti, per quanti passi avanti su possa fare, l’anoressia sarà sempre lì, acquattata nella tua testa, pronta a reimpossessarsi dei tuoi pensieri quando meno te l’aspetti. Tenere quotidianamente a bada l’anoressia sarà sempre un duro lavoro, se però ci riuscite sarà anche una vittoria. E, come dice la canzone, “no pain, no gain”. O, se preferite, come dicono nel telefilm Scrubs: “Nothing in this world that's worth having comes easy."
2. …scrivi una lista dei motivi per cui vale la pena continuare a percorrere la strada del ricovero, e concentrati su quelli. Datti degli obiettivi generali e a lungo termine, e cerca ogni giorno di muovere anche un solo minuscolo passo in avanti. Rammenta sempre che tu hai tutto quel che serve per raggiungere ogni traguardo che vuoi.
3. …datti il permesso di farlo, se è quello che veramente vuoi. Ma non dev’essere una presa per sfinimento, dev’essere una tua scelta cosciente e senziente. Devi essere tu che, consapevole delle conseguenze, decidi di mollare. Questo ti ricorderà che sei comunque tu che controlli tutto quello che fai nella tua vita, nel bene e nel male: che scegli di ricadere perché vuoi ricadere. E che, se hai la capacità e la volontà di scegliere questo, allora hai anche tutta la volontà e la capacità di scegliere di rialzarti e combattere.
4. …stila una lista dei “pro” e dei “contro” relativi al continuare a combattere – già questo dovrebbe decentrare la tua attenzione dalla voglia di mollare, e farti razionalizzare su quello che c’è di positivo nel perseguire la tua lotta contro l’anoressia. Cosa ci guadagni se continui a combattere? Quali saranno i “pro” di questa scelta? Come ti sentirai quando ti sarai lasciata alle spalle almeno un pochino l’anoressia, e avrai ricominciato almeno un pochino a vivere, e non solo a sopravvivere?
5. …anziché concentrarti su ciò che in questo momento ti fa stare male e ti fa venire voglia di arrenderti, anziché pensare a tutto ciò che rende difficile il combattere contro l’anoressia, utilizza le energie che investiresti in questi pensieri vani per escogitare delle soluzioni che possano consentirti di andare avanti a combattere senza cedimenti.
6. …sii consapevole del fatto che percorrere la strada del ricovero da un DCA non è semplice, non è rapido, non è divertente, non è scevro da ricadute, non ti fa sentire bene nell’immediato, è ansiogeno, è estremamente complicato. Per quanto tu possa andare avanti, per quanti passi avanti su possa fare, l’anoressia sarà sempre lì, acquattata nella tua testa, pronta a reimpossessarsi dei tuoi pensieri quando meno te l’aspetti. Tenere quotidianamente a bada l’anoressia sarà sempre un duro lavoro, se però ci riuscite sarà anche una vittoria. E, come dice la canzone, “no pain, no gain”. O, se preferite, come dicono nel telefilm Scrubs: “Nothing in this world that's worth having comes easy."
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venerdì 1 novembre 2013
Lasciar andare l'idea del "peso corporeo ideale"
(Premessa: quanto segue deriva in parte dai miei studi, ma in altra parte dai miei ragionamenti e dalla mia opinione personale. Sono assolutamente convinta di ciò che scrivo in merito alla mia opinione, ma questo non la rende comunque ovviamente verità assoluta.)
Leggendo qualsiasi cosa riguardi i DCA – soprattutto l’anoressia – dagli studi scientifici alla letteratura, sembra impossibile riuscire ad evitare le frasi “peso corporeo ideale” e “peso corporeo previsto”. Spesso e volentieri i pesi sono espressi in percentuale rispetto al peso corporeo ideale/previsto. Lo stesso DSM pone come criterio diagnostico per l’anoressia: “peso corporeo al di sotto dell'85% rispetto a quanto previsto”. E anche l’efficacia dei trattamenti viene valutata sulla capacità di ritornare all’ 85%/90%/95% (scegliete quello che preferite) del peso corporeo ideale/previsto.
Posso essere molto terra-terra? “Peso corporeo ideale/previsto” è una frase che DETESTO.
In molti studi i ricercatori calcolano il “peso corporeo ideale” sulla base del 50° percentile del B.M.I. rispetto all’età. Avete presente i percentili su cui si valuta la crescita dei neonati? Ecco, sostanzialmente la stessa cosa. Data una certa età di una persona, e data la sua altezza, è possibile calcolare il “peso corporeo ideale” di un individuo. Questo “peso corporeo ideale” viene spesso considerato il peso che chi è affetta da un DCA dovrebbe raggiungere… perché, cavolo, lo dice il nome stesso che è “ideale”!!
Okay, allora, ragioniamoci un attimo su. Il 50° percentile per il peso o per il B.M.I. è in realtà “ideale” solo per quell’ 1% della popolazione che fisiologicamente, naturalmente, senza aver mai avuto un DCA né problemi di alcun tipo con l’alimentazione, cade su quel percentile. Per il restante 99% della popolazione, il 50° percentile rappresenta una sovra o una sottostima del proprio peso.
Ora, so benissimo che viene fatto un sacco di lavoro da parte dei medici quando si tratta di definire appropriati obiettivi di recupero del peso corporeo per una persona che ha un DCA, e stimare che una persona debba raggiungere il 50° percentile di peso (rispetto alla sua età e alla sua altezza) può essere un punto di partenza non del tutto negativo, in mancanza di altri dati… Ma possiamo almeno ammettere che questa è solo una stima generica, e non un “ideale”?!
Tanto più che il “peso corporeo ideale” corrisponde ad una cifra. Ad un numero ben preciso. Il che è stupido. Basti pensare al fatto che il peso di una qualsiasi donna può variare da alcuni etti finanche ad alcuni chili durante il ciclo mestruale. Inoltre, il peso corporeo di una qualsiasi persona (uomo o donna che sia) può variare in base allo stato di idratazione, al periodo dell’anno, all’assetto ormonale, alla vicinanza dall’ultimo pasto rispetto alla pesata, al fatto di aver svuotato o meno vescica ed intestino… e un sacco di altre cose.
Parlando con alcune ragazze che sono state ricoverate in una clinica specializzata nel trattamento per DCA (della quale non faccio il nome per ovvi motivi), mi è stato detto che al momento del ricovero veniva assegnato loro un “peso corporeo ideale” da raggiungere: quello corrispondente, in funzione della loro altezza, ad un B.M.I. = 19. Cioè, seriamente?? E io che pensavo che fossero le persone con un DCA quelle fissate con il controllo di tutto, oppure quelle fissate con gli obiettivi di peso e di B.M.I. da raggiungere… e pensavo che, viceversa, il compito di una clinica fosse quello di permettere alla persona di fare introspezione e di sviscerare le sue vere problematiche, svincolandosi e mettendo in secondo piano cibo e peso… E invece mi sbagliavo, a quanto pare non solo chi ha un DCA, ma anche alcune cliniche si focalizzano su numeri, peso e B.M.I..
Commento soltanto: BAH.
Inoltre, quando si parla di qualcosa come il “peso corporeo ideale”, trovo veramente ironico l’utilizzo della parola “ideale”. Perché, di quale “ideale” siamo parlando, esattamente? Gli ideali culturali? (Ma non fatemi ridere…) Gli ideali matematici? Gli ideali statistici? Gli ideali di salute? Forse. Ma, nuovamente, non esiste un peso specifico e ben preciso che corrisponde alla “salute”. Ogni persona ha un certo range di peso che per lei può essere comunque considerato associato ad uno stato di salute “ideale”.
Una volta una psichiatra con cui avevo da poco intrapreso un percorso psicoterapeutico mi propose di impostare il mio obiettivo di peso da raggiungere (poiché in quel periodo ero piuttosto sottopeso, in quanto reduce da una ricaduta) chiedendo a me quanto volessi pesare, quale peso fossi stata disposta a raggiungere, considerandolo come se fosse il mio “peso corporeo ideale”. Hmmm, chiedere ad una persona affetta da anoressia restrittiva quanto vorrebbe idealmente pesare mi sembra quantomeno miope, per non dire di peggio. (Per la cronaca: ovviamente mollai questa psicoterapia dopo il quarto incontro o giù di lì.)
Un altro genio assoluto (una nutrizionista, nella fattispecie) era convinta che il “peso corporeo ideale” che avrei dovuto raggiungere era quello previsto dal B.M.I., per cui il target sarebbe stato quello di raggiungere un valore di B.M.I. almeno pari a 18,5. (Sì, ho mollato anche questa nutrizionista, naturalmente.) Certamente il B.M.I. può essere considerato un buon range nella valutazione del peso corporeo, perchè ci sono studi scientifici che dimostrano che le persone che hanno una maggiore aspettativa di vita e una minore incidenza delle malattie, sono effettivamente quelle che hanno un B.M.I. compreso tra 18,5 e 25. Ma questo non è comunque un assoluto, è solo una statistica, e il peso del singolo non risponde alla statistica, bensì risponde al proprio patrimonio genetico. Il set-point di peso corporeo è una cosa assolutamente individualizzata, e sebbene in molti casi cada in quello che il B.M.I. definisce “normopeso”, nulla vita che possa cadere anche sopra o sotto questo range, e che la persona sia comunque in salute, perché è fisiologicamente geneticamente settata su un peso al di fuori del normopeso stimato col B.M.I..
Inoltre, quando si fa una valutazione sul peso di una persona che ha un DCA, credo sia di fatto estremamente difficile determinare quale sia il “peso corporeo ideale” che essa dovrebbe raggiungere. Può infatti sorgere spontaneo il pensiero: il mio “peso corporeo ideale” è quello che avevo prima di ammalarmi di anoressia. Okay… ma questo è solo parzialmente vero. Perché se una ragazza si ammala di anoressia a 10 anni, avrebbe ancora un bel po’ di sviluppo da fare… e – annuncio di pubblico servizio – non è generalmente salutare per una donna pesare quanto pesava quando era una 10enne. Poi, certo, se una si ammala a 25 anni, allora il discorso del tornare al peso precedente alla malattia ha un senso… ma occorre non farci fuorviare da questa considerazione.
Il problema è che l’idea di “peso corporeo ideale” è veicolata da un enorme bagaglio culturale. Fortunatamente, ultimamente mi è capitato di leggere su Internet che ci sono diversi professionisti nel campo dei DCA che cercano di spiegare e di far passare l’idea che si può essere in salute anche se si indossano taglie diverse, che c’è più da puntare sulla terapia degli aspetti mentali dell’anoressia, e non limitarsi a valutare solamente l’aspetto della rialmentazione… e questo mi dà un po’ di speranza, perché vedo che c’è gente che finalmente apre gli occhi.
E dunque, se non usiamo “peso corporeo ideale”, qual è l’alternativa? Peso target? Forse… ma per le adolescenti, in pieno periodo di crescita e sviluppo, i target non sono stazionari. Perciò, penso che dovremo lasciar andare l’idea di “peso corporeo ideale/previsto”, e focalizzarsi invece (oltre che, ovviamente, sugli aspetti mentali della malattia) su qual è il set-point di peso biologico di ciascuna paziente. Fare un discorso assolutamente individualizzato, lasciando perdere le generalizzazioni. Ognuna di noi discende da una certa famiglia, ha la propria genetica, il proprio morfotipo, le proprie peculiarità costituzionali. Ogni persona ha un suo proprio range di peso corporeo che è biologicamente appropriato per lei stessa. Niente a che vedere con i target o con l’idealità, bensì con la genetica, la biologia, e il set-point di ciascuna di noi. Questa è la realtà.
Occorre smetterla di pensare che esista un valore univoco di B.M.I. che definisce lo stato di salute o il “peso corporeo ideale” delle persone. Occorre smetterla di pensare che essere sottopeso sia solo e soltanto sinonimo di avere un B.M.I. < 18,5. Non è così. Ognuna di noi ha il suo set-point fisiologico di peso corporeo, un suo proprio range di “normalità”: si è sottopeso se si scende al disotto di quel proprio ed individuale range. Ma questo range non necessariamente corrisponde a quello del B.M.I.. Per quanto la maggior parte delle persone abbia effettivamente un set-point fisiologico ascrivibile ad un B.M.I. compreso tra 18,5 e 25, ci sono alcune persone che per stare bene hanno bisogno di un peso che corrisponde ad un B.M.I. > 25, e alcune altre persone che sono perfettamente in salute pur con un B.M.I. < 18,5. È la variabilità interindividuale, quella che non può essere assoggettata a nessuna statistica. Per cui, se per esempio c’è una ragazza il cui set-point di peso fisiologico corrisponde ad un B.M.I. = 26, e poi il suo peso cala fino ad arrivare ad un B.M.I. = 23, la statistica dice che è meglio, perché la ragazza è passata da un sovrappeso ad un normopeso… ma, in realtà, rispetto al suo standard fisiologico, la ragazza in questione non è normopeso, bensì sottopeso! E, per lei, quella non rappresenta perciò una situazione di salute. Ragionare per numeri aiuta senz’altro a schematizzare, ma non dimentichiamo che le statistiche non possono trascendere l’individualità. Dobbiamo dunque essere consapevoli del fatto che alcune persone hanno set-point di peso biologicamente appropriati che sono anche al di sopra di B.M.I. = 25, o al di sotto di B.M.I. = 18,5. E va bene così.
In un mondo di circa 7 miliardi d’individui, non esiste alcun assoluto “peso corporeo ideale”. È un qualcosa di assolutamente variabile e soggettivo. Prima accetteremo questo dato di fatto, meglio staremo tutti quanti.
Leggendo qualsiasi cosa riguardi i DCA – soprattutto l’anoressia – dagli studi scientifici alla letteratura, sembra impossibile riuscire ad evitare le frasi “peso corporeo ideale” e “peso corporeo previsto”. Spesso e volentieri i pesi sono espressi in percentuale rispetto al peso corporeo ideale/previsto. Lo stesso DSM pone come criterio diagnostico per l’anoressia: “peso corporeo al di sotto dell'85% rispetto a quanto previsto”. E anche l’efficacia dei trattamenti viene valutata sulla capacità di ritornare all’ 85%/90%/95% (scegliete quello che preferite) del peso corporeo ideale/previsto.
Posso essere molto terra-terra? “Peso corporeo ideale/previsto” è una frase che DETESTO.
In molti studi i ricercatori calcolano il “peso corporeo ideale” sulla base del 50° percentile del B.M.I. rispetto all’età. Avete presente i percentili su cui si valuta la crescita dei neonati? Ecco, sostanzialmente la stessa cosa. Data una certa età di una persona, e data la sua altezza, è possibile calcolare il “peso corporeo ideale” di un individuo. Questo “peso corporeo ideale” viene spesso considerato il peso che chi è affetta da un DCA dovrebbe raggiungere… perché, cavolo, lo dice il nome stesso che è “ideale”!!
Okay, allora, ragioniamoci un attimo su. Il 50° percentile per il peso o per il B.M.I. è in realtà “ideale” solo per quell’ 1% della popolazione che fisiologicamente, naturalmente, senza aver mai avuto un DCA né problemi di alcun tipo con l’alimentazione, cade su quel percentile. Per il restante 99% della popolazione, il 50° percentile rappresenta una sovra o una sottostima del proprio peso.
Ora, so benissimo che viene fatto un sacco di lavoro da parte dei medici quando si tratta di definire appropriati obiettivi di recupero del peso corporeo per una persona che ha un DCA, e stimare che una persona debba raggiungere il 50° percentile di peso (rispetto alla sua età e alla sua altezza) può essere un punto di partenza non del tutto negativo, in mancanza di altri dati… Ma possiamo almeno ammettere che questa è solo una stima generica, e non un “ideale”?!
Tanto più che il “peso corporeo ideale” corrisponde ad una cifra. Ad un numero ben preciso. Il che è stupido. Basti pensare al fatto che il peso di una qualsiasi donna può variare da alcuni etti finanche ad alcuni chili durante il ciclo mestruale. Inoltre, il peso corporeo di una qualsiasi persona (uomo o donna che sia) può variare in base allo stato di idratazione, al periodo dell’anno, all’assetto ormonale, alla vicinanza dall’ultimo pasto rispetto alla pesata, al fatto di aver svuotato o meno vescica ed intestino… e un sacco di altre cose.
Parlando con alcune ragazze che sono state ricoverate in una clinica specializzata nel trattamento per DCA (della quale non faccio il nome per ovvi motivi), mi è stato detto che al momento del ricovero veniva assegnato loro un “peso corporeo ideale” da raggiungere: quello corrispondente, in funzione della loro altezza, ad un B.M.I. = 19. Cioè, seriamente?? E io che pensavo che fossero le persone con un DCA quelle fissate con il controllo di tutto, oppure quelle fissate con gli obiettivi di peso e di B.M.I. da raggiungere… e pensavo che, viceversa, il compito di una clinica fosse quello di permettere alla persona di fare introspezione e di sviscerare le sue vere problematiche, svincolandosi e mettendo in secondo piano cibo e peso… E invece mi sbagliavo, a quanto pare non solo chi ha un DCA, ma anche alcune cliniche si focalizzano su numeri, peso e B.M.I..
Commento soltanto: BAH.
Inoltre, quando si parla di qualcosa come il “peso corporeo ideale”, trovo veramente ironico l’utilizzo della parola “ideale”. Perché, di quale “ideale” siamo parlando, esattamente? Gli ideali culturali? (Ma non fatemi ridere…) Gli ideali matematici? Gli ideali statistici? Gli ideali di salute? Forse. Ma, nuovamente, non esiste un peso specifico e ben preciso che corrisponde alla “salute”. Ogni persona ha un certo range di peso che per lei può essere comunque considerato associato ad uno stato di salute “ideale”.
Una volta una psichiatra con cui avevo da poco intrapreso un percorso psicoterapeutico mi propose di impostare il mio obiettivo di peso da raggiungere (poiché in quel periodo ero piuttosto sottopeso, in quanto reduce da una ricaduta) chiedendo a me quanto volessi pesare, quale peso fossi stata disposta a raggiungere, considerandolo come se fosse il mio “peso corporeo ideale”. Hmmm, chiedere ad una persona affetta da anoressia restrittiva quanto vorrebbe idealmente pesare mi sembra quantomeno miope, per non dire di peggio. (Per la cronaca: ovviamente mollai questa psicoterapia dopo il quarto incontro o giù di lì.)
Un altro genio assoluto (una nutrizionista, nella fattispecie) era convinta che il “peso corporeo ideale” che avrei dovuto raggiungere era quello previsto dal B.M.I., per cui il target sarebbe stato quello di raggiungere un valore di B.M.I. almeno pari a 18,5. (Sì, ho mollato anche questa nutrizionista, naturalmente.) Certamente il B.M.I. può essere considerato un buon range nella valutazione del peso corporeo, perchè ci sono studi scientifici che dimostrano che le persone che hanno una maggiore aspettativa di vita e una minore incidenza delle malattie, sono effettivamente quelle che hanno un B.M.I. compreso tra 18,5 e 25. Ma questo non è comunque un assoluto, è solo una statistica, e il peso del singolo non risponde alla statistica, bensì risponde al proprio patrimonio genetico. Il set-point di peso corporeo è una cosa assolutamente individualizzata, e sebbene in molti casi cada in quello che il B.M.I. definisce “normopeso”, nulla vita che possa cadere anche sopra o sotto questo range, e che la persona sia comunque in salute, perché è fisiologicamente geneticamente settata su un peso al di fuori del normopeso stimato col B.M.I..
Inoltre, quando si fa una valutazione sul peso di una persona che ha un DCA, credo sia di fatto estremamente difficile determinare quale sia il “peso corporeo ideale” che essa dovrebbe raggiungere. Può infatti sorgere spontaneo il pensiero: il mio “peso corporeo ideale” è quello che avevo prima di ammalarmi di anoressia. Okay… ma questo è solo parzialmente vero. Perché se una ragazza si ammala di anoressia a 10 anni, avrebbe ancora un bel po’ di sviluppo da fare… e – annuncio di pubblico servizio – non è generalmente salutare per una donna pesare quanto pesava quando era una 10enne. Poi, certo, se una si ammala a 25 anni, allora il discorso del tornare al peso precedente alla malattia ha un senso… ma occorre non farci fuorviare da questa considerazione.
Il problema è che l’idea di “peso corporeo ideale” è veicolata da un enorme bagaglio culturale. Fortunatamente, ultimamente mi è capitato di leggere su Internet che ci sono diversi professionisti nel campo dei DCA che cercano di spiegare e di far passare l’idea che si può essere in salute anche se si indossano taglie diverse, che c’è più da puntare sulla terapia degli aspetti mentali dell’anoressia, e non limitarsi a valutare solamente l’aspetto della rialmentazione… e questo mi dà un po’ di speranza, perché vedo che c’è gente che finalmente apre gli occhi.
E dunque, se non usiamo “peso corporeo ideale”, qual è l’alternativa? Peso target? Forse… ma per le adolescenti, in pieno periodo di crescita e sviluppo, i target non sono stazionari. Perciò, penso che dovremo lasciar andare l’idea di “peso corporeo ideale/previsto”, e focalizzarsi invece (oltre che, ovviamente, sugli aspetti mentali della malattia) su qual è il set-point di peso biologico di ciascuna paziente. Fare un discorso assolutamente individualizzato, lasciando perdere le generalizzazioni. Ognuna di noi discende da una certa famiglia, ha la propria genetica, il proprio morfotipo, le proprie peculiarità costituzionali. Ogni persona ha un suo proprio range di peso corporeo che è biologicamente appropriato per lei stessa. Niente a che vedere con i target o con l’idealità, bensì con la genetica, la biologia, e il set-point di ciascuna di noi. Questa è la realtà.
Occorre smetterla di pensare che esista un valore univoco di B.M.I. che definisce lo stato di salute o il “peso corporeo ideale” delle persone. Occorre smetterla di pensare che essere sottopeso sia solo e soltanto sinonimo di avere un B.M.I. < 18,5. Non è così. Ognuna di noi ha il suo set-point fisiologico di peso corporeo, un suo proprio range di “normalità”: si è sottopeso se si scende al disotto di quel proprio ed individuale range. Ma questo range non necessariamente corrisponde a quello del B.M.I.. Per quanto la maggior parte delle persone abbia effettivamente un set-point fisiologico ascrivibile ad un B.M.I. compreso tra 18,5 e 25, ci sono alcune persone che per stare bene hanno bisogno di un peso che corrisponde ad un B.M.I. > 25, e alcune altre persone che sono perfettamente in salute pur con un B.M.I. < 18,5. È la variabilità interindividuale, quella che non può essere assoggettata a nessuna statistica. Per cui, se per esempio c’è una ragazza il cui set-point di peso fisiologico corrisponde ad un B.M.I. = 26, e poi il suo peso cala fino ad arrivare ad un B.M.I. = 23, la statistica dice che è meglio, perché la ragazza è passata da un sovrappeso ad un normopeso… ma, in realtà, rispetto al suo standard fisiologico, la ragazza in questione non è normopeso, bensì sottopeso! E, per lei, quella non rappresenta perciò una situazione di salute. Ragionare per numeri aiuta senz’altro a schematizzare, ma non dimentichiamo che le statistiche non possono trascendere l’individualità. Dobbiamo dunque essere consapevoli del fatto che alcune persone hanno set-point di peso biologicamente appropriati che sono anche al di sopra di B.M.I. = 25, o al di sotto di B.M.I. = 18,5. E va bene così.
In un mondo di circa 7 miliardi d’individui, non esiste alcun assoluto “peso corporeo ideale”. È un qualcosa di assolutamente variabile e soggettivo. Prima accetteremo questo dato di fatto, meglio staremo tutti quanti.
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venerdì 25 ottobre 2013
Suggerimenti su come parlare a qualcuno che ha un DCA
Questo post è per i genitori/familiari/amici/colleghi/compagni di squadra di chi ha un DCA.
Parlare con chi ha un DCA è spesso e volentieri molto difficile, e non esistono ricette universali per garantire una buona comunicazione, perché ogni persona che ha un DCA è diversa dalle altre; per cui ciò che può rivelarsi funzionale nei confronti di una certa persona, può non esserlo affatto per qualcun altro.
Io non ho competenze psicologiche, e non ne so granché sulle tecniche comunicative. Perciò, credo che la prima cosa che dovrebbero fare i famigliari di una persona che ha un DCA, sarebbe quella di rivolgersi al terapeuta che la segue, al fine di elaborare una strategia comportamentale concertata con una persona professionalmente competente, che dunque è mirata sulla singola paziente, poiché ogni persona è diversa dall’altra, e quindi non per tutte vanno bene le stesse cose.
Però penso che, al di là dell’importantissimo consulto con lo psicoterapeuta, ci siano alcune semplici cose che sia possibile mettere in atto, al fine di permettere a genitori, familiari e amici di stare vicino ad una persona che ha un DCA.
Per cui, ecco quali “consigli comunicativi” darei a chi ha a che fare con una persona affetta da anoressia/bulimia/binge/DCAnas:
1. Prendete il comando. Se conoscete una persona che ha un DCA, se le siete vicino, non abbiate timore a chiederle come sta. Forse questa persona avrà voglia di rispondervi sinceramente e ve ne parlerà, forse non ne avrà voglia e si limiterà ad un sorriso stereotipato e ad un “Va tutto bene” di circostanza. Non importa. Quello che importa è che le avrete fatto capire sia che voi vi interessate a come vanno le cose, sia che nel momento in cui avesse voglia di parlarne, voi ci siete per ascoltarla.
2. Evitate i cliché. Esistono un sacco e una sporta di luoghi comuni sui disturbi alimentari. Bè, sappiate che sono solo e soltanto luoghi comuni: non racchiudono neanche un minimo di verità. Per cui, quando vi avvicinate ad una persona con anoressia/bulimia, spogliate la mente di tutti i preconcetti sui disturbi alimentati che i mass-media vi hanno finora inculcato. Evitate le frasi fatte e fini a se stesse, del tipo: “E’ solo una fase, vedrai che prima o poi passa!”, oppure “Cerca di mangiare normalmente, così vedrai che le cose vanno meglio!”. Ancora peggio, evitate di dire cose che possano suscitare sensi di colpa (“Mi stai avvelenando la vita con tutte le tue stupide fisime”), nonché simil-ricatti (“Mangia, dai, fallo per me”): lasciano assolutamente il tempo che trovano.
3. Fate attenzione al linguaggio del corpo. Non si comunica solo con le parole: a volte uno sguardo, un gesto, un movimento, comunicano più di millemila discorsi. Quando parlate con una persona che ha un DCA cercate di essere rilassati, sereni, di mostrarvi aperti al dialogo, senza dare alcun giudizio, ma semplicemente essendo proni all’ascolto e alla conversazione.
4. Chiedete in che modo potete essere d’aiuto. Ogni persona che ha un DCA è diversa dalle altre, per cui persone diverse possono avere esigenze differenti. Non solo: anche una stessa persona può avere esigenze differenti nei vari momenti del suo percorso di ricovero. Perciò, chiedete alla persona che ha un DCA in quale modo potreste esserle d’aiuto: sarà lei ad indicarvi come preferirebbe vi comportaste, e cosa preferirebbe faceste. E questo può esserle d’aiuto.
5. Non parlate sempre e solo dell’anoressia/bulimia. In quanto genitori/familiari/amici preoccupati, immagino che possa venirvi spontaneo, nel momento in cui vi relazionate ad una persona che ha un DCA, cercare d’incentrare la conversazione sulla patologia, sulle problematiche, su tutto ciò che è inerente il DCA stesso… perché sviscerare la patologia è un qualcosa che vi serve per tenere a bada l’ansia che si scaturisce dal dover vivere vicino ad una persona che sta male. Ma ricordatevi che l’anoressia/la bulimia, rappresenta solo una malattia, e dunque una minuscola parte della persona affetta. Nessuno può essere definito semplicemente dalla propria patologia, perché siamo ben altro e molto di più di una mera malattia, per cui reiterare a parlare sempre del DCA può essere controproducente. Cercate allora piuttosto altri lidi di conversazione, in maniera tale da distrarre la persona dai suoi pensieri fissi del DCA, e da farle vedere che esiste molto altro oltre il disturbo alimentare.
6. Non evitare i vissuti. Se una persona con un DCA viene da voi per parlarne, non tagliate corto perché si tratta di un qualcosa di cui è difficile discutere, e che fa male. Datele la libertà di parlarne, e fatele capire che quando avrà bisogno di voi (per parlare o per qualsiasi cosa), potrà sempre contare sul vostro supporto.
7. Datele tempo. Ci possono volere anni affinché una persona malata di anoressia/bulimia sia in grado di parlare della propria patologia. E c’è chi può preferire scrivervi una lettera, o mandarvi una e-mail, o telefonarvi, piuttosto che parlarvene faccia-a-faccia. Rispettate la sua modalità comunicativa, e rispondetele utilizzando lo stesso mezzo: l’importante è che la persona sappia che siete disposti a starle vicino e a “parlare” con lei anche attraverso altre vie rispetto alla parola verbale. In qualsiasi momento.
8. Non focalizzatevi sul cibo. L’alimentazione è la punta dell’ice-berg di un DCA. I veri problemi sono ben più importanti e profondi, e ben altro rispetto al cibo. Per cui, evitare scaramucce su quanto/cosa mangiare, e cercate di interagire con le vostre figlie/nipoti/sorelle/amiche tentando di andare un po’ più in profondità, rispetto a quelle che potrebbero essere le vere problematiche sottostanti il comportamento alimentare erroneo, al fine di capire anche come potete essere, a tal proposito, di supporto.
Chiunque abbia qualche altro consiglio da aggiungere alla lista, è caldamente pregata di farlo nei commenti.
Parlare con chi ha un DCA è spesso e volentieri molto difficile, e non esistono ricette universali per garantire una buona comunicazione, perché ogni persona che ha un DCA è diversa dalle altre; per cui ciò che può rivelarsi funzionale nei confronti di una certa persona, può non esserlo affatto per qualcun altro.
Io non ho competenze psicologiche, e non ne so granché sulle tecniche comunicative. Perciò, credo che la prima cosa che dovrebbero fare i famigliari di una persona che ha un DCA, sarebbe quella di rivolgersi al terapeuta che la segue, al fine di elaborare una strategia comportamentale concertata con una persona professionalmente competente, che dunque è mirata sulla singola paziente, poiché ogni persona è diversa dall’altra, e quindi non per tutte vanno bene le stesse cose.
Però penso che, al di là dell’importantissimo consulto con lo psicoterapeuta, ci siano alcune semplici cose che sia possibile mettere in atto, al fine di permettere a genitori, familiari e amici di stare vicino ad una persona che ha un DCA.
Per cui, ecco quali “consigli comunicativi” darei a chi ha a che fare con una persona affetta da anoressia/bulimia/binge/DCAnas:
1. Prendete il comando. Se conoscete una persona che ha un DCA, se le siete vicino, non abbiate timore a chiederle come sta. Forse questa persona avrà voglia di rispondervi sinceramente e ve ne parlerà, forse non ne avrà voglia e si limiterà ad un sorriso stereotipato e ad un “Va tutto bene” di circostanza. Non importa. Quello che importa è che le avrete fatto capire sia che voi vi interessate a come vanno le cose, sia che nel momento in cui avesse voglia di parlarne, voi ci siete per ascoltarla.
2. Evitate i cliché. Esistono un sacco e una sporta di luoghi comuni sui disturbi alimentari. Bè, sappiate che sono solo e soltanto luoghi comuni: non racchiudono neanche un minimo di verità. Per cui, quando vi avvicinate ad una persona con anoressia/bulimia, spogliate la mente di tutti i preconcetti sui disturbi alimentati che i mass-media vi hanno finora inculcato. Evitate le frasi fatte e fini a se stesse, del tipo: “E’ solo una fase, vedrai che prima o poi passa!”, oppure “Cerca di mangiare normalmente, così vedrai che le cose vanno meglio!”. Ancora peggio, evitate di dire cose che possano suscitare sensi di colpa (“Mi stai avvelenando la vita con tutte le tue stupide fisime”), nonché simil-ricatti (“Mangia, dai, fallo per me”): lasciano assolutamente il tempo che trovano.
3. Fate attenzione al linguaggio del corpo. Non si comunica solo con le parole: a volte uno sguardo, un gesto, un movimento, comunicano più di millemila discorsi. Quando parlate con una persona che ha un DCA cercate di essere rilassati, sereni, di mostrarvi aperti al dialogo, senza dare alcun giudizio, ma semplicemente essendo proni all’ascolto e alla conversazione.
4. Chiedete in che modo potete essere d’aiuto. Ogni persona che ha un DCA è diversa dalle altre, per cui persone diverse possono avere esigenze differenti. Non solo: anche una stessa persona può avere esigenze differenti nei vari momenti del suo percorso di ricovero. Perciò, chiedete alla persona che ha un DCA in quale modo potreste esserle d’aiuto: sarà lei ad indicarvi come preferirebbe vi comportaste, e cosa preferirebbe faceste. E questo può esserle d’aiuto.
5. Non parlate sempre e solo dell’anoressia/bulimia. In quanto genitori/familiari/amici preoccupati, immagino che possa venirvi spontaneo, nel momento in cui vi relazionate ad una persona che ha un DCA, cercare d’incentrare la conversazione sulla patologia, sulle problematiche, su tutto ciò che è inerente il DCA stesso… perché sviscerare la patologia è un qualcosa che vi serve per tenere a bada l’ansia che si scaturisce dal dover vivere vicino ad una persona che sta male. Ma ricordatevi che l’anoressia/la bulimia, rappresenta solo una malattia, e dunque una minuscola parte della persona affetta. Nessuno può essere definito semplicemente dalla propria patologia, perché siamo ben altro e molto di più di una mera malattia, per cui reiterare a parlare sempre del DCA può essere controproducente. Cercate allora piuttosto altri lidi di conversazione, in maniera tale da distrarre la persona dai suoi pensieri fissi del DCA, e da farle vedere che esiste molto altro oltre il disturbo alimentare.
6. Non evitare i vissuti. Se una persona con un DCA viene da voi per parlarne, non tagliate corto perché si tratta di un qualcosa di cui è difficile discutere, e che fa male. Datele la libertà di parlarne, e fatele capire che quando avrà bisogno di voi (per parlare o per qualsiasi cosa), potrà sempre contare sul vostro supporto.
7. Datele tempo. Ci possono volere anni affinché una persona malata di anoressia/bulimia sia in grado di parlare della propria patologia. E c’è chi può preferire scrivervi una lettera, o mandarvi una e-mail, o telefonarvi, piuttosto che parlarvene faccia-a-faccia. Rispettate la sua modalità comunicativa, e rispondetele utilizzando lo stesso mezzo: l’importante è che la persona sappia che siete disposti a starle vicino e a “parlare” con lei anche attraverso altre vie rispetto alla parola verbale. In qualsiasi momento.
8. Non focalizzatevi sul cibo. L’alimentazione è la punta dell’ice-berg di un DCA. I veri problemi sono ben più importanti e profondi, e ben altro rispetto al cibo. Per cui, evitare scaramucce su quanto/cosa mangiare, e cercate di interagire con le vostre figlie/nipoti/sorelle/amiche tentando di andare un po’ più in profondità, rispetto a quelle che potrebbero essere le vere problematiche sottostanti il comportamento alimentare erroneo, al fine di capire anche come potete essere, a tal proposito, di supporto.
Chiunque abbia qualche altro consiglio da aggiungere alla lista, è caldamente pregata di farlo nei commenti.
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